CAPITOLO I

Il Gomito del Francese era un tratto di ricco terreno alluvionale, venti miglia a sud-est di Jefferson. Remoto in seno alle colline, ben definito e pur privo di confini, a cavalcioni di due contee ma da nessuna dipendente, esso era stato concessione e sito originario di una mostruosa piantagione prima della Guerra Civile, e i ruderi di questa – il guscio sventrato di una casa enorme, dalle scuderie e dai quartieri rustici crollanti, dai giardini, dalle terrazze e dai passeggi in mattoni invasi d’erba – si chiamavano tuttora il Vecchio Francese, sebbene il tracciato originario esistesse ormai soltanto su vecchie carte ingiallite nell’Ufficio del Registro presso il tribunale di contea a Jefferson, e qualcuno dei campi una volta tanto fertili fosse da tempo ricaduto nello stato vergine di canneto sparso di cipressi, donde il suo primo padrone l’aveva strappato con l’accetta.

Questi era stato con molta probabilità uno straniero, benché non necessariamente francese, dato che per la gente venuta dopo, la quale aveva quasi del tutto cancellato le tracce del suo soggiorno, chiunque parlasse con accento straniero o avesse una presenza o anche soltanto un’occupazione un po’ insolita, non poteva essere se non francese, a dispetto di ogni sua protesta, allo stesso modo che per i suoi più inciviliti coetanei (se, per esempio, avesse scelto di stabilirsi a Jefferson) sarebbe stato olandese. Ma attualmente nessuno sapeva come fosse finito, nemmeno Will Varner che aveva sessant’anni ed era proprietario di gran parte della vecchia concessione, compreso il sito del maniero in rovina. Giacché ora lo straniero, il Francese, era scomparso, con la famiglia, con gli schiavi, con tutta la sua magnificenza. Quella distesa di campagna ch’era stata il suo sogno, era adesso scompartita in tanti piccoli poderi ipotecati e miserabili, che facevano litigare i direttori delle banche di Jefferson e finivano proprietà di Will Varner. Tutto ciò che restava di quell’uomo era il letto del fiume, che i suoi negri avevano raddrizzato per quasi dieci miglia onde proteggere il terreno dalle inondazioni, e lo scheletro della casa mostruosa, che ormai da trent’anni i suoi eredi in senso lato avevano abbattuto e spaccato – colonnette e ringhiere a chiocciola in legno di noce, palchetti di quercia che cinquant’anni dopo sarebbero diventati inestimabili, e persino le assicelle del tetto – come legna da ardere. Anche il suo nome era dimenticato, e il suo orgoglio ridotto alla leggenda di una terra da lui strappata alla giungla e domata, quale monumento alla denominazione che gli uomini venuti dopo, su carri sconquassati, a dorso di mulo e persino a piedi, coi fucili a selce e i cani e i bambini e rustici alambicchi per il whiskey e il salterio protestante, non avrebbero nemmeno saputo leggere, figurarsi se pronunciare. La sua terra ora non aveva più nulla a che fare con nessun uomo del passato – il suo sogno e il suo orgoglio erano polverizzati con la polvere defunta delle sue ossa senza nome, la sua leggenda divenuta la semplice tenace storia del denaro da lui sepolto chi sa dove in quel terreno quando il generale Grant aveva corso il paese alla volta di Vicksburg.1

La gente sua erede veniva dal Nord-Est, passando per le montagne del Tennessee, dove ciascuna tappa era stata contrassegnata dalla nascita e crescita di una generazione. Venivano dalla costa atlantica, e prima ancora dall’Inghilterra e dalle frontiere della Scozia e del Galles, come certuni dei loro nomi dicevano – Turpin, Haley e Whittington; McCallum, Murray, Leonard e Littlejohn –, altri, come Riddup, Armstid e Doshey, venivano da chi sa dove, poiché chi avrebbe voluto scegliere deliberatamente per sé uno di questi nomi? Con sé non portavano schiavi né servitori; in verità, ciò che portavano la maggior parte poteva tenerselo in mano – e così faceva. Occuparono terreni e costruirono baracche di una o due stanze né si sognarono di verniciarle; si sposarono tra loro, misero al mondo bambini, a una a una aggiunsero altre stanze alle primitive baracche e nemmeno queste le verniciarono. Altro non fecero. I loro discendenti continuarono a piantar cotone nel fondovalle, e granturco sulle alture. Col granturco, nei cantucci segreti delle colline producevano il whiskey, e quello che non bevevano lo vendevano. Ogni tanto un agente federale si addentrava nella campagna e spariva. Accadeva che qualche indumento dello scomparso – un cappello di feltro, una giubba di panno, un paio di scarpe cittadine o addirittura la pistola – facessero bella mostra su un bimbo, su un vecchio, su una donna. Gli agenti di contea non davano nessuna noia a questa gente, tranne nei mesi che seguivano le elezioni. Questa gente manteneva le proprie chiese e scuole, si sposavano e tra loro commettevano qualche volta adulteri, più spesso omicidi; fungevano essi stessi da giudici e da carnefici. Erano protestanti e democratici e prolifici assai; non c’era un solo proprietario negro in tutta la zona. I negri forestieri non volevano saperne di passarci dopo il tramonto.

Will Varner, l’attuale padrone del Vecchio Francese, era l’uomo più importante del luogo. Era il massimo latifondista e capodistretto di una contea, il giudice di pace dell’altra, in entrambe era commissario alle elezioni, e quindi la fonte, se non del diritto, certo del consiglio e della prudenza tra gente che, se mai avesse sentita la parola costituzione, certo l’avrebbe ripudiata, e che veniva a scomodarlo come chi chiede non «Che cosa devo fare» ma «Che pensate che vi piacerebbe che facessi se foste in grado di farmelo fare». Era un agricoltore, un usuraio, un veterinario; di lui disse una volta il giudice Benbow di Jefferson che mai mula venne salassata né urna imbottita di voti da uomo più gentile. Possedeva lui la maggior parte del terreno buono e teneva ipoteche su quasi tutto il resto. Possedeva nel villaggio l’emporio, la sgranatrice, il mulino e la fucina associati, e che un uomo del luogo facesse acquisti, sgranasse il cotone, macinasse il grano o ferrasse i cavalli altrove, era ritenuta un’idea, a dir poco, infelice. Era sottile come un palo di steccato e suppergiù della medesima lunghezza, con capelli e baffi rossogrigi, e azzurri occhietti duri e lustri dall’aria innocente: pareva il sovrintendente di una scuola domenicale metodista che nei giorni feriali facesse il capo di un treno-viaggiatori o viceversa, e fosse il padrone della chiesa o della ferrovia o magari di entrambe. Era uomo scaltro, segreto e giulivo, di disposizioni rabelaisiane e con ogni probabilità tuttora sessualmente vigoroso (aveva avuto dalla moglie sedici figli, sebbene in casa non ne rimanessero che due: gli altri erano sparsi, accasati o sepolti, da El Paso al confine dell’Alabama) come dimostrava il suo ciuffo di capelli che ancora a sessant’anni era più rosso che grigio. Era insieme attivo e indolente, e (lasciando al figlio gli affari di famiglia) spendeva tutto il suo tempo in far nulla; prima ancora che il figlio scendesse a colazione spariva di casa, nessuno sapeva per dove, salvo che in qualunque momento poteva capitare di vedere dovunque entro il raggio di dieci miglia lui e il suo vecchio cavallone bianco; e almeno una volta al mese, durante la primavera, l’estate e il primo autunno, legato il vecchio cavallo a un vicino palo di steccato, capitava che qualcuno lo vedesse seduto su una rustica seggiola nel prato inselvatichito del sito del Vecchio Francese. La sedia gliel’aveva fatta il suo fabbro segando per la metà un barile da farina vuoto, adattandovi spalliere e inchiodandovi un sedile. Qui Varner, ciccando o fumando la pipa di pannocchia, gettando ai passanti brusche parole di saluto che per quanto gaie non incoraggiavano alla compagnia, sedeva davanti al suo sfondo di decaduto splendor baronale. Tutti quanti (quelli che lo vedevano seduto là e quelli che ne sentivano parlare) erano convinti che se ne stesse a meditare, così solo, il suo prossimo incameramento d’ipoteca, dato che di spiegazioni egli ne forniva soltanto a un piazzista girovago di macchine da cucire, certo Ratliff – un uomo che non aveva la metà dei suoi anni. «Mi piace starci seduto» diceva. «Cerco di capire come doveva sentirsi quello scemo che aveva bisogno di tanta roba» – non si muoveva, non faceva tanto da indicare alle sue spalle col capo il cumulo di vecchi mattoni e di passeggi ostruiti, sovrastato dal gran rudere a colonne – «solo per mangiare e dormirci dentro». Poi diceva – e non dava a Ratliff altro indizio della verità: «Per un po’ tutto faceva pensare che me ne sarei liberato, che non l’avrei più veduto. Ma perdio la gente è adesso così infingarda che non vogliono nemmeno appoggiare una scala per portar via il resto delle assi. Sembra che preferiscano andare nei boschi e buttar giù un albero, piuttosto che cercare più in su delle loro orecchie un pezzo di pino da bruciare. Tutto sommato, ho idea che mi terrò quanto resta, così, per ricordare l’unico sbaglio che ho fatto. È la sola cosa comprata in vita mia che non son mai riuscito a vendere».

Suo figlio, Jody, era un uomo sulla trentina, florido e gonfio, leggermente tiroidico, e non soltanto era scapolo ma emanava un’invincibile e inviolabile aria di celibato, così come certa gente passa per esalare l’odore della santità o della spiritualità. Un omone costui, che già prometteva una pancia considerevole entro i prossimi dodici anni, sebbene per il momento riuscisse ancora ad arrogarsi un che di attillato e speditamente dongiovannesco. Portava, estate e inverno (salvo che nella bella stagione faceva a meno della giacca), domenica e giorni feriali, una camicia bianca lucida, senza colletto, chiusa alla gola con un grosso bottone d’oro, e sopra un abito di buon panno nero. Indossava quest’abito il giorno stesso che lo riceveva dal sarto di Jefferson e lo portava di seguito ogni giorno e con ogni tempo finché non lo rivendeva a uno dei dipendenti negri della famiglia, sostituendolo immediatamente col successivo. Sicché la sera di qualunque domenica ci si poteva imbattere – subito riconoscendolo – in un suo vecchio completo o in qualcuno dei suoi pezzi, a passeggio per le strade estive. In contrasto con le invariabili tute degli uomini tra cui viveva, egli aveva un aspetto non proprio funereo ma di cerimonia – e ciò per via di quella sua invincibile aria di celibato: sicché guardandolo era dato scorgere, sotto la flaccidezza e la massa opaca, il perenne e immortale Testimone dello Sposo, l’apoteosi del Maschio Singolo, allo stesso modo che sotto gli idropici tessuti di un centromediano classe 1909 ci si raffigura lo sparuto e vigoroso fantasma che distribuiva palloni. Egli era il nono dei sedici figli di suo padre. Dirigeva l’emporio di cui suo padre era tuttora titolare e dove si trafficava specialmente in ipoteche incamerate; dirigeva la sgranatrice; e sovrintendeva agli sparsi poderi che, suo padre dapprima e poi entrambi in società, erano andati acquistando negli ultimi quarant’anni.

Un pomeriggio si trovava nell’emporio, intento a tagliare pezzi di fune per l’aratro da un rocchetto di corda nuova di cotone e inanellarli in regolari nodi scorsoi alla marinara sopra una serie di chiodi sulla parete, quando un rumore alle spalle lo fece voltare, e vide, sagomato nel vuoto della porta, un uomo più basso del normale, dal gran cappello e dalla giacca per lui troppo larga, piantato con una curiosa sorta di rigidezza. «Varner?» disse costui, con una voce non esattamente aspra o almeno non tanto volutamente aspra quanto rugginosa per l’uso infrequente.

«Sono uno dei Varner» disse Jody, con la sua voce garbata, blanda e dura. «Che cosa volete?».

«Mi chiamo Snopes. Ho sentito che avete un podere da affittare».

«Ah sì?» disse Varner, cominciando a spostarsi in modo da portare in luce la faccia dell’altro. «E dov’è che l’avete sentito?». Poiché il podere era nuovo, e lui e suo padre l’avevano avuto attraverso una vendita d’incameramento meno di sette giorni prima; mentre quel tale era del tutto forestiero. Varner non aveva mai sentito il suo nome.

L’altro non rispondeva. Ora gli si vedeva la faccia – un paio d’occhi d’un freddo grigio-opaco in mezzo a ciglia grigie, ispide e irascibili, e una barbetta a stoppia, grigio ferro, compatta e nodosa come il vello di una pecora. «Dove avete lavorato?» disse Varner.

«A ovest». Non era uno che parlasse conciso. Pronunciò l’unica parola con un tono di assoluta conclusione, come si fosse chiusa una porta dietro.

«Nel Texas, volete dire?».

«No».

«Capisco. A ovest di qui. Quanti siete in famiglia?».

«Sei». Non ci fu pausa sensibile, ma nemmeno passaggio frettoloso alla parola successiva. Pure qualcosa ci fu. Varner ne ebbe coscienza prima ancora che la voce esanime mostrasse l’intenzione di correggere quell’inconsistenza. «Un maschio e due ragazze. Moglie e sorella».

«Fanno cinque».

«E io» disse la voce morta.

«Di solito non s’includono le nostre tra le braccia che lavorano» disse Varner. «Allora, cinque o sette?».

«Siamo in sei a lavorare».

Ora nemmeno la voce di Varner cambiò, garbata e dura come sempre. «Non sono deciso a prendere fittavoli quest’anno. Siamo già quasi a maggio. Potrei lavorarci io stesso con dei giornalieri. Ma non so neanche se sarà il caso».

«Lavorerò con loro» disse l’altro. Varner lo guardò.

«Abbiamo fretta di sistemarci, eh?». L’altro non disse nulla. Varner non capiva se lo guardava o no. «Che affitto fate conto di pagare?».

«Voi, quanto volete?».

«Il terzo e il quarto» disse Varner. «Acquisti in emporio. Niente cassa».

«Capisco. Fino all’ultimo centesimo».

«Esatto» disse Varner amabilmente. Ora non capiva se quell’uomo guardava qualcosa o no.

«Lo prendo» disse.

Ritto sulla balconata dell’emporio, sopra la mezza dozzina d’individui in tuta che c’eran seduti o accoccolati coi loro coltelli e le schegge di legno, Varner contemplò il suo visitatore traversare il portico zoppicando irrigidito senza guardare né a sinistra né a destra, e scendere e staccare di tra i cavalli da tiro e quelli sellati, legati sotto la balconata, un mulo sparuto privo di sella, dalla cavezza consunta e dalle redini di fune, portarlo ai gradini e salirvi su goffo e senza piegarsi, e allontanarsi, sempre senza dare un’occhiata intorno. «A sentire i piedi, si direbbe che pesa un quintale» disse un tale. «Chi è, Jody?».

Varner si succhiò i denti e sputò nella strada. «Nome Snopes» disse.

«Snopes?» disse un altro. «Ma guarda. Allora è lui». Qui non soltanto Varner ma anche gli altri guardarono chi aveva parlato – un uomo sparuto, dalla tuta decisamente pulita per quanto stinta e rappezzata, e persino rasato di fresco, con una faccia amabile e quasi triste finché si capiva ch’era fatta contemporaneamente di due espressioni diverse – una, momentanea, di pace e statica quiete che ne copriva un’altra, costante, di definito benché lieve disagio – e una bocca sensibile che appariva dotata di freschezza e di salute adolescenti, fin che non s’intuiva che un’astinenza di tutta la vita dal tabacco doveva produrre lo stesso risultato – la faccia, parlante, dell’archetipo e protagonista di tutti gli uomini che si sposano giovani e non sanno generare che figlie e non sono essi stessi se non la figlia maggiore delle loro mogli. Si chiamava Tull. «È quel tale che ha svernato con la famiglia in un vecchio magazzino da Ike McCaslin. Quello che era immischiato nell’incendio di un fienile di un certo Harris, contea Grenier, due anni fa».

«Uh?» disse Varner. «Cosa? Incendio di un fienile?».

«Non ho detto che sia stato lui» disse Tull. «Ho detto soltanto che ci andò di mezzo fino a un certo punto, diciamo».

«Di mezzo come?».

«Harris lo fece arrestare e lo portò in tribunale».

«Capito» disse Varner. «Un semplice caso di errore di persona. Aveva incaricato un altro».

«Mancarono le prove» disse Tull. «Almeno, se Harris poté trovarne in seguito, era già troppo tardi. Perché quello aveva lasciato il paese. Poi capitò da McCaslin lo scorso settembre. Lui e i suoi lavoravano a giornata, al raccolto di McCaslin, e McCaslin li lasciò per tutto l’inverno in quel vecchio magazzino che non gli serviva più. Non so altro. Non faccio pettegolezzi».

«E fate bene» disse Varner. «Nessuno vuol passare per chiacchierone». Sovrastava a loro con la grossa faccia blanda, nel suo sudicio abbigliamento bianco e nero – la lucida camicia bianca sporca e i pantaloni sciatti, a ginocchiere –, un abbigliamento ch’era insieme da cerimonia e trasandato. Si succhiò i denti per un attimo, udibilmente. «Bene bene bene» disse. «Uno che dà fuoco ai fienili. Bene bene bene».

Quella sera ne parlò con suo padre, a tavola. A eccezione dello sconnesso edificio fatto mezzo di tronchi mezzo d’assi e chiamato l’Albergo di Littlejohn, la casa di Will Varner era l’unica nella zona che avesse più di un piano. E avevano anche una cuoca, l’unica serva nera non solo, ma addirittura l’unica persona di servizio che ci fosse in tutto il distretto. Da anni la tenevano, però la signora Varner diceva tuttora, e ne pareva convinta, che di quella donna non ci si poteva, senza sorvegliarla, nemmeno fidare a lasciarle bollire dell’acqua. Quella sera Jody raccontò la cosa, e intanto sua madre, donna grassa, cordiale e affaccendata, che aveva messo al mondo sedici figli e cinque ne aveva già sepolti e che all’annuale fiera della contea vinceva ancora premi per la sua arte di mettere in conserva frutta e verdure, andava e veniva fra la stanza da pranzo e la cucina, e la sorella, un’ampia e molle ragazza tredicenne, dai seni ormai tondi, dagli occhi come un’uva venata di serra e dalla bocca umida e ricca sempre semiaperta, sedeva al posto solito immersa nella greve ebrietà succhiosa di una carne di donna giovane e abbondante, senza bisogno di sforzo alcuno per non stare a sentire.

«Ti sei già impegnato?» disse Will Varner.

«Non ci pensavo nemmeno, prima che Vernon Tull mi parlasse di quella faccenda. Adesso ho deciso di portargli il contratto domani e che lo firmi».

«Allora digli anche che casa deve incendiare. O hai deciso di lasciare che faccia lui?».

«Già» disse Jody. «Parleremo anche di questo». Poi disse – e stavolta la sua voce aveva smesso ogni facezia, ogni botta e risposta, sia di terza o di quarta o di prima, di frivolezza scherzosa: «Mi occorre soltanto sapere la verità su quel fienile. Ma comunque, sarà la stessa cosa, l’abbia fatto o no. Basterà se un bel momento, alla stagione del raccolto, lui scopre che sono convinto che l’ha fatto. Senti. Prendi un caso». E si sporse sul tavolo chinandosi, grosso, prominente, concentrato. La madre era corsa in cucina, dove s’udiva la sua voce sgridare di buon umore la cuoca. La sorella non ascoltava per nulla. «C’è un pezzo di terra che i proprietari non speravano più di cavarne niente, a stagione così avanzata. Viene un tale e lo prende a mezzadria, quando nell’ultimo posto dove affittava s’è incendiato un fienile. Non ha importanza se sia stato davvero questo tale, benché tutto sarebbe più semplice se potessi esser certo che è stato lui. L’essenziale è che il fienile prese fuoco quando lui era da quelle parti, e le testimonianze l’hanno costretto a lasciare il paese. Eccolo che viene e affitta il terreno che noi quest’anno davamo per perduto, e si serve all’emporio in perfetta regola. Fa il raccolto, il padrone lo vende in perfetta regola, tiene la somma pronta, e quello viene a pigliare la parte e il padrone gli dice: “Cos’è questa storia di quel fienile?”. Tutto qui. “Cos’è questa storia che sento di quel fienile?”». Si fissarono un momento – gli occhi opachi, un po’ sporgenti, e quelli piccoli, duri, azzurri. «Che cosa dirà? Che cosa può dire altro che: “Va bene, e allora cosa volete fare?”».

«Ci rimetterai la nota dell’emporio».

«Già. Non si può evitare. Ma dopo tutto un uomo che ti frutta gratis e per niente un raccolto, lo puoi anche mantenere fin che ci lavora dentro... Aspetta» disse. «Porca miseria, non ce ne sarà neanche bisogno. La mattina dopo che avrà finito di rimondare gli faccio trovare sullo scalino di casa un paio di traversini marci con sopra uno zolfanello, e allora capirà che tutto è finito e altro non gli resta che andarsene. Saranno due mesi di guadagnato sulla nota dell’emporio, e la nostra unica spesa saranno le giornate per fare il raccolto». Si fissarono ancora. Per uno di loro era cosa già fatta e finita; la vedeva materialmente; quando parlò fu come se la sua voce venisse dal futuro sei mesi dopo. «Porca miseria, deve bene! Non può farci nulla! Non osa!».

«Uh» disse Will. Estrasse dalla tasca del panciotto sbottonato una sporca pipa di pannocchia e cominciò a caricarla. «Stai alla larga da quella gente».

«Andiamo» disse Jody. Prese uno stuzzicadenti dal vasetto di porcellana sul tavolo, e si abbandonò contro la sedia. «Dare fuoco ai fienili non è permesso. E chi ha di queste abitudini deve portarne le conseguenze».

Non ci andò l’indomani né il giorno dopo. Ma il terzo giorno, di buon pomeriggio, eccolo – il suo roano da sella attendeva legato a un palo della balconata – nell’emporio, seduto aggobbito alla scrivania ribaltabile, col cappello nero sulla nuca e una scura manona pelosa poggiata immobile e greve sul foglio come un pezzo di carne, mentre l’altra tracciava con la penna le parole del contratto nella sua pesante e disordinata calligrafia lenta. Un’ora dopo, a cinque miglia dal villaggio, col contratto asciugato e ripiegato per bene nella tasca deretana dei pantaloni, era fermo a cavallo, vicino a un baroccio immobile sulla strada. Questo baroccio era tutto sconquassato dal mal uso e inzaccherato di mota secca dell’inverno passato; lo tiravano un paio di cavallini irsuti, selvatici e vivaci come capre di montagna, e quasi altrettanto minuscoli. Dietro al veicolo era attaccata una cassetta di latta che per volume e forma ricordava un canile, dipinta in modo da parere una casa, e in ciascuna delle finestrine dipinte il viso di una donna faceva la smorfia sopra una macchina da cucire. Varner fermo sul cavallo sbarrava gli occhi, costernato ed esasperato, addosso all’uomo del baroccio, che aveva detto appena amabilmente: «Ebbene, Jody, sento che avete un fittavolo nuovo».

«Porca miseria!» esclamò Varner. «Non vorrete dire che ha dato fuoco a un altro fienile? Dopo che l’hanno già preso, ha dato fuoco a un altro fienile?».

«Ecco» disse l’uomo del baroccio. «Non so se ammetterei di aver detto che ne ha incendiato uno. Diremo che tutti e due hanno preso fuoco mentre più o meno lui c’era immischiato. Intendetela nel senso che il fuoco ha tutta l’aria di andargli dietro, come i cani a certa gente». Parlava con una voce amabile, indolente, pacata, che non era facile capire senz’altro se fosse più scaltra o più scherzosa. Costui era Ratliff, il piazzista di macchine da cucire. Di casa stava a Jefferson ma, col suo tiro robusto e col canile dipinto in cui entrava giusto una macchina da cucire vera, teneva la maggior parte di quattro contee. In giornate successive e a distanza di due contee si poteva incontrare il suo baroccio schizzato e sconquassato e la coppia dei cavallini mal assortiti, legati all’ombra dell’albero più vicino, e il viso affabile, simpatico e sveglio di Ratliff, con la sua bella camicia turchina senza cravatta, faceva gruppo insieme con quelli accoccolati davanti a un emporio su qualche crocicchio. Oppure – sempre accoccolato e intento in apparenza a dir la sua, ma in realtà più occupato ad ascoltare che la gente lì per lì non credesse – lo si trovava in mezzo a donne circondate di corde da bucato cariche, di tinozze, di catinelle annerite, presso fontane o pozzi, o seduto decorosamente in una poltrona di legno sulla balconata di una baracca, garbato, affabile, cortese, barzellettiere e impenetrabile. Vendeva forse un tre macchine all’anno, e il resto del tempo lo passava trafficando in terreni, in bestiame, in attrezzi agricoli e in strumenti musicali usati, ogni cosa insomma cui chi la possedeva non tenesse eccessivamente. Intanto con l’ubiquità di un gazzettino riferiva di dimora in dimora le nuove delle sue quattro contee, e con l’esattezza di un servizio di posta recava da una bocca all’altra messaggi personali circa nozze, funerali e ricette per mettere in conserva frutta o verdura. Non c’era pericolo che si scordasse un nome, e conosceva tutti quanti, uomini muli e cani, nel raggio di cinquanta miglia. «Diciamo che il fuoco veniva dietro al carro, quando Snopes si fermò col suo carico di mobilio davanti alla casa che De Spain gli aveva dato come si era fermato davanti all’altra da Harris o dove diavolo fosse, e disse “Entrate lì dentro”, e stufa, seggiole e lettiere vennero in terra e andarono a posto da sole. Disperati ma in gamba, duri, da gente avvezza a traslocare senza l’aiuto di nessuno. C’era Ab e quello grande – lo chiamano Flem; ce n’era anche un altro, piccolino; mi ricordo di averlo visto in qualche posto. Ma non era con loro. Non c’è più, almeno. Chi sa, si saranno dimenticati di farlo uscire dal fienile – seduti sull’asse, e le due ragazze, grandi e grosse, sulle seggiole nel carro, e la signora Snopes con la sorella vedova che sedevano sulla roba dietro, come se a nessuno importasse che arrivassero o no, compreso il mobilio. E il carro si ferma davanti alla casa e Ab la guarda, poi dice: “Non ci starebbero i porci”».

Piantato sul cavallo, Varner fissava su Ratliff due occhi prominenti e pieni di un muto orrore. «Ebbene,» disse Ratliff «fermo il carro, subito la signora Snopes e la vedova smontano e cominciano a scaricare. Le due ragazze non si muovono – neanche per idea – stavano là sulle sedie, vestite da festa, e masticavano gommini, finché Ab non si voltò e le buttò giù a bestemmie, che andassero dove la signora Snopes e la vedova si arrabattavano con la stufa. Le buttò giù dal carro come si fa con un paio di manze che sono troppo di valore per rompergli un bastone addosso, e poi lui e Flem se ne stettero a guardarle mentre loro prendevano dal carro una scopa frusta e una lanterna e si fermavano di nuovo. Allora Ab si sporge e molla sul sedere della prima che capita una staffilata con le redini libere. “E torna, sai, per aiutare tua mamma che porta la stufa” le gridò dietro. Poi con Flem scese dal carro, e se ne andarono a cercare De Spain».

«Nel fienile?» gridò Varner. «Volete dire che ci sono andati subito e...».

«No, no. È stato dopo. Il fienile viene dopo. È probabile che allora non sapessero neanche dov’era. Il fienile bruciò come si deve e a suo tempo, questo bisogna riconoscerlo. Allora facevano soltanto una visita, semplice cortesia, perché Snopes già sapeva dov’era il suo terreno e non doveva far altro che cominciare a lavorarci perché maggio era già inoltrato. Proprio come adesso» aggiunse con un tono innocente, che pareva la crema del latte. «Però si dice che combina sempre i suoi fitti più tardi degli altri». Ma Ratliff non rideva. La scaltra faccia bruna era liscia e mite come sempre, sotto i suoi occhi scaltri e impenetrabili.

«Be’?» disse Varner bruscamente. «Se dà fuoco nel modo che dite, non mi toccherà preoccuparmi fino a Natale. Continuate. Cos’è che fa, prima di dar mano agli zolfanelli? Potrei riconoscere almeno i sintomi a tempo».

«Ecco» disse Ratliff. «Si mettono per strada, lasciando la signora Snopes e la vedova arrabattarsi con la stufa, e le due figliolone là in piedi con una trappola di fildiferro e un orinale in mano, e vanno verso la casa del Maggiore, su per la strada privata dove c’era un mucchio fresco di sterco di cavallo, e il negro dice che Ab l’aveva pestato apposta. Forse il negro li stava a osservare dalla finestra dell’entrata. A buon conto Ab se lo porta dietro attraverso il portico e bussa e, quando il negro gli dice di pulirsi le scarpe, se lo toglie d’innanzi, e il negro dice che si pulì quanto gliene restava sopra il tappeto da cento dollari, e che poi cominciò a gridare “Ehilà, ehilà, De Spain”, fin che la signora De Spain non esce fuori e guarda il tappeto e poi Ab, e gli dice per favore di andarsene. Poi De Spain viene a casa per pranzo e, poco ma sicuro, la signora De Spain gli fa una testa così perché verso la metà del pomeriggio ecco il Maggiore a cavallo che va da Ab, con un negro dietro su un mulo che porta il tappeto fatto su. Te lo trovano seduto su una sedia contro l’uscio e De Spain comincia a gridare: “Cosa fate qui invece di lavorare in campagna”, e Ab gli risponde senza né alzarsi né niente: “Faccio conto di cominciare domani. Non mi piace traslocare e darci dentro lo stesso giorno”, e la cosa non c’entrava per niente. Poco ma sicuro la signora De Spain gli aveva fatto una testa così al Maggiore, perché restò là un pezzo, piantato sul cavallo dicendo: “Diavolo, Snopes, diavolo”, e Ab, sempre seduto, gli diceva: “Se un tappeto mi premesse tanto, non lo terrei dove la gente entrando bisogna che lo pesti”». Nemmeno adesso Ratliff rideva. Se ne stava seduto là sul baroccio, molle e pacato, gli occhi scaltri e intelligenti nella liscia faccia bruna, sbarbato e pulito nella sua stinta camicia di bucato, la voce amabile, lenta e faceta. Gli occhi dal volto gonfio e purpureo di Varner lo fissavano sbarrati.

«Un momento dopo Ab dà una voce in casa e una di quelle figliolone viene fuori, e Ab dice: “Prendi il tappeto e lavalo”. Così l’indomani il negro trova il rotolo buttato nel portico sull’uscio e, vicino, altre pedate ma stavolta era fango, e dicono che quando la signora De Spain aprì il tappeto il Maggiore se la deve essere vista più brutta di prima – il negro dice che sembrava lavato non col sapone ma con le pietre – tanto che avanti colazione era già con la cavalla da Ab nel recinto dove Ab e Flem attaccavano per andare in campagna. Era fuori della grazia di Dio e bestemmiava che faceva le faville. Non che ce l’avesse con Ab ma così contro tutti i tappeti e gli sterchi di cavallo in generale, e Ab zitto, a infilare i tiranti e le cinghie, fin che viene un momento che De Spain gli dichiara che il tappeto gli è costato in Francia cento dollari e che intende risarcirsi con venti staia di granone sul raccolto che Ab deve ancora seminare. Poi De Spain torna a casa. Forse credeva di aver detto per dire. Forse credeva che, sentito che se l’era presa a cuore, la signora De Spain lo lasciasse tranquillo, e magari, venuto il raccolto, a quelle staia di granone non ci avrebbe pensato più. Soltanto, chi non restò soddisfatto fu Ab. Ed ecco, la sera dopo mi pare, il Maggiore era disteso senza scarpe nella sua amaca di doghe, in giardino, e arriva l’ufficiale giudiziario tossendo e guardandosi i piedi e finalmente gli spiattella che Ab lo ha citato...».

«Porca miseria» borbottò Varner. «Porca miseria».

«Già» disse Ratliff. «È proprio quel che disse De Spain quando capì che la cosa era quella. Così viene sabato e il carro si ferma davanti all’emporio e Ab scende col cappello e la giacca da reverendo e viene al tavolo, zoppicando su quel piede dove zio Buck McCaslin dice che il colonnello John Sartoris gli sparò durante la guerra, quando Ab cercava di rubargli lo stallone da battaglia, un sauro chiaro. Il giudice dice: “La vostra citazione l’ho studiata, signor Snopes, ma non sono riuscito a trovar nel codice niente sui tappeti, figuriamoci sulle fatte di cavallo. Ma ho intenzione di accoglierla perché venti staia non sono una cifra per voi. Un uomo occupato come voi, non ha tempo neanche di farle, venti staia di granone. Vi condanno perciò a pagarne dieci, in risarcimento di quel tappeto”».

«E lui allora ha dato fuoco» disse Varner. «Bene bene bene».

«Non so se la cosa vada messa in questi termini» disse di nuovo Ratliff. «Io direi soltanto che quella stessa notte il fienile del Maggiore prese fuoco e andò tutto perduto. Ma capitò, chi sa come, che al momento buono ci arrivò anche De Spain sulla cavalla, perché c’è gente che lo sentì passare dalla strada. Non dico che arrivasse in tempo per spegnere, ma certo in tempo per trovarci già qualcuno che gli riuscì talmente a proposito, da spararci sopra. Piantato sulla cavalla, gli sparò tre o quattro volte, chiunque fosse, fin che quello s’infilò in un fossato dove lui con la bestia non poteva seguirlo. E nemmeno poteva dire chi era, perché qualunque cristiano ha diritto di andar zoppo se vuole, e chiunque si può mettere una camicia bianca, salvo il fatto che, quando arrivò alla casa di Ab (e molto non ci mise, a quanto dice chi l’ha sentito correre per la strada), né Ab né Flem c’erano, non c’era altri che le quattro donne, e De Spain non aveva mica tempo di cercare sotto i letti perché vicino al suo fienile c’era un ripostiglio dal tetto di legno. Così tornò dove i suoi negri avevano già trasportate le botti e c’inzuppavano i sacchi per gettarli sul ripostiglio, e il primo che vede non è Flem, piantato là in camicia bianca, che assisteva con le mani nelle tasche, ciccando? “Buona sera” dice Flem. “Questo fieno brucia che spaventa”, e De Spain dalla cavalla gli grida: “Dov’è tuo padre? Dov’è quel...” e Flem dice: “Se non è per qui, allora è tornato a casa. Siamo corsi insieme, appena veduto il riverbero”. E De Spain sapeva benissimo di dove venivano e sapeva anche il perché. Ma non era una cosa che concludesse, perché, l’ho già detto, qualunque coppia di tizi può averci uno zoppo e una camicia bianca fra tutti e due, e magari era soltanto la latta di petrolio che aveva visto buttare nel fuoco da uno dei due quando aveva sparato il primo colpo. Così l’indomani mattina faceva colazione col ciuffo e i peli degli occhi strinati, quando entra il negro e gli dice che un tale lo cerca; lui passa in ufficio e ti trova Ab, già pronto col cappello e la giacca da reverendo, e col carico del mobilio già fatto, soltanto che il carro non gliel’aveva portato in ufficio. “Mi dà idea che io e voi non andiamo d’accordo” dice Ab “e ho pensato che è meglio lasciar perdere prima che abbiamo dei dispiaceri. Stamattina parto”. E De Spain dice: “Che si fa del contratto?”. E Ab dice: “È annullato”. De Spain seduto, borbotta: “Annullato. Annullato”, poi dice: “Sarei contento di annullarlo e di annullarne cento come quello, e ci metterei sul patto anche il fienile, se potessi esser certo che è proprio a voi che ho sparato stanotte”. E Ab dice: “Potete farmi citare, e studiarci sopra. In questo paese i giudici di pace sembra che l’abbiano l’abitudine di studiare per conto dei querelanti”».

«Porca miseria» ripeté Varner a bassa voce. «Porca miseria».

«E così Ab si voltò, e se ne andò pestando quel piede storpio e...».

«Diede fuoco alla casa» disse Varner

«No, no. Non dico che, quando partì, non si sia voltato a guardarla con un certo rimpianto, come dice quel tale. Ma nient’altro prese fuoco lì per lì. Non allora, almeno. Non...».

«È vero» disse Varner. «Mi ricordo che avete detto che, quando De Spain cominciò la sparatoria, buttò nel fuoco quel che restava del petrolio. Bene bene bene» disse gonfio, apoplettico addirittura. «E adesso, con tanta gente che c’è in questo paese, mi toccava proprio pescare lui per farci un contratto d’affitto». Cominciò a ridere. O meglio, cominciò a dire: «Ah, ah, ah» rapidamente, ma solo coi denti, coi polmoni; nient’altro, niente che gli uscisse dagli occhi. Poi si fermò. «Be’, non posso fermarmi, per bene che si stia. Magari faccio in tempo a ottenere che annulli il contratto in cambio di un vecchio magazzino».

«O di un fienile vuoto, forse» gli gridò dietro Ratliff.

Un’ora dopo, Varner era di nuovo fermo, a cavallo, stavolta davanti a un cancello o piuttosto un buco in una cinta di fildiferro fiaccata e arrugginita. Il cancello, o meglio ciò che ne restava, giaceva sgangherato da una parte, e gli interstizi della palizzata marcia erano zeppi d’erba e gramigne come le costole d’uno scheletro abbandonato. Varner ansava ma non perché avesse galoppato. Anzi, non appena s’era tanto avvicinato al termine della corsa da poter vedere il fumo se fumo ci fosse stato, aveva rallentato sempre più il passo della cavalcatura. E tuttavia adesso era fermo davanti al buco della cinta, ansando dal naso e perfino un po’ sudato, e fissava, nel mezzo dell’inevitabile campo spoglio di piante e d’erba, la baracca sfasciata e incavata che le intemperie avevano scolorito come un vecchio alveare – la fissava con quell’aria di tesa e lucida speculazione che si ha accostandosi a una bomba inesplosa. «Porca miseria» disse ancora una volta, a bassa voce. «Porca miseria. È qui da tre giorni e non ha ancora aggiustato il cancello. E io non ho il coraggio di parlargliene. Io non ho il coraggio di fargli capire che so che esiste una cinta da attaccarcelo». Diede uno strappo selvaggio alle redini. «Avanti!» disse al cavallo. «Stai qui fermo un po’ troppo, e piglierai fuoco anche tu».

Il sentiero (non era una strada né un viottolo: due semplici solchi appena visibili, dov’erano passate le ruote dei carri, quasi cancellati dall’erba e dalle gramigne dell’annata) conduceva al portico cadente e sprovvisto di scalino della casa pressoché morta, che lui fissava con intenta circospezione, quasi accostasse un’imboscata. La fissava con tanta intensità, da sfuggirgliene i particolari. D’un tratto vide, in una di quelle finestre senza intelaiatura, una testa, che non sapeva quando vi fosse apparsa. Era coperta di un berretto grigio; la mandibola si moveva con ritmo regolare in un curioso ruminamento obliquo; e quand’egli gridò «Ehilà», scomparve. Stava per lanciare un’altra voce, quando scorse dietro la casa una figura rigida che riconobbe, per quanto mancante della giacca: pareva occupata intorno al cancello del cortile. Già gli giungeva il ritmico gemito lamentoso di una puleggia di pozzo arrugginita, e ora cominciò a sentire due piatte voci forti senza senso di donna. Quando oltrepassò la casa, vide la scena – l’alta e stretta armatura come di un patibolo epiceno, e accanto due grosse ragazze totalmente immobili, che anche a quel primo sguardo assumevano la ferma e sognante coesione di un gruppo statuario (e l’impressione era resa più intensa dal fatto che pareva che entrambe insieme parlassero a un ascoltatore – o magari soltanto con l’ambiente esterno – a distanza considerevole, e che nessuna delle due ascoltasse l’altra) benché una di esse stringesse la fune del pozzo, le braccia distese al massimo, il corpo chino per lo strattone come una figura di sciarada, un bassorilievo simbolico di qualche tremendo sforzo fisico spentosi nell’istante stesso ch’era cominciato, sebbene, un momento dopo, la puleggia ricominciasse il suo pianto rugginoso, per fermarsi un’altra volta quasi subito, come anche le voci quando la seconda delle due lo vide – la prima s’era adesso fermata nell’atteggiamento inverso, le braccia abbassate con la fune – e le due larghe facce vuote d’espressione si volsero adagio, di conserva, mentre Varner passava.

Varner attraversò il cortile spoglio, disseminato dei rifiuti – la cenere, i cocci, le latte buttate – di quelli che l’avevano occupato per ultimi. C’erano altre due donne che lavoravano presso la cinta, e tutti e tre s’erano ormai accorti della sua presenza, poiché aveva veduta una delle donne voltarsi. L’uomo invece (quel boia dannato di uno storpio, pensò Varner nel suo sdegno furibondo e disperato) non aveva alzato gli occhi né smesso di fare quell’accidenti che faceva, finché Varner sul cavallo non gli giunse proprio alle spalle. Le due donne ora lo guardavano. Una portava una stinta berretta da sole, l’altra un cappello informe che un tempo doveva esser appartenuto a quell’uomo, e aveva in mano una latta rugginosa mezzo piena di chiodi storti e arrugginiti. «Buona sera» disse Varner, accorgendosi troppo tardi di aver quasi gridato. «Buona sera, signore». L’uomo si volse, con lentezza, tenendo un martello – una testa arrugginita, con entrambe le punte spezzate, conficcata in un grezzo bastone di legno – e ancora una volta Varner affondò lo sguardo in quei freddi e impenetrabili occhi d’agata, sormontati dal contorto strapiombo delle sopracciglia.

«Come va» disse Snopes.

«Ho pensato di fare una scappata per sentire che progetti avete» disse Varner, a voce ancora troppo alta; non riusciva a trattenersi. Troppe idee mi passano per la testa, non ho tempo di fare attenzione, pensava, ricominciando sul momento stesso a pensare di nuovo: Porca miseria. Porca miseria, come per dimostrare a se stesso che cosa un attimo di rilassamento poteva fargli commettere.

«Ho idea che mi fermerò» disse l’altro. «In questa casa non ci starebbero i porci. Ma mi arrangerò».

«Sentite!» disse Varner. Adesso urlava; pazienza. Poi smise di urlare. Smise di urlare perché smise di parlare, perché non c’era altro da dire, benché ne avesse il cervello pieno. Porca miseria. Porca miseria. Porca miseria. Non ho il coraggio di dire Fila e non ho un posto da dire Vacci. Non ho neanche il coraggio di denunciarlo per incendio, perché sarebbe capace di darmi fuoco al fienile. L’altro stava girandosi di nuovo verso la cinta, quando Varner parlò. Rimase adesso semivoltato, gli occhi fissi su Varner, con aria né cortese né troppo paziente, ma di semplice attesa. «E va bene» disse Varner. «La casa possiamo discuterla. Perché noi andremo d’accordo. Vedrete che andremo. Qualunque cosa càpiti, avete soltanto da scendere all’emporio. No, non è neanche necessario: basterà darmi una voce e corro subito io al galoppo. Intesi? Qualunque cosa, vi dico, qualunque cosa non va...».

«Io vado d’accordo con tutti» disse l’altro. «Sono andato d’accordo con quindici o venti padroni diversi, da quando lavoro la terra. Quando non ci vado d’accordo, vado via. Tutto qui?».

Tutto, pensò Varner. Tutto. Attraversò a cavallo il cortile, la nuda e ingombra desolazione sparsa di cenere, di avanzi di rami riarsi e di mattoni anneriti dove pentole per il bucato e per scorticare i maiali erano state appoggiate. Vorrei non avere mai cercato se non quel poco che ho bisogno adesso, pensava. Aveva udito di nuovo la puleggia del pozzo. Stavolta il rumore non cessò al suo passaggio. I due larghi visi, l’uno immobile, l’altro sobbalzante su e giù con la regolarità di un metronomo sul ritmo del poco musicale lamento della ruota, di nuovo si volsero, adagio, come congiunti e sincronizzati da un braccio meccanico, intanto che Varner oltrepassava la casa e prendeva il viottolo impercettibile che portava al cancello rotto che sapeva avrebbe riveduto scardinato nelle erbacce come prima. Aveva tuttora in tasca il contratto, da lui scritto con quella ferma e risoluta soddisfazione che, ora gli pareva, era cosa di altri tempi, o, più probabile, di persona totalmente diversa. Il contratto era tuttora da firmare. Potrei metterci una clausola d’incendio, pensò. Ma non fermò nemmeno il cavallo. Sicuro, pensava. E poi lo adopero a incollarlo sui tetti del fienile. Così, andò avanti. Era già tardi, e rallentò il cavallo a un piccolo trotto che avrebbe potuto mantenere per tutta la strada, con un po’ di respiro sulle colline, e viaggiava di buon passo, quando vide d’improvviso, poggiato a un albero lungo la strada, l’uomo di cui aveva scorta la testa in quella finestra. Un istante prima la strada era vuota, e adesso ecco quell’uomo lungo la strada, sull’orlo di un boschetto ceduo – lo stesso berretto in capo, la stessa mandibola dal ritmico ruminare – materiato in apparenza dal nulla e quasi a petto del cavallo, con quell’aria di casualità nuda e cruda che soltanto più tardi Varner avrebbe ricordato almanaccandoci su. L’aveva quasi oltrepassato, quando tirò le redini. Stavolta non gridò, e la sua larga faccia fu adesso soltanto calma e straordinariamente all’erta. «Come va» disse. «Siete Flem, no? Sono Varner».

«Ah sì?» disse l’altro. E sputò. Aveva un volto largo e piatto. Gli occhi, colore dell’acqua stagnante. Era molliccio d’aspetto, proprio come Varner, per quanto più basso della testa, sporco la camicia bianca e i grigi pantaloni da buon prezzo.

«Contavo giusto di vedervi» disse Varner. «Sento che vostro padre ha avuto da dire una o due volte coi padroni. Cose che avrebbero potuto esser serie». L’altro masticava. «Magari non l’hanno trattato come si deve; non lo so e non voglio saperlo. Quello che voglio dire è che uno sbaglio, qualunque sbaglio, si può aggiustarlo, tanto da restare amici con chi non ci soddisfa. Non siete d’accordo?». L’altro dava dentro a masticare. La faccia era inespressiva come una padellata di pasta cruda. «Non deve pensare che l’unico modo di far valere il suo diritto sia qualcosa che lo obblighi a fare fagotto da questo paese l’indomani» disse Varner. «Non deve venire quel giorno che si guarderà attorno e non troverà più posti nuovi dove andare». Varner tacque. Attese tanto stavolta, che l’altro parlò, benché Varner non abbia mai saputo se il motivo fosse questo:

«Ce ne sono tanti, di posti».

«Certo» disse Varner, amabile, gonfio, bonario. «Ma non è necessario che uno li sprechi con tanti traslochi. Specialmente poi, trattandosi di cose che, se fossero state prese e sistemate dal bel principio, niente sarebbe successo. Si potevano sistemare in cinque minuti, solo che ci fosse stato qualcuno disposto a pigliare chi magari gli bolliva troppo il sangue, e dirgli ecco: “Alto là, quel tale non ha nessuna intenzione di farti del male. Basta che te la intenda con lui con un po’ di calma, e tutto sarà aggiustato. E so che questa è la verità perché me ne ha data la sua parola”». Si interruppe di nuovo. «Tanto più poi, se quel qualcuno che dicevo, che potrebbe pigliarlo e parlargli, dovesse ricavare un profitto tenendolo tranquillo». Varner di nuovo tacque. Dopo un momento l’altro disse:

«Che profitto?».

«Mah, una buona fattoria che rendesse. Credito aperto all’emporio. Dell’altro terreno se si sentisse di lavorarlo».

«Non c’è profitto nei terreni. Conto di uscirne appena posso».

«Benissimo» disse Varner. «Mettiamo che questo qualcuno che ho detto volesse prendere qualche altra strada. Avrà bisogno dell’appoggio della gente che gli deve far guadagnare i quattrini. E cosa c’è di meglio...».

«Voi tenete un emporio, no?» disse l’altro.

«... di meglio...» disse Varner. Poi si interruppe. «Come?» disse.

«Sento che tenete un emporio».

Varner sbarrò gli occhi. Adesso la sua faccia non era bonaria. S’era fatta del tutto immobile, del tutto intenta. Varner si tastò nella tasca della camicia e ne trasse un sigaro. Lui come lui, non fumava né beveva, godendo per natura di un ricambio così ben condizionato da non potere in nessun modo, così avrebbe detto, sentirsi meglio di come già si sentiva. Ma ne portava sempre due o tre con sé. «Un sigaro» disse.

«Non fumo» rispose l’altro.

«Ciccate e basta, eh?» disse Varner.

«Ne cicco quattro soldi di tanto in tanto, fin che ha perso tutto il gusto. Ma accenderli non li accendo».

«Già» disse Varner. Guardò il sigaro; disse, pacato: «E spero in Dio che né voi né nessuno di vostra conoscenza non accenda mai niente». Si rimise il sigaro in tasca. Cacciò respirando un sibilo rumoroso. «Bene» disse. «L’autunno venturo. Quando avrà fatto il raccolto». Non aveva mai capito con certezza quando quell’altro lo era stato a guardare e quando no, ma stavolta lo vide alzare il braccio e togliersi dalla manica con la mano qualcosa d’infinitesimo con cura infinitesimale. Di nuovo Varner emise il fiato dal naso. Stavolta fu un sospiro. «Bene» disse. «La settimana che viene, allora. Me lo darete questo respiro, no? Ma dovete garantirmi». L’altro sputò.

«Garantire cosa?» disse.

Due miglia più avanti, lo colse l’imbrunire, il bruzzico breve della fine d’aprile, in cui sulle piante più fosche spiccavano i cornioli smorti con mani levate e distese come suore in preghiera; c’era la stella Espero e si udivano già le civette. Il cavallo, che sentiva la stalla, andava di buon passo nel fresco serotino, quando Varner lo fermò di botto e lo trattenne per un lungo istante. «Porca miseria» disse. «Si era messo proprio in un punto dove da casa non potevano vederlo».