DEL GIUDICARE.
ALCUNE RIFLESSIONI A MARGINE DI
ARTE E PUBBLICO.
ARTISTI, ESPERTI, CLIENTI

Del gusto non si può disputare. Ma se non se ne può disputare, se ne deve, almeno, poter discutere. Anzi, aggiungerebbe Gombrich, si farebbe meglio a discuterne, se vogliamo riscoprire – ancora una volta, sempre di nuovo – che le nostre preferenze ci appartengono, proprio perché ne discutiamo, proprio perché, di volta in volta, prendiamo distanza, distinguiamo, ci interroghiamo sulle ragioni altrui e sulle nostre, sempre commisurandole alle opere d’arte. In una parola: giudichiamo.

È questa una delle prospettive scelte da Gombrich, per riattraversare o, meglio, per ricostruire il sottile filo rosso che collega artisti, esperti e clienti. Ai conoscitori dello storico dell’arte viennese non saranno di certo sfuggiti alcuni dei cavalli di battaglia di, solo per citarne alcuni, Kunst und Fortschritt (al quale Gombrich stesso rimanda), Norm and Form, Art and Illusion oppure The Heritage of Apelles1. Per sua stessa ammissione, Gombrich rielabora materiale sul quale già altrove aveva riflettuto, creando così un’occasione per ricomprendere le proprie convinzioni dal loro interno, a partire, se vogliamo, dalla loro prima e decisa formulazione, senza tradirle o ripensarle, bensì calibrandole nuovamente su altri piani sepculativi.

Attraverso un dettato agile e decisamente brillante (per lo meno nella sua originaria versione tedesca), Gombrich prepara, per grandi linee, il postumo The Preference for the Primitive. Episodes in the History of Western Taste and Art (uscito per Phaidon nel 2002), del quale il lettore italiano ha avuto – sempre per rimanere in tema di gusto – solo un assaggio con la conferenza Il gusto dei primitivi2. Magistero di queste riflessioni, oltre alla nota Storia stilistica e storia linguistica nell’arte figurativa citata da Gombrich, sembra essere – sempre di Julius von Schlosser – La letteratura artistica. Breviario sulla ricerca di fonti per la storia dell’arte moderna3. Sotto il segno, dunque, di una vera e propria Quellenkunde4, la storia qui schizzata da Gombrich.

Più che riassumere il saggio gombrichiano, cercando di ricostruirne le argomentazioni sulla base delle trattazioni che, a livello temporale, lo hanno preceduto e condizionato, proveremo in breve a commentarne alcuni punti salienti, per cercare di comprendere in che misura si dia – sempre che si dia – una riflessione sul rapporto tra gusto e giudizio all’interno di un’analisi delle sue tre unità motrici: artisti, esperti e clienti.

A partire dal famigerato aneddoto narrato da Plinio il Vecchio sul grande pittore dell’antichità Apelle, Gombrich tratteggia il primo e decisivo momento di rottura tra arte e pubblico. L’assenza di standard disponibili5, di criteri inviolabili per la valutazione di ciò che è arte da ciò che non lo è produce una spaccatura piuttosto netta, all’interno del mondo dell’arte, tra tre diversi tipi di esperienze dell’arte: quella degli artisti, quella degli esperti e quella dei clienti. L’affermarsi di tali, come li chiama Gombrich, “gruppi umani” e i loro possibili incasellamenti in sfere via via sempre più larghe o più strette della comunità dei giudicanti dipende dalle diverse oscillazioni del gusto e dal suo raffinamento. La sottile linea di demarcazione tra un gusto istruito e quello primitivo, regredito, si rende visibile anche nella forma dell’opera, creando una sorta di circolo vizioso il quale, di fatto, porta alla legittimazione, da un lato, dell’artista – che produce solo in funzione della sua accondiscendenza al piacere immediato per scopi collettivi – e, dall’altro, di una pratica artistica fondata su mezzi sempre meno collaudati attraverso l’esame e la critica. Questa duplice divaricazione ha, chiaramente, la conseguenza di condurre, nel corso dei secoli, ad una Entkunstung, ad una “disartizzazione”6 non solo dei prodotti, ma anche dei procedimenti artistici – questo se, come per un verso fa proprio Adorno, si batte il terreno della dialettica tra l’artistico ed il non-artistico. Gombrich però, dal canto suo, non si vota in queste breve riflessioni ad una risoluzione di tale opposizione7 – non fosse altro per non essere tacciato di hegelismo e di storicismo nei confronti del “gusto ingenuo” (“naiver Geschmack”) –, ma ad una sua formulazione e ad un suo inquadramento a partire da esempi tratti dalla storia del pubblico, della quale certamente fanno parte anche gli artisti. Se la storia stessa mostra che ciò che recentemente si è imparato a definire arte proviene propriamente da un’istanza di mediazione data dall’Allgemeingültigkeit (la validità universale) dei giudizi di gusto, ovverosia dal loro ricollegarsi ad un mondo di preferenze ed idiosincrasie che precede e rende possibile il darsi di specifici giudizi di gusto, ebbene, questa origine singolare-plurale si rispecchia pienamente nella vita della sua ricezione. Non deve sorprendere, allora, che Gombrich parli nel suo saggio di “vera umanità”8, laddove con questo concetto non abbiamo a che fare con un cedimento all’effusione di uno storico dell’arte che, lungo tutto l’arco della sua vita, ha sempre abbinato al pensare rigoroso ed erudito una comunicatività alla maggior parte degli studiosi del tutto estranea. Benché, anzi, proprio perché carica anche di un senso morale, la “vera umanità” è il sinonimo di un spazio di discussione che l’arte è in grado di mettere in scena, e nel quale ciascuno è in grado di mettersi nei panni di un altro. Non si tratta di un mettere tutti d’accordo; bensì di un riattingere a quel sentire comune che fonda il giudicare – quel che, in concreto, accomuna artisti, esperti e clienti.

A mettere a soqquadro questa dimensione estetica del giudicare, c’è il progresso, che centralizza di volta in volta in un’unica figura, quella dell’artista, il discrimine dell’artistico dal non artistico. È l’assetto teleologico imposto dallo storicismo a pretendere che la pratica artistica risponda ad un disegno, di cui le opere costituirebbero la mera conferma. Il portato (teologico) delle filosofie della storia si riversa, così, senza residui su un fare, quello artistico, costitutivamente slegato dalla rispondenza a fini determinati. Il dissenso, il successo mancato, l’anonimato diventano effetti essenzialmente secondari da ricomprendere – come già voleva Hume, non minimamente presente, insieme ad Hegel, nelle critiche di Gombrich – nel più grande progetto del tempo e dei suoi intermediarii (gli esperti, prima ancora che gli artisti ed i clienti).

Anziché, però, riaffermare con forza (crocianamente e schlosserianamente) il primato del fatto artistico, Gombrich si affida alla logica della situazione9, per spezzare ogni continuità finalistica nei rapporti tra artisti, esperti e clienti, senza sganciarli dal loro darsi storico determinato.

Le avanguardie rappresentano in questo senso, per Gombrich, l’ultimo baluardo del progresso in un’epoca che «ha distrutto le scuole»10. Il superamento degli “ideali accademici” ha significato, nei fatti, un nuovo rimescolamento delle mansioni degli artisti, degli esperti e dei clienti, e, dalla prospettiva gombrichiana, anche una trasformazione in termini psicologistici dell’idea di progresso. Conseguenza del crollo dei sistemi è il dilagare del piacevole, del piacere meramente empirico, dell’immediatezza sensibile. Il kitsch è, così, una vera e propria svolta all’insegna, se non dell’omnia licet, per lo meno dell’oblio del piacere criticamente mediato, dell’interruzione delle interferenze tra le tre K (i “Künstler”, gli artisti; i “Kenner”, gli esperti; ed i “Kunden”, i clienti). Gombrich in parte condivide con Broch l’idea che il kitsch sia il risultato di una saturazione della normatività artistica. Tuttavia crede che la completa confusione tra arte e vita, il disautenticamento della prima attraverso la seconda sia il prodotto di un sforzo di distinzione sociale – distinzione che, suo malgrado, si ribalta fatalmente nel suo contrario, ovvero in un’omologazione persino eticamente aberrante nelle sue manifestazioni più eclatanti. Il Kitsch-Mensch brochiano non è dunque altro che l’apoteosi del sistema (storicistico) che sta alla base della cultura, e del compito che l’artista è chiamato, secondo la volontà del finalismo, a svolgere con la sua opera.

Il modo migliore per evitare che la corsa allo sviluppo porti alla paradossale esistenza di un’arte senza pubblico, rimane quello di rivalorizzare lo spazio pubblico di discussione tra artisti, esperti e clienti con la stessa fermezza con cui Apelle cercava di non farsi fare le scarpe dal ciabattino. È questa condizione in primis estetica del giudicare l’unica a rendere l’arte e le tre K assolutamente necessari. È essenziale, insomma, che vi sia una sfera dove le tensioni tra artisti, esperti e clienti non cessino di prodursi.

Se la tendenza ideologica dominante è, oggi, quella alla desoggettivazione coatta, alla delegazione più o meno consapevole della facoltà di giudicare, l’intersoggettività esibita nella coappartenza (ed intrinseca sinonimia) di arte e pubblico diventa la più concreta forza di resistenza alla pressione del reale e alla sua volontà di presentarsi come autocoscienza.

1Ed. italiane: E. H. Gombrich, Norma e forma: studi sull’arte del Rinascimento, trad. di V. Borea, Einaudi, Torino 1973; Id., Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, trad. di R. Federici, Phaidon, Milano 20093; Id., L’eredità di Apelle: studi sull’arte del Rinascimento, trad. di M. L. Bassi, Electa, Milano 2004.

2A cura di S. Benaim, Bibliopolis, Napoli 1985.

3Id., Die Kunstliteratur. Ein Handbuch zur Quellenkunde der neueren Kunstgeschichte, Anton Scroll & Co., Vienna 1924 (ed. it. Id., La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia dell’arte moderna, trad. di F. Rossi, ed. agg. da O. Kurz, La Nuova Italia, Firenze 19672).

4Sulle implicazioni ekphrastiche delle riflessioni di Gombrich, non ci possiamo soffermare. Su questo tema posso rimandare, tuttavia, all’esauriente trattazione di C. Cieri Via, L’eredità di Apelle. Riflessioni ekphrastiche nel pensiero di E. H. Gombrich, in Aa. Vv., L’arte e i linguaggi della percezione: l’eredità di Sir Ernst H. Gombrich, a cura di R. Bösel e M. G. Di Monte, Mondadori Electa, Milano 2004, pp. 107-119.

5Su questo argomento prendo spunto da S. Velotti in Id., La filosofia e le arti. Sentire, pensare e immaginare, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 163-171. Di passaggio è necessario sottolineare come Gombrich scelga, per la sua riflessione, un taglio che, a giudicare dagli esempi e dalle movenze teoriche, mostra la sua appartenenza più alle trattazioni sul gusto che a quelle, in senso classico, storico-artistiche. Questa può rappresentare, forse, per James Elkins un’ulteriore tesi da aggiungere alla sua critica (dal nostro punto di vista discutibile e dai toni piuttosto rigidi) ed al suo ripensamento (rispetto a Id., Stories of Art, Routledge, New York 2002, pp. 57-65, in particolare le considerazioni, senz’altro elogiative, a p. 57) dell’approccio storicoartistico di Gombrich cfr.: http://www.academia.edu/163437/Ten_Reasons_Why_E.H._Gombrich_Was_Not_an_Art_Historian, del quale è disponibile anche una traduzione italiana in http://www.cultorweb.com/Gombr/Gc.html.

6Th. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, pp. 24 s.

7Su questa opposizione Nick Zangwill installa la sua riflessione sulle qualità estetiche dell’opera d’arte e la sua conseguente presa di distanza da Gombrich e Warburg, cfr. Id., Art and Audience pubblicato nel Journal of Aesthetics and Art Criticism, n. 57, 1999, pp. 315-332 (poi in Id., Aesthetic Creation, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 138-159).

8La “echte Menschlichkeit” di Gombrich sembra essere – nelle intenzioni, ma non nei fatti – il negativo dell’“Humanität” fondamento del “Geschmacksindividualismus” per Alfred Baeumler, Das Irrationalitätsproblem in der Ästhetik und Logik des 18. Jahrhunderts bis zur Kritik der Urteilskraft, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19813, pp. IX s.

9Su questo tema (analizzato in una prospettiva estetologica e storico-artistica più ampia) non posso che rimandare agli importanti contributi di M. Di Monte, Il mito dello ‘schema innocente’. Gombrich, Popper e il realismo senza oggetti, in L’arte e i linguaggi della percezione, cit., pp. 43-56; e Arte seconda natura. Ernst Gombrich sulle tracce dell’Homo pictor, in Discipline filosofiche, XVIII, 2, 2008, pp. 143-162.

10Th. W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 36. Per una panoramica di taglio adorniano sul Novecento, si rimanda a G. Di Giacomo, Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, Paradigmi, N. 2, 2010, pp. 87-104.