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MALIA, 1995
Honoka’a

Quando chiudo gli occhi siamo ancora tutti vivi e allora diventa ovvio cosa vogliono da noi gli dèi. La leggenda che raccontano sulla nostra famiglia potrà anche cominciare in quella giornata liquida e azzurra al largo di Kona con gli squali, ma io so che non è così. Abbiamo cominciato prima. Tu hai cominciato prima. Il regno delle Hawaii era stato distrutto da tempo – il respiro delle foreste pluviali e il canto delle verdi rocce sottomarine schiacciati sotto i pugni degli haole, resort sulla spiaggia e grattacieli – ed era stato allora che la terra aveva iniziato a chiamare. Adesso questo lo so grazie a te. E so anche che gli dèi avevano fame di cambiamento e quel cambiamento eri tu. Nei nostri primi giorni ho visto un’infinità di segni, ma non ci ho creduto. Il primo è arrivato mentre io e tuo padre eravamo nudi sul suo pick-up, nella valle di Waipi’o, e abbiamo visto gli spiriti marciare nella notte.

Eravamo scesi nella valle di Waipi’o un venerdì, pau hana, con zia Kaiki che faceva da babysitter a tuo fratello a casa, e io e tuo padre sapevamo entrambi che avremmo usato quella serata senza figli per scopare fino a rimbambirci, solo il pensiero ci elettrizzava e ci stordiva. Come poteva essere altrimenti? Avevamo la pelle scurita dal massaggio del sole, tuo padre ancora con il corpo da giocatore di football, io da giocatrice di basket, e tutti e due vivevamo il nostro amore come il più eccitante dei vizi. E poi c’era la valle di Waipi’o: una profonda fessura di verde selvaggio divisa in due da un fiume brunoargenteo e lucido, poi una lunga spiaggia di sabbia nera che andava a infilarsi nelle spume del Pacifico.

Una lenta discesa sul pick-up Toyota sfondato di tuo padre lungo la strada che dava accesso al fondovalle, tornante dopo tornante, uno strapiombo sul lato destro, asfalto bitorzoluto sotto le ruote, una pendenza tale che l’abitacolo si riempiva del puzzo delle viscere incandescenti del motore.

Poi, in fondo alla valle, una strada tutta scossoni fatta di limo e pozze di fango alte mezzo metro, e infine arrivammo alla spiaggia e parcheggiammo proprio accanto alle uova di roccia nere e screziate che orlavano la sabbia; tuo padre mi fece ridere finché le guance non mi pizzicarono di calore, mentre le ultime ombre degli alberi puntavano lunghe verso l’orizzonte. L’oceano tuonava e sfrigolava. Srotolammo i sacchi a pelo sul cassone del pick-up, sopra il materassino puzzolente di ghiaia che tuo padre aveva steso lì apposta per me, e quando gli ultimi ragazzini se ne andarono – con il brusio pesante dei bassi reggae che si perdeva fra gli alberi – ci spogliammo e facemmo te.

Non credo che tu mi possa sentire mentre ricordo, no, perciò questo discorso non sarà troppo pilau, e comunque mi fa piacere tornare indietro con la memoria. Tuo padre afferrò una manciata dei miei capelli, i capelli che amava, neri e aggrovigliati da hawaiana, e il mio corpo cominciò a incurvarsi ritmicamente contro il suo bacino, e gememmo e ansimammo, schiacciammo l’uno sull’altro i nostri nasi tozzi, poi io mi staccai, mi misi a cavalcioni sopra di lui e mi abbassai di nuovo, e avevamo la pelle così bollente che avrei voluto metterla da parte per tutte le volte che avevo sentito freddo in vita mia, e lui mi passava le dita lungo il collo, la lingua intorno ai capezzoli scuri, con una delicatezza che era una parte di lui che non vedeva mai nessuno, e si sentivano i rumori del sesso e noi ridemmo un po’, chiudendo gli occhi e riaprendoli e chiudendoli di nuovo, e continuammo anche quando il cielo perse la sua ultima luce.

Mentre eravamo stesi sopra i sacchi a pelo, con l’aria fresca che ci asciugava il sudore facendoci pizzicare la pelle, tuo padre si fece serio in viso e si girò su un fianco, dandomi la schiena.

«Hai visto?» chiese.

Non sapevo cosa avesse visto – stavo ancora riemergendo da una specie di nebbia, ancora strofinavo le cosce per sentire il formicolio lì in mezzo, quello che restava della foga oleosa del nostro amore – ma poi tuo padre, di scatto, si tirò su a sedere. Io mi alzai sulle ginocchia, ancora ubriaca di sesso. Urtai con le tette il suo bicipite sinistro e i miei capelli gli sfiorarono una spalla, e nonostante la paura mi sentivo sexy e avrei quasi voluto stringerlo di nuovo a me, lì per lì, alla faccia del pericolo.

«Guarda» sussurrò lui.

«Dài, su» dissi io. «Piantala di fare lo scemo, lolo».

«Guarda» ripeté lui. E io guardai, e quello che vidi mi raggelò.

In lontananza, in cima al versante opposto della valle, era apparsa una lunga fila di luci tremolanti, che si alzavano e si abbassavano muovendosi lungo il crinale. Verdi e bianche, sfarfallanti, saranno state una cinquantina, e guardandole le riconoscemmo per quello che erano: fuochi. Fiaccole. Avevamo sentito parlare degli spiriti che marciavano di notte ma avevamo sempre dato per scontato che fossero solo una leggenda, parte di un inno a ciò che delle Hawaii era andato perduto, fantasmi degli ali’i morti e sepolti da secoli. E invece eccoli lì. A marciare lentamente sulla sommità della collina, diretti alle spalle oscure della valle e a ciò che aspettava i re non morti in mezzo all’umidità e alle tenebre. La fila di fiaccole avanzò pian piano lungo il crinale, brillando a intermittenza fra gli alberi, scendendo e risalendo, finché tutt’a un tratto le fiamme si spensero.

Un gemito forte e gracchiante risuonò per la valle, tutto attorno a noi: un verso come quello che immaginai potesse fare una balena prima di morire.

A me e a tuo padre si strozzarono le parole in gola. In un attimo ci alzammo, scendemmo dal cassone del pick-up e ci infilammo al volo i vestiti con le dita dei piedi che affondavano nella sabbia nera granulosa, saltellando e ansimando, e tornammo dentro, chiave nel blocchetto d’accensione e via, tuo padre tirò il motore al massimo e rifacemmo la strada a tutta velocità, la luce dei fari scivolava sulle rocce, le pozze di fango e le foglie verde acceso, e in ogni momento sapevamo che quei fantasmi erano nell’aria dietro di noi, intorno a noi, pur non vedendoli ne sentivamo la presenza. Il pick-up sobbalzava sul nastro di asfalto smozzicato e pieno di solchi, dal parabrezza si vedevano alberi e cielo e poi di nuovo melma, rimbalzavamo su e giù, era tutto nero e blu tranne i punti su cui si posava la luce dei fari; a tutta velocità, tuo padre sfrecciava in mezzo agli alberi risalendo la lunga strada verso l’uscita. Sbucammo dal fondo della valle così veloci che sotto di noi d’un tratto non si vide più nulla se non le poche macchioline delle luci delle case in lontananza, i contorni dei campi di taro sbiancati dal chiaro di luna.

Fu solo quando arrivammo al punto panoramico che ci fermammo. L’abitacolo era pieno di panico e di meccanica sotto sforzo.

Tuo padre fece un lungo sospiro e disse: «Cristo santo».

Era la prima volta da un sacco di tempo che nominava qualcosa di sacro. E non c’erano più fiaccole, la marcia notturna era finita. Ascoltammo il sangue che ci pulsava nelle orecchie, e ci diceva vivi vivi vivi.

Cose che capitano, è quello che ci dicemmo io e tuo padre, sul momento e poi per molti anni. Alle Hawaii c’era un sacco di gente che aveva visto cose simili: bastava che raccontassimo l’episodio in versione kanikapila a un barbecue sulla spiaggia o a una festa nel lanai sul retro, e venivano fuori tante altre storie del genere.

 

La marcia notturna degli spiriti: tu eri stato concepito quella sera, e per tutti i tuoi primi anni di vita successero cose anche più strane. Gli animali che in tua presenza cambiavano atteggiamento: di colpo si ammansivano, ti accarezzavano col muso e ti formavano un cerchio intorno come fossi uno di loro, poco importava se erano polli, capre o cavalli, era un legame istantaneo e indissolubile. E le volte che ti sorprendevamo nel cortile dietro casa a mangiare manciate di terra, o foglie o fiori, ossessivamente. Andavi ben oltre la curiosità degli altri keiki della tua età. E alcune di quelle piante – ad esempio le orchidee nei cestini appesi al soffitto – fiorivano di colori incredibili, quasi dalla sera alla mattina.

Cose che capitano, continuavamo a dirci.

Ma adesso lo so.

 

Te la ricordi Honoka’a nel 1994, non tanto diversa da oggi? Māmane Street, che aveva su entrambi i lati quegli edifici bassi di legno costruiti ai primi tempi della canna da zucchero, con le porte d’ingresso riverniciate ma all’interno le stesse vecchie ossa. Le autofficine scolorite, la profumeria sempre con gli stessi prodotti scontati in vetrina, il negozio di alimentari. La nostra casa in affitto ai margini della città, con la vernice scrostata e le stanze nude e strette, la doccia aggiunta alla bell’e meglio in fondo al garage. La camera da letto che dividevi con Dean, dove hai cominciato a fare degli incubi confusi, pieni di canna da zucchero e di morte.

Che notti. Venivi zitto zitto a lato del nostro letto, ancora mezzo avvoltolato nelle lenzuola, dondolante e coi capelli sparati in tutte le direzioni, tirando su col naso.

Mamma, dicevi, è successo di nuovo.

Ti chiedevo cosa avevi sognato e tu cominciavi a raccontare, una cascata di immagini: campi neri spaccati e deserti, steli di canna che non spuntavano da terra ma dal petto, dalle braccia e dagli occhi miei, di tuo padre, di tuo fratello o di tutti noi, e poi un ronzio come dentro un nido di vespe – e mentre parlavi quegli occhi non erano i tuoi, non c’eri tu dietro. Avevi solo sette anni, e non sai che cosa ti usciva di bocca. Ma dopo un minuto di questi racconti tornavi in te.

Sono solo sogni, ti dicevo, e tu mi chiedevi di cosa parlassi. Io tentavo di ripeterti a parole mie gli incubi – la canna da zucchero, il raccolto dal corpo della tua famiglia, i nidi di vespa – ma tu non te li ricordavi mai. Era come se ti fossi svegliato un attimo prima con me lì davanti che ti raccontavo la storia di qualcun altro. Gli incubi tornavano ogni mese, poi a distanza di poche settimane, poi ogni giorno.

La piantagione di canna da zucchero esisteva da prima che nascessimo, tutto il nostro lato dell’isola era coperto di campi di canne, da mauka a makai. Sono sicura che fin dall’inizio si era parlato dell’Ultimo Raccolto, ma sembrava che non sarebbe mai arrivato: «Ad Hamakua c’è sempre lavoro» diceva tuo padre, liquidando le voci con sufficienza. Ma poi, poco dopo che i tuoi incubi avevano raggiunto cadenza quotidiana, su Māmane Street arrivarono i clacson baritonali dei camion delle piantagioni, quel pomeriggio di settembre del 1994, e tuo padre era uno degli autisti che li guidava.

Se potessi volare sopra la nostra città e guardarla dall’alto, mi ricorderei la scena così: in città arrivarono gli autoarticolati, molti coi rimorchi fatti di catene penzolanti, che vuoti sembravano il costato di un animale denutrito, e traballando passarono davanti all’Esercito della Salvezza, davanti alle chiese, ai negozi svuotati che un tempo vendevano roba importata di plastica da quattro soldi, alla scuola superiore di fronte a quella elementare, al campo da football-baseball-calcio. Mentre i camion passavano, suonando il clacson, la gente usciva dalla banca e dall’alimentari e si radunava in fila sui marciapiedi, o sulla banchina sterrata delle strade. Anche quelli che rimasero dentro e non uscirono devono aver sentito il gemito dei clacson, il belato dei freni pneumatici, l’inno di un funerale industriale. Era il suono di un vuoto nuovo in arrivo. Dato che non sarebbero mai più tornati nei campi, i camion erano stati lucidati e brillavano come specchi, senza più un briciolo della sporcizia del lavoro, e a tutte le famiglie filippino-luso-nippo-cino-hawaiane allineate lungo le strade le cromature rimandavano lo sfuggente riflesso argenteo dei loro visi marrone scuro e della nuova verità che vi si stava sedimentando sopra.

Noi eravamo parte di quella folla, io, te, Dean e Kaui. Dean se ne stava immobile e rigido come un soldatino. A nove anni aveva già le mani belle grandi, e ricordo la superficie asciutta del suo palmo stretto al mio. Kaui vagava distrattamente fra le mie gambe, sentivo il solletico vaporoso dei suoi capelli contro le cosce, la pressione di qualche dito. L’altra mano la stavo dando a te, e a differenza di Dean, che aveva le dita tremanti di sconcerto e di rabbia e il collo rigido, e a differenza di Kaui con le sue giravolte trasognate da bambina di quattro anni, tu sembravi completamente in pace.

Solo adesso riesco a capire cosa volevano dire quei sogni: di chi era la morte, dei nostri corpi o della canna da zucchero. In fondo non ha avuto importanza. Avevi visto arrivare la fine prima di tutti noi. Quello fu il secondo segno. C’era una voce dentro di te, no?, una voce che non era tua, tu eri solo la gola. Quante cose sapeva, e stava cercando di dirti – di dirci; ma noi non la ascoltammo, almeno in quel momento.

Cose che capitano, dicemmo.

I camion di canna da zucchero svoltarono subito prima dell’alimentari, imboccarono la salita ripida che porta fuori città e non tornarono mai più.

Pochi mesi dopo la chiusura della piantagione già faticavamo ad arrivare a fine mese. Tutti erano in cerca di lavoro, e tuo padre non faceva eccezione. Girava in macchina per ore da una parte all’altra dell’isola, inseguendo una paga che era evanescente come un obake: da un momento all’altro scompariva. La domenica mattina, nella luce arancione che si rifletteva sui nostri vecchi pavimenti di legno, stava seduto al bancone della cucina con in mano la sua tazza preferita, il caffè Koma spandeva vapore e lui faceva scorrere le dita lungo le pagine degli annunci di lavoro, muovendo le labbra come se recitasse una litania. I giorni in cui trovava qualcosa, ritagliava lentamente l’inserzione e prendendola solo con la punta delle dita la infilava in una busta marroncina che teneva accanto al telefono. Gli altri giorni, il rumore che faceva il giornale quando lo accartocciava ricordava quello di uno stormo di uccelli che si alza in volo.

Ma a tuo padre neanche quello toglieva il sorriso: niente poteva riuscirci. Era così anche prima, quando la situazione era più stabile, quando voi avevate ancora l’hanabata al naso, le labbra incrostate di bavetta e imparavate appena a camminare, e lui vi tirava in aria facendovi svolazzare i capelli e socchiudere gli occhi dalla felicità, e voi cacciavate gli strilli più allegri. Vi lanciava il più in alto possibile – mirando, diceva, alle nuvole – e ogni volta che ripiombavate giù per me era un tuffo al cuore. La devi smettere, gli dicevo, specie quando lo faceva con Kaui.

Non li lascio cadere, diceva. E poi se uno si rompe l’osso del collo possiamo sempre farne un altro.

Altre volte al mattino rimaneva nel letto fino a tardi – in genere era uno che si alzava presto, e aveva continuato a farlo anche dopo che i camion della canna da zucchero si erano fermati – e mi si raggomitolava vicino e cominciava a ridacchiare sotto i baffetti sottili, e io cercavo di scappare in fretta e furia da sotto le coperte prima che lui mollasse una bella scorreggia e mi intrappolasse insieme a lui dentro la caverna di puzza, l’odore greve, formaggioso e fagioloso, della roba che gli bruciava nell’intestino.

È quasi meglio quando esce che quando entra, eh?, diceva, e ridacchiava un’altra volta, come se fossimo ancora a scuola a cazzeggiare alla quinta ora. Mi ricordo che una volta dopo questo scherzetto della scorreggia sotto le coperte mi fece la stessa domanda, e io risposi: Non lo so, fammi provare, e gli infilai un dito dentro i boxer, spingendoglielo appena nel buco del culo, e lui cacciò uno strillo e si scansò di scatto dicendo: Eh no, così no, così è troppo, e io scoppiai a ridere, ridere, ridere che non la smettevo più. C’era qualcosa in tuo padre e in me, in noi, nel nostro modo di provocarci, che si adattava bene ai momenti di silenzio, tipo quando in bagno ci guardavamo allo specchio lavandoci i denti, o quando studiavamo mille incastri per prendere a turno l’unica macchina che avevamo (quando eri nato tu avevamo dato via il pick-up scassato e preso un SUV altrettanto scassato) e portarvi alla mostra dei lavoretti di scienze, agli allenamenti di basket, agli spettacoli di hula.

Ma se avessimo potuto versare tutti i soldi che avevamo in un bicchiere, quel bicchiere sarebbe stato mezzo vuoto. Tuo padre ebbe la fortuna di trovare un lavoro part-time in uno degli hotel, come volevano tutti, ma non riuscì a farsi dare il tempo pieno, o un posto al ristorante con le belle mance: lavorava solo nelle stanze, e tornando a casa mi raccontava dei piatti quasi intonsi di tonno Ahi lasciati sulla terrazza e spolpati da una frotta di storni e dei vulcani di vestiti ammucchiati sul pavimento delle stanze. Quegli haole si portavano due cambi per ogni giorno di vacanza, diceva. Due al giorno.

E appena arrivato, o almeno così ci parve, il lavoro in albergo subito sparì. Ristrutturazione stagionale. E all’impianto di inscatolamento delle noci mi tagliarono i turni con l’accetta. Le nostre cene diventarono più semplici, e tanti saluti alla piramide alimentare. Tuo padre faceva tutto il possibile, un lavoretto da imbianchino qui, uno da giardiniere lì, un paio di giorni chino sui campi nella fattoria di un amico. Io rimediai qualche turno di sera al Wipeouts Grill. Tornavamo a casa con la schiena a pezzi, le gambe doloranti e la fronte che martellava, ci incrociavamo e ci lasciavamo in consegna voi bambini quando il turno di uno finiva e quello dell’altro cominciava. Ma sul calendario di turni ne comparivano sempre meno, finché all’improvviso ci ritrovammo a casa, davanti alla calcolatrice, a fare il conto di quanto tempo ci restava.

«Così non ce la possiamo fare» mi disse tuo padre. Era sera tardi, voi eravate tutti andati a dormire. In fondo alla strada i cani abbaiavano, ma era un rumore leggero e noi eravamo abituati. La luce dorata della lampada da scrivania ci faceva sembrare la pelle ricoperta di miele. Tuo padre aveva gli occhi umidi. Non voleva guardarmi in faccia, e mi resi conto che era tanto tempo che non gli sentivo fare una battuta. Fu allora che ebbi davvero paura.

«Quanto?» chiesi.

«Forse due mesi, poi siamo nei guai» disse.

«E a quel punto?» chiesi, anche se sapevo la risposta.

«Chiamerò Royce» disse. «È già da un po’ che ne parliamo».

«Royce vive a O’ahu» dissi io. «Sono cinque biglietti aerei. Ed è tutta un’altra isola, una città grande. Le città grandi sono costose». Ma tuo padre era già in piedi che si avviava al bagno. Vidi accendersi la luce, poi partì il ventilatore, poi si sentì l’acqua che sibilava e schizzava dentro il lavandino, i risucchi e gli spruzzi che faceva lui prendendo fiato mentre si lavava la faccia.

Avrei voluto rompere qualcosa, per quanto era tutto così immobile e silenzioso. Tuo padre tornò in camera.

«Allora, ho pensato» disse, «che venderò il mio corpo. L’okole ai mahu e il boto alle signore. Lo farei per noi».

«Lo farei per te» proseguì, dopo un attimo di pausa. Si era tolto la maglietta e si guardava nel nostro lungo specchio. «Dài, cioè, guarda qui. Guarda quanto sesso che c’è dentro questo corpo».

Io ridacchiai e lo abbracciai da dietro. Misi le mani aperte sopra i suoi pettorali e ignorai il fatto che stavano cominciando ad afflosciarsi, a penzolare un po’. «Io forse dei soldi li pagherei, per questi» dissi.

«Quanto?». Tuo padre sorrise allo specchio.

«Be’» dissi io, «il prezzo cosa comprende?». Feci scivolare giù la mano, gliela infilai sotto la cintura.

«Dipende» rispose lui.

«Mmm. Quello che sento vale due o tre dollari».

«Ehi!». Mi tirò fuori la mano.

«Guarda che ti pagherei al minuto» dissi, scrollando le spalle, e tuo padre sbuffò. Ma poi rimase zitto per un attimo.

«Qua ci toccherà vendere ben più del mio cazzo» disse.

Ci sedemmo entrambi sulla sponda del letto.

«A Kaui e Nainoa facciamo mettere i vestiti vecchi di Dean» dissi. «E a scuola hanno la mensa gratis».

«Lo so».

«Cos’abbiamo mangiato ieri a cena?» chiesi.

«Saimin e Spam1».

«E la sera prima?».

«Riso e Spam».

Tuo padre si alzò di nuovo in piedi. Si avvicinò alla scrivania e ci si chinò sopra, ci appoggiò le mani come se stesse per spingerla da una parte o dall’altra.

«Quindici dollari» disse.

Si alzò, sospirò, appoggiò le mani sul cassettone. «Venticinque dollari».

«Quaranta» dissi io.

«Venti». Lui scosse la testa.

E continuò così, toccando ogni cosa che vedeva: una lampada da sette dollari, una cornice da due, un armadio pieno di vestiti da cinque, la somma delle nostre vite non arrivava a quattro cifre.

 

E io non sono mai stata brava in matematica ma vedevo cosa c’era alla fine di tutto questo, c’erano la corrente a bassa tensione, le bollette rateizzate e le docce fatte coi secchi. Quindi tre giorni dopo tutti quei calcoli vi portammo a scuola e io mi misi a bordo strada, a fare l’autostop col coltello da caccia di vostro padre nella borsa, per arrivare gratis a Hilo, a cinquanta chilometri di distanza, e andare sotto la pioggia afosa all’Ufficio per il Diritto alla casa della Contea di Hawaii a presentare la richiesta di sussidio. «Allora, cosa la porta qui da noi oggi?» chiese la donna al bancone, in tono non antipatico, e con quelle braccia scure e piene di lentiggini, le pieghe di pelle sotto le ascelle che sbucavano dalla camicia senza maniche, avrebbe potuto essere mia sorella, era mia sorella.

«Cosa mi porta qui» ripetei. Se avessi avuto la risposta non sarei stata lì, a svaporare l’umidità di Hilo mentre imploravo dei voucher per pagare l’affitto.

 

E quella era la situazione in cui ci trovavamo quando arrivò il terzo segnale. Non potevamo risparmiare più su niente. Ma Royce ci era venuto in aiuto, con una semplice telefonata a tuo padre e una frase: «Mi sa che ho una cosa per te, cugino» e all’improvviso tutto puntava verso O’ahu. Già avevamo venduto un po’ della nostra roba ma ne vendemmo ancora, ammucchiandola sul bordo della strada a Waimea, accanto al parco giochi, di fronte alla chiesa cattolica dove lungo il marciapiede crescono gli alberi e dove bisogna passare per forza per andare verso la spiaggia. Ci ritrovammo in tasca abbastanza soldi, fra le cose vendute, l’aiuto del banco alimentare e l’Ufficio per il Diritto alla casa, da avere un salvagente: quanto bastava per comprare cinque biglietti per O’ahu senza svuotare del tutto il conto in banca.

Tuo padre aveva un piano su come spendere il resto dei soldi: una minicrociera su una barca col fondo di vetro al largo di Kona. Ricordo che gli dissi che no, non potevamo fare così, dovevamo risparmiare fino all’ultimo centesimo per O’ahu. Ma lui chiese che razza di padre sarebbe stato, se non era in grado di dare ai suoi figli un po’ di sollievo in un momento difficile.

«Meritano più di quello che hanno adesso» disse, ancora me lo ricordo, «e dobbiamo ricordargli che le cose miglioreranno».

«Ma non ci serve una crociera turistica» dissi. «Non siamo una famiglia di quel tipo».

«Be’» disse lui, «magari una volta tanto voglio che la siamo, una famiglia di quel tipo».

Io non seppi cosa rispondere.

E così Kailua-Kona, Ali’i Drive, muretti di pietra e marciapiedi serpeggianti di fronte alle dune di sabbia zuccherina e all’oceano luminoso, poi tutti i negozietti di cianfrusaglie per turisti che portano come una scia di mollichine agli hotel del lungomare. E fermi sul molo di Kona io e tuo padre, ciascuno con in mano un biglietto per il giro in barca più quelli per voi bambini, a guardare la marea che saliva e tutte le barche lucide e pulite che rollavano, beccheggiavano e luccicavano a ogni onda. Il molo era lungo, ricoperto di asfalto e irto di canne da pesca, e verso la metà si era piazzato un gruppo di ragazzini del posto che si tuffavano in acqua a ripetizione, piombando come bombe ciascuno in mezzo alla spuma di quello che era saltato prima, strillando chee-hoo e battendo i piedi bagnati sugli scalini di legno che riportavano sul bordo del molo.

Poi partimmo dal molo di Kona, seduti su un lungo divanetto di velluto a bordo della Hawaiian Adventure, un trimarano come quelli che vedevamo sempre sfilare nella foschia al largo di Kona, specie al tramonto, barche con gli scivoli sul retro e turisti rossi come aragoste che chiacchieravano sui ponti coperti. Ma questa sulla parte centrale della chiglia aveva un vetro spesso da cui si guardava nel mare, e mentre i motori producevano una leggera vibrazione che attraversava continuamente il ponte, l’acqua passò da una specie di verdeazzurro a un colore più scuro, quasi viola, e i coralli si fecero più spessi e nodosi, qua e là spuntavano dita e sbocciavano cervelli, insieme ai ventagli rossi e appuntiti degli anemoni di mare che ondeggiavano come se la marea fosse un vento. Sentivo l’odore del sole che riscaldava la vecchia salsedine accumulata sui fianchi della barca, e il pungente sapore troppo dolce dello sciroppo Malolo alla frutta nel punch, e il puzzo acre dei combustibili diesel che ruttavano dai motori in azione.

Rimanemmo perlopiù in coperta, tutti e cinque seduti nella prima fila di sedili di velluto, a guardare oltre il fondo di vetro della barca, io che raccontavo storie su quale animale corrispondeva a quale divinità, su quali avevano salvato e quali avevano insidiato i primi hawaiani, mentre tuo padre scherzava sul fatto che i suoi avi filippini mangiavano soltanto gattucci o quei pesci neri con il naso lungo, e il sole scendeva a far capolino sotto il tetto della barca, e il borbottio del motore scuoteva i sedili. Ero in un posto caldo e lento, con Kaui che mi dormiva in braccio, quando mi svegliai senza sapere perché.

Tu, Dean e tuo padre non c’eravate, nella cabina panoramica non c’era proprio più nessuno. Sentii delle voci dal ponte. Mi tolsi Kaui dalle gambe – si lamentò – e mi alzai. Le voci si limitavano a dare brevi ordini: adesso facciamo una virata, continuate a indicare, prendi il salvagente. Ricordo che i suoni sembravano venire da dentro una caverna, per quanto me li sentivo lontani e attutiti in testa.

Presi per mano Kaui. Si stava ancora lamentando e stropicciando gli occhi, ma me la portai su per le scale dalla cabina panoramica al ponte di prua. Un bianco impossibile. Mi riparai gli occhi e li strizzai così forte che mi sentii tirare le labbra e le gengive. C’era gente radunata lungo il parapetto del ponte bianco e lucido. Guardavano verso il mare. Indicavano.

Ricordo che vidi tuo padre e Dean. Erano a una decina di metri da me e Kaui, e non capivo perché tuo padre stesse cercando di tirare via Dean dal parapetto, e Dean urlasse Lasciami e Ce la faccio a raggiungerlo. Uno dei mozzi di bordo, in polo bianca e cappellino con la visiera, lanciò in aria un salvagente rosso che volò in cielo roteando, con la fune che gli sferzava dietro.

Fu allora che corsi verso tuo padre? E lui era riuscito a staccare Dean dal parapetto? Stavo stringendo la mano di Kaui tanto forte da farle male? Immagino di sì, ma non riesco a ricordarmelo. Mi ricordo solo che ero accanto a tuo padre, su quel ponte bianco scintillante, a fare su e giù insieme alle onde, e tutta la nostra famiglia era lì, tranne te.

La tua testa ondeggiava come una noce di cocco in mezzo al mare. Eri sempre più piccolo e lontano, e l’acqua sibilava e prendeva a schiaffi la barca. Ricordo che nessuno parlava, tranne il capitano, che dall’alto diceva: «Continuate a indicare. Stiamo virando. Continuate a indicare».

La tua testa sparì sott’acqua e l’oceano tornò a essere piatto e pulito.

C’era una canzone che veniva dall’impianto stereo della barca. Una cover hawaiana di More Than Words sdolcinata e tintinnante, che ancora oggi non riesco ad ascoltare, anche se una volta mi piaceva. I motori brontolavano. Il capitano parlava dal timone al ponte di sopra, dicendo a Terry di continuare a indicare. Terry era il marinaio che aveva lanciato il salvagente, che ora galleggiava vuoto tra le onde, sempre più lontano da dove avevo visto la tua testa.

Ero stanca di sentirmi dire di indicare, di sentirmi dire di aspettare, perciò dissi qualcosa a Terry. Fece una faccia strana. Poi gli vidi muovere la bocca sotto i baffi, parole rivolte a me. E di nuovo la voce del capitano dall’alto. Anche tuo padre cominciò a parlare, e tutti e quattro stavamo dicendo qualcosa. Credo che conclusi il mio discorso con una frase alla quale Terry sobbalzò, lo vidi arrossire sotto gli occhiali da sole. Mi vidi riflessa in quelle lenti a specchio, con la pelle più scura di quanto pensassi, il che ricordo mi fece contenta, e le spalle larghe da giocatrice di basket, e gli occhi che avevo smesso di strizzare. Dopo un attimo avevo i piedi sul parapetto, e Terry inarcò le sopracciglia e fece per dirmi qualcosa. Cercò di afferrarmi – mi sa che ci provò anche tuo padre – ma mi tuffai nel vuoto immenso dell’oceano.

Non stavo nuotando da molto quando mi passarono sotto gli squali. Li ricordo all’inizio come sagome scure, poi l’acqua mi raccontò del loro peso, sentii la spinta della loro scia contro le gambe e la pancia. Mi superarono, e tutte e quattro le loro pinne affiorarono in superficie come coltelli in cima a onde scure, tagliando l’acqua verso di te. Quando raggiunsero il punto dov’era prima la tua testa, si rituffarono sotto. Cominciai a nuotare verso di loro, ma erano così lontani che era come nuotare verso il Giappone. Misi la testa sott’acqua per provare a vedere qualcosa. Non c’era niente se non una vaga oscurità e spuma dov’erano gli squali. Altri colori scuri. Strisce di poltiglia rosa che si alzavano in mezzo alla spuma: sapevo che quella sarebbe stata la prossima cosa che avrei visto.

Non avevo più fiato. Risalii in superficie e inspirai ossigeno fino a strozzarmi. Se c’era rumore, se strillai qualcosa, se la barca era più vicina, non me lo ricordo. Tornai sotto. L’acqua dov’eri tu era solo schiuma. I corpi degli squali si agitavano, si tuffavano, ritornavano su, sembrava una specie di danza.

Quando risalii di nuovo a prendere fiato tu eri a galla, sdraiato di fianco, come una bambola di pezza in bocca a uno degli squali. Ma lo squalo ti teneva con delicatezza, capisci? Ti teneva come se fossi fatto di cristallo, come se fossi il suo piccolo. Ti riportarono dritto da me, lo squalo che ti portava teneva la testa sopra il livello dell’acqua, come un cane. I musi di quelle bestie... ti dico la verità: quando si avvicinarono chiusi gli occhi, ero convinta che stessero venendo ad attaccare anche me, e se tutti gli altri stavano strillando e chiamandomi, come immagino, e se io stavo pensando qualcosa, davvero non me lo ricordo; ricordo solo il buio dei miei occhi chiusi e le mie preghiere senza voce.

Gli squali non mi toccarono. Passarono di nuovo sotto di me, intorno a me, con una scia che sembrava un vento forte. Poi riaprii gli occhi. Tu eri lì accanto alla barca, abbracciato a un salvagente. Tuo padre si chinò per afferrarti – mi ricordo che mi arrabbiai per quanto lo fece lentamente, come se avesse tutto il tempo del mondo, e avrei voluto dirgli: Ma pensi di essere un cazzo di operaio in pau hana? Prendi nostro figlio, nostro figlio che è vivo – e tu stavi tossendo, il che significava che respiravi, e nell’acqua non c’era nessuna macchia rossa.

Non era una di quelle cose che capitano.

No, figlio mio. Ora sappiamo che non lo era per niente. Ed è stato allora che ho cominciato a credere.

 

 

 

1 Si tratta di due piatti tipici della cucina hawaiana: il saimin è una minestra di noodles e altri ingredienti base di varie cucine asiatiche, mentre spam sta per spiced ham, un tipo di carne in scatola di larghissimo consumo alle Hawaii. [Tutte le note sono della Traduttrice.]