E quindi tipo per tutto quell’anno fu come vivere di nuovo al limite della leggenda, come dopo la storia degli squali, ma ancora di più. L’ennesimo ragazzino deficiente si fa saltare la mano giocando con i botti di Capodanno, come succede sempre. Solo che questo non finisce come tutti gli altri. Blessing disse che Keahi disse che quella notte Skyler e gli altri andarono al pronto soccorso. E i dottori tolsero la fasciatura dalla mano che gli era esplosa. Puliscono il sangue, ok?, e sotto non ci trovano altro che pelle, pulita, intatta. La mano perfetta come se non avesse mai scherzato col fuoco.
Oddio. E ovviamente, se Keahi lo stava dicendo a Blessing, significava che ormai la notizia era arrivata pure tipo in Arabia Saudita. Storia vecchia proprio. Keahi era capace di parlare dell’invenzione della ruota come fosse la novità del momento.
E invece la gente arrivò piano piano. In qualche modo la voce non si sparse troppo. Venivano quelli del vicinato, ogni tanto. Regolarmente, ma non troppi. Qualche zietta del posto coi capelli come appena uscita dal letto, col figlio di due anni appresso, malato di diabete, che fa: Abbiamo sentito dire certe cose su Nainoa. Magari ci può aiutare? O il tizio che venne un’altra volta, hapa coreano credo, con una camicia taglia small tutta tirata su un torace taglia large, e si grattava il braccio, e diceva che aveva il cancro al quarto stadio fino alle dita dei piedi. Magari tuo figlio mi può aiutare?
Le prime volte mi sa che mamma non sapeva bene cosa fare, stava solo lì e ascoltava. Con le sopracciglia raggrinzite dalla tristezza li faceva entrare, quelli che venivano a parlare, e andava a cercare Noa nella stanza sua e di Dean. Poi li accompagnava dentro la stanza, e poco dopo lei usciva.
«Ha detto che ci riesce solo se li lascio soli» disse la prima volta.
E dopo un po’ quelli venivano via. Non lo so cosa gli faceva Noa, so solo che quando se ne andavano praticamente ballavano il reggae. Avevano il passo tutto elastico, tutto molleggiato. E gli occhi tranquilli, diversi da prima. Quindi qualcosa sistemava di sicuro.
E ovviamente quelli continuavano a venire. Non troppi, ma regolarmente. Mai una folla.
Una volta vidi questo: arriva una signora, parla di tumore allo stadio iniziale, roba così, e poi dopo la visita, mentre viene via, si ferma in cucina. Dove stava mamma. E le molla tutti ’sti soldi in contanti. Pensavo che mamma si sarebbe stupita, della serie «non potrei mai accettare». Invece per niente. Annuì e se li prese senza problemi, come se stesse alla cassa del supermercato e quella fosse una cliente che pagava la spesa.
Io e Dean e Noa non siamo mica stupidi, lo sapevamo che mamma e papà avevano sempre un sacco di debiti. Sempre al telefono a chiedere proroghe sui pagamenti delle carte di credito o sull’affitto. A casa nostra era diventata una specie di preghiera: Padre nostro che sei nel recupero crediti, sia santificato il tuo pagamento. Fino tipo alla quarta elementare pensavo che tutte le famiglie facessero la festa dell’affitto, invitando gli amici per fare una colletta. Poi un giorno ne parlai in classe e alla maestra vennero tipo gli occhi lucidi. Alla fine dell’ora mi fece delle domande.
Se mi serviva aiuto, questo mi chiese, con la faccia triste-seria. Se a casa andava tutto bene.
E io risposi: «Ma tanto tu fai la maestra».
E lei: «Be’, e che vuol dire?».
E io: «Fai la maestra. Come ci aiuti, ci dividiamo i buoni pasto dell’assistenza sociale?».
Ma ora che c’era questa gente che veniva a trovare Noa, a casa nostra non si compravano più i vestiti da Ross Dress for Less. Facemmo pure tipo una gita di famiglia al centro commerciale, a Pearlridge. Ognuno di noi si scelse delle cose da Gap e da Foot Locker. E a volte a casa per cena c’era pure il tonno Ahi.
Mi sa che mamma disse a tutti che pure noi avevamo una vita, in famiglia, e non è che potevano passare a trovarci quando gli pareva. E sul serio, la gente le diede retta. Fu proprio uno di quei momenti che ti fanno dire Per fortuna viviamo alle Hawaii: non venne più nessuno dopo l’ora di cena, restavano solo mamma e papà a tavola a fare i conti, con la busta di soldi. E poi Dean tornava dalle sue partitelle al campetto di basket, e lo sentivamo arrivare dal tamp tamp della palla sul marciapiede, e i rimbalzi della palla probabilmente riflettevano quello che aveva dentro, tutto un sussultare di gelosia.
Una sera di quelle andai nella stanza di Noa. Saranno stati quattro mesi da quando la gente aveva cominciato a venire a trovarlo. Stava sdraiato sul letto, con le braccia flosce che ricadevano ai lati del letto. Guardava il soffitto, respirava piano.
«Ehi» gli dissi.
Fece un cenno con la testa. Nient’altro.
«Tutto bene?» gli chiesi. E lui si girò dall’altro lato, verso il muro. Il che mi fece arrabbiare. Perché era chiaro che non andava tutto bene per niente, ma pareva che nessun altro glielo chiedesse mai. Ed era pure chiaro che lui voleva che glielo chiedessimo, e io proprio quello stavo facendo. «Vabbè, come ti pare» gli dissi, e iniziai a richiudere la porta. Però lui disse qualcosa. Ovviamente. Proprio mentre la porta si stava per chiudere.
«Cosa?» gli chiesi. Rientrai nella stanza. Poster di basket e rapper famosi dal lato di Dean, robot e tizi con la spada abbracciati a principesse tettone dal lato di Noa. «Se te lo dicessi non capiresti» disse.
Avrei dovuto dargli uno schiaffo. «Vedo che purtroppo il nuovo re Kamehameha non ha tempo di parlare con una misera abitante del villaggio» gli dissi.
«Che intendi?» mi chiese.
«Sei tu il re» risposi io. «Dimmelo tu».
«Guarda che non me lo sono andato a cercare, tutto questo» disse, tirandosi su a sedere. Lo fece sembrare chissà che sforzo, alzarsi. «E poi tu che ne sai? Non lo sai com’è. Nessuno di voi lo sa».
Oddio. Pareva proprio che non si rendesse conto del tono che aveva. «Quello che so è che te ne vai in giro con la puzza sotto il naso come se io e Dean neanche vivessimo qui» dissi. Il che era vero. Tipo, mamma e papà non gli chiedevano mai di dare una mano in casa, perché aveva bisogno di riposo. E a volte lui e mamma uscivano in macchina per fare due chiacchiere, però succedeva all’ora di cena, e allora io e Dean “per premio” ci beccavamo i maccheroni precotti scaldati da papà. E giuro che quando mamma e Noa tornavano si sentiva il profumo del Rainbow Drive-in o di Leonard’s Bakery, tipo.
«Ci sono...» cominciò Noa. «È la mia testa. Ci sono duemila cose dentro, non si fermano mai».
«Tipo?».
Mi chiese se sapevo di cosa campavamo.
Dissi di sì: mamma e papà si facevano il culo, ma le cose almeno andavano meglio di quando eravamo su Big Island, dopo che aveva chiuso la piantagione di canna da zucchero. E chiaramente adesso pure quello che faceva lui ci stava portando dei soldi, certo.
Noa si stropicciò la faccia. Forte. Come ci fosse qualcosa che non riusciva a lavare via. «Lo vedi, è questo che dicevo, non lo capisci. Quando dico “noi” non intendo me e te e mamma e papà. “Noi” vuol dire le Hawaii. Forse pure di più delle Hawaii».
«Ok» dissi. «E tu con questo che c’entri?».
«È quello che sto provando a capire». Alzò le spalle. «Mi sa che è compito mio sistemare le cose. Ecco il motivo di tutta questa storia».
Strinsi i pugni e li riaprii. Strinsi e riaprii. «Cioè, compito solo tuo?» chiesi.
Restò in silenzio. Si vedeva che era stanco, sfiancato come i cavalli di Waipi’o, quelli che cavalcavamo e di cui mi ricordo solo l’odore e la sensazione di starci sopra. Tutta la terra che scorreva sotto i loro muscoli al galoppo. Quello era il loro compito: correre. Ma poi dopo un bel po’ che correvano restavano tipo svuotati, mi spiego?, esausti. Non riuscivano più a fare l’unica cosa che in teoria dovevano fare. «Sì» disse. «Compito solo mio».
E ok, d’accordo, era stanco. E non era una situazione facile, perché davvero mi dispiaceva per lui, però come al solito stava provando a far sentire in colpa me: il fatto che stesse così, e che io non potessi sistemare nulla, e che lui fosse speciale, tutto questo era colpa mia. Lo faceva spesso con la gente. E funzionava, di solito, pure con me. Però quella volta no, perché l’unica cosa che sentii nelle sue parole fu quanto gli importava di me e Dean: niente. Perché pensava di essere speciale.
Una parte di me gli credeva. Ma un’altra parte no. Me ne andai dalla sua stanza come un cane randagio preso a calci. I piedi con cui camminavo non mi sembravano i miei. La mano sulla maniglia non era la mia. Forse sarebbe davvero diventato il Superman hawaiano, come pensavano mamma e papà. Avrebbe sistemato le isole e protetto la nostra famiglia. Ma non aveva importanza. In quella storia non c’era posto per me.
Tornata in camera mia, la pila di libri sulla scrivania, elementi di algebra, biologia e inglese. Non era l’unica cosa che avevo in mente di fare, ma fu la prima che vidi. A scuola potevo prendere la media del sette con una scorreggia. Ma non mi bastava, non mi bastava più.
Mi misi al lavoro.
E a quanto pare non ero solo io a pensarla così, ok? In Dean era cambiato qualcosa dopo Capodanno, soprattutto dopo che la gente aveva cominciato a venire da Noa. Quasi tutti i giorni Dean passava da casa solo per mollare lo zaino e cambiarsi e poi usciva, palleggiando sul marciapiede in direzione del campetto, col suono che pian piano si affievoliva. E a volte senza farmi vedere ci andavo anch’io, seguendolo da lontano. Al campetto sfidava ragazzi dell’ultimo anno di liceo, studenti di college tornati a casa per le vacanze. Dean in palleggio, le sue finte, i suoi canestri in sottomano. La danza delle sue ginocchia. Prendeva la palla e partiva dritto contro il petto di quei ragazzi grandi, come un toro in un’arena, come le foto che avevo visto della Spagna in estate: il marrone e il rosso e le lame al sole. Scommetto che gli altri al parco lo consideravano soltanto una testa calda, ma io lo sapevo contro cosa si lanciava davvero in quei momenti.
A basket era già bravo di suo. Migliorò ancora.
Io a scuola avevo già buoni voti. Migliorai ancora. Un sacco di gente forse direbbe che già dovevo essere contenta di esserci entrata, alla Kahena Academy. Be’, certo, ma a me non bastava. In fondo c’era già Noa, lì. Sempre prima di me, sulle scale e nei corridoi. Sui campi sportivi e sui libri di testo. Ovunque andassi, lui c’era stato, ero sempre la sorella di Noa, quello degli squali, dicono che fa cose assurde.
E magari tornavo a casa ancora una volta con il massimo dei voti in un compito in classe, e mamma e papà mi sorridevano e mi accarezzavano la schiena. Ma glielo vedevo negli occhi che non era la stessa cosa di quando Noa usciva dalla sua stanza dopo l’ultimo consulto della giornata. Praticamente saltavano sopra i mobili per andargli incontro. Per toccarlo e fargli le coccole e portargli un bicchiere d’acqua o uno snack prima di cena.
A quel punto pensai che veramente non contava più nulla quello che facevamo io e Dean. E invece avevo torto. Perché quando a scuola ricominciò il campionato di basket, Dean ormai era così forte che a casa si dicevano frasi intere solo su di lui, senza che Noa venisse neanche nominato. Tipo «un talento da Division One» o «di sicuro tra i migliori giovani dello stato». E di colpo a tutta la famiglia toccava andare a ’ste partite di basket del liceo. Io lo odiavo, il basket. («Ti avevo detto di prepararti» faceva mamma, quando entrava nella mia cameretta e mi trovava ancora sul letto in mezzo ai libri, coi miei vestiti boro-boro. E io: «Ma quello gioca tipo due volte a settimana!». E mamma: «È tuo fratello» come se fosse una spiegazione. Come se fossi stupida. E io sbuffavo e dicevo: «Quanto dura ’sto campionato di basket? Per ogni giorno che spreco ad andare alle sue stupide partite mi dovresti dare il permesso di passarne uno a casa di Crisha». E mamma diceva: «Kaui» e scuoteva la testa, «fai la brava».) E ci toccava sederci in cima agli spalti che puzzavano di compensato e di popcorn, con tutte ’ste ragazzine starnazzanti con gli orecchini a cerchio e le zeppe. Un caldo boia sotto le luci, le chiappe sulle panche appiccicose delle tribune, e giù in campo dei ragazzi sudati che giravano ansimando uno intorno all’altro e guardavano una palletta cadere in una retina. E la sirena che suonava per i time out, o quello che erano. E adulti tutti seri che strillavano a dei ragazzini. E ad altri adulti.
Noa pure era tutto preso dalle partite, e strillava fino a perdere la voce, e saltava e sbatteva contro mamma e papà. Secondo me Noa avrebbe solo voluto che tornasse tutto come prima, quando io, lui e Dean facevamo certe lotte assurde, tutti aggrovigliati, fra le gomitate e la puzza di calzini, tentando una presa al braccio o uno strangolamento da dietro. Ci arrabbiavamo e ridevamo allo stesso tempo, e ci facevamo male quanto bastava perché si capisse che ci volevamo solo bene. All’epoca in cui la storia degli squali era quasi solo una storia, e sembrava che il tutto reggesse. Scommetto che Noa pensava che tifando abbastanza magari sarebbe riuscito a far tornare quell’epoca lì.
E pure mamma e papà: si vedeva. Gli strilli, l’eccitazione. Avevano idee sul futuro di Dean proprio come avevano idee sul futuro di Noa. E quindi, ecco: Nainoa stava diventando qualcuno, e Dean stava diventando qualcuno, e solo io ero invisibile. Ma pure io stavo diventando qualcuno. Giuro. Certo, non se ne accorgeva nessuno, ma che importa? Sentivo delle cose dentro (tipo quando per un’esercitazione di tecnica ci dissero di costruire un ponte con gli stuzzicadenti, e io mi fregai due scatole di stuzzicadenti in più e mi misi a studiare le travature reticolari e i ponti strallati, e alla fine il mio ponte riusciva a reggere due mattoni in più di tutti gli altri… o quando a scuola fecero una gara di sopravvivenza, e io capii come trasformare un telone di plastica in una piccola tenda, e mi inventai come filtrare l’acqua con una maglietta, e alla fine fui quella che riuscì a sopravvivere più a lungo… ogni volta che succedeva così, sentivo qualcosa dentro di me crescere, crescere forte), e sempre di più mi sentivo in grado di fare qualsiasi cosa volessi. Se lo volevo davvero.
Ma poi, oddio. Poi tutto cominciò a sbloccarsi. Fu un giorno che c’era un’altra di quelle partite di basket. Dean era stato preso in prima squadra ed erano le amichevoli pre-stagione, una cosa così. Noi lassù sugli spalti, e il tempo sul cronometro che a malapena cominciava ad avvicinarsi all’intervallo, e io pensavo solo: Dio mio, se devo restare qua un’altra ora a battere le mani giuro che...
«Io vado al bagno» dissi a mamma. A stento mi guardò. Che era perfetto, ok?, perché voleva dire che potevo prendermela comoda, e una volta uscita dalla palestra e imboccato il corridoio che portava ai bagni proseguii senza fermarmi. Fino alla scala antincendio e alla porta di vernice marrone che scricchiolò quando l’aprii per uscire. Dall’altro lato del parcheggio vidi danzare la punta arancione di una sigaretta. Il suono leggero di una risata.
Ma poi qualcos’altro. Un canto. Si sentiva appena, e mi rigirai più volte per capire da dove venisse. Era una voce di donna e pronunciava raffiche di parole sincopate che sulle prime sembravano quasi guaiti, ma diventavano suoni più robusti man mano che andavano a formare brevi frasi. E alla fine delle parti cantate c’erano delle note lunghe, come un canto e un lamento allo stesso tempo. L’eco non finiva mai. La voce veniva dall’altro lato della strada, da quella che credo fosse la mensa. Vernice color crema su grossi mattoni e colonne squadrate. Porte di metallo cigolanti tenute aperte da un fermo nell’aria densa.
Mi fermai giusto fuori dal cono di luce che veniva dall’interno, dove non potevano vedermi. Le luci dal soffitto proiettavano un riflesso tremolante sul pavimento della mensa. Tutti i tavoli e le sedie erano stati spinti contro le pareti. C’erano tre donne più grandi in fila, sedute a gambe incrociate su delle coperte con questi tamburi ipu, a forma di clessidra, e li facevano sbattere per terra. E picchiavano e tamburellavano con le nocche e il palmo della mano sulle zucche vuote di cui erano fatti. E al centro della stanza c’erano tre file di ragazze – tutte più grandi di me, a occhio – che ballavano l’hula.
Erano ragazze normali, con addosso vestiti normali. Non era la prima volta che ascoltavo un canto hula. Ma questo era diverso. Ci sentii dentro qualcosa di autentico e di antico, qualcosa che mi si apriva dappertutto e mi dava la pelle d’oca.
Rimasi lì fuori dalla porta e guardai tutte le prove. Ogni tanto le kumu smettevano di cantare e di suonare l’ipu e dicevano cose tipo: «Nani, controllalo meglio quell’hela, sei fuori tempo rispetto a tutte le altre» oppure: «Jessie non tenere le braccia flosce quando fai il kaholo3» e poi ricominciavano a cantare. Tre file di ragazze, che ruotavano e saltellavano e seguivano i passi. Il suono degli ipu sul pavimento e il tamburellare delle dita e le donne che cantavano. Mi entrò dentro, mi spiego? Tipo in profondità. Mi sentii smuovere tutta da qualcosa a cui non sapevo dare un nome. Fu così che andò, e rimasi a guardarle finché alle mie spalle non partì il conto alla rovescia del cronometro del basket. Sentii le urla dagli spalti e mi voltai, mi incamminai di nuovo verso la palestra. Un’altra vittoria per Dean, immaginai, ma questa sembrava fosse stata combattuta. Forse il risultato era rimasto in bilico proprio fino all’ultimo.
Lì per lì comunque non ebbi molto tempo per pensarci. In pratica successe che il giorno dopo si presentò a casa nostra un tizio. All’inizio lo sentimmo bussare forte alla porta. Noa era nella sua stanza ma di sicuro lo sentì anche lui.
Andò papà ad aprire. L’uomo si lanciò dentro casa, per poco non cadde faccia a terra.
«Dove sta?» chiese. Tremava in tutto il corpo. Sbatteva gli occhi. Girò la testa verso una spalla e fece una specie di strano balletto scrollando le spalle. Le mani non si fermavano un attimo, continuava ad aprire e chiudere i pugni lungo i fianchi. Era come se stesse prendendo la scossa, ma lentamente.
«Lo devo vedere» disse.
«Non se ne parla». Papà incrociò le braccia mostrando al tizio i muscoli. Papà è, tipo, sorprendentemente forte, cioè di solito lo vedi con questo fisico da papà, ma poi fa una mossa del genere e te ne accorgi.
«Non migliora» disse l’uomo. Poi si rese conto che lo sapeva dov’era Noa e si avviò verso la porta della stanza sua e di Dean. Papà gli premette una mano sul petto. Lui non provò neanche a spingerla via. Semplicemente continuò ad avanzare, come se fosse un vento forte che poteva spazzare via gli ostacoli. Ma addosso continuava ad avere quel tremolio elettrico e la mano di papà fu sufficiente a bloccarlo.
«Vieni fuori» gridò a quel punto. Urlava verso la porta di Noa. Vieni fuori, vieni fuori, vieni fuori. Continuò fino ad avere la bava alla bocca.
Papà si mise a spingerlo indietro, verso la porta d’ingresso. Però a un certo punto, di colpo, ecco, sia il tizio che papà si fermarono, immobili. Si allontanarono l’uno dall’altro e fissarono il corridoio.
Noa era uscito e se ne stava lì. Aveva accanto una donna coreana senza capelli e senza sopracciglia, con la pelle della faccia tutta tirata.
«Non dovresti...» cominciò l’uomo. Alzò le mani, che tremavano ancora. «Non hai fatto niente, lo vedi? Sta peggiorando ancora».
Provò a fare un altro passo verso Noa, ma papà lo afferrò nuovamente. «Sono già morto» disse. «Lo capisci?».
Si scrollò di dosso papà. Poi se ne andò via, sbattendo la porta di casa così forte da far tremare i cardini. Da fuori continuò a strillare finché la sua voce roca non svanì in lontananza.
Papà rimase fermo nella stessa posizione. Una mano alzata come se stesse spiegando qualcosa. O come per difendersi, tipo. Poi la lasciò cadere. «Forse è meglio se facciamo una pausa, per un po’» disse. Era arrivata anche mamma.
Ma la cosa più importante accadde poco dopo. Quando Dean tornò a casa e sentì la storia. Entrò nella stanza sua e di Noa e chiuse la porta e ovviamente io andai a origliare: la mano fredda di vernice scrostata sulla porta era l’unica cosa che mi separava dai miei fratelli.
«Posso chiamare Jaycee e i suoi amici, gli andiamo a fare il culo a questo» propose Dean.
«Sì, certo, facciamo la Mafia delle Hawaii» disse Noa.
«Eh, perché no» fece Dean.
«No» disse Noa. «Quello ha il Parkinson».
«Cazzo mi frega pure se ha, tipo, un Rolex» disse Dean. «Non è che può venire qua...».
«È un disturbo neurologico» disse Noa.
«Sei veramente un coglione» disse Dean. «Io ti voglio aiutare, e te stai qua a fare il saputello».
«Scusa» disse Noa.
Si avvicinarono alla porta. Me ne accorsi perché ora le voci mi arrivavano dirette nell’orecchio, proprio dall’altro lato della porta.
«Come ti pare comunque» disse Dean. «Io devo proteggerti. Sei tu il prescelto, no?».
Dal tono della voce sembrava che avesse un saporaccio in bocca che gli dava fastidio. Specialmente ora che stava diventando un superfigo stella del basket, e la gente cominciava a parlare anche di lui, non solo di Noa. E invece lì in camera glielo disse proprio: sei tu il prescelto. E di colpo fu come se dirlo lo rendesse vero. Cioè, lo vedevamo tutti quello che stava succedendo a Noa, che c’era qualcosa di speciale. Se non erano le divinità hawaiane che stavano facendo qualche miracolo, magari era una nuova forma di scienza. Tipo, che ne so, un’evoluzione.
Dean e Noa non dissero altro perché Dean aprì la porta. E io non me ne accorsi finché non sentii il clic della maniglia, e mi tirai indietro giusto in tempo per non cascargli addosso.
Dean sbuffò. «Ma guarda questa, stava qua a spiare!».
«Kaui» disse soltanto Noa. Con addosso una stanchezza centenaria.
«Non si sentiva niente» dissi io.
«Niente che valeva la pena di sentire» disse Dean. Allungò la mano per scompigliarmi i capelli, ma ci mise troppa forza. Sparirono in fondo al corridoio senza dire un’altra parola: Noa con l’ukulele in mano, diretto in garage. Dean verso il salotto, di sicuro a guardare la tv, qualunque partita andava bene, no? E io rimasi lì da sola in corridoio. E mi sentivo come se, proprio a casa mia, non ci fosse posto per me.
La settimana seguente tornai tutti i giorni al centro sportivo, ad ascoltare i canti e guardare le prove dall’inizio. In genere erano sul campo da basket invece che nella mensa, ma in un modo o nell’altro alla fine le trovavo. Le voci mi chiamavano. Restavo a guardare fuori dalla porta. Alla fine le ragazze si rimettevano le scarpe e se ne andavano a gruppetti. Poi le kumu rimettevano gli ipu nelle borse da ginnastica, e riavvolgevano e mettevano in borsa i tappetini che avevano usato per sedersi e per suonare. Poi si rimettevano le scarpe anche loro. Uscivano tutte e a quel punto restava solo il parquet lucido della palestra, e i canti e il suono degli ipu smettevano di riecheggiare tra gli spalti. Si sentiva solo il ronzio lieve del segnale luminoso USCITA.
Non so cosa ci fosse lì nell’aria, ma mi faceva bene. Andavo e ascoltavo e ballavo persino un po’ per conto mio. E quando finiva e tornavo a casa mi impegnavo ancora di più, divoravo le pagine dei libri di testo. Come compito extra di biologia andavo a raccogliere i girini nel fosso dietro casa. E come compito extra di matematica, diciamo, mi mettevo a calcolare le probabilità del lancio dei dadi o dei giochi di carte. Alla fine delle lezioni i compagni mi venivano a cercare per chiedermi una mano con i compiti o perché volevano stare in coppia con me in laboratorio o nelle gare di quiz. E tutto questo lo facevo alla Kahena, chiaro?
Però in Noa qualcosa si era rotto, dopo quel fatto del tizio col Parkinson. Non voleva più ricevere nessuno. A mamma e papà toccava aprire la porta quando bussavano e scusarsi: Mi spiace, oggi non può, mi sa che non sta bene, o almeno credo, e dovevano rimborsarli e poi – dopo un po’ di settimane di ’sta storia – niente più soldi extra. Mamma e papà a tavola con quella busta di soldi sempre più vuota, a fare divisioni e sottrazioni. Sottrazioni soprattutto.
Noa non ci spiegò il problema. Diceva solo che non ce la faceva.
«Lascialo in pace» mi dicevano mamma e papà quando mi vedevano sgattaiolare verso la porta del garage. Lui se ne stava lì dentro a suonare l’ukulele. Canzoni tutte tristi e complicate, spesso con tante di quelle note e accordi da suonare insieme che sembrava che Noa avesse tipo una mano in più. Dopo un po’ lo convincevano a venir fuori dal garage e tutti e tre si buttavano sul divano, le facce illuminate di bianco e blu dalla tv. E intanto eravamo io e Dean che dovevamo accollarci le pulizie al posto di Noa, mi spiego? Tipo spazzare i pavimenti, lavare i piatti o pulire il bagno.
«Non fare niente» diceva Dean, con le mani immerse fino ai polsi nell’acqua schiumosa del lavello alla ricerca delle ultime forchette da sciacquare.
E io solo una volta feci qualcosa. Dean era sotto la doccia dopo il basket, e mamma e papà si stavano preparando per andare a letto. Noa era in garage, ma non suonava. Era da un po’ che stava lì e non suonava.
Quando entrai lui era in fondo al garage, vicino al banco di lavoro dove papà teneva la roba da pesca e da caccia. E tipo gli attrezzi per la macchina e cose così. Noa era curvo su una sedia da campeggio, i pantaloni abbassati sulle ginocchia. Era rivolto dall’altra parte, mi dava la schiena.
Mi avvicinai silenziosa come una formica. C’era odore di legno vecchio e Noa faceva questi strani respiri profondi. Aveva qualcosa in mano. Qualsiasi cosa fosse, la teneva in basso, perciò mi dovetti avvicinare ancora di più per vedere. Gli arrivai a tipo tre metri di distanza, ma diedi un calcio a un tappo di bottiglia e quello schizzò rumorosamente verso un angolo. Noa fece un salto. «Ehi...» disse, provando a coprire con le mani quello che stava facendo. Ma feci in tempo a vedere. Non poteva nascondere l’oggetto che teneva in mano.
Nella mano destra aveva un coltello da caccia, lungo e spesso e dentato. Sulla coscia sinistra, in alto, dove la pelle è più sottile, c’era un taglio fresco. Gli usciva il sangue.
Cominciammo a parlare nello stesso istante. Io che volevo sapere cosa stava facendo e lui che voleva mandarmi via. Ma mi ero stufata di andarmene. Gli chiesi se si era fatto male e se dovevo andare a chiamare mamma e papà.
«No» disse. «No no no. Non è stato un incidente».
«Lo vedo che non è stato un incidente» dissi io. «Non mi sembra ci sia qualcun altro con in mano un coltello».
Noa lasciò cadere il coltello sul tavolo come se volesse dire qualcosa. Come se significasse che era finita. Il taglio continuava a sanguinare. Lui lo fissava e basta.
«Avanti, sistemalo» dissi.
«Non ci riesco» disse lui.
«Intendi adesso» chiesi. «O, tipo, sempre?».
Guardammo il sangue che usciva. Lui era così concentrato che pensavo gli scoppiasse la testa.
«Noa?».
«Non è più successo come a Capodanno» disse.
Questo spiegava tutto. Perché volesse vedere la gente da solo, con la porta chiusa. Perché il tizio del Parkinson era tornato. «Noa» dissi, «tutta quella gente...».
«Be’ ma qualcosa facevo» disse. «Lo sentivo, quasi sempre, era come stare dentro il loro corpo. Ma poi sentivo tutte queste cose che mi arrivavano in testa, immagini, ordini, non lo so...». Si diede uno schiaffo in testa. Forte. Poi di nuovo. E poi di nuovo, con gli occhi chiusi. E dalle palpebre gli scendevano le lacrime.
Gli posai una mano sulla schiena, ma si ritrasse come se gli avessi dato un morso. «Vattene» disse.
Non mi stupii più di tanto. E obbedii.
Il giorno dopo, finita la scuola, tornai al centro sportivo. Faceva più caldo. Un pomeriggio senza nuvole da far venire il mal di testa. Il gracchiare dei freni dell’autobus. Voci che strillavano dentro e fuori la palestra. E gli schiocchi delle partite di biliardo nella sala ricreativa. Mi misi a guardare la halau da fuori della porta.
Ci eravamo messe d’accordo, diciamo. Perché non avevo neanche chiesto a mamma e papà se potevano pagarmi l’iscrizione. Tanto la sapevo la risposta. E le kumu dissero che se era solo per guardare da fuori allora potevo restare, ok? E quando Kumu Wailoa – quella coi top tanto lisi che sembravano fatti di carta igienica, e i ciuffi di peli che sbucavano dalle ascelle come vana, e la fronte butterata dalla varicella e il sorriso da delfino – quando mi disse che se volevo potevo imparare guardando io decisi che avrei imparato tutto.
Le kumu cominciarono a suonare la musica per il riscaldamento. Leggere percussioni sull’ipu. E anch’io feci il riscaldamento, proprio come le ragazze dentro: ’ami, ’uwehe4, kaholo, hela, passo e giro, le braccia a volte come fulmini e altre volte come acqua. Roteare i fianchi e scuoterli. La schiena con tutte quelle ossa. Rigida come una lancia. Mi faceva sentire bene. Come le hawaiane di una volta, al suono dell’hula di una volta. La loro pelle morbida, coperta di cicatrici, quasi nera, me la sentivo anch’io. Labbra serrate per il mana e tette al vento, senza bisogno di un vestitino haole. Mani chiuse a pugno che intrecciavano tappeti di foglie di hala e raccoglievano il kalo nei campi.
Quindi forse a mamma e a papà e agli dèi non importava di me quanto gli importava di Noa. Ma questo non voleva dire che non potevo essere qualcuno. Io comunque c’ero.
3 Passi della hula, la tradizionale danza hawaiana. Lo hela consiste nell’allungare un piede davanti a sé e leggermente in fuori e posarlo a terra, mantenendo sempre il peso sull’altro; il kaholo invece è un doppio passo laterale.
4 Ulteriori passi della danza hula. ’Ami sta per rotazione dei fianchi, mentre lo ’uwehe è un movimento che consiste in un passo sul posto con un piede seguito da un leggero sollevamento di entrambi i talloni da terra.