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DEAN, 2004
Spokane

Per come la vedo io i primi hawaiani, prima di diventare hawaiani, se ne stavano là alle Fiji o a Tonga o non so dove, e facevano troppe guerre contro troppi re, e fu allora che i più forti si misero a guardare le stelle, e ci videro una mappa per un futuro che potevano andarsi a prendere. Si spaccarono la schiena a costruire canoe capaci di resistere alle onde alte dodici metri, e vele grandi abbastanza da trasformare il vento in un pugno, e finalmente si liberarono dalle loro terre d’origine. Ciao ciao vecchi re, ciao ciao vecchi dèi, ciao ciao vecchie leggi, ciao ciao vecchi poteri, e ciao ciao a tutti i limiti. E arrivò un momento in una di quelle notti in mare, coi muscoli tatuati incrostati di sale, che videro splendere la luce bianca della luna su questa nuova terra, le Hawaii, e fecero tipo: è questa. È nostra. È per noi, è adesso.

E io uguale la mia prima notte a Spokane. Sul serio, mi sentivo dentro tutti i re del passato, ma di brutto, mi pareva di averli proprio nel cuore, me li sentivo cantare nel sangue. Li vedevo lì con me, anche senza chiudere gli occhi. Eravamo uguali, io e loro: mi ero lanciato nel lungo strappo di cielo tra le Hawaii e la terraferma, avevo visto le griglie di luci delle città del continente, i grattacieli e le autostrade che andavano avanti all’infinito, tutte bianco e oro. E per me erano come le stelle che avevano guidato i primi hawaiani, indicavano la via verso quello che mi spettava. Quando scesi dalla navetta notturna per Spokane e mi trovai di fronte i prati puliti e le palazzine di mattoni nuove e vidi lo staff tecnico schierato a darmi il benvenuto come una delle migliori matricole di basket in tutto il paese, anch’io feci tipo: è per me, è adesso. Mettetemi la corona, stronzi.

Prima di allora, alle Hawaii, da me volevano una cosa sola: dovevo credere in Noa, lo dovevo far crescere. Tipo che era compito mio fargli da balia, da secondo pilota, e aiutarlo ad arrivare al traguardo.

Be’, mi dispiace, ma io a fare il secondo pilota non sono proprio adatto.

E alla fine a che serviva? Non è che Noa c’avesse portato chissà che svolta, a fine mese mamma e papà erano sempre a corto di soldi. Come tutti gli altri nelle isole. L’unico modo per scappare da un posto del genere è diventare così bravo che alla fine devono per forza pagarti. E pagarti un sacco. Ed era questo che avrei finalmente fatto, appena arrivato a Spokane.

Iniziò, cos’era?, nell’autunno del 2004. Il basket era l’unica cosa che contava. Avevamo gli allenamenti pre-stagione gestiti dal capitano e così eravamo tutti al palazzetto, al piano di sopra dove c’è la pista di atletica, a fare squat contro il muro e scatti intervallati, poi di nuovo in sala pesi. Gli altri mi chiedevano se avevo mai visto un posto del genere, file e file e file di spalti coi sedili lucidi per migliaia di spettatori, la sala pesi attrezzata con macchinari delle migliori marche e le rastrelliere appena riverniciate, e io tipo: Non è che perché vengo dalle Hawaii non ho mai visto una cosa del genere, eh. Però avevano ragione, non per via delle Hawaii, ma per via della Lincoln High. Strutture del genere le avevo viste solo quando giocavamo in trasferta contro una di quelle cazzo di scuole da ricchi tipo Kahena o altre. Quindi alla fine sì, l’avevo visto un posto così, ma non era mai stato mio.

Tutti quei corridoi e laboratori e sale comuni che pareva riverniciassero le pareti ogni due anni, e il bel negozietto di libri con certi prezzi senza un cazzo di senso. Ma dappertutto, giuro, a parte gli spogliatoi, erano tutti bianchi come il latte. Quando vedevo gente di colore per strada facevo tipo: Grazie a Dio, pensavo di essere l’unico rimasto.

Le lezioni? Non lo so nemmeno a che corsi mi ero iscritto, sul serio, sbrigò tutto qualcuno dagli uffici della squadra, e per i compiti mi feci aiutare, i compagni mi consigliarono di trovarmi una tutor fin dalla prima settimana, una ragazza del secondo anno, se ci riuscivo, occhi grandi jeans stretti e una croce al collo, roba così. Vedrai che ti aiuta, dissero, Lo sa chi siamo noi. E andò proprio così. Cioè, i numeri e le parole sul foglio alla fine li scrivevo io, certo, ma il mio cervello era impegnato solo dalla curva del suo gomito, dalle lentiggini che aveva sul naso. Una figata, il college.

Ma nel basket ci facevamo il culo. Tutti i giorni, tutto il tempo. Eravamo in quindici a lavorare dieci volte di più di quanto avevo mai fatto a casa. Solo basket di continuo, il tamp tamp tamp della palla sul parquet lucido, il cinguettio perfetto delle scarpe. Esercizi di uno-contro-uno, due-contro-due, due-contro-uno. Tiri dalla media distanza col difensore in faccia, tiri in uscita dai blocchi e tiri da tre. Un altro livello proprio. I compagni erano tutti più veloci e più forti e più svegli della gente con cui avevo giocato alla Lincoln, cioè ora giocavo con degli adulti, non con dei ragazzini, e per tutto il primo anno me ne accorsi di brutto. Erano tutti un passo più veloci di me e saltavano tre dita di più, la metà delle volte mi stoppavano o rubavano la palla, e mi pareva come di sentire l’aria intorno che si sgonfiava, si ammosciava.

Dovevo diventare più grosso. Più forte e più veloce. Dovevo, per forza.

Dopo gli allenamenti, in quattro o cinque ci ritrovavamo alla mensa, con le ginocchia fasciate da grossi impacchi di plastica riempiti di ghiaccio, a fissare il triste spezzatino con i broccoli che avevamo nel piatto, con zero appetito perché eravamo ancora distrutti dai postumi di qualche esercizio da stendere un toro che ci aveva fatto fare il coach. L’odore grasso della carne bruciacchiata che saliva al soffitto da cattedrale della mensa, la superficie fredda del tavolo, nella testa avevo solo l’huli-huli6. Mi sentivo sbronzo anche se ero sobrio come un Testimone di Geova.

«Mi sa che mi sono appena addormentato con gli occhi aperti» disse Grant.

«Infatti» disse DeShawn. «Ti ho proprio visto. Io invece sto solo provando a non pisciarmi addosso. Come cazzo faccio ad andare a pisciare con addosso tutta questa roba?» agitò le ginocchia ricoperte dagli impacchi. «Quando ci mettono il ghiaccio sulle ginocchia così, dovrebbero metterci pure un pannolino».

«E quella per cos’è, per reidratarti?» chiese Grant, indicando il bicchierone extra-large da cui beveva DeShawn. «Dice sempre che si deve reidratare, ma poi di prima mattina lo becchi a bere Diet Coke». Erano compagni di stanza, Grant un bianco di Stockton di quelli che si atteggiano a neri, DeShawn di L.A.

«Mi serve caffeina» disse DeShawn, quasi a chiedere scusa.

«Allora beviti un caffè, coglione».

«C’ha lo stesso sapore di tua madre».

«Dài su» disse Grant. «Sto provando a rilassarmi un attimo».

«È tutto il semestre che ti rilassi» disse DeShawn, «con esami tipo storia e quella roba là. Io c’ho la testa piena di matematica per l’economia. Il primo appello è tra due giorni, ma come faccio a mettermi a studiare stasera? Ho il cervello sputtanato come avessi fumato mille canne».

«Tipo un palloncino, no? Tipo staccato dal collo».

«Esatto».

«Grant se la sente sempre così, la testa» dissi io. «Scommetto che era quello che sniffava la colla all’ultimo banco».

«Cazzo, me lo immagino» disse DeShawn. «Alle elementari, con ’ste orecchie giganti».

«No, ma chi parla delle elementari» dissi io. «Io intendevo tipo la settimana scorsa».

DeShawn e Grant scoppiarono a ridere, tipo a crepapelle, piegati in due sul tavolo, e anche gli altri.

Ecco: c’era questa sensazione. Stavo diventando parte di qualcosa, parte di quel gruppo. In campo sanguinavamo e ci sbucciavamo e faticavamo insieme, e dal modo in cui dicevano: Bravo, un po’ più forte il prossimo passaggio, fagliela arrivare meglio, o quando finalmente cominciai a mettere qualche tiro e mi dicevano: Dài, così, sempre così!, lo capivo che ci credevano in me. Lo vedevano chi ero, che cosa potevo diventare.

E a casa? Cominciai a chiamare mamma e papà già dall’inizio del semestre, di solito dal divano che avevamo piazzato sotto i letti a soppalco della nostra cameretta, a scacchi verde avocado e pieno di bruciature di sigarette, con il mini frigo di fronte. Si sentiva il grattare della penna sul quaderno del mio compagno di stanza, Price, che faceva i compiti – non aveva un portatile, come me, eravamo tipo gli unici due in tutta la scuola senza il computer, mai un momento che uno si possa scordare da dove viene – e io mi mettevo lì a parlare al telefono, con tutti, mamma, papà, Noa, Kaui, uno per volta.

«Vabbè, com’è il tempo lì?» chiedevo a papà ogni volta, perché lo sapevo che gli piaceva prendermi per il culo per il freddo che faceva da noi, tipo: «Ciccio, qua è sempre fantastico, tutti i giorni, il weekend scorso con mamma e Kaui e Noa siamo andati in spiaggia, sole tutto il giorno e pioggia solo la notte, perfetto. E nella terra dei ghiacci come va? Ti si è già appiccicata la lingua da qualche parte?» e poi rideva e diceva: «Dài, dài, scherzo, dimmi come va».

Mi raccontava qualche piccola cosa, e poi anche mamma uguale, ma nel giro di poco tutti e due si mettevano a dire: Devi vedere quello che sta combinando tuo fratello qua. Ogni volta, a ogni telefonata, sempre là si andava a finire, a prescindere da quello che facevo io. Mi raccontavano che pure i professori non sapevano più che fare con Noa, che alla Kahena si spazzolava ’sti corsi avanzati di chimica, o analisi, o lingua hawaiana come fossero niente. Che tipo era uscita la notizia sull’Honolulu Advertiser del suo punteggio perfetto ai test pre-universitari, e che a casa arrivavano buste piene di dépliant, email, telefonate dalle università, che cercavano di convincerlo a cominciare a seguire i corsi già adesso. E dicevano che alla fine probabilmente se ne andava a Stanford.

Io la odiavo questa parte della telefonata. Perché volevo sapere che faceva Noa, ma allo stesso tempo non volevo saperlo. Specialmente certe cose che faceva, le sue doti da kahuna, capito? E invece ogni volta mamma mi parlava di qualche premio che aveva vinto a scuola, o di quali corsi speciali aveva cominciato a seguire, e non diceva mai niente di quell’altro lato di Noa, quello che tutti noi ancora non capivamo davvero. «A volte vorrei davvero sapere cosa gli passa per la testa» diceva mamma. «A te racconta qualcosa?».

Il primo paio di volte che fece così – che mi chiese di lui, dando per scontato che ogni tanto ci sentivamo a sua insaputa, come fanno i fratelli normali immagino – pensai che non aveva davvero capito come stavano le cose.

Glielo dissi proprio, una volta. «Senti» le feci, «io non è che ci credo più tanto in lui. Non come ci credete voi».

«Non c’è niente da credere» ribatté mamma. «O vuoi negare quello che hai visto coi tuoi occhi?».

«Non sto dicendo se è vero o no» risposi. «Ma com’è che io non ho mai sentito niente del genere? Se ci sono gli dèi, perché non ce li abbiamo dentro tutti?».

«E com’è che adesso te ne esci così?» chiese mamma. «Gli haole ti stanno facendo il lavaggio del cervello? Non le hai mai dette queste cose».

«È che mi sembra che non guardate le cose giuste» dissi. «Ho avuto una borsa di studio a copertura totale, mamma. Ci sono giocatori che escono dal mio college che vanno al primo turno del Draft NBA7. Ogni anno. Ma magari voi neanche ve ne accorgerete, finché non porto a casa il primo bell’assegno con tanti zeri».

«Ti ho solo chiesto se Noa ti aveva raccontato qualcosa» disse mamma. Le lasciai cambiare argomento. Le volevo dire: magari io non mi sento come voi perché qua in mezzo sono l’unico che ha un’idea di come va il mondo.

«Noa non mi racconta niente di speciale, mamma». Il che era vero. Quando ci parlavo – e lo sentivo che erano mamma e papà che insistevano per passargli il telefono – era tipo: Come va? Tutto a posto, ho sentito che hanno costruito un laboratorio nuovo a scuola, sì, ah ora hai tipo un bel po’ di trasferte in arrivo con la squadra, sì infatti, fico, qua adesso piove, che palle, volevo andare in spiaggia, altre novità? Nah, neanche io.

Però ecco: c’era sempre questa pausa. È da lì che capivo che aveva qualcosa dentro e non ne parlava con nessuno. Ma non riuscivo mai a colmare la distanza tra dov’ero io e dov’era lui. Non lo so perché. Potessi tornare indietro attraverserei quel confine in un secondo, a costo di fare un discorso strappalacrime da mahu, dargli una specie di abbraccio per telefono. Potessi tornare indietro adesso, lo farei subito.

Di solito era Kaui l’ultima con cui parlavo, in quelle telefonate a casa. Mi sa che mamma la ricattava, tipo che non la lasciava andare a fare shopping a Pearlridge se prima non parlava al telefono con me, ma onestamente parlare con lei era la parte migliore della telefonata. Ed ero io il primo a stupirmi, di ’sta cosa.

Mi ricordo che una volta mi chiese tipo: «Ma con te lo fanno che si mettono a chiederti di Noa?».

«Sì» dissi io. «Ogni santa volta! Perché fanno così?».

«Ti giuro, Dean, a volte mi sembra che proprio si scordano che ci sono anch’io» disse lei. «Cioè, te l’hanno raccontato che alla Kahena sono nell’albo d’oro di quelli che hanno preso il massimo dei voti in tutte le materie? E che sono entrata nella National Honor Society?». Aveva ancora, tipo, quattordici anni o giù di lì, e ogni volta io mi stupivo di quanto sembrava già fuori da quella casa. Già mi pareva di vederla che confrontava i tassi dei mutui e ricontrollava la lista della roba da mettere in valigia per una conferenza a New York, con un bicchiere di vino e un sudoku in una mano mentre con l’altra ancora reggeva la cornetta del telefono e mi parlava.

«Non mi ricordo» dissi io. «Mi pare di sì».

«Non mi dire bugie».

«E l’hula invece, come va?» le chiesi, giusto per provare a parlare un attimo senza essere incazzati.

«L’hula va bene» disse. «Sono in un gruppo che fa spettacoli dal vivo. Ne abbiamo fatto uno ad Ala Moana il weekend scorso, e ora ne abbiamo un altro all’Hilton. Tipo che ci pagano pure, anche se i soldi dobbiamo darli tutti alla nostra halau».

«In pratica però balli per gli haole» dissi. «Ti piace questo fatto?».

«E piantala, Dean, mi fai rodere il culo» disse. «Che peraltro ormai sarà più nero della tua faccia. Come va col freddo, stai già diventando un haole, eh?».

«No» mentii io.

«E scommetto che ti assegnano ragazzine del primo anno con la ceretta brasiliana che ti trattano come una superstar e ti fanno tutti i compiti».

Mi misi a ridere. «Vabbè, dài, stavo scherzando sulla storia dell’hula per gli haole» dissi, anche se avevo ragione, e aveva ragione anche lei, e lo sapevamo entrambi. A pensarci adesso mi fa ridere, che ci eravamo capiti benissimo e a tutti e due ’sta cosa scocciava da morire.

«Stanno sempre tutti “scherzando”, no?» disse Kaui. «Tranne quando poi dicono sul serio».

«Rilassati, su» dissi io, ma lo sapevo cosa aveva. Quella fame, quella rabbia.

E secondo me anche solo il fatto che parlavamo di Noa, quel poco che dicevamo, era comunque qualcosa. Era una cosa che a modo suo ci legava, no? Di base io a Kaui stavo sul cazzo, e non è che aveva torto, soprattutto dopo, quando le cose a Spokane si misero male e lei stava per conto suo, al college a San Diego, lì le stavo ancora più sul cazzo. Ma all’epoca, quando c’erano solo queste telefonate, ci vantavamo un po’ l’uno con l’altra e ci facevamo sentire importanti, e quella era roba che non ci dava nessun altro. E lo capivo che anche se ero stato io la prima canoa ad attraversare il mare, a superare i limiti di quello che pensavamo possibile per la nostra famiglia, Kaui e Noa mi stavano dietro attaccati.

 

Tutto quel primo anno, sì insomma, cominciai a farmi rispettare e a stare in campo con gli altri, però ero comunque la riserva di Rone, che era la guardia titolare e quello a cui si affidavano tutti quando la partita era in bilico. Con l’inizio del campionato del secondo anno feci di tutto per non essere più il suo secondo, mi spaccavo il culo in sala pesi e sulle scale e con i box jump, portavo i pesi alle caviglie anche quando non mi allenavo, e mi cominciarono a venire i calli nei punti in cui le cavigliere mi grattavano sulla pelle nel camminare. Mi sembrava di andare a dormire e svegliarmi direttamente in campo, o sanguinando e sudando e sputando sulle attrezzature in sala pesi, il cinguettio delle scarpe sul parquet lucido, correre piegarsi e saltare, io e la palla. Ma nessuno, i compagni, il coach, nessuno ancora sapeva chi ero davvero.

Poi ci fu la sera in cui per una partita in casa organizzarono questa Hawaiian Night, e distribuirono al pubblico dei lei di plastica da indossare sugli spalti, e ai punti ristoro servivano punch al rum e ananas e un maialino kalua8 immangiabile. Quando entrammo in campo per il riscaldamento vidi che alcuni spettatori evidentemente lo sapevano da prima e avevano addosso delle camicie hawaiane di poliestere comprate online per due spicci, e cappelli di paglia, e quei drink del cazzo in mano, e avrei voluto prendere a pugni ogni haole che vedevo.

Mi ricordo tutto come fosse adesso, tipo che lì è successa una cosa nel mio corpo, e quella cosa continua a ripetersi ogni volta che ci penso. Quella sera giocavamo contro la Duke University, una partita importante di inizio stagione in cui davvero volevamo far vedere a tutti quanto valevamo, ma a fine primo tempo eravamo sotto di dodici e in apnea.

Ce ne stavamo lì nel corridoio, aspettando di entrare in campo per il riscaldamento del secondo tempo, e mi successe qualcosa. Forse perché dagli altoparlanti usciva una canzone di Iz, oppure perché avevo visto tutte quelle camicie hawaiane, o forse persino per l’odore di quel maiale kalua e di quei pōke9 di merda dei punti ristoro che mi avevano messo in bocca il sapore della roba vera di quando ero a casa, o forse per tutti i veri hawaiani che erano nel pubblico quella sera – e chi lo sapeva che ce n’erano così tanti a Spokane – o forse fu soltanto qualcosa dentro di me, qualcosa che si risvegliò perché sapevo da dove venivo e cosa stava succedendo quella sera.

Non lo so. Qualcosa nell’aria. Qualcosa di verde, e fresco, e in fiore. Giuro, sentivo il profumo delle isole, come quando eravamo piccoli, nella valle, le felci dopo la pioggia e la foschia salata sulla spiaggia di sabbia nera. Era quasi come avere delle voci nella testa, dei canti. Nel petto, la sensazione di un re, potente, antico.

Rientrai in campo ed ero ovunque. Gli altri giocatori erano come i cartelli delle uscite in autostrada e io gli sfrecciavo accanto. Gli rubavo la palla dalle dita stupide e lente, cambiavo direzione, attaccavo il canestro, segnavo in gancio e in sospensione e tiri da tre da così lontano che potevo essere in orbita. Entrava qualsiasi cosa. Era come tirare sassolini in un lago. Il coach era incazzato credo perché non passavo mai la palla, la maggior parte delle volte andavo coast-to-coast dalla difesa all’attacco, giuro che a un certo punto i miei compagni e anche gli avversari si fermavano proprio a guardarmi. Tutto il palazzetto a dire tipo: Ecco che lo fa di nuovo!

Al suono della sirena finale vinciamo di dieci e io sono al centro del gruppo che canta e si batte il petto in campo. Tutto il pubblico esplode di urla e applausi, e noi della squadra a darci spintoni e a gridarci in faccia, tanto da sentire il calore e gli sputi dei compagni, della serie: Abbiamo vinto. Più tardi, quando nello spogliatoio non c’era più nessuno e mi misi ad attraversare da solo il campus, fra la neve sporca e i mattoni bagnati dei muri, quella sensazione delle Hawaii era ancora dentro di me, mi scorreva sotto la pelle come il sangue, anche se l’aria era così fredda che mi saliva il vapore dalla testa e il fiato era una nuvola di fumo nel gelo.

Da quel momento in poi, in campo non mi fermai. Altre partite andarono nello stesso modo. E le cose cominciarono a cambiare, a proposito di chi mi conosceva e chi no. E alla fine quando chiamavo a casa, mamma e papà avevano un sacco da parlare su di me, tipo mamma diceva che la gente le chiedeva di me quando la vedevano al J. Yamamoto, e che le tv locali ora seguivano tutte le nostre partite, ero uno delle Hawaii ma guarda come me la stavo cavando bene al college, e un sacco di gente lì già parlava dei playoff e del torneo NCAA, e di quanto in alto potevo andare nel Draft NBA, e davano pacche sulle spalle a papà durante i suoi turni all’aeroporto, facendogli tipo: Niente male la doppia-doppia di tuo figlio l’altra sera, eh? In quel periodo, per tutte quelle partite dopo la Hawaiian Night, continuai a tenermi stretta dentro la sensazione che si era risvegliata alla fine del primo tempo, come un uragano, e – anche se magari non era la stessa cosa che aveva dentro Noa – era comunque una cosa gigantesca, era comunque abbastanza forte da strappar via la mia famiglia da quella casa di merda a Kalihi e farci atterrare tutti in qualche posto migliore.

 

 

 

6 Tipico piatto della cucina hawaiana a base di pollo grigliato con ananas, zenzero e salsa di soia.

7 Evento annuale della National Basket Association (NBA) nel quale le trenta franchigie possono scegliere nuovi giocatori, di solito provenienti dai college.

8 Metodo di cottura tradizionale hawaiano, che prevede l’uso di un forno sotterraneo.

9 Piatto tipico della tradizione hawaiana a base di riso bianco, pesce crudo – tonno o salmone – marinato, alghe, avocado e verdure.