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KAUI, 2009
Honoka’a

Adesso comincio le mie giornate in maniera diversa. Solo io e papà che corriamo lungo il bordo della strada che collega Honoka’a e Waipi’o. È uno dei modi in cui mi prendo cura di lui, mi spiego? Sembra che gli faccia bene. Sembra che io gli faccia bene. Ma non lo dico a nessuno, ok?, in genere non lo dico neanche a me stessa, forse. Non la sopporto tutta questa situazione – stare a casa, avere il ruolo della balia o dell’infermiera. Non è questo che dovrei fare, in teoria. Non è questo che farò, nel mio futuro. Ma è quello che sono adesso.

Le prime settimane fra me e mamma è andata malissimo. Un sacco di momenti in cui ci guardavamo negli occhi per vedere chi li abbassava per prima, e in cui mi costringeva a fare cose per lei: aiutarla a pulire, aiutarla a cucinare, aiutarla a fare la spesa con i quattro spicci che porta a casa dalle pulizie, questa roba qua. Io facevo tutto male, sbattevo le cose, mi lamentavo. Lei mi chiedeva cosa volevo che facesse – ero stata io a implorare di tornare – e che ci aveva provato a dirmi di restare sul continente, dove ancora qualche chance ce l’avevo.

E in questo aveva ragione, ormai io con San Diego non ho più niente a che fare. È quasi marzo, lì fra poco comincerebbero le vacanze di primavera. Ho mandato troppi messaggi a Van. E una volta l’ho anche chiamata, e il cuore mi è saltato così forte in gola che pensavo di vomitare. Ma lei non ha mai risposto. Probabilmente a quest’ora avrà bloccato il numero. Me lo merito.

 

E quindi, ecco: sto qui, a fare la cazzo di donna delle pulizie e l’infermiera. Andiamo a correre. Si sente il pat delle nostre scarpe sull’asfalto, rasente al guardrail, con le colate di verde sotto di noi e poi l’oceano e l’orizzonte. Da come corre, sembra che mio padre sia tornato mentalmente a un qualche punto della sua giovinezza. Guarda dritto davanti a sé e ha gli occhi e le guance tese dal ricordo di un corpo che era in grado di fare tutto questo. Adesso ha la pelle più scura e rovinata dal tempo – nei, rughe profonde, cicatrici – e pesa più di quanto dovrebbe. Porta la maglia della sua vecchia squadra di football delle superiori, grigio melange con Dragons scritto a lettere verde acceso, e un paio di pantaloncini decisamente troppo corti, diciamo. Sotto la maglia gli si vede la pancia tremolare a ogni passo. Ma sotto sotto da qualche parte il vecchio Augie c’è ancora, e ci stiamo facendo delle corse pazzesche, io e lui. Il sudore gli forma chiazze sul petto simili al pelo di un gatto tigrato. Ha i capelli spiaccicati sulla testa per l’afa del mattino e le passate che ci si dà con le mani. Porta ancora i baffetti ben curati. Ormai siamo quasi sempre io o mamma a spuntarglieli.

Mentre corre, mentre corriamo, vedo che con gli occhi guarda avanti, lontano. Oppure molto lontano all’indietro, mi spiego? Sta pensando a quando era il fuoriclasse delle partite del sabato sera. Ironman football. Tight end e linebacker14, giocava in entrambi i ruoli. Battendo i piedi sull’asfalto scendiamo per le colline e percorriamo i lunghi rettilinei fino a Waipi’o con i fusti delle canne da zucchero che frusciano e si chinano al vento. Le lunghe ombre degli eucalipti piantati sul lato mauka. Il ritmo del nostro respiro e il nostro sudore. L’odore scuro del terreno. L’alba rosa azzurra.

 

«Non sta migliorando» mi dice mamma, quando siamo a casa e papà se ne sta sulla veranda a guardare l’oceano, al di là delle colline e delle scogliere di Hamakua. Zio Kimo è uscito per andare al lavoro. Non so che giorno della settimana sia. «Anzi, mi pare che peggiora».

Io e mamma siamo in piedi davanti al bancone della cucina. Con le mani avvolte intorno a due tazze di caffè. Il vapore che si arriccia e svanisce, come i nostri pensieri. Ok, ci sono due versioni di papà, lo so che ce ne sono due: quella che vediamo ora, che è come un sogno intrappolato dentro un corpo. E poi c’è l’Augie che una volta guidava i camion delle piantagioni, che una volta era un marito, che una volta scaricava bagagli, che una volta era un padre. Da quando sono tornata li ho visti tutti e due, le dico.

Lei sorride. È un sorriso triste. «Anche io e Kimo ci siamo detti la stessa cosa. Certi giorni tuo padre si riaccendeva di colpo e tornava quello di prima. Come fosse scattato un interruttore, tornava quasi normale. Ma poi aveva una ricaduta. E dopo un po’ ha smesso di alternare le due cose».

«Con te però non ci andava a correre, giusto?» dico. «Mamma, guarda che lì dentro lui c’è ancora».

«Forse» dice lei.

«Che altro possiamo fare?» chiedo. «Non è che possiamo sbatterlo in una clinica da qualche parte».

«Non dirlo neanche per scherzo» risponde. Ma non in tono veramente aggressivo. Cazzo, forse una volta ci ha pensato a sbatterlo da qualche parte. Si sta guardando una mano. Come ci fosse un messaggio scritto sopra, mi spiego? Alla fine si posa il mento su una mano, si tiene la mascella.

«Adesso sta meglio» dico. «Con me sta meglio».

Lei scuote la testa. «Pensala come ti pare. Tanto lo so che provare a convincerti non serve a niente».

«Ma ti senti?» dico io. «Sembra che ti vuoi arrendere».

Esamina il caffè che ha davanti. Il vapore dolce delle tazze sale sopra di noi. Dalla terrazza si vede che ormai è arrivato il mattino. Gli alisei coi loro acquazzoni notturni hanno lasciato le piante umide. Adesso sono al massimo del verde. Ecco, vorrei dire a mia madre che io continuerò a provarci. Vorrei dirle che dovrebbe continuare anche lei. Ma è un discorso che abbiamo fatto un milione di volte, e l’unica risposta che ne viene fuori è che non ci capiterà mai un altro miracolo. Vorrei gridare: Dove sono adesso tutti gli dèi delle isole?

Ma lei non mi starebbe a sentire. Non mi sta mai a sentire.

 

È martedì, il che significa che devo andare alla fattoria di Hoku. Un tipo con le guance cascanti e la faccia bruciata dal sole e un cappello di paglia a tesa larga. Un tipo con i jeans macchiati di vernice, macchiati di fango e rattoppati al ginocchio, e la pancetta allegra di chi beve troppe birre quando è ora del pau hana. Ho cominciato a lavorare per lui dopo il giorno che mi ha trovata all’alimentari.

 

Quel giorno, mentre ero ferma in mezzo al negozio a fissare la sorprendente varietà di rotoli di carta da cucina, ha attaccato bottone. «Tu sei la figlia di Malia e Augie, dico bene?» mi ha chiesto.

«Sì» ho detto io.

«Era tuo fratello, allora, quello che è caduto».

«Sì, infatti» ho detto. «Ma non l’hanno mai trovato».

Lui ha annuito. «Condoglianze».

Ho alzato le spalle.

«Qualcuno mi ha detto che stai cercando lavoro» mi ha fatto.

Mi sono sentita prudere le orecchie per la vergogna e la diffidenza. Mi ero dimenticata che la gente parla, nei posti dove si conoscono tutti. Come Honoka’a. «Forse» ho detto.

«E che cavolo, neanche un sorriso mi fai?» ha detto lui.

«Non sono una bamboletta» ho risposto. «Ho questa faccia qui, punto».

«Ok, ok» ha detto. «Stai calmina, hawaiana, non ti agitare. Ho una fattoria che sto cercando di far partire. Un po’ di acquaponica, magari, e un po’ della solita roba, lattuga, papaya, cose così».

«Ok» ho detto io.

«Mi serve gente».

«Quanto?».

«Quanto cosa?».

«Quanto mi paghi?».

Lui ha fatto un colpo di tosse. Si è massaggiato la nuca. «La cosa è questa» ha detto. «Stiamo partendo ora».

Per poco non gli ho tirato un ceffone. «Quindi come manodopera gratis vieni a cercare la tipa a cui è morto il fratello?».

«Be’, insomma» ha detto Hoku, «faccio degli scambi con le altre fattorie, mi danno gli avanzi dei loro raccolti, cose così».

Odio doverlo ammettere, ma quando ha detto questo mi è venuta l’acquolina in bocca. Se c’è una cosa che paghiamo un occhio della testa è la roba da mangiare. Già sentivo le storie che avrebbe fatto mamma: Ti abbiamo mandata al college in California e sei tornata per lavorare dove? Ma non è solo per la roba che porterei a casa. C’è anche un altro aspetto, per me. Lavorare. Con le mani, con la testa. Fare di nuovo qualcosa, avere un obiettivo a parte le lenzuola, gli asciugamani e le salviette per papà. A volte la gente mi fa pentire di aver desiderato qualcosa di più, come quand’ero piccola. Ma quel giorno all’alimentari non me ne fregava un cazzo. «Quanta roba gratis?».

Lui ha scrollato le spalle. «Più di quanta ne posso mangiare».

«Che comunque non è poca». Ho fatto un gesto vago in direzione della sua pancia.

Lui è scoppiato a ridere. «Simpatica» ha detto. «Ha la battuta pronta, ’sta ragazza».

 

E così lavoro. La mattina vado alla fattoria di Hoku. Zappo, aro e pianto. Scavo fosse, spalo terra, la sposto con la carriola, la butto via. Mi vengono le vesciche, mi entrano le schegge nelle mani e ho i muscoli tutti indolenziti. Mi entrano nelle scarpe la merda di gallina e i millepiedi, e i capelli mi si impregnano di una specie di puzza calda, mi spiego? È difficile da mandar via quindi me la tengo. Mi pare che dica chiaramente cosa sono diventata.

Nel tardo pomeriggio torno a casa. In genere significa farmela a piedi in salita fino alla Honoko’a-Waipi’o e lì aspettare che qualcuno si fermi a darmi un passaggio. Faccio avanti e indietro sempre col machete addosso. Non che ci sia un gran pericolo, da queste parti. Sono giorni piccoli e lenti, dove per strada passa gente piccola e lenta. Quella pericolosa semmai sono io.

Le prime volte quando torno a casa trovo mamma sulla porta, che mi vede coi vestiti sporchi di fango e senza niente in mano. Né assegni né contanti né aumenti del conto in banca. E fa quel sospiro che pensavo fosse riservato solo e soltanto a Dean quando prendeva l’ennesima insufficienza o una nota, ok? Invece stavolta è sua figlia, un’altra giornata nei campi senza portare a casa un soldo, e quindi una lunga, lenta emissione d’aria dal naso. Sembra che soffi per tutta casa e riempia tutto lo spazio tra le frasi che ci diciamo. Ma alla fine porto a casa il frutto del primo baratto settimanale. Due zaini e un sacco pieni di frutta e verdura multicolore, lattuga pomodori kalo papaya. Li tiro fuori a uno a uno e li batto delicatamente sul tavolo. Per farle sentire il peso. Per farle sentire la realtà. Suona come una risposta, anche se non mi piace per niente.

 

 

 

14 Ruoli del football americano. Quello del tight end è un ruolo d’attacco riservato a giocatori molto grossi ma rapidi, mentre il linebacker è un ruolo di difesa che presuppone un’ideale proporzione tra mole, doti atletiche e cattiveria sportiva.