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KAUI, 2009
Honoka’a

Adesso sono solo le mie mani. La terra. Il puzzo dolciastro di merda di gallina che svapora dal suolo. L’odore pungente dell’erba falciata, il calore della crescita che sale dai campi. Ormai sono cinque settimane che faccio questo, ok? Arrivo la mattina prestissimo alla fattoria di Hoku, la sera sto a casa con papà mentre mamma fa i turni alla ditta di pulizie. Certo, un tempo non sopportavo di svegliarmi così presto. Ma quelle prime ore hanno cominciato a piacermi più di tutte. L’aria è fresca di ossigeno nuovo e ho il silenzio assoluto che mi riempie le orecchie. Un chiarore giallino ai confini del cielo. Un brivido di freddo mi fa rizzare i peli sulla nuca, sotto i capelli legati a cipolla.

Siamo solo io e Hoku a lavorare nella sua piccola fattoria. Strappiamo le erbacce. Rivoltiamo la terra e ci mettiamo il letame. Altri fertilizzanti naturali. Spostiamo le pietre. Tagliamo le canne. Mi piace l’effetto che fa tenere in mano il machete. Il rumore che fa il colpo della lama contro i fusti prima ancora che cadano. Il frusciare e lo sbatacchiare delle canne quando le spostiamo, il fatto che quando le tagliamo sotto appare qualcosa di più organizzato e normale, il terreno che è semplice terreno. In attesa di essere arato. Hoku ha una striscia di terra lunga e stretta. A un’estremità ha costruito una capanna di lamiera e teso un telone sopra sei pali per farci un’officina con un bancone da lavoro. All’estremità opposta la nostra opera di sfalcio si interrompe contro uno steccato e le canne e gli arbusti che ne sbucano da sopra. Ecco, Hoku vuole provare a preparare questo campo per il raccolto il prima possibile – non so se per cominciare a vendere o per poter ricominciare a mangiare, o per quale altro motivo. Non lo vedo mai con del cibo. L’unica acqua che beve è la birra di qualunque marca in offerta all’alimentari. Non parliamo molto. Mi dà delle indicazioni, e io stessa sono sorpresa di vedere che le seguo senza fiatare. Dissodiamo. Sradichiamo le erbacce. Seghiamo. Diamo martellate. Sudiamo. Ci feriamo con le schegge. Lavoriamo.

Sto dissodando un pezzo di terra e vado in trance. Stordita dall’odore della benzina e dell’erba tagliata, dal rumore del motore e dai sobbalzi delle lame del dissodatore che rivoltano la terra. In questa specie di dormiveglia, di colpo mi vedo davanti la punta di due piedi di donna, a un soffio dal finire sotto le lame.

Trasalisco e sollevo l’attrezzo da terra. Eccola qui. Uno scopettone di capelli neri e aggrovigliati. La pelle scurita dal sole e il viso senza spigoli di un indigeno hawaiano. Petto nudo, tette robuste e pancia grossa, lucida di sudore dopo una giornata di lavoro. Sta ferma davanti a me senza battere ciglio. Una statua, mi spiego? Non respira.

Poi fa un passo.

I sogni sull’hula, penso. Questo sei tu.

La donna fa un altro passo. Sento un peso che mi tira giù lo stomaco: ho la netta sensazione che voglia farmi del male.

«Aspetta» dico.

Lei fa un altro passo.

«Aspetta» ripeto, e comincio a indietreggiare. Ma ho ancora in mano il manubrio del dissodatore, il motore ancora fa pock pock pock e vibra. Non tira un alito di vento. C’è un odore che qui non c’è mai stato, un odore forte di fumo di legno di kiawe. Ma è soltanto la donna, e nel tempo che ci metto a capire che l’odore viene da lei si è mossa di nuovo. Attraversa il dissodatore, si ferma in mezzo al manubrio. Il che significa fra le mie braccia.

Faccio un salto all’indietro e comincio a dire – Ma d’un tratto mi sento come fossi magra, forte e vecchia, come un uccello fatto di cuoio. Ho camminato per un milione di chilometri. Sulle spalle ho un bambino, avvolto in un tessuto di tapa e trattenuto da corde di corteccia battuta. È facile: ho portato così generazioni di bambini. Sto salendo, accompagnata dall’odore freddo e minerale di un torrente, su per dei sentieri fangosi verso la vetta scabra di un gruppo di montagne. Potrebbero essere le Ko’olau, o il Waihe’e Ridge, o un qualunque altro posto delle Hawaii, diciamo. Ho in braccio dei mucchi di kalo, le radici pelose mi solleticano il polso. Quando mi guardo intorno vedo che la canna da zucchero da queste parti non c’è, non c’è mai stata. Piante alte come dinosauri e folli di colore. I muscoli delle radici che si allungano come tentacoli dentro la terra fertile – ma poi sento come un colpo improvviso ai polmoni e agli occhi e la voce di Hoku che mi chiama: Ehi ehi ehi.

Azzurro. Sto guardando il cielo. Ho della terra fresca e granulosa sotto la schiena. Mi si dilata la mente: mi sto svegliando. Ed ecco, sopra di me c’è Hoku che mi blocca la visuale delle nuvole, con la camicia aperta sul petto mentre si china in avanti. Si inginocchia accanto a me, mi guarda dalla testa ai piedi. «Che c’è, sei fatta di qualcosa?» mi chiede. Gli sento nell’alito un miscuglio acido di caffè e hot dog.

«No, è che mi andava di stendermi un attimo» dico. «Sai, a guardare un po’ le nuvole». Mi rigiro su un fianco, mi metto in ginocchio, mi alzo. Mi gira la testa. «È normale che qui gli schiavi li ammazzi di fatica?».

«Ma stavi lavorando solo da un’ora» dice lui. «È ancora mattina».

«Lo so che ore sono» dico. Ma non è vero, ok? Non so neanche bene dove sono.

«Non sono io che ti ammazzo di fatica» dice Hoku. «Sei tu che ti ammazzi di fatica».

Ferma come sono su quel pezzo di terra in piano, mi sembra di sentirlo inclinarsi e ondeggiare. Il sole è bianco e ovunque. «Sto bene» dico. «Rimettiamoci al lavoro». E mi ci rimetto, ok? Ma il dissodatore, la terra e il mio scheletro non sembra che esistano neppure nella stessa dimensione.

Dopo quella che mi sembra una ragionevole quantità di tempo, mi ritrovo seduta su una sedia pieghevole di metallo con sopra stampato Proprietà della Scuola superiore di Honoka’a, a bere un bicchier d’acqua del rubinetto all’ombra.

«Smettila di guardarmi» dico a Hoku. Bevo un altro sorso d’acqua.

Hoku smette di fare quello che stava facendo e mi si avvicina. Si appoggia contro uno dei banchi da lavoro. A braccia conserte, mi chiede se ho un tumore.

«Non ho niente» rispondo. «Sto bene».

«Tu non ci lavori per me, se ti devo trovare morta in mezzo al campo» dice. Io gli chiedo dove altro la troverebbe, manodopera così a buon mercato. Lui ride. «A Honoka’a? La gente senza lavoro sta a ogni angolo di strada».

Sbuffo, ma ha ragione.

E poi comincia un interrogatorio assillante. Ogni malattia che gli viene in mente: Cancro? Soffio al cuore? AIDS? Anemia falciforme? Gonorrea? Tumore benigno? Pigrizia cronica? E anche se rispondo di no a tutto, non importa. L’espressione delle sopracciglia. La mascella. O gli dico la verità, o qui non ci torno.

«Basta con ’ste domande».

«Allora te ne vai».

Restiamo tutti e due lì. Lui poggia le mani sul bancone e si china in avanti, sui gomiti.

«Andrò a farmi vedere da un dottore» dico, e alzo le spalle.

Hoku dà uno strattone alla larga tesa del suo cappello di paglia, però più di così non se lo può calcare in testa, mi spiego? Fa un passo indietro.

«Vattene a casa» dice.

«Non posso» dico io.

«E perché?».

Non posso raccontargli quello che ho visto. Ma loro sono lì. Appena chiudo gli occhi mi trovano. Donne che possono soltanto essere Kānaka Maoli, con la pelle gioiosamente scura e ispessita dalla fatica, le guance fiere e gli occhi pieni delle antiche tradizioni delle isole. L’odore salato e fruttato del loro sudore mi riempie il naso. Salgono in cima a una collina. Danzano in una valle. Kaholo, ’ami kāhela, lele15, ’uwehe. Mietono a fasci, affondando le mani nella terra marrone scuro che dà e non smette mai di dare. Adesso c’è qualcosa di vivo che mi scorre in tutto il corpo. Qualcosa che sembra una danza hula senza sosta.

«Qui c’è qualcosa» dico. «Lo sento. Qualcosa di grande».

 

 

 

15 Passi della danza hula. Lo ’ami kāhela è un tipo di ’ami che si esegue ruotando il bacino con il peso sul fianco destro sollevando leggermente il tallone sinistro, e poi viceversa; il lele invece consiste in un passo avanti e un leggero sollevamento del tallone del piede che resta indietro.