La parola nel Novellino è sempre frutto d’una necessità: nell’ideale dell’anonimo essa deve risultare indispensabile, e ogni volta è chiamata a giustificare la sua presenza inalienabile. Il principio a cui lo scrittore rimane coerente è che la stringatezza debba conferire al dettato una particolare dignità. Essa è simbolo di severità mentale. 1 È come invitare il lettore a concentrare l’attenzione verso un solo punto, su cui lo scrittore fa convergere l’acutezza del suo ingegno, l’accordo della sua parola asciutta e perentoria. L’intelligenza dell’esempio è affidata a un lampo rapidissimo, che nel suo repentino bagliore debba suscitare la gioia del capire, tanto più aperta ed efficace, quanto più subitanea e secca. Ogni racconto, perciò, è concepito con un ritmo che tende a precipitare. L’eccessivo metodo riduttivo adottato dall’anonimo costringe a mantenere una tensione fin dall’inizio, che non deve mai distrarsi né allentarsi. Presuppone, cioè, la vigile collaborazione del lettore, ne sollecita l’impegno intellettuale. Egli è richiesto d’integrare velocemente con la sua prontezza: è fatto partecipe dell’istante intuitivo. Sicché il sorriso scaturisce da un attimo improvviso di comprensione, che è il compiacimento dell’intelletto che si sorprende nel felice possesso dell’arguzia: ove s’identificano scrittore e lettore. Il «bel detto» è una difficoltà, fiorisce da un sottile passaggio, che nell’obbligare la mente a superarlo, la fa scattare di colpo come un interruttore elettrico. Lo stile è quindi una norma, una disciplina, una misura: che prima d’essere sintattica è mentale, si direbbe morale. Per giungere a possederla è necessaria un’educazione, un abito, un atto di volontà. L’anonimo vi è arrivato operando una costrizione del suo linguaggio usuale. Sono assolutamente manifesti lo studio e l’intenzione che lo sorreggono e insieme impegnano. Mettendosi da questa visuale, non si dirà più che il Novellino rappresenti l’incerta aurora della nostra tradizione narrativa, i primi balbettanti tentativi, segnati dall’inesperienza e dalla carenza di stile. Bensì in esso si viene a definire con rigorosa consapevolezza un gusto antico e provato, che porta il crisma della più autentica retorica. Non è, cioè, l’acerbezza che contrassegna la stesura del Novellino, ma una ben consumata maturità. Se mai, sigilla un ciclo: autorevolmente. Come dimenticare, del resto, la grazia con cui il prologo ne prende coscienza: «E se i fiori che proporremo, fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia, ché… per un frutto nobile e delicato, piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto uno giardino»?
Basterebbe guardarsi attorno per trovare espliciti e categorici consensi. E fra tutti, il più convinto e squisito: quello di Fra Bartolomeo da San Concordio. Che non solo applicava la lezione della brevità, assolutamente d’obbligo per la sua ammaestrevole sentenziosità, ma la rintracciava e riscopriva a ritroso, lungo le tante poste della sua parenetica ricognizione. E Fra Bartolomeo è press’a poco contemporaneo dell’anonimo autore del Novellino: ancora meglio, del resto, se dovesse risultare più giovane di qualche lustro, ché ne sarebbe una riprova. E, d’altronde, l’esperienza che il frate pisano esplicava nei suoi Ammaestramenti degli antichi, ha una sua situazione d’esecuzione, configurata com’è nel ricalco e trasparenza del testo latino («De documentis antiquorum»): che era di altri e diventava suo, quasi personale; che si distingueva nella singola autonomia e autorità della citazione, e tuttavia veniva acquistando un’aria comune nella stessa logicità incalzante della massima, nell’accento risentito dell’ammonizione, nella misurata energia paradigmatica: e, soprattutto, nel rinnovarsi sotto la medesima cadenza del volgare. Ma Fra Bartolomeo, a scanso d’equivoci, volle documentare il suo ideale stilistico: il quale in lui si presentava come progressiva maturazione di lettore lento e meditativo, che nei tanti volumi della sua cultura – e classici e religiosi – non trovava altro consentimento che nella disposizione controllata e sentenziosa dell’ammaestramento. Sicché quando si mise ad esporre i principi del suo detto, non ebbe alcuna esitazione a indicare la perentorietà dello stile breve, perspicuo, disadorno. E ne fece una questione di schiettezza morale, di onestà letteraria.2 Un’intera e cospicua «distinzione» (la undicesima) delle quaranta comprese nel suo manuale di etica cristiana, è dedicata al problema della scrittura, che l’autore contempla con la sua consueta chiarezza e persuasione. Per noi è assai valido il capitolo sesto: «Che ’l dire breve è migliore che ’l dire lungo». E nell’allegare le sette ragioni «per le quali è meglio lo parlare brieve che il lungo», il domenicano enuncia e sembra interpretare il metodo vagheggiato nel Novellino. A rileggerle, parrà di cogliere le motivazioni che avrebbe potuto avanzare l’anonimo: «1. La prima è perché ’l parlare brieve suole fare più desiderio, e ’l parlare lungo suole fare rincrescimento. – 2. La seconda, perché spesse volte lo brieve detto più chiaramente s’intende che ’l lungo. – 3. La terza, però che le brievi cose meglio si tengono a mente. – 4. La quarta, perché le brievi cose talora più innovano. – 5. La quinta, però che comprendere il fatto con brievi parole è segno di savio. – 6. La sesta, imperò che spesso addiviene che dire molte cose, spezialmente che non appartengono al fatto, fanno poi meno valere le utili. – 7. La settima, si è, perché comunemente lo brieve dire è più accettevole; onde si suole dire: gli uomini al tempo d’oggi sono vaghi di brevità».3
Non si dimentichi, peraltro, che nell’adottare questa scrittura concisa e sentenziosa Fra Bartolomeo non si sottraeva al più autorevole modello stilistico, inalienabile per lui e per tutto il Medioevo, rappresentato dalla Bibbia e dalla sua incalzante eppur controllata disposizione a «versetti». Tutti i principi retorici, anche di esplicita discendenza classica, valevano in quanto costituivano la conferma dello stile biblico, che da secoli dominava la coscienza dello scrittore medievale. Non è detto ch’essa si debba considerare sempre presente; anzi, la sua efficacia consiste proprio nell’essere diventata canone tradizionale, indipendente dalla sua stessa fonte. L’andamento parallelistico e simmetrico di questa sintassi, che ha una sua particolare sapienza e che soltanto a chi ha l’orecchio adusato al periodo boccacciano e classicheggiante può parere semplicistica e scarna, possiede una ragione di cultura a sé stante: cioè, non è affatto riflesso di una sensibilità elementare e balbuziente, sibbene documento perentorio di esperta civiltà.