Non si capirebbe nella sua gestazione storica il costrutto sintattico di Dante, che conforma il proprio stile (specie nella Divina Commedia ) all’ideale del «breviloquio». E, tanto per non scostarsi dal circolo della presente indagine, basterebbe l’analisi dell’«esempio» di Traiano che si rievoca nel Purgatorio (X 73-93). già adottato dall’autore del Novellino (al n. LXIX).
S. Battaglia, Premesse per una valutazione del ‘Novellino’ (1960), poi in Id., Capitoli per una storia della novellistica italiana. Dalle Origini al Cinquecento, Liguori, Napoli 1993, pp.148-152
Anche questo è un problema tipicamente medievale e religioso, che in questa sede basterà accennare. La fede cristiana e la sua etica non dissimulavano, a volte, la loro diffidenza per la parola abbondante o sottile, che assai spesso cela il pensiero e lo rende insidioso e seduttore. Sicché la parola essenziale e nuda rispondeva anche alla spontaneità e purezza del sentimento, ne era una garanzia. Fra i tanti testi medievali che asseriscono questo canone di parsimonia verbale, merita qui menzione un passo di Jacopone da Todi: «Omo che vol parlare, emprima de’ pensare – si quillo che vol dire è utele ad odire. – La longa materia sòl generar fastidia: – lo longo abbriviare sole l’om delettare. – Abbrevio mia ditta, longeza breve scritta; – chi ce vorrà pensare, ben ce porrà notare (p. 299 dell’ediz. curata da Franca Ageno, Firenze 1953).
Cito dall’edizione di Firenze (Barbera), del 1861; questa parte è stata riprodotta da Giuseppe de Luca, nel suo recente volume antologico: Prosatori minori del Trecento, t. I, Milano-Napoli 1954, pp. 49 e ss. Per tale aspetto e per la bibliografia inerente, si rimanda a Giuseppe Manacorda, Fra B. da S. C. grammatico e la fortuna di Gaufredo di Vinesauf in Italia (nella «Raccolta di studi di storia e critica letteraria dedicata a F. Flamini», Pisa 1918, pp.141-152), e a Cesare Segre, Volgarizzamenti del Trecento, Torino 1953, pp. 402-403.
Del resto, gli stessi criteri erano già stati divulgati da «maestri» come Brunetto Latini, che accoglieva il pensiero antico con la sua consueta remissività; una pagina del suo Tesoro era spesa, appunto, a illustrare questa qualità fondamentale dell’orazione: «Tullio disse [e citiamo dal volgarizzamento] che allora è il fatto contato brevemente, quando il parlatore s’incomincia al diritto cominciamento di sua materia, e non di lunga cominciaglia, che non fa utile a suo conto… Altresì sarebbe breve, se là ov’egli è assai a dire la somma del fatto, egli nel divisa per parti; ché basta ben dire così: Quest’uomo uccise quell’altro; e non dire: Egli lo prese, e misegli mano alla gola, e così fu questo, e così fu quell’altro; ché le più volte basta a dire quel ch’è fatto, senza dire il come o in che maniera… Altresì è egli breve, se non conta ciò che li può annoiare, o quel che non può aiutare; e se dice ciascuna cosa una volta, e non più; e s’egli non ricomincia spesso alla parola ch’egli ha detta» (pp.135-137 del vol. IV del Tesoro volgarizzato da Bono Giamboni, Bologna 1883). Anche nel Fiore di Rettorica di Guidotto da Bologna appaiono enunciati questi dettami con risoluto convincimento: «Si può il fatto narrare brevemente, se colui che favella, non si fa dal cominciamento del fatto, ma fassi da quello luogo che fa bisogno; e se non seguita il fatto insino alla fine, ma insino a quello luogo che fa mestieri; e se dice il fatto summariamente, e non per partite, quando si conviene di dire così; perché molte volte basta di dire solo che il fatto sia fatto, benché non si dica il modo come fatto sia; e se guardarassi di dire molte cose che non sono del fatto ma possono nascere da quello; e se non si partirà dal fatto che ha cominciato, e metterassi a dire altre cose [ecc. ecc.]. E colui che vuole bene il fatto narrare non deve solamente tacere il fatto che gli fa danno, ma eziandio quello che non gli fa né danno né prode; e la parola, che ha detto una volta, non la ridica poscia più, come in questo modo: – Nell’ora della cena fu Martino in Roma; posciaché nell’ora della cena fu in Roma Martino giunto, cenò a grande agio; a grande agio cenato, mise uno guato; messo il guato, la femmina rapìo, onde è nato molto male. – Non solo del fatto, ma delle parole che sono di coperchio, si dee guardare colui che favella» (pp. 35-36 dell’ediz. di Bartolomeo Gamba, Venezia 1821), E, ancora (a p.110): «Ed è un’altra sentenza, che si appella brevità, la quale ha luogo quando il dicitore pone solamente parole necessarie di dire, dicendo solamente la somma delle parole… Questo ornamento è molto belo, e in poche parole comprende molta sentenza». Questo procedimento d’altronde, costituiva una «figura» assai nota alla retorica antica e medievale: la «brachilogia». Si veda, ad esempio, come Cassiodoro l’applichi al suo commento scritturale, ripetendone la definizione usuale («brachilogia, id est brevis locutio, cum plura paucis complectimur»; cfr. Patr. Lat., vol. LXX, col. 166). A cui i grammatici contrapponevano la «macrologia» e la «perissologia», i due difetti contrari alla brevità, la cui nozione si trasmise per tutto il Medioevo, da Donato a Isidoro fino a Bene da Firenze (sec. XIII). Si veda il passo delle Etimologie (I34, 7-8): «Perissologia adiectio plurimorum verborum supervacua, ut (Deuteron. 33,6): “vivat Ruben at non moriatur”; dum non sit aliud vivere quam non mori. Macrologia longiloquium, res non necessaria conprehendens, ut (Liv. frag. 64 M.): “Legati non inpetrata pace retro onde venerant domum reversi sunt”. Tautologia, idem loquium, ecc.» (dall’ediz. di W.M. Lindsay, vol. I, Oxonii 1911). Su questo tema si riscontri il commento che ne fa Jacques Fontaine nel suo esauriente vol. Isidore de Sevilla («et la culture classique dans l’Espagne Wisigothique»), Paris 1959, p. 288. Se ne riscontri l’eco nella Summa dictaminis di Bene da Firenze: cfr. l’ediz. provvisoria di G. Vecchi, p. 25 (Bologna 1953), nella collana «Mediaevalia», vol. III. Si veda ora, a sostegno della nostra posizione, il saggio di Vittorio Russo, La tradizione retorica nel «Novellino», in «Filologia romanza», VI (1959), p. 401 e sgg.