I. Le molte autorevoli affermazioni della «modernità» di Baudelaire mi trovano, al tempo stesso, del tutto consenziente e del tutto indifferente. Suppongo sia vero che, come ha scritto T. S. Eliot, Les Fleurs siano «il piú grande esempio di poesia moderna in qualsiasi lingua», e che, come ha scritto Paul Valéry, sia con Baudelaire che la poesia francese si impone «come la poesia tipica della modernità»; o, ancora, che Baudelaire costituisca, secondo la suggestiva metafora critica di Michel Butor, «il perno attorno a cui la poesia ruota per diventare moderna». D’accordo; ma resta da vedere, non tanto il perché (ciascuno di questi lettori eccellenti fornisce un suo ragionevole, meditato perché), quanto di quale modernità, in fin dei conti, si sta parlando, dal momento che ciascuno (di loro e di noi) ha presumibilmente una sua forte e tenace idea in proposito: Valéry, mettiamo, ha in mente la poesia pura, cosicché Baudelaire sarebbe moderno perché (e nella misura in cui) «precorre» Verlaine e Rimbaud e, soprattutto, Mallarmé; e via discorrendo.
Tanto vale, allora, mettere subito le carte in tavola e dichiarare che due sono le letture che con maggiore convinzione condivido e che tutt’e due sono, curiosamente, non di poeti né di poeti-critici, ma proprio di critici (nel secondo caso, anzi, di un critico-filologo): Albert Thibaudet e Erich Auerbach.
Del primo, considero assolutamente fondamentale l’idea che la singolarità e la grandezza della poesia di Baudelaire consistano, in misura decisiva, nell’alleanza che in essa si propone e si attua tra poesia e prosa o, per dirla con le sue parole, «tra prosa nuda e poesia pura»1: alleanza che a lungo (e forse ancora) ha potuto essere scambiata per «banalità o scorrettezza», e che persino a un lettore geniale e profetico come Proust faceva l’impressione di «qualcosa di strozzato, come un venir meno del respiro»2, e nella quale Thibaudet riconosce invece un’arte della dissonanza «piú sottile e piú delicata che non l’arte della consonanza». Intuizione critica stupenda, attraverso la quale sarei portato a filtrare non solo qualsiasi discorso sulla «modernità» di Baudelaire, ma anche ogni immagine o progetto, ancora oggi, di modernità in poesia.
Quanto ad Auerbach, è addirittura superfluo ricordare la sua fondamentale asserzione che Baudelaire è stato il primo a «dare forma sublime» a soggetti appartenenti, secondo l’estetica classica, alla categoria del «ridicolo», del «basso», del «grottesco». Piuttosto, sarà il caso di insistere su un corollario di tale asserzione: per Auerbach, Baudelaire rimane, sotto questo profilo, «un caso estremo» anche se lo si ponga «accanto a coloro che dopo di lui fecero il medesimo tentativo»3.
2. È stato dunque sotto il doppio segno dell’alleanza tra prosa e poesia (ovvero dell’«arte della dissonanza») e dell’assunzione del comico in sublime che ho cercato di porre, sin dall’inizio, il mio lavoro di ricostruzione in lingua italiana del testo poetico baudelairiano. Non voglio tediare il lettore con un elenco dei mezzi specifici che ho pensato di dover adibire alla realizzazione di questo intento; e, d’altra parte, temo che non riuscirei nemmeno ad elencarli con sufficiente precisione, dato che, nel tradurre poesia come nello scriverla, l’orecchio e la mano sono spesso piú veloci della ragione e hanno inoltre una certa tendenza a mimetizzarsi, ad occultarsi alla sua vista. Mi limiterò a ricordare che connaturati all’intento mi parvero sin dall’inizio sia il rifiuto del cosiddetto isometrismo (cioè della pretesa di rendere con doppi settenari regolarmente rimati gli alessandrini e le rime dell’originale) sia, all’estremo opposto, quello di una metrica atonale o informale. Una forma doveva esserci, e a suo modo rigorosa anche se non codificata a priori, per dare sede e riparo a quell’arte «sottile e delicata» della dissonanza di cui discorre Thibaudet; e questa forma, a mio avviso, poteva essere trovata solo in un incrocio continuamente reinventato, e verificato volta a volta «sul campo», tra verso libero e verso tradizionale, quest’ultimo in misure varie e a volte abnormi e tuttavia sempre riconducibili, direttamente o indirettamente, a una sorta di integrazione-conflitto tra doppio settenario (che, comunque, non è l’alessandrino) ed endecasillabo (che è, storicamente, il «nostro» alessandrino, nel senso che sta alla tradizione poetica italiana come l’alessandrino sta alla tradizione poetica francese).
Quanto alle rime, si trattava di trasformarle da adempimento sonoro in metafora o fantasma dell’adempimento, cosa in qualche misura possibile a patto di saper giocare (e qui, francamente, non sta a me dire se e quanto io ci sia riuscito) su assonanze e ricorrenze vocaliche o addirittura su calcolate e ostentate elusioni.
Vi era poi, fondamentale, la questione del lessico e della sintassi; per rappresentare o evocare in termini attuali, voglio dire attualmente percettibili, l’interazione tra «comico» e «sublime», bisognava, a mio modo di sentire, accentuare entrambi i registri in causa, rendendo per cosí dire piú eccelso l’eccelso del linguaggio baudelairiano (a costo di retrodatarlo, di farlo apparire, a tratti, piú aulico, piú «antico») e, per contro, piú basso il basso, piú grottesco il grottesco, facendo scivolare ancora piú in qua – verso un’ipotetica «funzione Céline», tanto per intenderci – la sua componente realistico-prosastica. E, del resto, questo procedere per divaricazione, anzi per enfatizzazione della divaricazione, spingendomi sino a mimare e, proprio per mimarla con chiarezza, a moltiplicare, a esasperare quell’impressione di «canto stonato», inascoltabile «senza digrignare i denti», di cui parla Proust nel suo stupendo parallelo fra la poesia di Baudelaire e la musica dell’ultimo Beethoven4, corrispondeva alla piú profonda delle mie convinzioni, e cioè che Baudelaire (come, forse, tutti i poeti davvero grandi, ma in modo piú specifico e per cosí dire materiale) è sfasato rispetto al proprio tempo non solo in avanti ma anche all’indietro, è davvero intempestivo non solo nel senso che anticipa ciò che ancora non esiste, ma anche nel senso che trattiene e continua a metabolizzare qualcosa che i «buoni» poeti, i poeti alla moda, disdegnano come «superato».
3. Il testo italiano che si presenta in questo volume è il risultato di un lavoro iniziato piú d’un quarto di secolo fa e proseguito attraverso una serie praticamente ininterrotta di revisioni e ripensamenti; e anche oggi, licenziandone la quinta versione a stampa5, faccio un po’ fatica a considerarla «definitiva». Anche a prescindere dalla mia personale esperienza, sono infatti convinto che il compito di un traduttore di poesia sia un compito infinito, un compito che è lecito immaginare concluso solo in un punto puramente ipotetico posto al di là del tempo. E se non fosse, nei confronti del lettore, una pretesa evidentemente fuori luogo, mi piacerebbe che non a questa o a quella delle mie versioni quanto piuttosto al loro insieme, all’immagine complessiva e dinamica che diacronicamente ne risulta, si guardasse come alla mia proposta di lettura-traduzione delle Fleurs du mal e delle altre poesie di Baudelaire.
Anche i criteri che ho cercato di esporre poco fa si riferiscono, è chiaro, a questo insieme, a questa immagine diacronica. Aggiungo, per finire, qualche considerazione riferibile in modo piú specifico a quella che si potrebbe chiamare, all’interno di essa, la «funzione variante» o, meglio ancora, la «funzione rifacimento». A guidarmi, nel correggere e nel mutare, è stato soprattutto l’intento di rendere piú coperta, piú implicita, meno espressionisticamente vistosa (senza per questo, beninteso, revocarne la centralità) la piú volte citata divaricazione fra alto e basso, fra sublime e comico, fra «poesia» e «prosa». In altre parole, ho cercato di avvicinarmi sempre di piú, per quanto era nelle mie forze, a un uso «sottile e delicato» di quell’«arte della dissonanza» che sulle prime mi era parso di dover praticare quasi a qualsiasi costo, sbandierandola in modo dimostrativo e quasi provocatorio, e che in seguito ho sentito invece il bisogno di perseguire con maggiore cautela e piú ancora, direi, con maggiore segretezza.
Analogamente, mi è sembrato non soltanto possibile ma anche opportuno, se non addirittura indispensabile, procedere a una sorta di normalizzazione metrica, pur continuando a non volerla risolvere in un isometrismo tanto arduo quanto, a mio avviso, insensato. Chi, nel frattempo, avesse seguito la mia attività di scrittore di versi «in proprio» vi avrebbe probabilmente notato un’evoluzione d’analogo segno e significato. In realtà, e piú in generale, è ragionevole supporre che io abbia proiettato via via su questa impresa i miei interessi «personali» del momento; ma mi lusingo che essi siano andati, almeno o soprattutto da un certo punto in poi, di pari passo con gli interessi (e i doveri) della fedeltà: da intendersi ovviamente, quest’ultima, come l’ho sempre intesa, ossia come fedeltà all’evento complessivo che chiamiamo testo originale e di cui il significato letterale non è che uno degli elementi decisivi.
[Luglio 1998].
1 Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni, trad. it. di J. Graziarli, Il Saggiatore 1967.
2 Marcel Proust, Giornate di Lettura, trad. di P. Serini, Einaudi 1958.
3 Erich Auerbach, Da Montaigne a Proust, trad. di G. Alberti, A. M. Carpi e V. Ruberl, De Donato 1970.
4 Marcel Proust, Giornate di Lettura cit.
5 Le quattro precedenti sono uscite nel 1973 presso Mondadori, nel 1987 e nel 1992 presso Einaudi, nel 1996 presso Mondadori; le modifiche piú radicali sono intervenute fra la prima e la seconda.