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Storia e Storie
collana diretta da Gianni Fara
Avvertenza
Nel libro vengono rievocate alcune inchieste giudiziarie: alcune già concluse e altre non ancora. Tutte le persone coinvolte e/o citate a vario titolo – anche se condannate nei primi gradi di giudizio – sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva.
Otello LupacchiniIN PESSIMO STATO“C’è un grande futuro
nel nostro passato”
Omicidi, attentati, tradimenti politici e umani, malversazioni, scandali finanziari, straripamenti di potere, brigantaggio, mafia, stragismo conservatore, terrorismo eversivo. Sono soltanto alcuni dei mali che affiorano scavando nella storia dell’Italia unita e che rendono intollerabile la retorica del guardare avanti, per trarre dalle nostre radici fresca linfa per rinnovare tutto quel che c’è da rinnovare nella società e nello Stato.
Uno dei magistrati italiani fra i più noti, non fosse che per i risultati utili ai quali sono approdate le sue indagini, concentra il fuoco dell’attenzione su alcuni dei tanti fatti della storia patria volutamente ignorati, esorcizzati o, peggio, manipolati da chi non perde occasione, tuttavia, per richiamare alla responsabilità di un verbo unitario, che sappia costruire speranza e induca a ritrovarsi attorno a idee-guida per vivere una nuova primavera della Nazione.Otello Lupacchini
In magistratura dal 1979, impegnato da sempre sui fronti caldi della criminalità organizzata, comune, politica e mafiosa.Si è occupato tra l’altro degli omicidi del PM Mario Amato, del banchiere Roberto Calvi, del prof. Massimo D’Antona, della strage di Bologna e della Banda della Magliana.Autore del best-seller Banda della Magliana edito da Koinè Nuove Edizioni (oltre 30.000 copie vendute).
Otello Lupacchini
In pessimo statoISBN 978-88-89828-441©copyright by Koinè Nuove Edizioni prima edizione luglio 2014Direzione, Redazione e Sede Legale
00144 Roma, Viale della Grande Muraglia 95 tel. 06.52247979 fax 06.52244280
email: info@edizionikoine.it sito internet: www.edizionikoine.itCoordinamento editoriale
Madrilena LioiCopertina
Federica ZambonEBook a cura di
Valerio Marcelli
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
This book is Copyright and may not be reproduced in whole or in a part without the express permission of the publishers in writing.
Orgoglio e fiducia, innanzitutto. Non temiamo di trarre questa lezione dalle vicende risorgimentali! Non lasciamoci paralizzare dall’orrore della retorica: per evitarla è sufficiente affidarsi alla luminosa evidenza dei fatti. L’unificazione italiana ha rappresentato un’impresa storica straordinaria, per le condizioni in cui si svolse, per i caratteri e la portata che assunse, per il successo che la coronò superando le previsioni di molti e premiando le speranze più audaci.[Dal discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla Seduta comune del Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia]Parlando a Rimini a una grande assemblea di giovani nell’agosto 2011, volli rendere esplicito il filo ispiratore delle celebrazioni del 150° della nascita del nostro Stato unitario: l’impegno a trasmettere piena coscienza di “quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato”, e delle “grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”. E aggiunsi di aver voluto così suscitare orgoglio e fiducia “perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo bagaglio di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile”. Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa, sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità – fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile.[Dal discorso d’insediamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di fronte al Parlamento in seduta comune del 22 aprile 2013]
All’inestinta memoria di Oliverotto Euffreducci da Fermo.
INDICE
“Un sano bagno di cupo ottimismo”
Cap I - “Il naufragio del piroscafo Ercole”
Cap II - “Dai moti contadini al «brigantaggio» antiunitario”
Cap III - “Lo scandalo delle Ferrovie Meridionali”
Cap IV - ““A banca ’o sciulo””
Cap.V - “L’affaire Regìa dei Tabacchi”
Cap.VI - “La speculazione edilizia nella Roma postunitaria”
Cap. VII - “I misfatti delle Opere Pie.”
Cap. VIII - “Lo scandalo della Banca Romana”
Cap IX - “Liberali o conservatori, tutti uguali di fronte al denaro”
Cap. X - “Misteriosa morte di un banchiere”
Cap XI - “Alla radice degli scandali finanziari postunitari”
Cap. XII - “Con un colpo di spada o di coltello, non si uccide la Storia”
Cap.XIII - “Gli attentati anarchici di fine Ottocento”
Cap. XIV - “L’attentato di Passannante a Umberto I”
Cap. XV - “L’attentato di Acciarito a Umberto I”
Cap.XVI - “L’assassinio di Umberto I”
Cap. XVII - “L’affaire Murri”
Cap XVIII - “Sequestro e omicidio di Giacomo Matteotti”
Cap XIX - “Gli attentati a Benito Mussolini”
Cap.XX - “Leggi «fascistissime» per annientare l’opposizione”
Cap. XXI - “L’arresto illecito di Antonio Gramsci”
Cap.XXII - “Gramsci, Grieco, Togliatti e il mistero della «strana» lettera”
Cap. XXIII - “Del ruolo di Stalin e di Togliatti nella guerra civile in Spagna”
Cap. XXIV - “La lotta del fascismo alla mafia”
Cap.XXV - “L’assassinio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli”
Cap XXVI - “Giuseppe Cambareri il «Mago dei Generali»”
Cap XXVII - “Mito e realtà dei «buoni italiani»”
Cap.XXVIII - “Le esecuzioni post-conflitto e le tensioni in seno alla Resistenza”
Cap XXIX - “Giuseppe Albano: il «Gobbo del Quarticciolo»”
Cap XXX - “Il Noto Servizio”
Cap. XXXI - “Sui rapporti tra lo Stato repubblicano e la Mafia”
Cap. XXXII - “Un convitato di tutto rispetto al tavolo antidemocratico: la Mafia”
Cap. XXXIII - “La strage di Portella della Ginestra”
Cap. XXXIV - “Il mistero della scomparsa di Salvatore Giuliano”
Cap.XXXV - “L’attentato a Palmiro Togliatti”
Cap. XXXVI - “Il caso Montesi”
Cap XXXVII - “L’affaire Mattei”
Cap XXXVIII - “Il «Sistema Cefis»”
Cap. XXXIX - “Giovanni de Lorenzo e il «Piano Solo»”
Cap XL - “La strage di Piazza Fontana”
Cap. XLI - “La violenza di Stato”
Cap. XLII - “L’Italia dei golpe abortiti”
Cap.XLIII - “Il caso De Mauro”
Cap XLIV - “Opposti estremismi”
Cap XLV - “Il moralizzatore della politica italiana e il viceré del Pri in Sicilia”
Cap XLVI - “Lo scandalo del petrolio”
Cap XLVII - “Perchè fu ucciso Pier Paolo Pasolini?”
Cap XLVIII - “L’Anonima Sequestri”
Cap. XLIX - “L’omicidio di Vittorio Occorsio”
Cap. L - “La Banda della Magliana”
Cap. LI - “Il lodo Moro”
Cap. LII - “Sequestro Moro: il falso Comunicato n. 7”
Cap LIII - “A proposito di Mario Moretti”
Cap. LIV - “La parabola dei fratelli Peci”
Cap LV - “La soluzione di conflitti per via omicidiaria”
Cap LVI - “Un delitto contro la parola: l’omicidio di Peppino Impastato”
Cap LVII - “L’omicidio di Mario Francese”
Cap LVIII - “L’omicidio di Carmine Pecorelli”
Cap LIX - “Loschi retroscena dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli.”
Cap LX - “L’omicidio di Valerio Verbano”
Cap. LXI - “L’assassinio di Mario Amato”
Cap LXII - “L’omicidio di Aldo Semerari”
Cap. LXIII - “Il suicidio di Maria Fiorella Carraro”
Cap LXIV - “Figure e Figuri intorno a Villa Mafalda”
Cap LXV - “Il sequestro di Ciro Cirillo”
Cap LXVI - “Intorno al crac del Banco Ambrosiano”
Cap LXVII - “Fumo di Satana nella Chiesa”
Cap LXVIII - “All’origine dell’affaire Orlandi”
Cap LXIX - “Crudele è la logica della Storia: ma quella è”
“Indice dei nomi”
Un sano bagno di cupo ottimismo
(…) i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia (…). I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi.
[Dall’intervista ad Enrico Berlinguer, di Eugenio Scalfari, La Repubblica, 28 luglio 1981].C’è un problema di moralizzazione della vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore (…) il problema (…) delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile (…). Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e della pubblica amministrazione, una rete di corruttele grandi e piccole, che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica (…) i casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità (…).
[Dal discorso alla Camera di Bettino Craxi, del 3 luglio 1992]Purtroppo, anche di recente, la cronaca ci ha rivelato come, nel disprezzo per la legalità, si moltiplichino malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili, vergognosi (...). Non è questo un contesto accettabile per persone sensibili al bene comune, per cittadini onesti, né per chi voglia avviare un’impresa (…).
[Dal discorso del Capo dello Stato Giorgio Napolitano alla cerimonia d’inaugurazione, al Quirinale, dell’anno scolastico 20122013]Signor Presidente,
abbiamo letto con particolare attenzione l’intervento da Lei pronunciato di fronte alle Camere per chiedere la fiducia al Suo Governo. Pur avendo riscontrato che nel testo si fa cenno alla necessità di affrontare i fenomeni della lotta alla criminalità organizzata, della corruzione e dell’evasione fiscale, non Le nascondo che su questi punti, conoscendo la Sua sensibilità in materia, ci saremmo aspettati un discorso più incisivo, convinti come siamo che è puntando sulla centralità della cultura della legalità democratica, sul rispetto delle leggi e sul contrasto ad un malaffare sempre più sistemico e pervasivo, che il nostro Paese può ripartire e risanare i suoi conti pubblici, trovare le risorse necessarie per la ripresa economica, restituire credibilità alle nostre istituzioni e speranza ai cittadini onesti, impegnati e responsabili.
[Dalla Lettera aperta che il presidente di Avviso Pubblico, Andrea Campinoti, ha inviato al presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta, il 13 maggio 2013]Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che l’Italia abbia vissuto nel Regno della Necessità quasi sempre, tranne nel momento magico del Comitato di liberazione nazionale, della Costituzione repubblicana. I governanti che sono venuti dopo sono stati potenti stabilizzatori, più che responsabili. Quando parla al popolo, lo stabilizzatore gli dà poco rispettosamente del tu e d’istinto cade nel frasario del gangster: “Ti faccio un’offerta che non potrai rifiutare”.
[Barbara Spinelli, «Se la stabilità si trasforma in idolatria», La Repubblica, 24 luglio 2013]Le celebrazioni, or son trascorsi un paio d’anni, per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, con buona pace della retorica rituale, sono stati motivo di divisione e scontro. Il tutto ha assunto aspetti paradossali se non, addirittura, grotteschi: discutere dell’Unità, ma meglio sarebbe dire l’azzuffarsi su di essa, era probabilmente un modo, e purtroppo non il solo, sia di cercare rassicurazioni di fronte alla deriva etica senza fine, alla quale, purtroppo, assistiamo da anni e a cui dovremo continuare ad assistere impotenti, chissà per quanto tempo ancora, quasi fosse iscritta nel Dna dello Stato Unitario, sia per rimuovere, o almeno dissimulare, i tanti gravi problemi da cui è afflitto il nostro Paese.
Cupi avvoltoi, infatti, da tempo volteggiavano sopra l’Europa, in attesa di avventarsi sul primo cadavere disponibile, e la speculazione internazionale era convinta che l’Italia fosse un obiettivo, poiché ritenuta troppo debole. Innanzi tutto, per ragioni economiche: sebbene le banche sembrassero tenere, lo spaventoso debito pubblico e la dilazione al 2013 dei tagli alle spese della «manovra Tremonti» non convincevano assolutamente gli investitori sulla nostra ripresa; ma anche per ragioni di politica interna e internazionale: il presidente del Consiglio era, di fatto, delegittimato nell’esercizio del suo ruolo dalle sempre più numerose azioni legali contro la sua persona, tanto che, a livello internazionale si riteneva affatto inopportuna la prosecuzione di un Gabinetto dilaniato da lotte intestine, fra il premier stesso e il suo ministro dell’economia, e, oltre tutto, con la coalizione di maggioranza ormai in via di progressivo ed irreversibile sfarinamento; per l’inefficienza, finalmente, dell’intelligence, che consentiva a gruppi di potere, come quelli francesi, d’infiltrarsi nei nostri mercati per sostituirsi alle nostre zone d’influenza, impoverendoci. Per non dire che, nella Capitale, si ricominciava a sparare e a lasciare morti ammazzati per la strada, mentre si sviluppavano, nell’estremo tentativo di salvataggio di una classe politica irrimediabilmente travolta dal discredito, le grandi manovre per la definitiva liquidazione, con quella della cosiddetta «seconda» Repubblica, anche dello Stato democratico di diritto, voluto dalla Costituzione del 1947.
Disoccupazione, sotto-occupazione e precarietà diffusa indotte dalle nuove dinamiche capitalistiche, esplosione della bolla del debito pubblico e difficoltà di tenere sotto controllo l’aumento dei relativi interessi, battaglia di retroguardia per «difendere l’euro» e patto di stabilità imposto dall’Europa monetaria e commerciale su sollecitazione della Germania, decrescita del prodotto interno lordo, imbarbarimento complessivo nella società aggravato dalla diffusione dell’illegalità, dell’evasione fiscale e dell’economia criminale, crisi politica permanente nel ferale crepuscolo della cosiddetta «seconda» Repubblica, pericolo concreto di un integrale ed irreversibile asservimento del Paese agli interessi della finanza internazionale, sono oggi le principali piaghe che affliggono la Nazione, gravi al punto che hanno fatto passare in secondo piano le ormai quasi del tutto dimenticate rivelazioni destabilizzanti di Wikileaks ed i gravi sospetti di tangenti alla classe dirigente italiana per affari d’ogni genere, dal campo della meccanica a quello dell’energia.
Quei gravi sospetti, però, dopo essersi inabissati, sono prepotentemente riemersi, come un fiume carsico, all’improvviso. Nel tardo autunno del 2011, Silvio Berlusconi, che già barcollava sotto i colpi della giustizia, complice il crollo in borsa del titolo Mediaset, lasciava Palazzo Chigi. Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, insediava ex abrupto, più per congelare il quadro politico che per impedire il tracollo culturale, sociale, economico e finanziario a cui era ormai da tempo irrimediabilmente avviato il nostro disgraziatissimo Paese, il «governo tecnico» del Professor Mario Monti, appoggiato, obtorto collo anche se fino all’ultimo, a colpi di voti di fiducia, dalla «strana maggioranza» designata dall’acronimo «ABC», estratto dai nomi del Segretario del Popolo della libertà, Angelino Alfano, di quello del Partito democratico, Pierluigi Bersani, e del Presidente dell’Unione di Centro, Pier Ferdinando Casini. A fine 2012, Silvio Berlusconi rompeva l’accordo, provocando la fine anticipata della legislatura. Nel farsi pressante il gioco al massacro della campagna elettorale, la giustizia penale si muoveva contro i grandi gruppi industriali, sebbene per fatti diversi l’uno dall’altro. Così, da ultimo, mentre Giuseppe Orsi, presidente e amministratore delegato, di Finmeccanica, veniva arrestato, su richiesta della procura di Busto Arsizio, Paolo Scaroni, amministratore delegato del gruppo Eni, e prima di lui i vertici della controllata Saipem, ricevevano, invece, dalla Procura di Milano, avvisi di garanzia, là dove il reato ipotizzato era, per tutti, la corruzione internazionale; Gianluca Baldassarri, ex capo dell’area finanza del Monte dei Paschi di Siena, veniva fermato dalla Guardia di Finanza, su richiesta della Procura della Repubblica senese, nell’ambito delle indagini preliminari che vedono ancora coinvolti, a vario titolo, gli esponenti del management dimissionato di quell’Istituto di credito, per i reati di false comunicazioni al mercato e truffa; di non molto precedenti erano state le indagini aperte dalle procure di Milano e di Torino sulla gestione della Fonsai da parte della famiglia Ligresti, con appendice di un avviso di garanzia all’amministratore delegato di Mediobanca, per ostacolo alla vigilanza, su vicende legate alla fusione Unipol-Fonsai; per non dire della mano pesante della magistratura tarantina sull’Ilva, con tanto di sequestro, sui piazzali, del prodotto finito, perché considerato «provento di reato». E l’attivismo giudiziario contribuiva ad esasperare ancor più il clima di contrapposizione, si potrebbe dire addirittura di resa dei conti, fra la magistratura e le forze politiche, che segna, in preoccupante crescendo, gli ultimi cinquant’anni della storia della Repubblica. Questa volta, tuttavia, in nome di una «nobile» esigenza, dal sapore comunque ideologico, evitare, cioè, che indagini e provvedimenti giudiziari su singoli amministratori di società, specie se quotate in borsa, si trasformino in un danno reputazionale, che possa avere effetti anche sulla capacità di stare sul mercato e, quindi, sul conto economico.
Nello stallo postelettorale, mentre David Rossi, il capo della comunicazione di Mps, il 6 aprile 2013, precipitava dalla finestra del suo ufficio nella sede di Rocca Salimbeni e Beppe Grillo, sul suo blog, constatato che «Da quando, David Rossi si è buttato (lo hanno buttato?) dalla finestra di un ufficio dell’Mps dopo una lunga telefonata, sulla città è calata una cappa che si taglia con il coltello», affermava che «la vox populi senese (desse) per certo che Rossi non (sarebbe stata) l’ultima vittima», hanno preso corpo «larghe intese», formula ottimistica dell’innaturale connubio fra Pd e Pdl. Questo evento, definito sempre da Grillo, in lingua shakespeariana, come l’«andare a nozze dei due che copulavano da vent’anni», si è realizzato per effetto della rielezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica, conseguita, a sua volta, all’affossamento della candidatura di Romano Prodi, vittima, per così dire, del «fuoco amico» dei bicameralisti, che, acquattati nella cabina elettorale, hanno voltato la schiena al candidato ufficiale.
Personificazione dell’unità nazionale, non solo nel senso geografico ma anche in quello d’una armoniosa coesione, aduso, altresì, a moderare, stimolare, avviare, consigliare, influire, persuadere con discrezione, intessere equilibri e raccordi il neorieletto Presidente non aveva mai nascosto la sua propensione per le «larghe intese», alle quali invitava con insistenza quando il «governo tecnico» tosava l’Italia e dissanguava i meno benestanti, sferrando nel mucchio misure draconiane intese a ridurre il debito, secondo una tradizione che trovava il mirabile antecedente nell’imposta sul macinato escogitata da Quintino Sella. E, del resto, l’ultimo passaggio del primo settennato della sua presidenza era stato, per dirla con Stefano Folli (Il sole 24 ore del 13 aprile 2013), «un lascito» al suo successore: formare quel governo che fin allora si era rivelato impossibile, secondo un «metodo» che avrebbe potuto «venire utile per rendere le prossime stagioni meno aleatorie ed effimere»; su impulso, infatti, dello stesso Giorgio Napolitano, convinto che la ricognizione avrebbe dimostrato che non esistevano divisioni irreparabili o conflitti irrisolvibili fra le forze politiche, il 30 marzo 2013 erano stati istituiti due Gruppi di lavoro, con il compito di proporre, attraverso due distinti rapporti, misure dirette ad affrontare sia la crisi economica sia la crisi del sistema istituzionale; ai due gruppi di lavoro era stato assegnato, in particolare, il compito di misurare sulle questioni affrontate i livelli di convergenza e i punti di divergenza tra i componenti del Gruppo di lavoro al fine di facilitare un ampio consenso tra le forze politiche presenti in Parlamento; gli esiti sembrarono aver dato ragione al Capo dello Stato: i due dossiers, nota ancora Folli, costituivano «una plausibile e per certi versi innovativa piattaforma intorno a cui riunire, almeno sulla carta, una maggioranza parlamentare animata da spirito riformatore. Un “metodo”, appunto, nel segno della buona volontà o più semplicemente del buon senso»: senza sciogliere tutti i nodi politici, il lavoro dei «facilitatori» avrebbe dimostrato che «nel merito» non ci sarebbero state «questioni veramente laceranti».
Coerente con queste premesse ed inequivocabile, tanto nei contenuti quanto nei toni, è stata, a tal riguardo, l’esortazione rivolta al Parlamento dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel discorso d’insediamento del suo secondo settennato:Lavorare in Parlamento sui problemi scottanti del paese non è possibile se non nel confronto con un governo come interlocutore essenziale sia della maggioranza sia dell’opposizione. A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio – dopo che ci si è dovuti dedicare all’elezione del Capo dello Stato – si deve senza indugio procedere alla formazione dell’Esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera. Al Presidente non tocca dare mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall’art. 94 della Costituzione: un governo che abbia la fiducia delle due Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune.
E la condizione è dunque una sola: fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto, sapendo quali prove aspettino il governo e quali siano le esigenze e l’interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali – di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no – non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto – se si preferisce questa espressione – si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale.Esortazione che faceva seguito ad una dura reprimenda verso il ceto politico:Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento.
Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato: e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono. Attenzione: quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme.
Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il Presidente Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi.
La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti.
Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario.
Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese.
Reprimenda paradossalmente sottolineata dagli applausi dell’assemblea. Spettacolo imbarazzante, stigmatizzato magistralmente da Franco Cordero (il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2013): «un vecchio signore apostrofa l’assemblea con la frusta, e l’applaudono, ma siamo in Italia, dove melodramma, commedia, farsa appartengono al quotidiano; parole mimiche, gesti vanno letti in varie chiavi. Il fondo è conformismo sogghignante, venato d’una cinica crudeltà. Capisce poco del fenomeno italiano chi prenda alla lettera maschere ed eloquio».
Alla rielezione di Giorgio Napolitano ha fatto seguito, tambour buttant, al grido di «non sarà un esecutivo ad ogni costo», un accordo di governo, nel quale una parte sceglie i ministri, fissa i legiferanda e gli argomenti da non toccare, ha in tasca il decreto che sbanda le Camere, e la pistola alla tempia assicura la condiscendenza dell’altra, in nome del «primato della politica», con la scusa del quale si amalgamano malamente il cinismo compromissorio del Pci togliattiano, l’impunitarismo democristiano e il sovversivismo di craxiana memoria.Frattanto, però, alcuni nodi sono venuti al pettine.
Basti pensare, fra i tanti, alla chiusura della prima parte dell’inchiesta sul disastro del Monte dei Paschi di Siena, che pur lasciando imbarazzanti zone d’ombra, illumina tuttavia inquietanti scenari: ora sappiamo, ad esempio, che in Italia si può comprare una banca da 10 miliardi di euro, l’Antonveneta, con la stessa leggerezza con cui la più sprovveduta delle vecchiette sottoscrive il prodotto finanziario speculativo e pericoloso, soltanto perché così le ha consigliato il bancario; abbiamo anche capito che la Banca d’Italia ha avallato quella sciagurata operazione, inizio di tutti i guai, autorizzandola, nel 2007: naturalmente, come spiega l’attuale governatore Ignazio Visco, Bankitalia fece tutto quello che la legge le consentiva per prevenire il disastro e che, del resto, quello che oggi sembra un prezzo assurdo allora sembrava in linea col mercato; suscita, comunque, non poche perplessità il constatare, per un verso, che neppure le valutazioni di Bankitalia si sottraggono alle perverse suggestioni delle bolle che dominano le Borse; e, per l’altro, che l’ex direttore generale di MPS Antonio Vigni, come annotò su un taccuino, avesse a trarre l’impressione che tutta la struttura, dall’allora governatore Mario Draghi in giù, fosse «al nostro fianco»; sappiamo, altresì, che il ministero del Tesoro, cui compete la vigilanza sulle fondazioni azioniste delle banche, non ha adempiuto ai propri doveri con la diligenza necessaria ad evitare che a Siena spacciassero per capitale quello che in realtà era debito, mediante l’emissione di bond F.R.E.S.H. (Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid Preferred Securities), strumenti finanziari convertibili in azioni ordinarie del Montepaschi: naturalmente, è solo una coincidenza, ma in quel prestito ibrido creato per scalare l’Antonveneta nel 2008, con indubbi vantaggi per i creditori, si trovano coinvolti tutti i poteri della finanza italiana, da Mediobanca a Fonsai a Unipol a Generali; sappiamo, finalmente, che il contratto tra Mps e Nomura che nascondeva il falso in bilancio era chiuso in una cassaforte scoperta solo a fine 2012; come si legge, però, in una mail agli atti del segretario del Consiglio d’Amministrazione, Valentino Fanti, i riferimenti espliciti all’accordo che serviva a truccare i conti erano tra le carte lasciate da Vigni, che, naturalmente, nessuno ha toccato per mesi.
Altro nodo, che chissà se e come verrà sciolto, è quello della condanna divenuta definitiva di Silvio Berlusconi, ritenuto colpevole di frode fiscale, a seguito di pronuncia, il 1° agosto 2013, della Corte di cassazione, accolta, dapprima, dall’esultanza del cosiddetto «Esercito di Silvio», che non aveva capito la sostanza della sentenza della Cassazione, avendola interpretata come un’assoluzione; quindi dall’uniforme reazione di tutto il centrodestra, secondo il quale si sarebbe trattato di una sentenza tutta politica che ha trasformato il condannato in un martire. Ora, in nessuno dei due casi ci si è presi la briga di analizzare la vicenda e, come sarebbe stato opportuno, di contestarla nei dettagli, spiegando perché quella sentenza eventualmente non convince: si sono, piuttosto, sollecitate reazioni a prescindere, sostituendo lo svolgimento di un pensiero con la scorciatoia dell’invettiva.
Il Capo dello Stato, ascoltata la lettura del dispositivo del Supremo Collegio, previo elogio della Magistratura per il comportamento tenuto nelle precedenti settimane, quando infuriava la querelle sui tempi del processo a Silvio Berlusconi, ha auspicato, con encomiabile tempismo, la grande riscrittura delle regole con cui amministrare la giustizia: per il Quirinale, con la condanna di Silvio Berlusconi, si sarebbero finalmente realizzate le condizioni favorevoli «per l’esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all’amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso». Vale a dire: depotenziamento delle intercettazioni telefoniche, abbreviazione dei tempi d’indagine, contrazione dei poteri di coercizione personale endoprocessuale, limitazione della libertà di stampa, abolizione, in caso di assoluzione, dell’appello, istituzione di una cosiddetta «alta Corte di giustizia», organismo a maggioranza politica, con membri nominati per un terzo dal Parlamento e per un terzo dal Presidente della Repubblica, pensato per intervenire sulle decisioni del Csm in materia di provvedimenti disciplinari contro i magistrati.Non era esagerazione retorica l’ammonimento lanciato da Cesare Lombroso, stella di prima grandezza della nascente scuola italiana dell’antropologia criminale, nel 1893, «Corre come un soffio gelato per le ossa d’Italia» (Le piaghe d’Italia, in Il momento attuale, Casa editrice Moderna, Milano 1903): la profonda crisi morale e politica che travagliò i gruppi dirigenti italiani e la lotta frontale che dovettero sostenere il movimento operaio e il partito socialista, per sopravvivere contro la reazione borghese, magistralmente ricostruite da Umberto Levra (Il colpo di stato della borghesia, Feltrinelli, Torino 1975), stavano giungendo, a vent’anni dalla conclusione del processo risorgimentale, a minacciare la stessa esistenza del nuovo Stato, con rischi reali di guerra civile.
Come non ricordare, in proposito, gli abusi, la corruzione amministrativa, le brutalità poliziesche che colpirono vittime innocenti, il carattere classista della giustizia e la subordinazione di essa al potere esecutivo, la crudeltà e l’ottusità delle repressioni del 1894 e del 1898? Come dimenticare, altresì, sul finire del secolo XIX, il venire alla ribalta del movimento anarchico, nell’ambito della problematica sociale e politica europea, in seguito ad una serie di attentati terroristici contro alcune personalità forti di vari governi continentali, assumendo agli occhi della classe dominante il ruolo di nemico principale dell’ordine costituito? E che, in molti casi, la causa scatenante che spingeva uomini disperati a compiere (o a tentare di compiere) gesti terroristici, era, peraltro, uno spiccato senso di ribellione, frutto del forte disagio economico-sociale, contro le ingiuste condizioni di vita con le quali essi doveva misurarsi quotidianamente? Che, finalmente, illo tempore, alla drammaticità degli eventi, seguiva l’asprezza della lotta politica, con la contrastata affermazione del Partito socialista e le agitazioni dei gruppi anarchici, i quali ricorrevano, talvolta, anche al terrorismo, come l’assassinio di re Umberto I, ad opera di Gaetano Bresci, a Monza, con cui si chiuse, nel luglio 1900, quel decennio di crisi?
Ma forse vale la pena di ricordare e, come s’usa ormai dire, «contestualizzare».
Allorché Cesare Lombroso lanciava il suo ammonimento, era in piena ebollizione lo «scandalo della Banca Romana»: il 24 novembre 1893, di fronte alle opposizioni tumultuanti, Giovanni Giolitti, il Capo del Governo, in seguito al rapporto di una Commissione parlamentare d’inchiesta, fu costretto a dimettersi e, di lì a poco, evitò di misura l’arresto. Quello scandalo, nel declinare del secolo XIX, segnava il culmine di una serie di clamorosi fallimenti finanziari, originati soprattutto, ma non soltanto, da gravi irregolarità nella gestione degli istituti di credito, che avevano messo in crisi il sistema bancario nazionale e condotto ad emersione una rete di corruzione e di interessi indebiti con la classe politica al potere, di cui apparivano chiare le complicità o le connivenze, in molte operazioni speculative e dissennate. Le misere condizioni delle classi popolari, particolarmente colpite dalla crisi economica interna e internazionale, impoverite da una squilibrata industrializzazione e da un’agricoltura in decadenza, avrebbero di lì a poco provocato in tutto il Paese scioperi, disordini, vere e proprie rivolte, come quelle dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, nel 1894, e di Milano, nel 1898, sanguinosamente represse con l’uso dell’esercito e dello stato d’assedio, con limitazioni della libertà di stampa e lo scioglimento del Partito socialista. Le nascenti ambizionicoloniali, mentre esplodeva prepotente la questione meridionale, avrebbero subito, nel 1896, in Eritrea, una tragica battuta d’arresto, con la sconfitta nella battaglia di Adua, nella quale, le perdite italiane sarebbero ammontate a 8000 caduti sul campo e a quasi 3000 prigionieri, tra cui un generale.
Nel giugno del 1895, nel pieno di un battaglia parlamentare sugli episodi di corruzione e concussione dei quali era accusato il primo ministro Francesco Crispi, era stata pubblicata sul Secolo di Milano, in un apposito supplemento, e sul Don Chisciotte di Roma la Lettera agli onesti di tutti i partiti di Felice Cavallotti, il cui incipit tradisce la passione e l’irritazione dell’Autore:Scrivo queste pagine con disgusto, con rivolta dell’anima: ma le scrivo colla coscienza serena, dopoché per più giorni, tentando il possibile, resistendo a provocazioni che avrebbero stancata la pazienza di un santo, ho sperato di evitare a me stesso la fatica amara di doverle scrivere. Tentativo di speranza di cui nessun merito avrei, se proseguissi un qualunque interesse mio o mi tentasse qualsiasi povera ambizione: perché sol chi vuol salire, naturalmente desidera trovar meno aspri i gradini. Ma, finito appena sia il compito, che verso il Paese m’imposi, so di poter dimostrare la mia ambizione sola qual era, e invoco l’ora di poter in altr’aria, fra ben altre memorie, rifarmi dell’aria respirata fin qui.Il clamore suscitato da questo intervento del soi-disant «umile» e «ultimo dei fantaccini di Milazzo», per quanto grande, sia all’interno del Parlamento sia nella società intera, non era valso, tuttavia, ad ottenere le dimissioni del «glorioso sostitutor di Garibaldi»: Francesco Crispi era rimasto al potere ancora per un anno, avendo modo, così, di condurre lo Stato italiano al disastro della battaglia di Adua.
Quando, dunque, a partire dagli anni Settanta del Novecento, a seguito degli studi condotti, nella prima metà del secolo scorso, dal sociologo americano Edwin Sutherland, i cui risultati sono condensati nel «classico» White Collar Crime (New York, Holt, Rinehart & Winston,1949), le ricerche sulla criminalità economica sono assurte a leitmotiv pure nella criminologia europea, e i reati dei «colletti bianchi», la delinquenza finanziaria e degli affari, la corruzione nella pubblica amministrazione sono diventati argomenti la cui importanza ha iniziato ad essere comunemente percepita ben al di là della ristretta cerchia degli specialisti, a causa anche dell’attenzione loro riservata dai mass media, né le une né gli altri rappresentavano, in Italia, una novità assoluta.
Gli scandali bancari di fine Ottocento, del resto, non furono certamente il primo sintomo, nello Stato unitario, della «bancarotta morale del capitalismo» denunciata dai lombrosiani.
Tutto era cominciato con l’impresa siciliana di Giuseppe Garibaldi, e non mi riferisco soltanto alla scomparsa dei libri contabili della spedizione, nel misterioso naufragio dell’Ercole, verificatosi nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1861.
Il grande affare del secolo XIX furono, infatti, le ferrovie, simbolo del progresso tecnologico e del capitalismo industriale, snodo cruciale di forti investimenti e di speculazioni finanziarie, di scontri e accordi tra imprese multinazionali che condizionarono le scelte politiche degli Stati e dei governi, favorendo l’intreccio fra banche, industrie e classe politica; in tale contesto, s’iscrive la guerra sotterranea tra potenti gruppi finanziari internazionali, attorno al ghiotto appalto delle ferrovie del Mezzogiorno, combattuta in Sicilia, durante la fase cruciale della spedizione dei Mille.
In concomitanza con l’aggravarsi, peraltro, della situazione finanziaria del nuovo Stato unitario, fattasi preoccupante a causa del debito pubblico ereditato dagli Stati preunitari e dei costi delle guerre risorgimentali, tra il 1868 e il 1869, era, poi, maturato lo scandalo della Regìa dei Tabacchi.
Fu altresì nel settore edilizio e in quello della beneficenza che, durante i decenni post-risorgimentali, si verificarono malversazioni finanziarie di grande portata.
Per spiegare le cause per cui si sarebbero prodotti i meccanismi che condussero alla devastante catena di scandali e fallimenti bancari di fine Ottocento, Pierpaolo Martucci (Piaghe d’Italia. I lombrosiani e i grandi crimini economici nell’Europa di fine Ottocento, Franco Angeli, Milano 2002) ritiene sia necessario tener conto dei tratti che caratterizzarono lo sviluppo politico, economico e sociale del processo d’unificazione nazionale, subito dopo la presa di Roma, nel 1870. Inquesta ottica, grande importanza viene riconnessa alla sconfitta, nel 1876, della cosiddetta «Destra storica», il partito cioè dei nomi più illustri del Risorgimento, come Cavour, La Marmora, Ricasoli, Quintino Sella, Minghetti, e alla conseguente occupazione del potere da parte della «Sinistra», erede del repubblicano partito d’azione, ormai convertita alla Monarchia, in ossequio alle necessità storiche dell’unificazione, che annoverava personalità come Depretis, Nicotera, Mancini, Zanardelli, Cairoli. Poiché sia la Destra sia la Sinistra governative, in quanto entrambi espressione della medesima borghesia, non erano portatrici di orientamenti realmente alternativi in termini sociali ed economici, l’importanza dell’avvicendamento della seconda alla prima sarebbe da individuare, dunque, nell’inaugurazione, da parte di Agostino Depretis, della lunga stagione del «trasformismo». Pratica di governo, questa, che realizzava, di volta in volta, la propria maggioranza, a seconda degli interessi contingenti, mediante accordi con differenti gruppi di deputati.
Tutto ciò è senz’altro vero, ma, ancora una volta, perché non tornare qualche anno indietro, e, magari, farlo attraverso alcuni significativi passi della Lettera agli onesti di tutti i partiti, che la dicono lunga sulla disinvoltura con cui, anche prima del 1876, fosse à la page voltar gabbana?
In essa, Felice Cavallotti, denuncia che «il delicatissimo uomo», cioè Francesco Crispi, «cui parve delicato tanto l’opporsi alla inchiesta sulla Banca Romana, essendone debitore clandestino e domandandole due dì appresso altro sconto, quanto lo attestare il falso ad un giudice, ha torto di affastellare contro la luce del sole smentite inutili, bugie, quando si scopre che si mandano cinquantamila lire per un gran cordone. Dopo tutto non è gran somma; egli è abituato a ben maggiori e – fatto ragguaglio dei tempi e della età e dell’altissimo grado dell’uomo, non esorbita le proporzioni del prezzo che – semplice giovane avvocato in Palermo – sotto il governo dei Borboni chiedeva per ottenimento, non di decorazioni, ma di impieghi».
Accusa grave, quest’ultima, ma Felice Cavallotti non si sottrae dall’assolvere all’onere della prova:
Ne fa fede un vecchio istromento notarile del dicembre 1845 da tempo giuntomi nel suo autentico originale, rogato dal notaio Francesco Marchese al quale è annesso l’allegato seguente:Palermo, dicembre 1845
Tengo in mio potere ducati trecento, denaro del cav. Giuseppe Vassallo Paleologo che mi obbligo pagarlo al sig. avvocato D. Francesco Crispi, qualora in fra mesi quattro dalla data del presente otterrà un posto di consigliere di Intendenza in una delle provincie del regno delle due Sicilie. Scorso tal termine senza che il real decreto o real rescritto di elezione siasi emanato, i suddetti ducati trecento saranno da me restituiti al cennato sig. cav. Vassallo. Il cennato sig. avvocato Francesco Crispi resta obbligato di giustificare che nel termine anzidetto abbia avuto luogo la elezione a consiglier di Intendenza del signor cav. Vassallo e ciò non fatto nel termine stesso, io sottoscritto potrò restituire a quest’ultimo i ducati trecento.
Visto: Giuseppe Vassallo PaleologoSegue istromento notarile 26 decembre 1845 atti Marchese di Palermo confermante la obbligazione suddetta relativa al deposito fatto di onze cento da parte del sig. Giuseppe Vassallo Paleologo, per pagarle al sig. avv. Francesco Crispi ove fra quattro mesi si verificasse la condizione in detto tengo in mio potere annunziata.
L’atto è in forma esecutiva e firmato autenticamente dal notaio.
Nella sua requisitoria contro Crispi, Felice Cavallotti non si sottrae neppure dal rintuzzare «quel tal amico di Crispi, retour de Londres» che, «Venuto a sentore di questo documento, mise subito avanti le mani e telegrafò per tutta Italia ai giornali della Casa, che la mia prova dell’affare di Herz non sarebbe stata altro che questo». E all’«ottimo reduce» spiega: «io non cito quell’aneddoto antico che a solo studio di fisiologia, perché è nella giovinezza dei grandi uomini che se ne giudicano le vocazioni». Dà, quindi conto di questo assunto:A 24 anni, a 22 anni i fratelli Bandiera e Domenico Moro nel luglio 1844 avevano la vocazione di morir per l’Italia e farsi fucilare dai soldati del Borbone nel Vallone di Rovito. A 26 anni, nel dicembre 1845 – un anno e mezzo dopo – Francesco Crispi aveva quella di procurar impieghi del Borbone per denaro. Un contratto lecitissimo, non c’è che dire; anzi il reduce di Londra e gli altri scribi della Casa assicurano che vi furono a Napoli “numerosi avvocati, giovani specialmente, che patrocinavano affari personali presso i dicasteri centrali governativi e tali patrocinatori chiamavansi appunto avvocati ministeriali: e l’avvocato Francesco Crispi era del numero”, sicché era proprio una cosa bellissima; tanto vero che fu rogata da notaio.S’impone, prima di andare avanti nella disamina di questo pamphlet, che riserva non pochi altri elementi di riflessione, una necessaria digressione volta a tratteggiare, sia pure in via di rapidissima sintesi, la figura e il percorso politico dell’«ottimo reduce» da Londra, di quel «tal amico di Crispi, retour de Londres», verso cui si rivolge il sarcasmo cavallottiano.
Costui s’identifica nel Comandini, nato a Faenza il 4 dicembre 1853, battezzato come Antonio, ma che avrebbe più tardi preso il nome Alfredo.
Più che alla scuola del padre, Federico Comandini, il quale, tornato in libertà dopo una lunga carcerazione per cospirazione contro il regime pontificio, durata sino al 1865, si era rivelato sostanzialmente incapace, nel suo rigido attaccamento al mazzinianesimo, di adattarsi alla ribollente realtà della Romagna negli anni postunitari, la formazione politica del Nostro si era compiuta nel contatto con Aurelio Saffi e, soprattutto, con Eugenio Valzania, il garibaldino che con le sue aperture verso l’internazionalismo interpretava sia pure confusamente il desiderio di cambiamento delle nuove generazioni. Che, del resto, Alfredo Comandini volesse vedere superata l’eredità mazziniana lo aveva già dimostrato prima dell’arresto patito a seguito dei fatti di villa Ruffi, presso Rimini, dove i repubblicani di varie sfumature, il 2 agosto 1874, si erano radunati ufficialmente per elaborare una strategia unitaria elettorale, ma forse anche, almeno nelle intenzioni degli elementi più avanzati, per convincere i vecchi capi ad aderire al programma insurrezionale loro proposto dagli internazionalisti, lo aveva già dimostrato quando a Roma, il 29 marzo 1874, intervenendo nei lavori del XIV congresso delle società operaie, aveva con pochissimi altri propugnato il ricorso allo sciopero e l’istituzione di casse di resistenza, a sostegno delle lotte dei lavoratori.
Un’altra testimonianza del suo atteggiamento molto radicale ci è offerta dal ruolo primario da lui giocato nella fondazione e nella gestione del Comitato universitario per l’erezione del monumento a Giordano Bruno, iniziativa che, lanciata il 19 marzo 1876, sarebbe divenuta nota a livello internazionale piuttosto per il significato di rottura con il passato, che essa intendeva promuovere nella vita della capitale, che non per la realizzazione del fine propostosi, dato che il monumento fu inaugurato solo il 9 giugno 1889.
Alfredo Comandini era, comunque, molto ambizioso: ciò che gli interessava era farsi conoscere; e forse proprio questa esperienza aveva per lui costituito il trampolino di lancio nel mondo del giornalismo, già avvicinato in precedenza con una serie di corrispondenze per un foglio democratico cesenate, il Satana, ma il cui esordio vero e proprio lo avrebbe portato nel Veneto, direttore prima del Paese di Vicenza dal 1876 al 1879, quindi, per quattro anni, dell’Adige di Verona, che caratterizzò con una linea che, pur attenta a colpire i residui autoritari dell’«iniquo e settario Governo della Destra» (A. Comandini, Le Romagne. Dieci articoli da giornale, Verona 1881, p. 10) nella compagine statale, con le sue aperture ai settori più avanzati della Sinistra costituzionale, non era più, certamente, la stessa degli anni giovanili. In particolare, quella che già nel 1876, al congresso operaio di Genova, era stata la sua opzione per una partecipazione repubblicana alle elezioni politiche, ora si svolgeva e definiva in un rifiuto dichiarato della violenza e in una accettazione della monarchia, mentre la sopravvivenza di organizzazioni settarie e di forme di lotta quali quelle promosse dagli anarchici gli apparivano come il frutto dell’immaturità politica delle masse.
Presente, anche dopo il 1880, nei congressi e nelle adunate che vedevano riunite in maniera quasi liturgica le varie espressioni della democrazia estrema, Alfredo Comandini aveva cominciato, tuttavia, a far proprie le tesi dei gruppi lombardi, quelli più possibilisti, che volevano il sistema liberale garantito in pari misura dalle tentazioni autoritarie di un Crispi e dall’avventurismo rivoluzionario delle forze sovversive. Questa linea, tanto tesa alla concretezza quanto restia alle grandi dispute ideologiche, adottata e propugnata anche dalle colonne del quotidiano milanese La Lombardia negli anni in cui ne fu il direttore, dal 1883 al 1891, poteva avere, e in qualche momento ebbe, alcuni punti di contatto con le idee di Felice Cavallotti, un uomo che il Comandini diceva di stimare, ma dal quale aveva preso le distanze nel 1888, non sopportando di vederlo ancora legato ad un modello di Sinistra diverso da quello al quale egli si era sforzato, come giornalista, di conferire «il carattere di partito, politico, pratico, non visionario, di partito che vive nell’oggi», ma che, a suo dire, era rimasto «un partito di vanagloriosi, di chiassoni, di gente che fa tutto a colpi di gran cassa» (L’Italia radicale. Carteggi di F. Cavallotti: 1876-1898, a cura di L. Dalle Nogare S. Merli, Milano 1959, pp. 103-105).
Pur così severo con gli antichi commilitoni, il Comandini, tuttavia, completava la marcia di avvicinamento ai settori moderati e ministeriali, che in fatto di concretezza gli davano maggiori garanzie. Tappe importanti di tale marcia furono la nomina a direttore del Corriere della sera e l’elezione alla Camera per la XVIII legislatura nel collegio di Cesena, il 6 novembre del 1892.
Alla guida del quotidiano milanese era restato dal settembre del 1891 al novembre del 1892, un periodo in cui, oltre ad operare una serie di cambiamenti nella redazione e di miglioramenti di carattere tecnico, aveva potuto trattare il tema che gli stava più a cuore, quello della crisi delle istituzioni, paralizzate per l’assenza di partiti chiaramente definiti e quindi preda del trasformismo e del succedersi di maggioranze tenute insieme non dai principi, ma dall’opportunismo dei singoli; a suo parere, del resto, l’esempio negativo che veniva dal Parlamento si riverberava sul paese diffondendovi la corruzione e la degradazione morale, e in tale contesto il Giolitti, al quale prima di essere eletto si era proclamato devoto, gli sembrava il più gravato di responsabilità, soprattutto per la disinvoltura con cui controllava le elezioni e per il suo coinvolgimento negli scandali bancari, un punto, quest’ultimo, su cui aveva dato battaglia sia come giornalista sia come deputato, schierandosi con quanti chiedevano che si facesse subito luce e fornendo alla commissione d’inchiesta una testimonianza sfavorevole al capo del governo.
Per alcuni questo suo antigiolittismo presupponeva forse un passaggio al gruppo crispino, e ciò, almeno in parte, dovette essere vero se si pensa ad alcuni suoi interventi alla Camera ed agli articoli in cui esaltava un esecutivo rafforzato a scapito di un Parlamento la cui funzione doveva per lui consistere solo nel «tracciare a grandi linee la condotta ... e giudicare di tale condotta poi, a seconda che sia stata o no entro quelle grandi linee» (G. Biondi, Alfredo Comandini e la crisi delle istituzioni parlamentari alla fine dell’Ottocento, in Studi romagnoli, XXII, 1971, p. 303). Ma i suoi atteggiamenti politici erano parecchio ondivaghi: il suo rapporto col Corriere della sera, che dopo l’elezione alla Camera lo utilizzava come corrispondente da Roma, sì ruppe definitivamente il 30 ottobre 1894, dopo che nel giugno la direzione del quotidiano ne aveva respinto un articolo, ritenendolo troppo filocrispino; in quello stesso anno, però, il Comandini non aveva esitato a condannare senza attenuanti la politica repressiva attuata dal Crispi in Sicilia e in Lunigiana; altre voci, poi, lo davano invece molto vicino al federalismo lombardo, su posizioni se non repubblicane almeno antiunitarie, che gli facevano definire l’Unità «un concetto sbagliato» (D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Bardi/Senato della Repubblica, Roma, 1961, I, p. 461) e lo spingevano ad assicurare l’appoggio delle masse di Romagna alle istanze autonomistiche dei Milanesi. In realtà, il gruppo al quale il Comandini faceva capo, dal novembre 1893, era quello di Sidney Sonnino, l’uomo che di lì a poco avrebbe esposto in Torniamo allo Statuto idee e temi che poi si sarebbero potuti ritrovare nell’analisi che il Nostro avrebbe fatto dei moti milanesi del 1898.
L’avvento al potere di un uomo d’ordine come Crispi era stata, dunque, per il Nostro, una prospettiva non esaltante, ma obbligata, per arrivare al controllo di quelle forze sovversive d’ogni colore che minacciavano il sistema liberale. A tal punto, che a sostegno di questo programma e del governo Crispi egli aveva fondato e diretto, a partire dal 18 novembre 1894, il Corriere del mattino, un quotidiano finanziato da un gruppo di cotonieri lombardi con il concorso occulto del Sonnino, allora ministro del Tesoro; ma i fondi erano venuti presto a mancare, mentre crollava l’iniziale illusione di prendere, a Milano, il posto del Corriere della sera su cui aveva tentato invano di modellare la sua creatura. Piegato dall’insuccesso, il 15 febbraio1895,
Alfredo Comandini, rimasto coinvolto, frattanto, in vicende finanziarie poco chiare, che avevano indotto la Camera a concedere l’autorizzazione a procedere contro di lui, era scomparso da Milano e riparato a Londra, suscitando clamorose reazioni: mentre la stampa ministeriale aveva ventilato l’ipotesi ch’egli fosse stato ucciso per vendetta dai repubblicani di Romagna, quella d’opposizione aveva strumentalizzato il caso al fine di stigmatizzare l’intervento del governo nella vita dei giornali. Tornato in Italia un mese dopo, Alfredo Comandini aveva, comunque, ottenuto che ogni cosa fosse messa a tacere, ma ormai la sua carriera politica era chiusa.Tornando, dunque, alla Lettera agli onesti di tutti i partiti, in essa Felice Cavallotti non si limita alla rievocazione dei poco encomiabili traffici mal affaristici del giovane Crispi, alla corte dei Borboni, ma denuncia «Lo spionaggio ansioso, sporco, affannoso», esercitato, in quei giorni, intorno a lui, «dal servitorame di casa Crispi», che, «spinto fino al nauseante spettacolo di membri del governo postisi alle costole di (suoi) intimi», se, per un verso, «ha ben rivelato come sentasi di coscienza il padrone, che per non dar di sé conto, al 15 dicembre scappava», per l’altro, «meritava dopo tutto un castigo». E lo fa, per portare un’ulteriore serie di colpi micidiali all’immagine dell’uomo e dello statista, ma anche per stigmatizzare il tradimento degli «entusiasmi italici» per i quali tanti patrioti avevano immolato le loro giovani vite:Che del resto il Crispi già ventiseienne all’epoca che i Bandiera e i Moro e tanti altri più giovani di lui per l’Italia eran già morti – non desto ancora agli entusiasmi italici, fosse perfettamente a posto suo nel delicato ufficio che esercitava allora – e che spiega tanta parte del Crispi di poi – cioè si fosse cattivate le simpatie vive e le buone grazie del Borbone – che era il requisito indispensabile per esercitarlo, questo neanche i suoi stessi biografi panegiristi lo negano. Ei se l’era cattivate colle sue prose borboniche del 1840 e 1841 nel giornale di Palermo l’Oreteo (dove eravate intanto voi pensatori e cospiratori e martiri della Giovane Italia?) in onore e gloria di Ferdinando di Borbone e della sua casa “a cui era data (sue parole) la gloria di rigenerare la Sicilia”.[...].
Né io le ricorderei qui, se non avessi le orecchie stanche alla nausea dal sentir tutti i giorni gli scribi della Casa, ad ogni legittima censura degli atti del padrone, rispondere col ritornello che egli stava facendo l’Italia, mentre i censori non erano nati.
E fu in grazia di quelle prose che Francesco Crispi, da Palermo tramutandosi al foro di Napoli, ottenne la grazia specialissima – riservata solo ai ben pensanti – della dispensa dall’esame rigorosamente prescritto per la iscrizione regolare nel foro napoletano: grazia secondo quanto fu detto allora e poi, personalmente e direttamente chiesta al re: tanto che gli stessi biografi panegiristi non lo impugnano e il povero Leone Fortis nella biografia per commissione è ridotto a confessare, che anche “data od esclusa la domanda diretta e personale è certo che la concessione fatta al Crispi dovette avere il beneplacito del re, come è fuor di dubbio che Crispi per l’esercizio della sua professione, ebbe a chiedere frequenti udienze del Borbone – il quale fu sempre con lui affabile e cortese e fece spesso ragione ai suoi reclami tanto che Crispi stesso riconosce di non avere a che lodarsi dei rapporti avuti con lui”.
“Ah, gli amici! Già per certi servigi non ci son che loro. Ma quando il povero Leone Fortis scriveva quelle linee di storia, non era ancor venuto fuori il rogito notarile di Palermo del 1845 – a rivelare in qual modo Francesco Crispi metteva a profitto le ‘frequenti udienze del Borbone per l’esercizio della sua professione’ ”.Il 16 novembre 2011, quattro giorni dopo le dimissioni di Berlusconi, reduce dal progressivo deterioramento della propria maggioranza parlamentare, e in una fase di altissima instabilità finanziaria, l’ex rettore della Bocconi Mario Monti, già nominato senatore a vita dal Presidente Napolitano nel tardo pomeriggio di mercoledì 9 novembre, viene incaricato di dar vita ad un «governo tecnico d’emergenza»: il Paese sembrava sull’orlo del precipizio come testimoniano i giornali di quei mesi, primo fra tutti Il Sole 24 Ore che il 10 novembre esce con un titolone a caratteri cubitali, Fate presto, che ben riassume il clima del momento. Questa la versione ufficiale sulla nascita del governo che, figlio dell’«emergenza spread», doveva salvare il Paese dal naufragio.
Sennonché, sulla genesi del Governo Monti circolano altre storie, una, addirittura, anticipata qualche mese prima su un insospettabile quotidiano, quantunque dimenticata in fretta (F. Martini, L’investitura di Monti per il dopo Berlusconi, La Stampa, 24 luglio 2011), relativa ad «un incontro di cui nulla si è saputo, riservato a pochi e selezionatissimi invitati», tenutosi al Ca’de Sass, storico palazzo della finanza milanese alcuni giorni prima, precisamente alle 19 di lunedì 18; incontro a cui erano «invitati» Romano Prodi, Carlo De Benedetti, Corrado Passera, Giovanni Bazoli e, naturalmente Mario Monti, sul quale in quei giorni iniziava a soffiare una strana aria governativa, per così dire, come se la sua ascesa a Palazzo Chigi fosse ormai prossima. Una sensazione davvero singolare che Martini aveva così riassunto: «Da qualche settimana attorno a Monti si è creato un convergere di interessi e di simpatie da parte dei “poteri forti”, che potrebbero rendere più concreta del solito l’epifania tante volte annunciata del professore della Bocconi», facendo notare come tutto fosse piuttosto strano perché «il governo Berlusconi è in seria difficoltà, ma non in crisi». Non di meno, il clima era pervaso d’un particolare ottimismo, al punto che «poco prima che il convegno avesse inizio in un angolo si erano appartati Prodi e Monti» e il primo avrebbe detto al secondo: «“Caro Mario, secondo me Berlusconi non se ne va neppure se lo spingono, ma certo se le cose volgessero al peggio, credo che per te sarebbe difficile tirarti indietro”». Pur se colpito, «Conosce bene Prodi, sa che il professore non è tipo da sprecare parole, soprattutto non è mai uscito dai giri che contano», Monti non si sarebbe sbilanciato, quantunque Romano Prodi apparisse molto sicuro di ciò che affermava; e, anche se non lo diceva apertis verbis, lasciasse intendere all’economista che non solo Berlusconi sarebbe caduto, ma sarebbe stato «costretto a farlo» da circostanze esterne talmente gravi ed allarmanti da non lasciargli alternative.
Gli elementi condotti ad emersione dal racconto di Fabio Martini, navigato retroscenista della politica italiana, appaiono in linea con quel che accade in Parlamento nei giorni successivi e anche in quelli precedenti all’asserito incontro al Ca’de Sass. Giorni nei quali si avvertiva un cambiamento del clima e ci si aspettava che sarebbe stato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, come sarebbe effettivamente avvenuto mesi dopo, il regista del nuovo governo. A riferirli un altro giornalista del medesimo quotidiano, Federico Geremicca, il 16 luglio 2011, allorché raccontò di un «vero e proprio proliferare di velenosi sospetti attorno» al Quirinale, puntualizzando:
«“è chiaro, il presidente lavora ad un ‘governissimo’ ”, si è cominciato a sussurrare tra Camera e Senato. E i soliti bene informati hanno spiegato: “Vorrebbe perfino intervenire sulla scelta dei nuovi ministri”» (F. Geremicca, E Napolitano insiste: adesso confronto aperto, La Stampa, 16 luglio 2011).
Come se non bastasse, c’è un altro articolo che aveva anticipato con sorprendente tempismo la nascita del futuro Governo Monti, pubblicato dal quotidiano La Repubblica, che per la penna di Francesco Bei (E il Cavaliere disse “Umberto ripensaci”), il 16 luglio 2011 riprese la voce secondo cui sarebbe stata prossima la nascita di «un governo tecnico» e che «a guidarlo (avrebbe dovuto) essere l’economista Mario Monti».
Tutte le voci sull’interventismo «politico» del capo dello Stato Napolitano e l’incontro «riservato a pochi e selezionatissimi invitati», propalate quando il governo Berlusconi appariva sì «in difficoltà, ma non in crisi» e comunque ben prima dell’«emergenza spread», indice che non sarebbe iniziato a salire prima di fine agosto, si avverarono senza eccezioni, nel giro di qualche mese, il 16 novembre 2011.
In un lungo articolo apparso nel febbraio 2013 su Press TV, quando ormai, consumata l’esperienza del Governo Monti, era in corso la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, il docente universitario, giornalista e scrittore americano Webster Griffin Tarpley ha preteso di rivelare i retroscena della politica italiana degli ultimi anni e di spiegare, in particolare, come, ancora una volta, la CIA e gli Stati Uniti si sarebbero intromessi nella vita politica italiana, dando vita al governo di Monti tramite Napolitano (http://italian.irib.ir/notizie/politica5/item/121585).
In particolare, Tarpley enuncia, innanzitutto, gli obiettivi geopolitici perseguiti dall’amministrazione Obama, sottolineando come ad essi fosse disfunzionale il Governo Berlusconi:Durante i primi anni dell’amministrazione Obama, il primo obbiettivo della comunità d’intelligence Usa è stata la distruzione del governo Berlusconi per motivi geopolitici. Per via delle vicine relazioni personali di Berlusconi con Putin, Berlusconi aveva assicurato all’Italia un ruolo importante nella costruzione del gasdotto Nordstream, e persino un maggiore ruolo nel SouthStream, entrambi progetti che Washington voleva sabotare.
Berlusconi era in buone relazioni anche con il bielorusso Lukashenko, molto odiato dagli Usa.
Il Dipartimento di Stato Usa voleva mettere contro la Russia di Putin l’Unione Europea, ma i burocratici pro-Usa a Bruxelles riferivano che l’Italia è divenuta l’avvocato difensore di Mosca. Lucia Annunziata sul quotidiano La Stampa del 25 Maggio 2009 scrisse in un articolo L’ombra del Complotto che le buone relazioni tra Berlusconi e Putin stavano danneggiando le relazioni Stati Uniti-Italia. Il London Economist scrisse al tempo che dall’Agosto 2008, tempo della guerra di Georgia, l’Italia era uno dei paesi europei che si era avvicinato alla Russia più di quanto Washington volesse. Almeno dal 2010, quindi, le agenzie d’intelligence Usa erano completamente mobilitate per spodestare Berlusconi.Passa, quindi, alla narrazione della campagna del Dipartimento di Stato per rovesciare Berlusconi:Una parte di questi sforzi inclusero Gianfranco Fini, ex neo-fascista che Berlusconi aveva reso presidente della Camera dei Deputati nel 2008. Nel Luglio 2010, dopo una divergenza, Fini venne espulso dal partito di Berlusconi e si portò con se 34 deputati e 10 senatori che indebolì il governo Berlusconi ma non lo fece crollare. In seguito si seppe che l’azione di Fini era coordinata in maniera ravvicinata con l’ambasciata Usa a Roma.
Durante il 2009, David Thorne divenne l’ambasciatore Usa in Italia. Thorne era all’Università di Yale compagno di stanza di John Kerry, attuale Segretario di Stato. Thorne, come Kerry ed i Bush è un membro della famigerata società segreta del Teschio e delle Ossa. Throne al suo primo incontro da ambasciatore in Italia vide Fini e non Berlusconi. Fini è secondo alcuni documenti anche un vicino amico di Nancy Pelosi.
Fini, oggi, è un membro della coalizione di Monti. Ma nonostante il sostegno Usa, Fini potrebbe essere vicino alla fine. Il teatro dove ha organizzato un comizio ad Agrigento, in Sicilia, si è riempito solo di qualche decina di persone. Con il fallimento dell’operazione Fini, la Cia inizia ad esporre i festini di Berlusconi ad Arcore, vicino Milano, dando vita ad una propaganda di dimensioni mondiali. Nel 2009 Berlusconi viene seriamente ferito al volto dinanzi al Duomo di Milano. I giudici italiani, in buona parte motivati politicamente, perseguitano Berlusconi. I documenti di WikiLeaks del Dicembre 2010 confermano l’acerrima ostilità del Dipartimento di Stato Usa contro Berlusconi.
Descrive, ancora, il preteso ruolo di «Giorgio Napolitano, il comunista preferito da Kissinger»:Il colpo di Stato che alla fine spodesta Berlusconi nel 2011 viene gestito da Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica italiano e quindi Capo dello Stato. La presidenza italiana è quasi sempre stata una carica di carattere formale, ma che assume potere significante quando cadono i governi, cosa che non è rara in Italia. Napolitano ha reso ancor più vasti questi poteri.
Per gran parte della sua vita Napolitano è stato un membro attivo del Pci. è stato rivelato recentemente che tra il 1977 ed il 1981, Napolitano ebbe incontri segreti con l’ambasciatore Usa a Roma ai tempi di Carter, Richard Gardner. Questi incontri sono divenuti di dominio pubblico solo nel 2005, con la pubblicazione delle memorie di Gardner, nel libro Mission Italy. Ciò rende chiaro che Napolitano fu in contatto con l’ambasciata Usa in Italia durante il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, una operazione in cui le agenzie di intelligence Usa ebbero un ruolo importante.
Henry Kissinger ha chiamato Napolitano «il mio comunista preferito». Business Week lo indica come uomo di riferimento in Italia per il New York Council on Foreign Relations. Il sostegno di Putin a Berlusconi, ha però fatto aspettare due anni alla CIA prima di riuscire a farlo cadere.Nel resto dell’articolo viene tracciato, finalmente, il profilo di Monti: uomo di Bilderberg, di Goldman Sachs e della Trilaterale.
Non interessa, in questa sede, esplorare l’ipotesi avanzata da Webster G. Tarpley che il Governo Monti sia stato il prodotto di un complotto, quanto piuttosto di evidenziare che, a prescindere dalle prove ch’egli adduce a fondamento di essa e da cui ritiene di poter trarre la conclusione che il «Colpo di Stato “moderno”» di Napolitano e Monti sia avvenuto con lo spread e non con i carri armati, ve ne sono indubbiamente a sufficienza per supporre che tutto abbia avuto inizio decisamente prima del 16 novembre 2011: tante, forse troppe, le cose ch’erano nell’aria da tempo, con buona pace della gran parte sia dei cittadini sia dei mezzi di comunicazione, che considera la nascita del Governo Monti come figlia dell’«emergenza spread».
Francesco Guicciardini, lucida, amara coscienza dell’Italia incivile, nei suoi Ricordi (sub 48), annotava:
è incredibile quanto giovi a chi ha amministrazione che le cose sua siano secrete; perché non solo e’ disegni tuoi quando si sanno possono essere prevenuti o interrotti, ma etiam lo ignorarsi e’ tuoi pensieri fa che gli uomini stanno sempre attoniti e sospesi a osservare le tue azione, e in su ogni tuo minimo moto si fanno mille commenti; il che ti fa grandissima riputazione. Però chi è in tale grado doverrebbe avvezzare sé e suoi ministri non solo a tacere le cose che è male che si sappino, ma ancora tutte quelle che non è utile che si publichino.Molti i suoi allievi, uomini di governo, uomini di partiti, uomini di amministrazione o giudici, annidati negli anfratti del potere, contagiati dall’antico spirito cattolico, decantato attraverso i secoli sino a grandi raffinatezze intellettuali e diventato per altro verso quasi istinto politico, a cui non appartiene per nulla il rifiuto fascista dell’intelligenza, il rifiuto della sottile, anche pericolosa, anche corrosiva avventura della ragione. Uno spirito a cui appartiene, invece, la riserva dei pericoli e degli acidi della ragione ai pochi, che hanno preso su di sé il peso ed il sacrificio del destino altrui: il peccato, l’eresia cominciano quando l’intelligenza e la ragione si diffondono, diventa comune il desiderio di gustare i frutti dell’albero proibito, e le pecorelle perdono il mite abito di sottomissione verso il pastore che le guida alla salvezza in Dio. Uno spirito per il quale addirittura Galileo Galilei poteva essere accettato ed assorbito, ma non il Galileo che nel suo splendido volgare era per generare la ribellione ed il male del mondo moderno: il cardinale Roberto Bellarmino gli rimproverava, non già di avere raggiunto e dimostrato la verità, ma di averla divulgata con mezzi di grande diffusione. Uno spirito per il quale dal sacrificio e dalla sapienza del pastore, che tiene su di sé il fardello della salvezza altrui, derivano un duro realismo, un apparente cinismo, una spietatezza, una capacità di usare la menzogna e manipolare l’ignoranza, che possono apparire immorali soltanto a chi non comprende come il pastore guardi sempre alla meta, lontana ma decisiva, della salvezza di coloro che gli sono confidati. Uno spirito, del resto, non dissimile, mutatis mutandis, dall’idea platonica di un governo dei filosofi, così morali da volere soltanto il bene del popolo, così saggi da perseguire il bene del popolo anche, ove occorra, ingannandolo. Un argomento che, a partire da Platone, è stato variato in mille modi, ma la cui sostanza rimane sempre la stessa: è dovere del principe filosofo prendersi cura del popolo bambino, e propinargli la medicina con soavi accorgimenti.
Nel 1778, la Reale Accademia Prussiana di Scienze e Lettere, sollecitata dallo stesso Federico II, bandiva un concorso per un saggio sulla questione, se torni utile al popolo essere ingannato. Si riapriva così intorno a questo tema, suggerito a Federico II da Jean Baptiste Le Rond d’Alembert, un dibattito tipico della cultura illuministica, in cui più volte si era sostenuto dagli illuministi che sia dovuta al popolo ogni verità. I contributi di Frédéric-Adolphe-Maximilien-Gustave Salvemini de Castillon e di Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet si leggono tradotti nel volumetto Bisogna ingannare il popolo?, pubblicato nel 1968 dall’editore De Donato. Premiato come vincitore del concorso, de Castillon rispondeva (p. 11):
Chiameremo dunque “popolo”, senza considerare il loro rango né i loro beni, tutti coloro che hanno ricevuto dalla natura uno spirito debole e ottuso; e anche tutti coloro che, dotati naturalmente di giudizio e intuizione, non ne fanno, o non ne sanno fare, alcun uso, perché ostacolati dall’educazione ricevuta o dalla pigrizia o dalle passioni; tutti coloro che coltivano i talenti più piacevoli e lasciano incolta la loro ragione; tutti coloro infine, che, ciechi come sono, non possono far a meno della guida di veggenti, e se si ostinano a rifiutarla, precipitano di abisso in abisso; insomma, tutti coloro per i quali sarebbe maggior bene essere guidati piuttosto che guidare, sebbene talvolta persistano nel farlo con irriducibile e funesta caparbietà.Quello di de Castillon è un popolo abilmente ridefinito, in modo che coincida con l’insieme degli inferiori: ci sono gli inferiori per natura, dallo spirito debole e ottuso; gli inferiori per educazione, per pigrizia, per passioni, che ostacolano l’uso del giudizio e dell’intuizione; gli inferiori per leggerezza, dediti a coltivare talenti più piacevoli lasciando incolta la ragione. Può dunque tornare utile a questo popolo essere ingannato?Rispondo arditamente di sì; purché chi è preposto alla guida dimentichi sé stesso e inganni soltanto per condurre più facilmente a un determinato fine, e purché in questo fine consista la vera felicità di chi viene guidato... E come può essere proibito ingannare il popolo se lo si fa per meglio guidarlo verso il fine della sua felicità? Come per un bambino è utile inghiottire una medicina credendo che sia zucchero, perché non dovrebbe essere utile per il popolo accogliere per errore una disposizione benefica che sarebbe respinta se offerta nella sua nudità?A suo modo, de Castillon era un illuminista; ma un illuminista moderatissimo, impaurito, quasi presentisse i terrori della rivoluzione, dalle possibili conseguenze di un troppo rapido diffondersi dei lumi, il quale riteneva pertanto che i lumi dovessero diffondersi per gradi, senza scossoni e senza requisitorie, finché gli uomini diventassero padroni delle loro passioni e capaci di guardare, anziché attraverso le lenti colorate delle passioni, con gli occhi nudi della ragione. Pur fra le sue trepidazioni, egli era in buona fede, e voleva davvero la felicità del popolo. Al termine del suo discorso, infatti, si preoccupa di enunciare la condizione indispensabile perché al popolo torni utile essere ingannato: che il governo sia nelle mani di uomini, tanto avanti nello studio dell’umanità da sentire la possibile utilità dell’errore, dai principi morali così limpidi e dal cuore così disinteressato ed infiammato di amore del prossimo da aver la forza di ingannare il popolo soltanto per il suo maggior bene, senza mai approfittarne, senza neppure esser tentati di approfittarne per vantaggio personale.Sui giornali e in tv, anno domini 2011, è spopolato l’argomento «fabbrica del fango», sino a che non l’hanno spazzato via, o almeno ricacciato indietro, i sempre più minacciosi venti di crisi: tutti, da sinistra e da destra, hanno per mesi accusato tutti di «dossieraggio».
Nulla di nuovo sotto il sole. Senza andare troppo indietro nel tempo, da almeno mezzo secolo, è luogo comune affermare che l’attività di raccolta di informazioni riservate e scottanti su personaggi in vista, da usare in genere a fini di ricatto, o comunque per infangare l’avversario, delegittimarlo, distruggerlo, è strumento col quale si regolano i conti della politica e si zittiscono critici e dissidenti. Chi non ricorda i tempi in cui si denunciava che le commissioni d’inchiesta parlamentare si affidavano a faccendieri, mafiosi ed ex piduisti per fabbricare calunnie con cui tenere sotto scacco gli avversari politici; o che i servizi segreti spiavano e pedinavano gli avversari del governo, inclusi magistrati, sindacalisti e giornalisti? Sembra proprio, insomma, che a quarant’anni dallo scandalo Sifar e tre riforme degli apparati d’intelligence, non sia davvero cambiato nulla.
Tutto concorre, piuttosto, ad evocare la Città di Acchiappacitrulli, di collodiana memoria: luogo allegorico, pedagogico, allucinatorio, intessuto di venture e sventure sessuali, politiche, finanziarie; intessuto di storie di mancati amori, d’incaute ambizioni, di fedeltà mal riposte, umiltà schernite, speranze irrise, cui insolentiscono brutali vittorie, fasto furbo e inonesto di gazze ladre, uccelli di rapina, volpi astute. In quel luogo infernale e quotidiano dell’Utopia rovesciata, luogo solenne di addobbi insolenti ed ironici, di lacrime, di fragili miserie, di lussuosa, nobile irrisione, Pinocchio tenta la sua prima sortita squisitamente sociale: derubato delle monete ricevute da Mangiafoco, disperato si reca dal giudice, gran scimmione «della razza dei Gorilla»; anziano; rispettabile; occhiali d’oro, senza vetri; gran barba bianca, il quale, saggio e buono, lo ascolta con attenta benignità, s’intenerisce e commuove; quindi condanna il burattino, «questo povero diavolo», alla prigione: Pinocchio è colpevole di furto subìto, non lieve reato, tuttavia si è costituito e pare pentito, infine, è incensurato. Ne uscirà in modo casuale e degradato, per amnistia, ma solo dopo essersi dichiarato «malandrino», in quel caso non senza fondamento, giacché per la prima volta Pinocchio mente in modo deliberato e funzionale.
Mi si potrebbe obiettare, e a ragione, che il riferimento ad Acchiappacitrulli sia frutto di una visione pessimistica del potere e della società nella quale viveva Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Società ben lontana dalla nostra, dove, per dettato costituzionale, l’esercizio del Potere è imbrigliato dalla necessità di attenersi al rigoroso rispetto dei canoni della stretta legalità. Ma, per quanto concerne il cosiddetto «mondo dell’intelligence», come sosteneva Francesco Cossiga, un «politico anomalo», che ha ricoperto le massime cariche istituzionali abituato a dire quello che pensava e a pensare quello che diceva e, dunque, proprio per questo assolutamente «affidabile», sembra debbano valere criteri diversi: i servizi segreti svolgono, per il raggiungimento dei propri fini, attività informativa ed operativa secondo modalità e con mezzi non convenzionali, nel senso che sono in massima parte loro propri, e non comuni alle altre amministrazioni e la cui legittimità si fonda su interessi fondamentali dello Stato, la cui difesa e/o la cui realizzazione attengono alla vita stessa dello Stato, con la conseguenza che la «legittimità dei fini» viene a prevalere sulla «legalità dei mezzi», come misurata con il metro proprio delle altre attività delle altre amministrazioni la cui attività sia sottoposta al principio di legalità.
Questa prospettazione machiavellica, sebbene assolutamente realistica, addirittura ai limiti della brutalità, solleva, tuttavia, un problema piuttosto serio, relativo a quali siano i fini legittimi il cui perseguimento possa giustificare l’illegalità dei mezzi: finché permanga questo vuoto dei fini è ineluttabile il rischio di precipitare nell’incubo di Acchiappacitrulli. Di vedere, cioè, conculcati il diritto alla privatezza, ma anche la libertà di manifestare il proprio pensiero, la libertà d’insegnamento e di ricerca scientifica, il diritto del cittadino all’informazione, la stessa libertà di associazione a meno che, magari, non si tratti di associazione per delinquere, meglio addirittura se sovversiva o di stampo mafioso o terroristico, in nome di ineffabili, per ciò inafferrabili, «interessi fondamentali dello Stato».
Astraendo dal particolare al generale, va detto che, ormai da tempo, l’Italia è immersa in una «crisi di legalità»: lo attestano gli osservatori nazionali e internazionali, ne è prova la nostra esperienza quotidiana, dal lavoro nero all’evasione fiscale, dall’abusivismo edilizio ai trucchetti negli appalti o nei concorsi. Insomma, lo sappiamo, e forse non ci facciamo più nemmeno caso. Peggio, ci staremmo assuefacendo addirittura, per dirla con Michele Ainis (L’assedio. La Costituzione e i suoi nemici, Longanesi, Milano, 2011), alla «legalità senza lealtà»: sleale, perché falsa e ingannatrice, è la legge che abroga il beneficio fiscale introdotto l’anno prima per convincere le imprese ad investire in una zona disagiata, senza preoccuparsi che magari, nel frattempo, qualche imprenditore, essendosi fidato della promessa normativa, finisca per trovarsi con i conti in rosso; sleale è la legge che revoca il contratto con lo Stato firmato dai pubblici dipendenti e il riferimento alle manovra economiche varate nell’ultimo anno non è affatto casuale; sleale è anche la legge retroattiva, quando comanda oggi ciò che si doveva fare ieri. E gli esempi potrebbero continuare.
Il giurista educato al discorso vertebrato non ignora che, finché ci saranno leggi, vi saranno un campo di lavoro per i giuristi e una loro missione sociale: qualunque siano le leggi, sotto ogni regime, purché basato sulle leggi, i giuristi avranno il grande ufficio di essere gli assertori e i custodi della legalità. Nel «principio di legalità», insegnava Piero Calamandrei (Fede nel diritto [21 gennaio 1940] Bari-Roma 2008) «c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell’osservanza individuale della legge c’è la garanzia della pace e della libertà di ognuno. Attraverso l’astrattezza della legge, della legge fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte: quasi si direbbe che in questo principio della legalità che risale alla grande tradizione del diritto romano si trovi trasfuso in formula logica l’imperativo morale che comanda di non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi stessi». Che le leggi dello Stato siano buone o meno buone, che queste leggi siano suscettibili di valutazione politica favorevole o sfavorevole, è questione che, dal punto di vista della loro tecnica, non può affaticare i giuristi: la loro funzione è solo quella di conoscere le leggi e farle conoscere, di osservarle e farle osservare, qualunque esse siano. Dura lex sed lex.Almeno dalla metà degli anni Settanta del Novecento, allorché il fuoco dell’attenzione della pubblica opinione s’è nuovamente concentrato sulla «questione morale», sicuro punto d’emersione, anche se non l’unico, della crisi di legalità, circolano polemiche e slogan, fondati soprattutto sulla suggestione delle parole «giustizialismo» e «garantismo», spesso usate a vanvera e ridotte, comunque, a vere e proprie metafore dell’ipocrisia nazionale, da politici orecchianti del diritto, propensi a esasperare le contrapposizioni terminologiche, senza curarsi dei valori di fondo che meritano invece di essere promossi e tutelati nella costruzione di una moderna società liberale e democratica, vale a dire, quelli della «giustizia» e delle «garanzie».
Disancorati da tali valori, astrattismi come «giustizialismo» e «garantismo» non hanno altro scopo che quello di alimentare artificiose tensioni, complice il senso di scoramento e di disorientamento che pervade oggi la coscienza di molti, troppi giuristi, spesso convinti, a torto, che, per un verso, diritto e politica dovrebbero coincidere e che, per l’altro, non vi sarebbe più posto nella società per gli specialisti del diritto, attaccati a quei loro metodi, considerati, anch’essi a torto, ormai superati e definiti, con un certo disprezzo, il «mito della tecnica giuridica».
Solo giuristi soi disants possono ignorare, infatti, che quelli della «giustizia» e delle «garanzie» sono valori tra loro complementari, da realizzare insieme, attraverso un equilibrato rapporto di contemperamento, la cui concreta individuazione è compito del legislatore: sul terreno processuale, non può esserci giustizia senza garanzie, ma la disciplina di queste non può essere spinta al punto da impedire di «fare giustizia». Per Costituzione «La giustizia è amministrata in nome del popolo», ma questo non significa che, in nome di un malinteso «garantismo», l’«investitura popolare» di cui godono gli uomini politici possa trasformarsi per gli stessi in un «privilegio» di esonero dal rispetto delle leggi o sottrarli agli accertamenti della magistratura per eventuali reati commessi in precedenza o, peggio, in corso di mandato.
Nelle aule giudiziarie è scritto che «la Legge è uguale per tutti», motto nel quale sta tutta la moralità, l’importanza sociale, la missione umana dei giuristi: le leggi, buone o cattive, siano applicate in modo uguale ai casi uguali, senza parzialità, senza dimenticanze, senza favori. Rispetto delle leggi, prestigio degli avvocati, indipendenza dei giudici, sono questioni vitali per la dignità e le speranze, l’onore e la vita di tutti noi, non già di pura tecnica. Sarebbe stato il caso di ricordarsene, nella ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Meglio ancora se ce se ne ricordasse sempre.Un’ulteriore «criticità» è venuta ad emersione proprio in occasione delle commemorazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino (La scomparsa di Salvatore Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente, Bompiani, Milano, 2013) ricordano che Alcide Cervi, al quale i nazifascisti avevano ammazzato sette figli, diceva che se avesse potuto fare l’amministratore del suo Comune, avrebbe scelto di fare l’assessore ai cimiteri, perché, spiegava, niente è più formativo della memoria del passato. Eppure, il «grado di conoscenza» della storia dell’italiano medio, come evidenziato, fra gli altri, da Stefano Pivato (Vuoti di memoria, edito da Laterza nel 2007), è, a dir poco, disperante: se la baby boom generation è cresciuta, fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in un dialogo continuo con la storia del nostro Paese, così che la Resistenza, la seconda guerra mondiale e il fascismo erano riferimenti costanti per chi intendeva capire il presente attraverso il passato, la generazione nata un trentennio più tardi, per contro, vive un rapporto labile e precario con il passato: la storia, per i giovani nati negli anni Ottanta, vissuti in una dimensione stabilmente dominata dal «presentismo», è un frammento ignorato, relegato nelle pagine di un manuale e non contribuisce a formare quella che comunemente è definita la «coscienza civile».
Il fenomeno, naturalmente, non è solo italiano: Eric J. Hobsbawm (Il secolo breve, edito da Rizzoli nel 1995) individua nella «distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti (…) uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento». è stato proprio lo storico inglese, per altro, a rilevare come la maggior parte dei giovani alla fine del secolo sia cresciuta in una sorta di «presente permanente» in cui manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.
Resta, comunque, il fatto che, almeno da noi, dopo poco più di tre lustri, i debiti con la memoria delle giovani generazioni si sono purtroppo accresciuti. Falsi storici, luoghi comuni e, soprattutto, vuoti di memoria sembrano informare la cultura giovanile a cavallo dei due secoli: se Aldo Moro – presidente della Democrazia Cristiana e «presidente in pectore» della Repubblica, rapito e poi ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse nel 1978 – sarebbe stato «un magistrato» che aveva partecipato al processo contro le Brigate Rosse, quello di Sandro Pertini – uno dei presidenti della Repubblica più amati e la cui enorme popolarità a suo tempo costituì un vero e proprio fenomeno – è un nome pressoché cancellato dalla memoria di molti giovani; in compenso, la carica di capo della DC negata a Moro viene attribuita ad Agostino Depretis, un politico dell’Italia del diciannovesimo secolo, morto nel 1887, quando nessuno sapeva ancora che un giorno sarebbe nato un partito chiamato Democrazia Cristiana.
Poiché il bagaglio di nozioni dei cittadini italiani di tutte le età viene curato non più dalla scuola, ma dalla vita quotidiana che si svolge all’ombra di quella scatola diabolica chiamata TV, che la gente fagocita con una tale voracità da ritrovarsi incapace di distinguere tra storia e cronaca, tra notizie vere e affermazioni paradossali, tra informazione e intrattenimento, per lo più di basso livello, è oggi impresa titanica e destinata comunque al fallimento spiegare che l’Italia non è stata mai governata da un regime comunista; che quando, dal 1944 al maggio 1947, i comunisti italiani sono stati al governo non è stata instaurata nessuna dittatura e che, ancora, durante quella breve parentesi di governo i carri armati dell’Armata Rossa non sono arrivati in Italia. Per un verso, infatti, la propaganda berlusconiana ha potentemente accreditato l’equazione acritica fra comunismo internazionale e comunismo italiano, finendo per inculcare l’idea che Stalin, Pol Pot, Castro, Mao e tutti i dittatori comunisti del XX secolo avrebbero retto il nostro Paese fino all’avvento di Forza Italia; per altro verso, da quando Achille Occhetto, ultimo leader del Pci, divenne segretario del Pds, fu decretata la morte del partito fondato a Livorno nel 1921 e assieme ad esso s’interruppe anche la sua storia: l’ansia di dichiararsi postcomunisti coinvolse – e coinvolge ancora – dirigenti, funzionari, leader di corrente e semplici militanti, sicché la storia del Pci, pur sopravvivendo nelle frange minoritarie di Rifondazione comunista e più tardi nel Partito dei comunisti italiani, è andata, tuttavia, scomparendo nel senso comune. Insomma, dal crollo del Muro di Berlino in poi, i comunisti italiani hanno costantemente ricercato «altrove» i punti ideali di riferimento delle formazioni politiche sorte dalle ceneri del Pci: da Kennedy o Clinton a Blair o Zapatero fino all’Obama di «yes we can!». E questo per evitare di fare i conti con la propria storia, magari per taluni versi imbarazzante. Una storia dentro la quale ci sono le connivenze con lo stalinismo e l’Urss; il «cinismo» e la «doppiezza» togliattiana; una storia, però, ricca allo stesso tempo di momenti fondamentali, che hanno accompagnato la rinascita della democrazia in Italia, nel secondo dopoguerra: dall’abbandono di ogni tentazione rivoluzionaria, sancito da Palmiro Togliatti con la svolta di Salerno nel 1944, all’adesione convinta alla democrazia parlamentare; dalla partecipazione all’elaborazione della Costituzione italiana alle lotte per la democrazia negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento.Doveroso, finalmente, concentrare il fuoco dell’attenzione sulla nostra Costituzione che, come in un gioco disincantato, è da qualche tempo sottoposta a un incessante stillicidio di critiche e di richieste di revisione, con il sostegno di storiografie, ormai trasformate in tifoserie, che per interessi di parte, spesso malevoli, distorcono gli eventi del passato. Eppure, nonostante tutto, la Costituzione della Repubblica italiana è stata sin qui particolarmente solida, in quanto frutto d’un dibattito attento e responsabile: un filo ininterrotto lega gli ideali e le gesta del Risorgimento alle imprese della Lotta di Liberazione e alla rinascita dell’Italia, repubblicana per libera scelta del popolo italiano.
A Roma, nel 1849, fuggito Pio IX, svoltesi nel mese di gennaio le elezioni in tutto lo Stato, si riunisce l’Assemblea Costituente – i deputati provengono dall’Emilia Romagna, dalle Marche, dal Lazio, dall’Umbria, dalla Lombardia, dalla Campania, dalla Liguria, dall’Abruzzo – e il 9 febbraio «all’una dopo mezzanotte» sulla piazza del Campidoglio, dinnanzi al popolo festante, viene proclamata la Repubblica Romana. I lavori dei costituenti si protraggono sino al giugno, nonostante l’infuriare del conflitto con i francesi, e il 1° luglio, prima della resa, è approvata la Costituzione che, sebbene mai applicata, rappresenta tuttavia un esempio di coerenza e di impostazione che rimarrà viva nella memoria come modello e troverà finalmente il suo compimento, a poco meno di un secolo di distanza, nella Costituzione del 1947: vi si sancisce che «La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini»; che «Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici»; che «L’insegnamento è libero. Le condizioni di moralità e capacità, per chi intende professarlo, sono determinate dalla legge»; che «I giudici nell’esercizio delle loro funzioni non dipendono da altro potere dello Stato».
Nel 1952, Gaetano Salvemini pubblica un articolo su «L’insegnamento della storia», nel quale, alternando ironia e rigore storico, scrive: «Nel secolo XIX, coll’affermarsi delle nazionalità, l’insegnamento della storia acquistò una importanza politica non mai finora sospettata. Diventò un mezzo formidabile per la educazione del sentimento nazionale. Il quale sentimento nazionale degenerò dovunque ben presto da patriottismo legittimo in disprezzo delle altre nazioni, pretesa al predominio e alla conquista “civilizzatrice”, nazionalismo brutale. Se le Nazioni Unite o l’Unesco possedessero quell’autorità. che non posseggono, per assicurare la pace, dovrebbero cominciare dal vietare l’insegnamento della storia in tutti i paesi, fare impiccare tutti i professori di storia, bruciare tutti i libri di testo, e, dopo dieci anni, fare punto e da capo. Questo non vuol dire che, in attesa di siffatta impossibile apocalissi, l’insegnamento della storia non possa e non debba essere usato da uomini non volgari per fini educativi migliori che l’eccitamento alla boria delle nazioni». Già Cesare Battisti, del resto, aveva avvertito il pericolo che i nazionalismi, i localismi, i regionalismi esasperati danneggino i diritti dell’uomo e del cittadino. Ed è, in proposito, sotto gli occhi di tutti che, ad esempio, si continua ancor oggi a far leva sull’irrazionalità per allarmare i cittadini sull’invasione di bimbi stranieri nelle scuole dei nostri figli, invitando a nuovi razzismi, con buona pace del dettato sia della nostra Costituzione sia delle Dichiarazioni dei diritti dell’Uomo.
Nel 1955, Piero Calamandrei si rivolge con un discorso agli studenti e afferma:«La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. è un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. (...) Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo (…) è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane...».E su questo, o almeno su tutto questo, occorre oggi riflettere.
Nato, si diceva, per fare due o tre cose essenziali, lo stimolo alla crescita, il controllo del debito pubblico e una legge elettorale decente, utile e persino costituzionale, il Gabinetto Letta ha ormai una «priorità» assoluta: riscrivere un bel pezzo della Carta: i titoli I, II, III e V della seconda parte, relativi a Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Regioni, Province e Comuni, oltre alle norme «strettamente connesse» a quelle modificate. Frattanto, si è partiti ponendo mano all’art. 138 della Costituzione, che, nella formulazione attuale, impedisce frettolose manomissioni della Carta, prescrivendo una complessa procedura per la revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, la quale si articola nella doppia deliberazione a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate nella seconda votazione, nonché in un referendum confermativo finale, con maggioranza dei voti validi, quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Ispirato dall’intento di sbarazzarsi di quella che veniva sinora ritenuta «la valvola di sicurezza della Carta», il disegno di legge costituzionale riduce l’intervallo tra una lettura e l’altra da tre mesi a quarantacinque giorni. Si è stabilito, altresì, che una nuova legge elettorale potrà essere scritta solo all’esito della riforma.
Quel che, tuttavia, appare più grave è che tutto punti verso una Costituzione ignota, mai concordata e mai votata dagli eletti, ma che, a quanto pare, ha già corretto in senso verticale le sue istituzioni: invece di risalire dal voto, il potere oggi discende dal potere; e se gli elettori sono stati abbandonati anche le prerogative del Parlamento, che sarà chiamato a votare i testi elaborati nella Commissione dei quaranta «saggi», che nella stranezza e nell’anomalia segue quella dei dieci, che è all’inizio di tutta questa vicenda, subiscono, nei fatti, un drastico ridimensionamento.
Della tendenza a ridurre alla marginalità il ruolo del Parlamento è sintomatico quanto pubblicato da Francesco Perfetti su Il Tempo.it del 4 luglio 2013, riferendo del comunicato diffuso il giorno precedente dal Quirinale, al termine della riunione del Consiglio Supremo di Difesa, presieduto dal Capo dello Stato, a cui sarebbe da attribuire «un significato politico, che va ben oltre il problema dell’acquisto degli F35», da qualche tempo fattore di fibrillazione per la maggioranza. «Affermando che le prerogative del Parlamento non possono tradursi in una sorta di “diritto di veto” sui programmi di ammodernamento delle Forze Armate e, più in generale, su quelle “decisioni operative” e su quei “provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”», avverte Perfetti, «il documento ha aggiunto una pietruzza sulla strada, cara al presidente della Repubblica, delle riforme istituzionali»: si è trattato di riunione che, al di là delle motivazioni specifiche che ne sono all’origine, «ha costituito l’occasione per far capire (o ribadire) la necessità di mettere mano, con urgenza e senza alibi dilatori, alla revisione della Carta costituzionale». E per spiegarsi meglio, Perfetti aggiunge: «il fatto che il Capo dello Stato, sia pure attraverso un organismo del quale ha la presidenza, abbia indicato, in maniera ferma e non equivoca, dei limiti alla attività delle Commissioni Parlamentari e, più in generale, delle Camere dimostra come sia già in atto, nella prassi, un processo di trasformazione delle istituzioni nel senso di un rafforzamento dell’esecutivo. In altre parole, si sta affermando – e non è detto che ciò sia male – una nuova “Costituzione reale”, in molti punti a cominciare da quelli relativi ai poteri degli organi costituzionali, ben diversa dalla “Costituzione formale”». Agghiacciante la conclusione, che dissimula un invito perentorio: «La nota del Quirinale, sotto questo profilo, è un vero e proprio stimolo a procedere verso l’ammodernamento dell’architettura dello Stato nella direzione di una repubblica presidenziale o semipresidenziale. Già da tempo, Napolitano, di fronte alla gravità di una crisi del sistema politico e istituzionale, ha dato una lettura estensiva ai poteri presidenziali mettendone in soffitta la concezione puramente notarile e affermando, invece, piaccia o non piaccia, una vocazione interventista della suprema carica dello Stato. Anziché parlare di “schiaffo al Parlamento”, come fanno i grillini e le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi, sarebbe bene, al di là della questione pur importante degli F35, che si cogliesse l’invito implicito a mettere mano, finalmente, alle riforme. Per il bene del Paese».
Nel ricordato articolo Torniamo allo Statuto, l’anonimo autore, che, si è visto, essere Sidney Sonnino, «l’uomo più coscientemente reazionario che abbia (avuto) la Camera italiana (…) essere subdolo e maligno, che cova(va) nel cervello equilibrato quanto ristretto le cupidigie di uno strozzino, l’assolutismo di un tiranno, la ferocia di un borbonico, l’astuzia di un gesuita», secondo l’icastica definizione che ne dava L’Asino del 9 giugno 1900 (Galleria Parlamentare, Sezione: Forcaioli, Studi di figure… e di figuri), chiedeva fosse ristabilito il potere di governare assegnato al Re dallo Statuto Albertino, dopo un’aperta denuncia della debolezza del sistema parlamentare italiano, inetto nei suoi esponenti, inquinato da interessi particolari e clientelari e dunque incapace di guidare lo Stato. Ora, a tacer del fatto che gli eventi storici non seguirono gli auspici del conservatore Sonnino, anche se, ad onor del vero, un quarto di secolo dopo, la stessa sfiducia nell’efficienza del sistema parlamentare rappresentativo e il timore per la concreta crescita delle forze politiche e popolari di sinistra furono tra le cause della svolta autoritaria che diede origine al fascismo, lo Statuto forniva, comunque, qualche appiglio alla figura del «Principe che governa», in residui verbali d’ancien régime. Non altrettanto, invece, può dirsi faccia la Costituzione del 1947. Il primo attribuiva, infatti, al Re la qualifica di «capo supremo dello Stato» (art. 5); lo chiamava a partecipare alla formazione delle leggi, mediante un atto di vera e propria approvazione, che si aggiungeva a quelli delle camere (art. 35); conferiva «solo» al Re il potere esecutivo (art. 5); lo considerava «fonte della giustizia», che veniva amministrata «in suo nome» dai giudici «da lui nominati» (art. 68). Nessuna di tali attribuzioni, per contro, è ora propria del presidente della Repubblica, in conformità alle esigenze della logica democratica, che richiede l’attribuzione delle menzionate funzioni agli organi che, emanando direttamente dal popolo, appaiono maggiormente idonei ad interpretarne la volontà. Così, l’articolo 87 lo definisce ancora «capo dello Stato», ma senza più la qualifica di supremo, dato che essa compete ora al popolo (articolo 1); in ordine all’attività legislativa non gli conferisce più poteri di approvazione; non lo considera titolare del potere esecutivo, divenuto spettanza di un organo autonomo qual è oggi, per Costituzione, il governo; infine gli sottrae ogni potestà nella nomina dei giudici e dispone che la giustizia debba essere amministrata in nome del popolo (articolo 101). Questo confronto non conduce ad emersione elementi sufficienti ad una determinazione in positivo della figura del Presidente della Repubblica; esso giova, tuttavia, ed è ciò che qui interessa, a delinearla in negativo: ci dice quel che la Costituzione non vuole, vale a dire, un Presidente «reggitore» dello Stato in periodi di crisi. Se lo avesse voluto, gli avrebbe conferito poteri tali da consentirgli interventi attivi nella direzione dello Stato, che, invece, non gli ha accordato.
I Saggi, per nostra fortuna, lavorano alacremente all’adeguamento della Carta, e lo fanno, come si conviene, in claustrale silenzio, non come taluni garruli giusdicenti, i quali inopportunamente anticipano le motivazioni di sentenze confirmatorie di altre sentenze, il cui dispositivo hanno già pubblicato, mediante la lettura a reti unificate, lasciandosi andare ad amichevoli conversali col menante amico di vecchia data, perciò pronto a propalarne, summo cum strepitu, le ingenue confidenze.È, dunque, con cupo ottimismo che posso concludere queste noterelle introduttive, ricordando il rassicurante aforisma estratto dal «Proclama alla Nazione», la cui esposizione, nella fantacommedia monicelliana Vogliamo i colonnelli, era commessa al generale Pariglia: «C’è un grande passato nel nostro futuro».
Cap. I
Il naufragio del piroscafo Ercole
Nella notte tra il 4 e il 5 marzo del 1861, spariva nel nulla, tra Palermo, da dove era partito, e Napoli, dov’era diretto, il piroscafo Ercole, nave di circa 450 tonnellate di stazza, magari vecchiotta, per l’epoca, ma perfettamente in grado di affrontare le normali navigazioni sulle rotte tirreniche.
Oltre al capitano Michele Mancino, a bordo, vi erano 18 uomini di equipaggio, napoletani e calabresi, e dai 40 ai 60 passeggeri. Tra questi, alcuni ufficiali garibaldini, guidati dal Colonnello Ippolito Nievo, friulano di famiglia mantovana, letterato appena trentenne, che aveva già dato alle stampe alcune opere, ma che sarebbe diventato famoso con Le confessioni di un italiano, pubblicato dopo la sua morte.
Quasi contemporaneamente erano partite da Palermo, con uguale destinazione e rotta, il piroscafo Pompei e il vascello inglese Eximouth. La flotta inglese dell’ammiraglio Mundy, composta da otto navi, finito il suo compito di «supervisione», sempre il 4 marzo, aveva lasciato il porto di Napoli diretta a Malta. L’intera flotta da guerra piemontese, negli stessi giorni, era impegnata nel blocco di Messina, che stava ancora resistendo. Così, nel tratto di mare percorso dal piroscafo Ercole, c’erano decine e decine di navi di diversa nazionalità: lo spazio era così intasato che niente sarebbe potuto sfuggire. Uno scenario simile, in maniera inquietante, a quello di un altro dei misteri d’Italia, l’incidente di Ustica, che sarebbe avvenuto centoventi anni più tardi, proprio nei cieli sopra lo stesso tratto di mare. Probabilmente, non si saprà mai se il piroscafo Ercole sia affondato per una tempesta o per un’esplosione accidentale o dolosa. Il nipote di Ippolito Nievo, Stanislao, è addirittura sceso sui fondali a cercare risposte, ma senza successo, sebbene le sue ricerche abbiano generato due libri: Il prato in fondo al mare (1974) e Il sorriso degli dei (1997). Sull’argomento, peraltro, è tornato di recente Cesaremaria Glori (La tragica morte di Ippolito Nievo, Solfanelli, Chieti 2010), il quale ha evidenziato taluni elementi inquietanti, quali la presenza a bordo del piroscafo Ercole di tale Lorenzo Garassini, probabile agente cavouriano, che anni dopo, nel Golfo del Leone, sarebbe perito in mare, ma in un altro naufragio; o l’atteggiamento di Ippolito Nievo che da qualche tempo manifestava perplessità sulla sua esperienza e voglia di «sfogarsi».
Seguiamo, dunque, il ragionamento di Glori. Nel corso della navigazione dei Mille verso le coste siciliane, al giovane Ippolito Nievo era stato affidato l’incarico di Vice Intendente, che comportava la responsabilità dell’amministrazione del Corpo di Spedizione, prima, e dell’Esercito Meridionale, in seguito.
L’incarico, peraltro, era suscettibile di critiche, divenute malevole se non proprio calunniose, nella lotta che vedeva contrapposti cavouriani e garibaldini. I primi sostenevano sia che l’apporto della Spedizione dei Mille alla conquista era stato di facciata sia che si fossero dissipate con disinvoltura, se non addirittura in maniera truffaldina, enormi somme di denaro. I secondi, naturalmente, sostenevano il contrario e, proprio per difendersi da queste calunnie, che avevano trovato nella stampa dell’epoca una tribuna ascoltata e temuta, il Colonnello Nievo era stato costretto a redigere un Rendiconto nel quale aveva ricostruito, con meticolosa precisione, l’operato suo e di tutta l’Intendenza.
Mossa certamente corretta, ma nel fascicolo erano contenute notizie riservate, della specie che non sarebbe stato opportuno rivelare: l’Intendenza aveva dovuto gestire anche un ingente finanziamento della Massoneria britannica, in piastre d’oro turche, che aveva favorito l’arrendevolezza di gran parte degli ufficiali e delle alte cariche civili borboniche; l’immobilità, insomma, che aveva paralizzato l’Esercito e soprattutto la Marina borbonica. Ippolito Nievo, quindi, sarebbe perito nel naufragio doloso del piroscafo Ercole, affinché i conti della spedizione garibaldina non rivelassero tale non disinteressato aiuto e, men che meno, la sua provenienza.
Secondo Cesaremaria Glori, Giuseppe Garibaldi, affiliato alla Massoneria sin dal 1844, non poteva essere all’oscuro degli avvenimenti della notte fra il 4 e 5 marzo: starebbe lì a dimostrarlo il tono freddino e stranamente «burocratico» della lettera di condoglianze, firmata dall’Eroe dei due Mondi e indirizzata alla famiglia Nievo. E neppure lo era il console amburghese Hennequin, che a Palermo curava gli interessi del Governo di Londra: costui avrebbe cercato di dissuadere Nievo dall’imbarcarsi su quella nave, ma il Vice Intendente non era uomo da abbandonare il Rendiconto con tutti i documenti giustificativi che lui aveva predisposto, e neppure comprese il criptico messaggio dell’annunciato disastro: ignorava che quel rendiconto non doveva vedere la luce, perché avrebbe rivelato la pesante ingerenza del Governo di Londra nella caduta del Regno delle Due Sicilie.
Il caso, comunque, non può dirsi ancora chiuso.
Cap. IIDai moti contadini al «brigantaggio» antiunitario
Nel febbraio del 1861, negli stessi giorni che vedevano il Parlamento del nuovo Regno d’Italia riunito per la solenne proclamazione dello Stato unitario, le regioni meridionali del Paese stavano entrando in una pericolosa situazione di fermento e resistenza, che sembrava voler mettere in discussione la realtà di quella unificazione. E proprio mentre Vittorio Emanuele II, a Torino, con legge 17 marzo 1861, assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia, in una lontanissima provincia lucana, tra Melfi e Ripacandida, il pastore ribelle Carmine Donatelli, detto Crocco, era acclamato come un liberatore ed accolto con onori trionfali, al grido di «viva Francesco II», dalle popolazioni dei centri che andava occupando e «liberando» con le sue truppe.
Sulla scena meridionale, durante l’avanzata di Garibaldi verso il nord e fino al momento della definitiva sconfitta borbonica, si erano presentati moti contadini, ma, almeno in quella primissima fase, sarebbe stato difficile attribuire loro un carattere d’insorgenza o di resistenza politica. Lo stesso banditismo, del resto, non era cosa nuova in quelle regioni: piuttosto ben conosciuto come fenomeno endemico in certe particolari zone, comprese alcune aree periferiche dello Stato pontificio, aveva caratteri «sociali», rappresentava in parte la maniera stessa di sopravvivere di alcune frange non trascurabili di quella società contadina, e si caratterizzava per una continuità e una permanenza che finivano, paradossalmente, per ridurne in gran parte la valenza ribellistica e il potenziale significato politico. E l’esperienza dell’ultimo secolo aveva anche mostrato come esso si risvegliasse particolarmente nel corso di agitazioni sociali e in occasione di crisi di potere o di regime.
Sembrarono, dunque, queste, delle buone ragioni per non prendere in seria considerazione le turbolenze ed i moti ribellistici, che si erano manifestati, in modo apparentemente episodico, in quasi tutto il territorio del Regno, durante l’impresa garibaldina. Ma la sottovalutazione si spinse troppo oltre, si protrasse troppo a lungo e, unendosi ad un’insufficiente visione politica della realtà meridionale, dette luogo a non pochi e non piccoli errori, di ordine essenzialmente politico e militare, e tutti riconducibili, a ben vedere, ad una serie di preoccupazioni, che nulla o poco avevano a che fare con le vere cause della guerriglia meridionale.
Che al fenomeno, nel suo insieme, venisse dato il nome di «brigantaggio», il quale nel linguaggio penalistico allora corrente designava la versione associata del banditismo di strada, segnala l’attitudine riduttiva a non valutare attentamente la natura di quella diffusa sollevazione, che se non nasceva, come pure qualcuno pretendeva, da un movimento politico antiunitario, neppure poteva essere ridotta, puramente e semplicemente, ad un’ordinaria manifestazione di criminalità comune, sia pure straordinariamente ampia.
In una polemica che contrappose, nell’estate del 1861, Massimo D’Azeglio a Bettino Ricasoli sono già raffigurate le due posizioni.
Il primo vedeva nel brigantaggio la prova dell’ostilità delle popolazioni meridionali all’unione col resto d’Italia. In una lettera a Carlo Matteucci, scriveva: «… ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: – e il suffragio universale? – io non so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunque deve essere corso qualche errore… Ad italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate».
Temendo che una simile posizione, rappresentativa di sentimenti non isolati, potesse favorire ripensamenti antiunitari, appoggiati in quella fase da Napoleone III, Bettino Ricasoli replicò subito e, cercando di negare valore politico a quanto stava accadendo nel mezzogiorno, riduceva il brigantaggio ad un fatto di comune delinquenza dovuta alle responsabilità del passato regime, strumentalizzato dal revanscismo reazionario e pontificio, alimentato dalla diaspora del vecchio esercito borbonico.
Sebbene desse del brigantaggio un quadro piuttosto superficiale, Ricasoli era nel giusto quando affermava che esso non era di per sé un fatto politico, ma un fatto sociale, sfruttato politicamente dai reazionari. Mentre sbagliava D’Azeglio, nonostante il suo richiamo al principio democratico del consenso popolare, presentando il brigantaggio come un’insurrezione antiunitaria.
In ogni caso, ciò che quella classe dirigente non voleva o, forse, non poteva vedere, al di là delle differenze di orientamento o di sensibilità presenti al suo interno, era che quella guerriglia si dirigeva contro l’ordine sociale costituito, comunque rappresentato, e contro la proprietà e le pretese dei «galantuomini». I notabili locali, infatti, avevano approfittato, quasi sempre illegalmente, delle leggi eversive della feudalità entrate in vigore all’inizio del secolo, le quali avrebbero dovuto assicurare la redistribuzione equa e larga dei demani feudali tra ex baroni, Comuni e cittadini, secondo precisi meccanismi di quotizzazione, ma che erano stati usurpati o, comunque, gestiti a loro profitto dai galantuomini, cui era confidato il controllo dei Comuni. Col passaggio di mano delle terre, peraltro, erano peggiorate le condizioni di vita nelle campagne, a causa della perdita dei non pochi privilegi che la logica stessa degli assetti feudali di antico regime assicurava anche ai contadini.
Le ragioni sociali dell’esplosione della guerriglia brigantesca nel Mezzogiorno, vennero, talora, fraintese e, talaltra, temute, proprio poiché comprese. Lo Stato unitario, del resto, per quanto esse fossero degne e comprensibili, specialmente a fronte della pronta strumentalizzazione da parte di borbonici e clericali, decisi a trasformare quell’insurrezione, delle cui cause erano i primi responsabili, in un fenomeno di reazione sanfedista, doveva necessariamente reagire: abbassare le armi sarebbe stato un cedimento alla reazione europea e avrebbe significato l’accettazione di rimettere in discussione i risultati ai quali, fino ad allora, era approdato il movimento liberale e nazionale italiano.
Le armi non furono abbassate, tuttavia, nella logica della lotta contro il brigantaggio, per un verso le preoccupazioni politiche del governo di Torino, non ultima la presenza di democratici a Napoli, e, per l’altro, la sua incapacità di comprendere la realtà meridionale nel suo complesso, condussero a decisioni che si rivelarono rovinose. Prima fra tutte, lo scioglimento dell’esercito meridionale di Garibaldi, negli ultimi mesi del 1860, imposto dai moderati, proprio mentre la sollevazione contadina andava prendendo forma, con conseguente intollerabile indebolimento del fronte della repressione, già sguarnito.
Il congedo del vecchio esercito borbonico, forte di centomila uomini, con possibilità per gli ufficiali di arruolarsi nell’esercito italiano e il contemporaneo licenziamento di sottufficiali e truppa, fu l’altro dissennato provvedimento che corse praticamente in soccorso delle bande che avevano cominciato a formarsi, quando esse stavano incontrando le prime serie difficoltà di reclutamento: pochissimi furono gli ufficiali che entrarono in servizio attivo sotto la nuova bandiera; moltissimi, invece, gli sbandati di bassa forza, in maggioranza di origine contadina e condannati, di fatto, alla disoccupazione e soggetti spesso a vessazioni da parte dei liberali, che andarono ad ingrossare le file delle bande, diventandone talora capi famosi. Come se poi non bastasse, un decreto del 20 dicembre 1860 richiamò alle armi oltre settecentomila giovani, di cui soltanto ventimila si presentarono regolarmente, mentre gli altri, com’era prevedibile, divenuti «fuori legge» per renitenza, si diedero alla macchia, ingrossando le bande già esistenti o costituendone di nuove.
Questi non furono, tuttavia, gli errori più gravi imputabili al governo italiano, quanto piuttosto quelli di carattere strategico, quali il disinteresse o, peggio, sostanziale spirito di boicottaggio, con cui vennero riprese le operazioni di quotizzazione delle terre, sulla base dell’ancora vigente legislazione borbonica e l’insufficiente politica di lavori pubblici avviata fin dal 1860 per alleviare la diffusissima disoccupazione, che pure fallì per l’inettitudine di un’amministrazione incapace di gestirla convenientemente.
Certo, non era possibile adottare, in pochi mesi, tutti i provvedimenti di riforma ed i programmi d’investimento che sarebbero stati necessari per rimuovere le cause profonde del malessere meridionale; né una riforma agraria, che pure avrebbe rappresentato la migliore fra le vie d’uscita, ammesso che fosse stata nelle intenzioni, poteva improvvisarsi in tempi così brevi. Si restò, tuttavia, ben al di qua di tutto questo.
I vari plenipotenziari nominati dal governo di Torino, da Luigi Carlo Farini a Gustavo Ponza di San Martino, da Enrico Cialdini ad Alfonso La Marmora, non si curarono minimamente delle cause strutturali del brigantaggio né pensarono affatto al pur minimo intervento riformatore, preoccupati unicamente di tener viva la pregiudiziale antidemocratica, quantunque implicasse di dover pagare un alto costo in termini sia tattici sia strategici, e di dar corso ad attività lato sensu militari, perché meglio sarebbe definirle «poliziesche», nel senso più deteriore, specie nella prima fase della repressione.
Questo comportò che nella lotta al brigantaggio, almeno all’inizio, fossero adottati metodi non soltanto assolutamente inefficaci, tali da inasprire la resistenza del nemico, ma, prima d’ogni altra cosa, arbitrari ed illegali, inutilmente vessatori, feroci e terroristici, ispirati addirittura ai principi dell’intimidazione generalizzata e del ricatto, della punizione indifferenziata, della rappresaglia, della fucilazione dei prigionieri, della terra bruciata. «Sono ributtato» scriveva alla famiglia dall’Irpinia il tenente Giovanni Negri, futuro sindaco di Milano, «da questa guerra atroce e bassa, dove non si procede che per tradimenti e intrighi, dove spogliamo il carattere di soldato per assumere quello di sbirri».
L’azione durissima e non del tutto priva di efficacia del «dittatore» Enrico Cialdini era iniziata con l’espulsione di elementi reazionari: nobili legittimisti, ex militari borbonici, un gran numero di preti ribelli e ben settanta vescovi, fuggiti o arrestati per complicità in fatti di brigantaggio che comprendevano gravi episodi di stragi, devastazioni e saccheggi; era proseguita con l’arruolamento di guardie nazionali mobili e l’avvio di una repressione senza quartiere dell’insurrezione contadina, attraverso spedizioni punitive, incendi di villaggi e di boschi, rappresaglie: in soli sei giorni, nel teramano, le fucilazioni furono cinquecentoventisei.
Nell’estate del 1861, oltre centoventimila erano gli uomini impegnati nella repressione, con dubbi risultati. Il brigantaggio subì colpi all’apparenza decisivi: circa seimila i banditi messi fuori combattimento, tanto che le strade e le città tornarono sotto il controllo delle truppe, ma i boschi e i monti restarono in mano agli insorti, e da lì riprese vita, all’inizio del 1862, la guerriglia, con le bande guidate da Crocco, Tortora, Giuseppe Caruso, Ninco Nanco, Paolo Serravalle, Schiavone, Sacchetiello, Totaro, Antonio Cotugno e molti altri ancora.
Passato, frattanto, il comando della repressione al generale Alfonso La Marmora, questi dovette fare i conti con Garibaldi, che marciava verso Roma: l’episodio dell’Aspromonte fu occasione propizia per la proclamazione di uno stato d’assedio, la quale, pur senza produrre grandi risultati, facilitò le operazioni militari, ma sottrasse anche risorse e attenzione alla lotta contro i briganti, creando spazi per le loro imprese in altre regioni della Basilicata e della Puglia, dove si formarono le bande al comando di Masini e di Romano.
Alla fine del 1862, quasi la metà di tutto l’esercito italiano era impegnata in armi nel sud del Paese, per una gigantesca impresa, di cui non si intravvedeva ancora la fine e sulla quale, da ogni parte, si esprimevano riserve e perplessità, quando non si levavano addirittura apertamente dure e motivate critiche.
Cap. III
Lo scandalo delle Ferrovie Meridionali
I vari Stati preunitari, prima del 1859, avevano costruito, nel complesso, 1.759 chilometri di strade ferrate e la tendenza era di metterne in opera molti altri: si era visto che in altri Paesi europei questo mezzo di trasporto stava sostituendo completamente, nel trasporto di merci e anche persone, le carrozze con i cavalli.
La mancanza di ferrovie, in Sicilia, penalizzava l’esportazione dei suoi due beni fondamentali: il grano e lo zolfo. Il governo borbonico, pur avendo commissionato a un gruppo d’ingegneri belgi lo studio dei costi e della fattibilità dei collegamenti tra Palermo e Bagheria e tra Licata e Caltanissetta, era restio, però, a ricorrere a capitali esteri: temeva di far fare alla Sicilia la stessa fine della Sardegna, in cui gli affari di Stato venivano gestiti dai Rothschild, che già controllavano le ferrovie della Lombardia e dell’Italia centrale.
Era il 24 agosto 1860, quando Francesco II di Borbone si convinse finalmente a firmare una concessione per la costruzione dell’intera rete ferroviaria meridionale, a favore di una società internazionale, formalmente rappresentata da Gustave Delahante, ma dietro la quale c’era sempre il gruppo Rotschild. Sbarcato in Sicilia, Garibaldi volle affidare il medesimo progetto a due banchieri livornesi, tra i finanziatori della sua spedizione, Pietro Antonio Adami e Adriano Lemmi. Quest’ultimo, grande amico anche di Mazzini, al quale era stato vicino durante la Repubblica romana, e finanziatore della fallita spedizione di Pisacane, nel 1885 sarebbe diventato Gran Maestro della Massoneria italiana.
Mediatore discreto, ma non per questo meno influente, tra i due banchieri e Garibaldi fu un altro toscano, Antonino Mordini, nominato nel frattempo Prodittatore in Sicilia.
L’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione, da Crispi a Bixio, da Bertani a Cattaneo, condivise l’accordo, il cui obiettivo era coniugare democrazia, laicismo e sviluppo economico.
Una volta che l’affaire delle ferrovie meridionali approdò in Parlamento, qualche deputato fece notare che Garibaldi aveva assunto impegni che eccedevano dai poteri eccezionali della dittatura, con la conseguenza che si pervenne, grazie anche alla mediazione di Carlo Cattaneo, ad una revisione del decreto relativo alla concessione, in modo da salvaguardare le prerogative parlamentari.
Lo scandalo, tuttavia, era scoppiato allorché il giornale napoletano Il Nazionale pubblicò i capitolati del progetto: la società AdamiLemmi aveva lucrato cento milioni di ducati oltre i primi previsti dal contratto, che per giunta era molto più oneroso per lo Stato di quanto lo sarebbe stato quello con la compagnia Talabot-Delahante. Mentre in seguito a ciò il nuovo «Ministero di Napoli» si dimetteva, Antonio Adami e Adriano Lemmi correvano ai ripari: per un verso, finanziando o addirittura fondando una quindicina di giornali che prendessero le loro difese, a Palermo, Napoli, Genova, Firenze e Milano; per l’altro, dichiarandosi disponibili a concedere alla società francese Delahante le linee ferroviarie di Puglia e Abruzzi.
Quando, però, Cavour era riuscito a estromettere Garibaldi dalla gestione del Mezzogiorno, Antonio Adami e Adriano Lemmi furono sostituiti a favore della Società Vittorio Emanuele, costituita con capitale interamente francese, che ottenne la concessione delle linee calabro-sicule, in vista dello sfruttamento dei centri minerari di zolfo dell’isola, che erano allora molto importanti.
Il piano di Cavour, comunque, non aveva potuto realizzarsi: i capitalisti francesi dovettero abbandonare l’affare, a causa dell’insurrezione delle popolazioni meridionali contro l’egemonia piemontese. Ne era conseguito, complice anche il dissesto finanziario della Società Vittorio Emanuele, che l’Adami-Lemmi venisse reinserita nella concessione, allo scopo di realizzare i tratti ferroviari di Taranto-Reggio Calabria, Messina-Siracusa e Palermo-Catania (oltre 900 km in tutto).
Dei due soci, però, fu il solo Lemmi a concludere proficuamente l’operazione: l’Adami non godeva di appoggi altrettanto potenti e, quando si trovò in gravi difficoltà finanziarie, dovette cedere la propria quota azionaria, finendo per fare il magazziniere della Regia Manifattura dei Tabacchi, il cui appalto era stato ceduto, a condizioni di monopolio, proprio al Lemmi.
Successivamente, la parte del leone l’avrebbe fatta la Società per le Ferrovie del Sud, guidata dall’onorevole Pietro Bastogi, riuscita a creare una cordata tutta nazionale, ma che non avrebbe potuto evitare scandali ancora più grandi. In ogni caso, per decenni, sulla costruzione delle ferrovie ci avrebbero speculato in molti: sovrani e ministri, mafie e logge, partiti e fazioni.
Cap. IV
“A banca ’o sciulo”
Nelle prime ebbrezze della libertà e di una prosperità relativa, nel nostro Paese si registrò una eccessiva confidenza nelle proprie forze economiche. E di esse si finì per abusare, lasciando che i pericolosi strumenti del credito corressero per mani inabili e disoneste, senza alcuna precauzione. Per questo s’imposero le «banche usura» nel Mezzogiorno, come più tardi, in Sardegna, le banche pseudo-agricole e industriali, mentre innumerevoli istituti, privi di base e senza capitali, s’erano diffusi ovunque, sfruttando l’ancora ingenua fiducia del pubblico.
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour, ministro del Regno di Sardegna dal 1850 al 1852, capo del governo dal 1852 al 1859 e dal 1860 al 1861, quindi, nello stesso 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, primo presidente del consiglio dei ministri del nuovo Stato, carica con la quale morì, il 6 giugno di quell’anno, il Sud, probabilmente, non lo voleva. Quando, tuttavia, Garibaldi glielo regalò, e Francesco Crispi gli comunicò l’ammontare dei depositi in argento e d’oro della Sicilia e di Napoli, oggi, diremmo, rimase «basito»: i forzieri del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, le casse, le case, i muri delle case, i cessi delle case, e perfino i giardini delle case dei «galantuomini» siciliani e napoletani traboccavano di monete d’oro e d’argento.
Un tesoro smisurato, che avrebbe potuto cambiare per sempre i destini del Sud, dell’Italia e della dinastia, se gli ultimi tre Borbone avessero disseminato il regno delle Due Sicilie di sportelli bancari e promosso investimenti strutturali per la costruzione di strade, porti, ferrovie e scuole. Ma non erano stati una dinastia liberale. Così che quel tesoro venne portato al Nord, per pagare i debiti che il Piemonte aveva contratto per la guerra del 1859.
Né mancò in Parlamento chi dicesse che era giusto così: il Sud era obbligato a offrire generosamente il suo oro ai signori liberatori, per ringraziarli del dono della libertà. A drenare, definitivamente, a vantaggio del Nord, quello che restava della liquidità finanziaria di Napoli e di Palermo, ci pensò Pietro Bastogi, banchiere livornese, chiamato dal Cavour, ai primi di aprile del 1861, a fare parte del governo, quale titolare del dicastero delle Finanze, iniziatore della politica economico-finanziaria della destra storica, diretta prevalentemente alla edificazione delle strutture amministrative e militari dello Stato, ma caratterizzata dalle economie realizzate falcidiando i bilanci dei dicasteri sociali, e, sul piano delle entrate, con l’accentuazione della fiscalità indiretta e la negoziazione dei titoli pubblici.
Il dissanguamento avvenne nel silenzio dei politici meridionali: quasi nessuno aprì bocca quando venne decretata l’unificazione monetaria, nel segno della lira piemontese, né quando si stabilì che un ducato napoletano equivaleva a lire 4,22; né quando, nel 1866, venne imposto il corso forzoso della moneta, per cui, di fatto, la lira non era convertibile in metallo prezioso.
I «galantuomini» napoletani che disponevano ancora di liquidità si spaventarono e proprio sul loro spavento e sulla nascente mania dei «giochi» finanziari costruì la propria fortuna Guglielmo Ruffo, principe di Scilla, fondatore della prima banca-usura e promotore di un fenomeno, che, in un anno, rovinò migliaia di risparmiatori, distrusse l’economia di una città già disastrata e le illusioni di chi progettava di costruire anche a Napoli una cultura finanziaria moderna.
Nell’autunno del 1869, il principe incominciò a rastrellare capitali, che nel gennaio del 1870 ammontavano, secondo il prefetto di Napoli, a 19 milioni di lire: un fiume di danaro, che Guglielmo Ruffo convogliò nelle sue casse promettendo «di restituire, dopo il corso di 20 giorni, in oro, il medesimo valore che era stato dato in biglietti di banca, senza porre a calcolo l’aggio che allora ascese fino al 18%». Per mesi la promessa fu mantenuta e gli interessi pagati puntualmente con i capitali “freschi” raccolti.
Fu una follia finanziaria di proporzioni inusitate: nel 1870 funzionavano a Napoli almeno 60 banche-usura e il primato della Ruffo veniva attaccato dalla banca Costa, che aveva conquistato la fiducia e i soldi degli speculatori del Vesuviano e del Nolano; ma, sul finire del 1870, la bolla esplose: i giornali controllati dal Governo e dai banchieri incominciarono a diffondere chiacchiere, dubbi e sospetti; gli investitori, impauriti, chiesero la restituzione dei capitali; Ruffo non riuscì a fronteggiare l’emorragia, anche perché il mercato dell’olio e del grano, su cui egli aveva investito, entrò in travaglio proprio quando partì l’attacco mediatico e fu il panico.
L’espressione «’a banca ’o sciulo» ha finito per indicare il luogo in cui si puniscono gli stupidi che, spinti dall’avidità, fanno società con i truffatori.
Cap. V
L’affaire Regìa dei Tabacchi
Dopo sette anni appena dall’unificazione, il nuovo Regno d’Italia era già sull’orlo della bancarotta, essendosi dovuto assumere il debito pubblico degli Stati preunitari e avendone ulteriormente dissanguato le casse la guerra all’Austria, conclusasi con l’annessione del Veneto, grazie ai successi dell’alleata Prussia, nonostante le pessime figure fatte dall’Esercito italiano a Custoza e dalla Marina a Lissa.
I sondaggi condotti dal governo, presso banchieri italiani ed esteri, per il reperimento del denaro necessario ad evitare la bancarotta, avevano dato esito negativo: tale era il disavanzo pubblico, che nessuno intendeva concedere prestiti. Almeno secondo la versione del governo, presieduto da Luigi Federico Menabrea, uomo di assoluta fiducia dei Savoia Carignano, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, la clamorosa soluzione adottata, impegnare, cioè, il monopolio dei tabacchi, appaltandolo ad ambienti finanziari privati, era da considerarsi dunque obbligata.
Inevitabile che la proposta, oltre alla scontata reazione negativa dei deputati dell’opposizione, suscitasse perplessità e critiche anche tra i parlamentari governativi.
Il promotore dell’operazione, il marchese Luigi Guglielmo Cambray Digny, esponente della grande proprietà terriera, ministro delle finanze, per uscire dall’imbarazzo, aveva applicato il principio, ancor oggi di gran moda, per il quale quando si vuole imporre una certa scelta, meglio contrabbandarla come una riforma: forte del fatto che, nella conduzione della Regìa dei Tabacchi, c’erano sprechi, inefficienza, sacche di parassitismo, motivò con l’esigenza di risanare e razionalizzare l’azienda l’affidamento della Regìa a «una associazione di capitalisti, la quale, svincolata dai molti legami e tradizioni degli uffici governativi, potesse sradicare gli abusi, procedere a decisive riforme, ed avere l’interesse privato a sprone nell’introdurvi quelle norme e quei sistemi più semplici e capaci di cavarne un prodotto maggiore» (Sergio Turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia, 1861-1992, Bari, 1992).
Patrono dell’operazione Regìa, nel campo dell’alta finanza, era stato il banchiere Domenico Balduino, amministratore delegato del Credito Mobiliare, il quale aveva messo insieme un gruppo di finanzieri interessati all’affare, che si preannunziava ghiotto e che tale sarebbe stato. All’orgia di quelle che, negli anni Novanta del secolo scorso, le cronache della corruzione hanno definito tangenti, e che nel linguaggio di allora si definivano «zuccherini», avevano partecipato sicuramente personaggi di primo piano della politica e dell’ambiente bancario.
Il Presidente del consiglio Menabrea, che una ventina di anni dopo, divenuto ambasciatore a Parigi, avrebbe dimostrato un’estrema disinvoltura nel coltivare interessati rapporti con affaristi di fama dubbia, era uomo tutt’altro che al di sopra di possibili sospetti. Il brasseur d’affaires Cornelius Herz, il cui nome si ritroverà nelle polemiche seguite allo scandalo della Banca Romana, e che aveva ricevuto da Crispi un’importante onorificenza italiana, era stato presentato proprio dall’ambasciatore Menabrea all’intelligente e graziosa sposa dell’illustre primo ministro d’Italia, cioè alla signora Lina Crispi; lo stesso Cornelius Herz, come sarebbe addirittura emerso, in termini certi, per acquisirne quella benevola mediazione, aveva fatto a Menabrea il favore di assumere come impiegato, in una propria azienda, un figlio dell’ambasciatore, con lo stipendio, allora favoloso, di mille lire al mese.
La convenzione fra il ministro delle finanze Cambray Digny e il gruppo rappresentato dal banchiere Domenico Balduino, partecipato dalla Società Generale del Credito Mobiliare Italiano, dal gruppo Stern di Parigi, Londra e Francoforte e dal gruppo della Banque de Paris, era stata firmata il 23 giugno 1868.
Sulla base di quell’intesa, dal gennaio successivo una società anonima privata avrebbe gestito il monopolio dei tabacchi per venti anni, successivamente ridotti a quindici, in cambio di un’anticipazione di 180 milioni di lire, un canone fisso annuale e una partecipazione agli utili pari al 40%. Sebbene fosse scontato l’assenso del Senato, che, non essendo organismo elettivo, esprimeva in pieno le posizioni governative, per la validità della convenzione era necessario assicurarsi, invece, il sì della Camera.
I deputati furono convocati, nella sede fiorentina di Palazzo Vecchio, il 4 agosto 1868. Era già tempo di vacanza, ma il governo aveva fretta di concludere. La seduta, durata quattro giorni, era stata assai movimentata. Molti e autorevoli gli interventi contrari alla proposta ministeriale. Il presidente della Camera, Giovanni Lanza, era sceso dal suo seggio per poter parlare come semplice deputato, per criticare duramente l’operazione: «Col combattere questa proposta di legge» disse «difendo gli interessi generali delle Finanze»; attaccò «il sistema degli appalti in materia di imposte, perché aveva dato sempre gli stessi risultati: appaltatori impinguati, finanze stremate, ira popolare, rivoluzione» e concluse: «Signori, vi siete informati in prima in che condizione sia il Credito Mobiliare, quale sia il suo capitale effettivo, quale sia il corso delle sue azioni, de’suoi titoli, quali sono gli affari che ha fatto da che fu istituito e come li abbia condotti?». Anche Urbano Rattazzi aveva preso posizione contro la proposta, ma paradossalmente il suo intervento aveva finito col giocare a favore della proposta Cambray Digny. Appariva inevitabile, infatti, in caso di bocciatura parlamentare della convenzione, la caduta del governo, ed era molto diffuso il timore di un possibile ritorno al potere dello stesso Rattazzi, il cui nome era legato a due esperienze governative non certo felici.
Mentre circolava insistente la voce che il ministro delle finanze, su esplicito suggerimento del banchiere Domenico Balduino, avesse provveduto a corrompere taluni deputati indecisi per assicurarsene il voto, il clima di sospetto accresceva la tensione.
A fronte di una proposta di sospensiva, respinta con lieve margine, 182 voti contro 201, per protesta, Giovanni Lanza s’era dimesso immediatamente dalla presidenza della Camera. Le voci correnti nel pubblico trovavano credito, anche perché un personaggio di riconosciuta serietà come Giovanni Lanza era venuto a conoscenza di fatti che ponevano il problema del monopolio tabacchi in una luce diversa da come l’aveva presentato Cambray Digny.
I si dice non avevano risparmiato Vittorio Emanuele II: il suo «zuccherino», secondo le voci, sarebbe stato di 6 milioni. Della propensione al guadagno facile dimostrata dal generale Menabrea si è già detto. Quanto al ministro Cambray Digny, manovratore principale della operazione, era inevitabile che fosse stato oggetto di sussurro. C’era poi il ministro della giustizia Michele Pironti, che, a giudicare dall’insistenza con cui intervenne sui magistrati, potrebbe essere stato sulla lista dei corrotti. E quanti altri ministri? Quanti deputati?
Con I misteri di via dell’Amorino (Rizzoli, Milano 2012), Gian Antonio Stella racconta con intelligenza ed estro questo scandalo misterioso e lontanissimo, che sembra gettare una luce sinistra sui delitti di oggi.
Il Natale del 1868, il Gazzettino Rosa di Milano aveva pubblicato un articolo furioso.
Qualche giorno prima, il deputato Luigi Zini, che proveniva dalla magistratura, aveva mandato una lettera al Lanza: «Si assevera che, per l’affare dei tabacchi, furono distribuiti diversi milioni, dei quali sei al re, e due tra sessanta deputati».
Poi si era diffusa la voce «che non meno di sei milioni si fossero distribuiti per comperare voti di deputati, che in numero di sessantacinque avevano messo al traffico la propria coscienza».
Era anche risultato che all’estero alcuni banchieri si erano offerti di concedere allo Stato italiano il necessario prestito, senza chiedere in cambio la privatizzazione della Regìa e, in proposito, ci si chiedeva perché il governo avesse fatto ricorso alla soluzione estrema.
Erano giorni di altissima tensione.
Le piazze italiane erano percorse da cortei contro la tassa sul macinato, in vigore dal 1° gennaio 1869. Sassaiole, cori contro il governo, cariche di carabinieri a cavallo, morti e feriti. Francesco Crispi sosteneva che si trattava di un’imposta progressiva, non in proporzione della ricchezza, ma della miseria. Malgrado le aspettative del governo, la tassa avrebbe reso quell’anno solo 28 milioni: circa un terzo rispetto ai 75 milioni previsti.
Qualche mese dopo, Giuseppe Ferrari, repubblicano e federalista, aveva preso la parola alla Camera: «Io chiedo nell’interesse di tutti e del Paese di aprire un’inchiesta sui fatti relativi alla Regìa dei Tabacchi».
Il 5 giugno, il maggiore Cristiano Lobbia, un onesto deputato proveniente dalle file garibaldine, aveva sollevato due grossi plichi chiusi con cinque sigilli rossi e li aveva agitati in aria: «Annunzio solennemente alla Camera che posseggo dichiarazioni di testimoni, superiori a qualsiasi eccezione, le quali dichiarazioni sono a carico di un deputato nostro collega, e si riferiscono a lucri che avrebbe percepito nelle contrattazioni della Regìa dei Tabacchi».
La commissione, composta di uomini della Destra, del Centro e della Sinistra, era stata eletta; e il Lobbia convocato per il 16 giugno, per spiegare cosa ci fosse in quei plichi misteriosi.
La vigilia della convocazione, alla mezzanotte del 15 giugno, il Lobbia «transitava per via Sant’Antonio e stava per voltare in via dell’Amorino, dove abitava un suo amico, quando un uomo uscì dall’ombra, gli si avventò di fronte e gli vibrò un colpo di stile diretto al petto».
Il ferito era stramazzato a terra: l’assassino gli si era avventato di nuovo contro, per vibrargli un secondo e poi un terzo colpo alla testa. Alla fine, il Lobbia era riuscito ad alzarsi in piedi, voltarsi e sparare due colpi di pistola verso l’assassino, che era fuggito, probabilmente ferito. Raccolto nella casa dell’amico, il Lobbia aveva ricevuto le prime cure da parte di un medico, il quale aveva repertato a suo carico ferite non mortali.
Come nella migliore tradizione, fallito il tentativo di eliminazione fisica, s’era fatta impellente la necessità di screditare lo scomodo deputato: mentre per un mese, dopo l’aggressione, Cristiano Lobbia venne continuamente seguito e spiato da strani figuri, che sparivano dietro gli angoli delle strade, o sbucavano improvvisamente sulle scale, la magistratura s’impegnò alacremente nell’opus di demolizione della credibilità sua e di quella dei suoi amici, i quali avevano costretto il Parlamento a votare l’inchiesta; e finalmente, il 12 settembre 1869, Lobbia ricevette due mandati di comparizione, in cui gli si ordinava di presentarsi al tribunale il 15 settembre, per rispondere dell’imputazione di simulazione di delitto.
Il processo alla vittima era cominciato il 26 ottobre, col tribunale che non accordava una dilazione ai difensori per leggere le carte; rifiutava la necessaria autorizzazione della Camera prevista dallo Statuto albertino; impediva il ricorso di Lobbia in Cassazione. Poiché, secondo la tesi maggiormente accreditata, l’immunità parlamentare valeva soltanto nel corso delle sessioni della Camera, incombendo la riapertura della Camera, il tempo a disposizione del tribunale era pochissimo, perciò, tenne udienza tutti i giorni della settimana, mattina e pomeriggio, compresi i sabati, e persino il 2 novembre. Tra i testimoni, i caffettieri, le domestiche, i fornai, i falegnami, i facchini, gli studenti e tre generali davano ragione a Lobbia; e quasi tutti rivelavano pressioni e minacce da parte della polizia perché cambiassero versione. Testimoni dell’accusa, un sarto sepolto di debiti e ricattabile, la padrona, le ospiti e le cameriere di una casa di tolleranza, una poveretta che non era in grado di essere interrogata perché distrutta dalla sifilide, poliziotti e mogli di ispettori di polizia, guardie daziarie, funzionari di questo o quel ministero, tutti sottoposti alle prepotenze dei superiori. Immersa in un’atmosfera di veleni, di sospetti e d’insinuazioni, la corte aveva letto il suo verdetto il 15 novembre 1869, due giorni prima della riapertura della Camera.
Tranne uno, tutti gli imputati furono dichiarati colpevoli. A Cristiano Lobbia, accusato di essersi inventato tutto «perché venne a trovarsi nell’assoluta necessità di scuotere fortemente con qualche fatto la pubblica opinione», veniva inflitta la pena di un anno di penitenziario militare. Ai suoi amici vennero inflitte pene detentive a sei e a tre mesi.
Molte città d’Italia, a partire da Torino, erano state invase da manifestanti, che sventolavano la bandiera italiana gridando: «Viva Lobbia! Viva Lobbia!».
In occasione del parto di Margherita di Savoia, che diede alla luce il futuro Vittorio Emanuele III, il re aveva deciso di concedere un’amnistia. Ma Lobbia e i suoi amici l’avevano rifiutata: volevano un nuovo processo, per dimostrare la propria innocenza.
Il nuovo processo, celebrato a Lucca, il 14 gennaio 1875, stabilì che non esisteva alcuna prova per dimostrare che l’attentato era stato simulato da Lobbia. Ma la sua innocenza venne quasi cancellata sui giornali, che avevano riportato, invece, con molto rilievo le accuse.
Cap. VI
La speculazione edilizia nella Roma postunitaria
Sino al 1870, Roma era una città parassitaria, gran parte della sua popolazione viveva alla giornata, più di elargizioni che di lavoro, di attività industriali quasi non c’era traccia, e il modo di amministrare del governo pontificio, l’aria che si respirava, erano tali da scoraggiare qualunque iniziativa, sia politica che imprenditoriale.
Le testimonianze dei viaggiatori nella Roma, a prescindere dalle meraviglie e dagli stupori, restituiscono l’immagine di «una piccola città addormentata, inutile, in via di smobilitazione»; ancora in Stendhal ci sono notazioni del tipo: «ad avere un minimo di civismo si muore avvelenati di malinconia».
Secondo Massimo Birindelli (Roma italiana. Come fare una capitale e disfare una città, DEA Editrice Edizione E-Book, © 2011), furono proprio i difetti di Roma a farla diventare capitale del Regno: era isolata, quindi facilmente controllabile; aveva una borghesia politicamente e numericamente debole e una popolazione poco incline alle rivolte, che invece imperversavano nell’ex regno Borbonico. Ma era stata scelta anche per decentrare il potere dei Savoia da Torino, così da evitare che l’Italia diventasse una copia dello Stato Sabaudo e per mettere all’angolo Pio IX, dichiarando in questo modo che il Regno d’Italia dovesse essere libero dall’influenza di altri Stati europei e in particolare della Francia filo-papale. Insomma, Roma poteva essere la Capitale perfetta: i Savoia lontani e il papa sotto controllo, niente operai riottosi, grandi masse di poveracci inermi ed enormi guadagni derivanti dalla speculazione edilizia.
Lo spostamento a Roma della Capitale comportò, per un verso, che vi si riversassero altri centomila abitanti dove a stento se ne contenevano duecentomila, con l’ulterire duplice conseguenza, che nella città, colonizzata da impiegati e commercianti torinesi e fiorentini, i prezzi e gli affitti degli immobili subissero un improvviso innalzamento, e che la parte agiata della popolazione andasse ad abitare dove, in precedenza risiedeva la classe operaia, e la classe operaia fosse ricacciata là dove mai essere umano aveva abitato; per altro verso, l’accentramento, colà, di speculatori d’ogni sorta, i quali fiutavano nell’aria il prossimo trionfo dell’affarismo, mascherato sotto il gran nome della «Terza Roma». E la speculazione edilizia, sin dall’annessione, fu il frutto di un’alleanza strategica tra aristocratici proprietari terrieri e grandi banchieri settentrionali, interessati a investimenti a breve termine e senza rischi, guidati dal banchiere Pietro Bastogi, esponente di quella aristocrazia del denaro, che riuscì a far valere, in maniera pressoché incontrastata, il potere della ricchezza mobiliare e ad assicurarsi un ruolo egemone nella direzione dello sviluppo economico.
I primi anni dopo il 1870 furono tutto un comprare e vendere terreni. A vendere erano il patriziato romano e gli ordini religiosi, a comprare (o a rivendere) i gruppi finanziari venuti da fuori. In breve si arrivò al monopolio. Il numero dei proprietari si fece ancora più esiguo di quanto non fosse stato nella Roma papale. Si arrivò al punto che già nel 1875 una sola società, la Compagnia fondiaria italiana, era proprietaria di una superficie pari a un terzo dell’intera area delimitata dalle mura.
In queste condizioni è inutile sia parlare di «legge della domanda e dell’offerta», nella determinazione dei prezzi dei suoli, sia di piani regolatori: quelli approntati di volta in volta, non fecero che registrare quanto desideravano o imponevano le grandi compagnie immobiliari e larga parte dell’amministrazione comunale divenne subito uno strumento della speculazione. A un certo punto, ricorda Birindelli, si era palesata anche l’idea di una città nuova al di fuori delle mura, un nuovo centro amministrativo che non intaccasse la città vecchia. Ma essa venne abbandonata in favore di una politica di manipolazione violenta del tessuto cittadino, che portava, ad esempio, alla costruzione di Corso Vittorio Emanuele, per congiungere piazza Venezia a Castel S. Angelo, radendo al suolo le case presenti lungo il suo percorso, nell’esempio della Parigi rimodernata da Haussman.
La città si era quindi espansa lungo le antiche vie consolari, avendo di fatto l’effetto opposto rispetto a lasciare il centro intatto creando così «l’inconveniente di confermare sempre il nucleo originario come baricentro di tutti i pesi umani, di traffico e di scambi dell’intero aggregato». Far convergere tutte le strade su Piazza Venezia, insieme alla costruzione di numerose caserme e ad una seconda stazione ferroviaria oltre a quella di Termini, rientrava in un progetto preventivo, nel caso di sommosse popolari.
Dato che i più facinorosi erano gli operai si pensò bene di evitare l’industrializzazione della città, attraverso la limitazione artificiosa delle aree utilizzabili per le attività industriali; conseguente loro altissimo prezzo; difficoltà nelle forniture di forza motrice; lungaggini esasperanti nel rilascio delle licenze; accorgimenti fiscali. E gli operai erano appositamente sistemati in quartieri operai come San Lorenzo e Testaccio, che nelle intenzioni dei pianificatori della nuova capitale, doveva essere una specie di ghetto, molto distante dal resto dell’abitato e in particolare dai luoghi prescelti per i grandi uffici pubblici e per le residenze borghesi. Dall’alto del bastione di Paolo III sarebbe stato facilissimo tenere sotto il tiro dell’artiglieria tutto il quartiere. In attesa che fossero fabbricate le case, tutt’intorno si cominciarono a costruire il mattatoio, l’ampliamento del cimitero, il porto fluviale, i grandi serbatoi dell’officina del gas, i mercati generali.
Gli eccessi edilizi furono sarcasticamente stigmatizzati da Cesare Lombroso (Il momento attuale, Casa editrice Moderna, Milano 1903, p. 47): «Passeggiando per la Roma moderna, e peggio per la Roma ufficiale, e vi vedete la prova del grado a cui può giungere la demenza megalomaniaca nell’architettura. Gli ospedali di Roma sono in istato di dissoluzione finanziaria: ma si eleva un Policlinico che è una vera città, capace di ricoverare i malati di mezza Italia, e dove è impossibile ricoverare alcuno per la immensa spesa di manutenzione dell’edificio. La Banca è ridotta a una triste ipotesi, ma l’edificio è un’immensa fortezza incrollabile e che non differisce dai massi giganteschi medioevali, se non per la profusione dell’oro degli ornati. (…) La giustizia è resa, come diceva l’illustre Eula, un servizio che si rende ai potenti, una ipotesi, che dipende al più dalla maggiore o minore corruzione dei giurati, dalla maggiore o minore facondia di un oratore. Ma l’edificio che la deve rappresentare in Roma occupa due intere contrade e si stenta ad abbracciarlo con gli occhi. Dove sian giunte le finanze del regno d’Italia è inutile dirlo, ma il Palazzo delle Finanze è una vera città. Il momento che deve consacrare la memoria del gran re (l’allusione è al Vittoriale, n.d.r.), è una così enorme montagna di marmi e di statue che si dispera vederlo finito nemmeno in venti anni e che costa esso solo quanto basterebbe a nutrire per un anno i contadini d’Italia».
Cap. VII
I misfatti delle Opere Pie.
Nel 1880, fece clamore un’inchiesta condotta sull’amministrazione provinciale di Napoli, da Carlo Astengo. Nell’ampia relazione fatta al presidente del Consiglio Agostino Depretis, datata 25 ottobre 1880, l’Ispettore generale Astengo riferì una serie innumerevole di abusi. Per esempio, i controlli sulla gestione delle Opere pie erano approssimativi o addirittura inesistenti: «Recentemente si sono potuti approvare in blocco i conti di diciassette anni di una grande Opera Pia per una spesa complessiva di quarantun milioni». Più avanti Astengo riferì che somme ingenti venivano distribuite in sussidi a persone «di moralità dubbia e non bisognose, compresi giornalisti», e aggiunse:
«Si era anche adottato il sistema di dare ai deputati provinciali, al presidente del consiglio provinciale, al direttore degli uffici, e perfino al prefetto, una somma in blocco per ciascuno di essi affinché, in occasione della Pasqua e del Natale, ne facessero distribuzione ai rispettivi poveri! Ciò senza che alcuno dei distributori sentisse il bisogno di giustificare tali erogazioni presentando almeno un elenco dei sussidiati e una qualsiasi quietanza».
Voluta e promossa da Agostino Depretis, dopo alcuni tentativi di riforma andati a vuoto, dei ministri dell’Interno Gerolamo Cantelli e Giovanni Nicotera, con regio decreto 3 giugno 1880, venne istituita, una Commissione reale di inchiesta sulle Opere pie. Composta da personalità di rilievo, tra cui Cesare Correnti, che ne assunse la presidenza, Luigi Luzzati e Paolo Mantegazza, la Commissione reale lavorò per ben nove anni.
Due le direttive di indagine: il censimento delle Opere pie esistenti e l’individuazione dei criteri di gestione e di erogazione dei fondi. Le relazioni, in cui sono compendiati i risultati, occupano ben nove volumi. Da essi emerge un dato allarmante, una realtà generalizzata: il patrimonio raccolto attraverso lasciti e donazioni era ingente, ma tanta ricchezza non dava i frutti sperati. Anzi, i risultati erano alquanto modesti e Province e Comuni dovevano continuare ad integrare l’intervento delle Opere pie.
La legge del 1862, la «gran legge» in buona parte mutuata dal Regno Sardo, insomma, non aveva dato i suoi frutti: gli enti servivano per lo più ad alimentare se stessi, non i poveri cui l’assistenza era destinata; quando non succedeva che le «beneficenze» venivano usurpate, sottratte agli scopi per i quali sono nate e dirottate altrove.
Il dibattito che si sviluppò in Parlamento, sulla stampa, nel Paese, prima, contestualmente e dopo i lavori della commissione reale, imponeva una riforma, i cui tempi sembrarono veramente maturi soltanto sotto il ministero Crispi, per il quale la battaglia per la riforma delle Opere pie diventò programma prioritario, nonostante la forte opposizione in seno alle Camere, che provocò anche una crisi di governo: «Occorre – disse Crispi – regolarizzare l’amministrazione delle Opere pie, riordinarle con un prudente indirizzo di concentrazione, trasformare quelle che più non corrispondono alla civiltà moderna». Ma il dibattito pesava e condizionava la riforma.
Tra chi rivendicava una legge organica che inquadrasse correttamente il problema complessivo della beneficenza, delineando con chiarezza i compiti di Province e Comuni, innanzitutto, e chi era irremovibile nel conservare le istituzioni così come erano, lasciando inalterato l’intero sistema, Crispi scelse la strada del compromesso: la sola riforma delle Opere pie, per ribadirne la loro natura pubblica, ampliando i poteri di intervento e di controllo dello Stato. Una riforma che diventò legge il 17 luglio 1890.
La maggior parte delle disposizioni introdotte da tale legge tendono a regolarizzare l’amministrazione delle Opere pie. Vengono sancite le responsabilità degli amministratori; definiti rigorosamente i casi di incompatibilità; resi più completi ed efficaci gli uffici di tutela e sorveglianza. L’autorità tutoria ha l’obbligo di ridurre, nell’esame dei bilanci preventivi, le spese eccessive di amministrazione e di personale. Si proibisce alla congregazione di carità di accordare sui fondi propri o delle istituzioni poste sotto la sua amministrazione, pensioni vitalizie ed assegni continuativi o elargizioni periodiche a persone non invalide. Tra i punti qualificanti della riforma l’obbligo di presentare alla approvazione della autorità tutoria anche i bilanci preventivi delle Opere pie. Infine, viene accolto dal legislatore il «voto pressoché generale» di concentrare o unificare le «amministrazioni di beneficenza che non siano di grande entità o non abbiano scopi speciali». «Col concentramento nella congregazione di carità si rivendica al potere civile tutta intiera la materia della beneficenza – sottolinea Crispi, dopo il voto della Camera – si pone finalmente un termine alle amministrazioni, per verità più numerose che importanti, le quali sono alla balìa di persone singole, non controllate, non responsabili e che forse faranno il debito loro bene o male, ma che per quanto sappiamo, possono anche non farlo; si sostituiscono a molti enti piccoli e deboli pochi istituti; s’introduce nella gestione una notevole economia».
Cap. VIII
Lo scandalo della Banca Romana
Un’inchiesta amministrativa del 1889, aveva accertato gravi irregolarità della Banca Romana, ma tutto era rimasto riservato, sia per timore delle conseguenze finanziarie, sia per coprire il sostegno assicurato dalla banca al presidente del Consiglio Francesco Crispi, al ministro Bernardino Grimaldi, a deputati e giornalisti, secondo una censurabile consuetudine di prestiti mediante cambiali sempre rinnovate che risaliva ai primi governi Depretis.
Nel 1893, lo scandalo comunque esplose, per iniziativa degli economisti liberisti, tanto anticrispini quanto antigiolittiani, Pantaleoni, Pareto, De Viti De Marco e Mazzola, in accordo col filosofo marxista Antonio Labriola.
I risultati dell’inchiesta del 1889 furono affidati al repubblicano Napoleone Colajanni e al deputato di destra Ludovico Gavazzi, che sollevarono la questione alla Camera. Fu nominata una nuova commissione d’inchiesta che accertò illeciti gravissimi nella gestione della Banca Romana; Bernardo Tanlongo, governatore della stessa, fu arrestato; il deputato Rocco De Zerbi, gravemente coinvolto nella vicenda, morì, probabilmente suicida; Giovanni Giolitti restò anch’egli travolto dallo scandalo: sebbene avesse ripetutamente sostenuto la necessità di una riforma bancaria centrata su un unico istituto statale di emissione della carta moneta, a fronte dei quattro esistenti, nel dicembre 1892 aveva, però, presentato un disegno di legge per una proroga sessennale del sistema plurimo delle banche d’emissione e, pochi mesi prima delle elezioni, aveva fatto nominare senatore lo stesso Tanlongo, da cui aveva ricevuto un consistente prestito, come anticipo sui fondi segreti del ministero del Tesoro.
Nel luglio 1894, il processo contro Tanlongo si concluse con un’assoluzione che provocò grande indignazione nell’opinione pubblica. Ne approfittò Crispi per rilanciare lo scontro personale con Giolitti, sottovalutando, però, il suo personale coinvolgimento nell’incandescente vicenda. L’11 novembre 1894, Giolitti, fino a qualche mese prima presidente del Consiglio, scese dallo scranno di semplice deputato e attraversò l’emiciclo, per consegnare all’esterrefatto Presidente della Camera Giuseppe Biancheri il «piego», contenente non soltanto le lettere del governatore della Banca Romana che lo scagionavano dall’accusa di non aver vigilato come ministro del Tesoro; non soltanto la documentazione dei crediti in sofferenza della Banca Romana nei confronti di Crispi, della moglie e di vari famigli, per un totale di 55 mila lire; ma anche ben 102 lettere firmate da donna Lina, ex amante e poi moglie di Crispi, passate di mano in mano in quei giorni e, per il loro contenuto, destinate ad infangare irrimediabilmente l’immagine del capo del governo. «Vi ordino di non portare più puttane a don Ciccio. Se tornando a Roma mi accorgo che avete portato femmine, vi darò un calcio nel culo e vi manderò fuori dai coglioni», scriveva la collaressa dell’Annunziata, censurando la disponibilità del vecchio servitore di casa, morto da tempo, ad accontentare il potente padrone.
Incalzato dalla «questione morale» sollevata contro di lui da Felice Cavallotti, lo statista siciliano, per un verso, costrinse il re a chiudere, per quasi un anno, la Camera, al fine di sottrarsi al dibattito parlamentare sui documenti politicamente e finanziariamente sensibili, e, per l’altro, cercò di colpire, in sede giudiziaria, Giolitti.
Si determinò così un grave conflitto tra i più alti poteri istituzionali: il governo, a Camera chiusa, operò al di fuori d’ogni controllo parlamentare, con l’appoggio del re; le accuse di dittatura rivolte a Crispi furono sempre più frequenti e diffuse; l’autoritarismo più marcato s’accompagnò all’incapacità di realizzare la parte riformatrice del suo programma politico. Giolitti, poiché ben consapevole, per essere stato sia presidente del Consiglio sia ministro dell’Interno, degli strumenti di persuasione su cui poteva contare Crispi per convincere la magistratura a perseguitare il suo principale avversario, decise prudentemente di riparare all’estero.
Quando, tuttavia, a dispetto dell’immunità parlamentare che avrebbe dovuto difenderlo da ogni sopruso, arrivò a Roma il mandato di comparizione dinnanzi al giudice, lo statista cuneese comunicò alla moglie la decisione di rientrare in Italia: «Povera Gina. Avresti mai immaginato di sposare uno che sarebbe stato processato come un delinquente?». E nella lettera aggiunse: «Quando penso che, per aver scoperto i maggiori ladri e combattere canaglie, mi devo difendere innanzi ai Tribunali come se fossi io il malfattore, mi viene fatto di disperare dell’avvenire di questo paese».
Gli esiti del processo a suo carico li aveva, comunque, anticipati la figlia Enrichetta, in una lettera alla madre: «Se papà si decide alla lotta è già vincitore, perché egli è in essa freddissimo e costante e farà perdere il lume della ragione a chi lo ha già molto vacillante».
Cap. IX
Liberali o conservatori, tutti uguali di fronte al denaro
Giovanni Giolitti – La sua figura ha sempre fatto discutere: considerato un grigio burocrate, almeno in un primo tempo, quando giunse solo dio sa come alla guida del governo, e capace, invece, di dividere l’Italia intera tra suoi estimatori e suoi detrattori quando, nei primi anni del Novecento, prese a dominare la scena politica; oggetto di attacchi di segno opposto, a causa delle sue aperture ai socialisti e ai cattolici: se taluni lo accusavano di aprire le porte ai nemici dello Stato liberale, altri gli attribuivano, invece, di voler fiaccare e corrompere le forze di matrice popolare; bollato come «ministro della malavita», dal meridionalista democratico Gaetano Salvemini, indignato per la condotta scandalosa di molti deputati giolittiani del Sud; rivalutato per la sua opera, parecchi anni dopo, niente meno che dal segretario del Pci Palmiro Togliatti, un uomo collocato ben più a sinistra.
La longevità politica dello statista di Dronero, deputato dal 1882 fino all’avvento della dittatura fascista, presidente del Consiglio a più riprese, per la prima volta nel 1892-93 e per l’ultima nel 192021, fa il pari con la frequenza con cui fu bersaglio della satira.
Del resto l’aspetto fisico si prestava: molto alto per la media italiana dell’epoca, costantemente avvolto in una lunga palandrana nera, che gli attirò il nomignolo di «Panamidone», dotato dalla natura di un grosso naso ricurvo e di labbra carnose e sporgenti, su cui troneggiavano folti baffoni, l’illustre piemontese sembrava nato apposta per essere immortalato in caricatura: eccolo, dunque, raffigurato come un personaggio versatile e opportunista, disposto a tutto pur di conservare il potere, che esercitava, dietro le quinte, anche quando non aveva la guida del governo.
Ferocissima fu contro Giolitti la stampa interventista, per la sua opposizione all’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale, mentre più tardi gli sarebbe stata rimproverata una colpevole connivenza verso il fascismo in ascesa. Tutte critiche che un giudizio storiografico più maturo, come quello di Aldo Mola (Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Mondatori, Milano 2003) tende oggi a stemperare, sottolineando invece il notevole apporto dello statista piemontese alla modernizzazione dell’Italia liberale.
Fu L’Asino, settimanale fondato a Roma, nel 1892, da Guido Podrecca e da Gabriele Galantara, che, nonostante la vocazione satirica, pubblicava anche articoli d’informazione, di commento sugli avvenimenti e di divulgazione ideologica e storica, a denunciare fra i primi i numerosissimi uomini politici sovvenzionati da Bernardo Tanlongo, direttore della Banca Romana, arrestato nel gennaio del 1893, mediante cambiali sempre rinnovate. E nel numero del 22 gennaio 1893, comparve un editoriale dal titolo Panamidone, dal fulminante incipit, «è venuto il carnevale; vogliamo ballare!», che riassumeva magnificamente i termini dell’affaire.
Nell’articolo, preliminarmente, si accennava alla profondissima crisi morale e politica che stava travolgendo i gruppi dirigenti italiani: «L’Italia, come altre nazioni, fra un panama francese ed un panama spagnuolo – sta facendo finalmente il bilancio della moralità politico-capitalistico-borghese». Dopo di che, «a titolo di cronaca», si riportavano «i primi risultati» riferiti dalla stampa sugli scandali in corso, «con molte riserve e circonlocuzioni», iscrivendo all’attivo del «bilancio», reso di pubblico dominio «dalla forza degli avvenimenti», ma «che da un anno correva sulle bocche di tutti i bene informati» e «che nelle sue varie fasi cronologiche, tutti i governi conoscevano o avevano il dovere di conoscere – da Depretis a Giolitti», nell’ordine: l’«Arresto del Comm. Senatore Bernardo Tanlongo, direttore della Banca Romana»; l’«Arresto del Comm. Cesare Lazzaroni, cassiere della Banca Romana»; la «Fuga del Comm. Cuciniello, direttore del Banco di Napoli; l’«Arresto del Cassiere Vincenzo d’Alessandro, del Banco di Napoli»; l’«Arresto del Contabile Luigi d’Alessandro del Banco di Napoli»; e, nel passivo: «60 milioni di biglietti della Banca Romana, eccedenti la circolazione legale»; «40 milioni scontati a pezzi grossi della politica, che variano dai 5 milioni dati a un deputato della Provincia Romana, fino alle meschine 30 mila lire ad un deputato… radicale»; «? milioni, intascati dagli amministratori della Banca Romana arrestati»; «? milioni passati e volati per le mani di alti personaggi, ministri o parenti di ministri del presente e passati governi»; «2 milioni e 500 mila lire, vuoto di cassa nel Banco di Napoli, sede Roma».
Un mare di denaro, di cui erano chiamati a rispondere «il governo ed i governi passati», visto che «dei milioni abusivamente emessi» era garante il governo e che a fare le spese «dell’enorme mangiata», alla fine, sarebbe stato «il popolo». E qui l’articolo si faceva vieppiù velenoso.
Prima, l’accusa: «Si tratta di governanti complici volontari per anni e anni di una dilapidazione fatta da amministratori sia per conto proprio, sia per favorire o stipendiare che dir si voglia quei deputati che i governi sostenevano. Si tratta di un panamidone più immorale, nell’essenza sua, del francese; perché in Francia dei piccoli speculatori volontariamente affidavano i denari ad una impresa ladra, in Italia i derubati sono i contribuenti inconsapevoli ed estranei all’affare, costretti a pagare con nuove tasse i denari mangiati, e dal governo garantiti. E il popolo, dopo aver ingrassato per secoli il governo dei papi e cardinali, continua ad ingrassare il governo di commendatori e dei cavalieri!»; quindi, il sarcasmo. Prima, «il lato buffo», contro il Capo del governo, Giovanni Giolitti, «che fino a ieri stava a braccetto del Comm. Tanlongo» e «oggi lo caccia in galera con la stessa indifferenza con cui lo metteva in Senato»; un uomo, insomma, che «per mostrarsi puro e immacolato, afferma d’essere un cretino. Perché tale egli si dice quando proclama di non aver mai saputo ciò che intorno a lui facevano banchieri, deputati, affaristi. Altrimenti bisognerebbe stabilire la massima che il governo possa ignorare come funzionano gli istituti di cui egli garantisce l’emissione. Più chiaramente: può ignorare quanta carta esce, dalle fucine autorizzate, con valore legale. E poi il signor Panamidone ignorava tali fatti anche quando – ministro del Tesoro – metteva a dormire la relazione Alvisi, che di tali fatti si occupava in gran parte? No: Panamidone non può essere stupido a tal punto; dunque la nomina a Senatore del Tanlongo, veniva proprio a proposito per continuare in un sistema adottato dai precedenti governi: tacere per aver l’appoggio dei favoriti delle banche». Quindi «l’episodio buffissimo», in relazione agli «ispettori governativi», la cui condotta, poneva una drammatica alternativa: «O che fossero ebeti (…); o che dormissero il sonno del giusto mentre i torchi delle banche correvano fabbricando carta-moneta, patriarcalmente, al di là della legalità?». Il che era quanto dire «che assistevano silenziosamente alla fabbricazione di carta falsa», poiché quella «carta falsa, diventava buona entrando nelle tasche dei pezzi grossi che la pubblica cosa reggono ed amministrano». E poi ancora altri fatti: innanzi tutto, dove finiva la moneta abusivamente battuta? «Una buona parte se la pigliavano, come correntisti gli amministratori (…) con l’altra parte si scontavano cambiali a 120 uomini politici deputati o ex, ministri o ex, giornalisti o ex (…) tanto disposti a restituire che la ufficiosa Tribuna dice che 40 milioni sono compromessi se non totalmente perduti»; e tra chi infieriva la battaglia, se non fra quelli che non volevano lasciare il governo e coloro che, invece, ci volevano andare o tornare? E «Panamidone, per mezzo del portavoce Tribuna» aveva risposto «eloquentemente», minacciando: «Se Rudini limiterà la sua interrogazione ai fatti (…) niente di meglio; ma se risalendo un po’ in dietro penserà di collegarli al passato, la discussione non potrà non estendersi alla ricerca di responsabilità le quali non possono restringersi a quella dell’attuale gabinetto»; detto altrimenti: «Tacete sul conto mio, altrimenti proverò che voi non valeste meglio di me». Dissacranti le conclusioni: «Siamo d’accordo! Moderati o democratici, liberali o conservatori, tutti uguali di fronte al denaro… degli altri».Bernardo Tanlongo. – Nell’affaire della Banca Romana erano coinvolti, a vario titolo, il re Umberto, la regina Margherita, Francesco Crispi, Rosalia Montmasson, moglie ripudiata di Francesco Crispi, Lina Barbagallo, seconda moglie di Crispi, Achille Lanti, maggiordomo di casa Crispi e amante segreto di donna Lina, oltre a ministri, senatori, dame dell’alta aristocrazia, cardinali e affaristi. Per comprendere il perché del coinvolgimento di questa elite nazionale occorre esaminare la personalità di Bernardo Tanlongo, figura caratteristica e importante della Roma di fine secolo, quella dei successi mondani di D’Annunzio. «Fronte vasta e barba bianca, venerabile come quella dei vecchi personaggi di Omero», tollerante, alla mano, solito ad esprimersi in dialetto, questo settantatreenne banchiere abominevole magari, ma romanissimo, Bernardo Tanlongo, per tutti era il Sor Bernà.
«Non è mai stato donnaiolo, non ha mai giocato, è agli antipodi di ogni eleganza, indossa sempre una vecchia palandrana, la sua frugalità assomiglia all’avarizia»: così veniva descritto sul Corriere della Sera del 20-21 gennaio 1893. Cresciuto nella Roma del Papa Re e reso ancor più potente dagli imbrogli edili di Roma capitale, la sua maniera di estrarre dai cassetti pratiche e lettere di cui parlare davanti a chi gli chiedeva i soldi era sollecita come quella dei preti della Curia. Gli stessi che serviva ragazzino prima ancora che parlassero e per i quali, ventinovenne, era evoluto da garzone a spia dei francesi, nella Roma di Garibaldi.
Non era affatto un venale, ma piuttosto aveva capito che i sederi delle puttane che scrutava in gioventù per i cardinali, le lettere, le smorfie d’odio che carpiva in un viso erano la segreta materia del denaro. Dunque, era leale ai gesuiti ma anche alle Logge, giacché le diversità di idee o di partito gli parevano del tutto insignificanti.
«La Banca Romana è senza tappeti, le sedie di cuoio hanno gli angoli talmente consunti che ne esce la stoppa dell’imbottitura», scriveva ancora il Corriere della Sera del 20-21 gennaio 1893, ma lui, abituato a starsene «dodici ore al giorno accomodato dietro la scrivania, seduto su una grande poltrona, con una sciarpa di lana nera attorno alle spalle», consapevole che la vanità era il fiume torbido che sfociava nel mare delle scadenze, paterno, dunque avaro, non se ne curava: «Quando mi farò il vestito nuovo io, allora ripareremo i salotti».
Sebbene prima di Natale, in Parlamento, si fossero date prove pubbliche dei falsi in bilancio della Banca Romana, non se n’era, tuttavia, preoccupato: impensabile che qualcuno osasse toccare un personaggio che aveva avuto libero accesso presso Pio IX, il cardinale Antonelli, Garibaldi, Minghetti, Lanza, Cadorna, Sella e Ricasoli, già finanziatore ed amministratore privato di Vittorio Emanuele II, solerte amico della regina Margherita di cui frequentava i ricevimenti e, quantunque gli fosse antipatico, serviva, però, indirettamente Umberto I, di cui favoriva, nel credito, le due amanti, la duchessa Santafiora e la duchessa Litta.
Così, quando alle sette del 19 gennaio 1893, l’intendente di pubblica sicurezza arrivò per arrestarlo, assistette esterrefatto, in vestaglia, alla perquisizione del suo appartamento, in via Gregoriana, e al sequestro di molte carte. Ma si riprese ben presto: chiamò una carrozza; come sempre contrattò un poco il prezzo col cocchiere e lo fece dirigere verso Regina Coeli. Pareva fosse lui ad accompagnare in carcere i gendarmi: alla plebe plaudente al suo passaggio distribuì sorrisi bonari e sigari. Il tutto mentre, odiandosi l’un l’altro, Crispi e Giolitti si davano in Parlamento a turno la colpa di aver saputo e non detto.
Il Corriere della Sera diede notizia di quell’arresto con la stessa settentrionale sobrietà con cui avrebbe scritto del banchiere Vincenzo Cuciniello, arrestato, mentre vestito da prete, con due milioni e mezzo, scappava da casa dell’amante. Il Sor Bernà venne, infatti, ricordato ai lettori in una prima pagina memorabile, sotto l’occhiello «un colloquio con Tanlongo prima dell’arresto», dove se ne riportò il chiaro avvertimento: «Se mi si vuole chiamare responsabile di colpe non mie, io sarò costretto a fare uno scandalo» e si riferì che «la faccia di Tanlongo in quel momento erasi accesa», ma non per la vergogna: il nostro soffriva non solo di gotta per eccesso di abbacchi; ma anche di erisipela: malattia infettiva contagiosa per cui la pelle infiammata tende al color porpora.
L’Italia, del resto, era già allora la nazione dove ricattato e ricattante si confondono, come mai altrove e il romanissimo banchiere Bernardo Tanlongo fu il sommo genio, plebeo e pretesco, del ricatto per azione fallace: «E se ben poi fallace la ritrova, pigliar non cessa una ed un’altra nuova». (Ariosto, Orlando Furioso, canto XXXII, XV ottava).Francesco Crispi – Nei cambiamenti traumatici di regimi politici, non sono rare né l’ignominia retroattiva che si riversa su quello vecchio, né gli aggiustamenti biografici, e più spesso autobiografici, finalizzati a spiegare o, magari, a consentire che soggetti, i quali abbiano giocato un ruolo in precedenza, di continuare, comunque, a contare anche nella nuova temperie. Politicamente inevitabile e magari necessario, il riaggiustamento biografico è, però, storiograficamente vulnerabile e, in ogni caso, espone a sgradevoli incidenti.
Non è, dunque, un caso che di Francesco Crispi, per definizione «avvocato e patriota», nelle biografie ufficiali si racconti che ebbe un ruolo decisivo nel convincere Garibaldi a compiere la spedizione dei Mille; che proclamata l’Unità d’Italia, abbandonò le posizioni repubblicane, aderendo alla monarchia; che divenuto presidente del Consiglio, ruolo che ricoprì, una prima volta, dal 1887 al 1891, fu fautore di una politica «forte» all’interno e all’estero, sostenne la Triplice Alleanza, con Germania e Austria, in chiave antifrancese, e promosse l’espansione coloniale; che tornò al governo nel 1893 e fronteggiò con durezza la protesta sociale: Fasci siciliani e moti in Lunigiana; che fu, finalmente, travolto dal naufragio delle ambizioni coloniali nella sconfitta di Adua del 1896.
Neppure è un caso, però, che il nostro «avvocato e patriota» sia incappato in incidenti come, nel 1895, la Lettera agli onesti di tutti i partiti di Felice Cavallotti, che la dice lunga sulla disinvoltura con cui fosse uso a voltar gabbana.
Nel numero del 15 ottobre 1899, L’Asino, pubblicò l’articolo I suoi costumi, firmato da Goliardo, nom de plume di Guido Podrecca, con cui si attribuiva a Francesco Crispi «la più ricca guardaroba d’Italia», e si rammentava, innanzitutto, che «Giovanotto ancora, quando non gli poteva sorridere l’idea di entrare alla Camera Italiana, si accontentava… dell’anticamera borbonica, facendo l’introduttore presso il principe, dei clienti bisognosi di sovrana clemenza», non senza una chiosa velenosa: «Fin da quel tempo, egli era il protettore dei ladri». Nell’articolo, peraltro, si sottolineava ancora che Francesco Crispi «cambiò l’abito di valletto, in quello di poeta cesareo, inneggiando (…) al principe benefico dato alla Sicilia della divina provvidenza». Niente affatto in vena di fare sconti, Goliardo rinfacciava al «giovane avvocato di corte» di essersi, «quando il torrente popolare irruppe, e la monarchia borbonica fu prossima al travolgimento», mutato «nel garibaldino pronto a pigliar d’assalto la mangiatoia patria»; ricordava come, «nel periodo di transizione», l’ormai «ex-borbonico» avesse avuto «aspirazioni repubblicane, giacché di repubblica il popolo parlava, e una repubblica siciliana avrebbe portato in alto quel Francesco Crispi che non osava ancora sperare successi nel più vasto campo della nazione unita», tanto da minacciare «defezione» al monarchico Cavour, «s’egli avesse tentato di unire la Sicilia a Casa Savoia». Questa «divisa», continuava implacabile Goliardo, una volta divenuta impopolare «fu ben spesso mutata nel rigido costume del carbonaro»; così, dopo il 1870, la «bandiera» di «don Ciccio» fu l’anticlericalismo e il «suo simbolo» Giordano Bruno, «ma tale entusiasmo non durò a lungo»: il papato aveva ancora «abbastanza potere per non essere utilizzato», e, poiché «padre di una figlia che andava a marito in casa cattolica», Francesco Crispi «sentì bisogno di genuflettersi davanti all’altare e al sacerdote che benediceva le nozze illustri»; e così, da Napoli, «mutato in predicatore cristiano, proclamava il nuovo dogma: “Dio, la patria, il Re”». Ma, per Goliardo, «il costume che lo ha fatto più celebre è quello ch’egli ha indossato durante il lungo e travagliato periodo della Banca Romana. A quello egli deve le sue glorie più vere e maggiori: a quello la stima di tutta la borghesia italiana, che in esso si vede mirabilmente simboleggiata».
Questo lo scoppiettante finale di quell’impietoso articolo: «Egli – in ottant’anni di esistenza – ha indossato quindi tutti i costumi, meno uno: quello che gli sarebbe meglio convenuto. Oggi, rivedendo la sua ricca guardaroba, l’illustre vecchio osserva fra sé sorridendo maliziosamente: Guarda un po’! Con tanti costumi sono sempre restato… uno scostumato!».
Cap. X
Misteriosa morte di un banchiere
Il 1° febbraio 1893, su una carrozza ferroviaria in corsa sulla linea Termini-Palermo, venne assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, rampollo di una delle più eminenti famiglie aristocratiche siciliane, esponente della Destra storica, ma personaggio super partes, unanimemente apprezzato per la dirittura morale e per le capacità amministrative dimostrate quale sindaco di Palermo, tra il 1873 e il 1876, sia quale direttore generale del Banco di Sicilia, dal 1876 e il 1890.
Quando sul treno, fra Termini e Trabia, venne commesso l’omicidio, gli ospedali di Palermo erano ancora pieni dei feriti di Caltavuturo e non sarebbero passate che alcune settimane, perché il movimento dei Fasci dei lavoratori dilagasse impetuoso.
L’attentato non poté essere considerato un episodio di terrorismo politico, come quelli del periodo immediatamente postunitario.
L’aggressione brigantesca venne scartata, anche per lo scenario assolutamente «moderno» e rassicurante, tale d’aver indotto la vittima ad abbandonare le precauzioni che manteneva sin dal 1882, quando aveva subito un sequestro: scaricare il fucile che portava con sé e addormentarsi. Per dirla con l’avvocato Giuseppe Marchesano, «Tra il brigante e la ferrovia c’è un’incompatibilità completa, c’è un anacronismo».
Non si era nemmeno all’interno della lotta tra pari per le gabelle o la guardiania: i mafiosi del Palermitano non usavano uccidere proprietari, tantomeno uomini così eminenti.
Eppure, come avrebbe testimoniato il questore di Messina Peruzy, già ispettore di pubblica sicurezza a Palermo: «Nei pubblici ritrovi, nelle vie, ovunque si diceva: la mano deve essere stata di Palizzolo». Del resto, che la «voce pubblica» ipotizzasse un delitto di mafia, anzi di «alta mafia», e che indicasse come esecutori due esponenti della cosca di Villabate, Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e come mandante Raffaele Palizzolo, lo affermò il procuratore generale Sighele, nella Relazione al guardasigilli del 26 febbraio 1894.
Inizialmente, a rispondere dell’omicidio furono chiamati i ferrovieri Pancrazio Garufi e Giuseppe Carollo, che la logica dei fatti voleva necessariamente complici dell’assassinio, mentre nessun addebito venne mosso al Palizzolo. E pure, costui, soprannominato «u Cignu», deputato e consigliere di amministrazione del Banco di Sicilia, un movente ce l’aveva: s’era arricchito giocando in borsa con i soldi dei risparmiatori ed era caduto in disgrazia per aver commesso un solo errore: accreditare le vincite a se stesso e non ad un prestanome; il mandato di pagamento era finito sul tavolo del presidente del consiglio di quel tempo, il marchese di Rudinì che, a fare pulizia all’interno della banca siciliana, aveva chiamato Emanuele Notarbartolo, sollevato ben presto dall’incarico da Francesco Crispi.
Sotto la spinta della parte civile, il processo si trasformò in una «pubblica istruttoria».
A distanza di oltre nove anni dal delitto, con sentenza del luglio 1902, la Corte d’assise di Bologna giudicò colpevole il Palizzolo condannandolo a trenta anni di reclusione. Ma la la Corte di Cassazione, a seguito, sembra, delle pressioni esercitate dal Comitato «Pro Sicilia», il 27 gennaio 1903, annullò per un «vizio di forma» la sentenza bolognese, aprendo così la via all’assoluzione del Palizzolo. Inutile dire che u Cignu, alla fine, si convinse di essere stato lui vittima di sopruso e, dunque, di essersi comportato come un vero e proprio eroe nazionale.
L’attentato a Emanuele Notarbartolo segnò un salto di qualità, pur rimanendo un picco isolato, sintomatico di sviluppi futuri: quello di Notarbartolo fu il primo dei cadaveri eccellenti dello Stato unitario e l’unico restò almeno sino alla morte del procuratore generale di Palermo Pietro Scaglione.
La dislocazione dei dibattimenti a carico di Raffaele Palizzolo, per legittima suspicione, a Firenze (1899-1900), Bologna (1901-1902) e Milano (1903-1904), «nazionalizzò» l’oscuro oggetto «mafia» più di quanto non avesse fatto la discussione parlamentare del 1875.
Nel romanzo Il cigno di Sebastiano Vassalli, l’affaire Notarbartolo assurge a Storia di un intero Paese, il cui tempo è scandito dall’ascensione della Commedia dantesca: tre le Scene, Inferno (1893-1894; Purgatorio (1896-1899); Paradiso (1901-1904), più un Epilogo. Il Paradiso finale, però, non è quello celestiale della Grazia, bensì quello materialissimo della vittoria politica e personale, dell’illusione modernista e gattopardesca del progresso e del cambiamento storico.
E un Paradiso, «sarebbe rimasta la Sicilia se un Tribunale dello Stato non fosse arrivato a certificare, con una sua sentenza, che esiste un’associazione segreta chiamata Mafia, che soltanto in Sicilia, commetterebbe soprusi, furti, assassinii ed ogni altro genere di delitti!», proclama, nel romazo, uno degli amici del Cigno, al termine della vicenda.
Cap. XI
Alla radice degli scandali finanziari postunitari
Lo scandalo della Banca Romana era ancora in piena ebollizione, quando Gerolamo Boccardo (La lue bancaria e la sua cura, in Nuova Antologia, a. 28, n. 7, 1° aprile 1893, pp. 405-434), faceva carico della crisi che travagliava il credito alla concorrenza dei sei istituti di emissione, aventi una circolazione eccessiva, e alla guerra fra gli stessi, per incrementare il giro d’affari; così che la facilità allo sconto, col favorire il sorgere di imprese mal concepite o esagerate o, addirittura, dissennate, trascinava il Paese in gravi e continui disastri. Il male, in realtà, stava più addentro, che non nella rivalità fra alcune banche, come riteneva, invece, l’economista genovese: errori economici, colpevoli acquiescenze dei governanti, ubriacature di megalomania, leggerezze di amministratori, imprevidenza di capitalisti, disonestà che si sciorinavano al sole del nuovo risorgimento italiano, tutto ciò aveva portato ben presto alla crisi edilizia, alla crisi economica, alle catastrofi di società di costruzioni, di speculazioni industriali, di banche; e queste avevano travolto, nel loro naufragio, sia le illusioni di potenza finanziaria del Paese sia la fiducia nella giustizia, nelle leggi, nelle istituzioni. Enrico Morselli, medico, psichiatra e antropologo, interpellato, all’indomani dello scandalo della Banca Romana, per il Caffaro di Genova (l’intervista è pubblicata nel fascicolo dell’ottobre 1893), «circa le cause del così detto fenomeno bancario» da «un giornalista, finito poi anch’egli nel baratro della criminalità fraudolenta», ritenne se ne potesse individuare la «più evidente radice» negli errori e negli abusi della borghesia, classe «dedita ai commerci, alle industrie, agli scambi»; essa, nei secoli passati, specialmente alla fine del Settecento, aveva «avuto per la civiltà singolari benemerenze lottando contro la aristocrazia feudale o cortigiana e contro il clero per la libertà di pensiero o per l’abolizione di ogni privilegio»; in seguito, tuttavia, aveva avuto il «gravissimo torto di volgere il potere a proprio esclusivo vantaggio, dimenticando gli antichi suoi princìpi, e al privilegio della nascita sostituendone uno ben più odioso ed antiestetico, quello del denaro». La «bancarotta morale del capitalismo», peraltro, era stata già oggetto di veemente denuncia, poco meno di quarant’anni prima, quando la nuova potenza del denaro stava appena accennando a sorgere: Pierre-Joseph Proudhon, nel suo Manuel de spéculation à la bourse, edito da Garnier a Parigi, nel 1856 aveva, sotto la fine ironia della satira, spiegato una fiera requisitoria contro la borghesia, presa da febbre di speculazione, d’aggiotaggio, avida di concessioni di sovvenzioni, di privilegi, di premi e di monopoli, al punto di considerare la fortuna pubblica come una preda che le fosse devoluta, l’imposta come un ramo della sua rendita, i grandi strumenti del lavoro nazionale (ferrovie, canali, ecc.) come i premi del suo parassitismo, la proprietà come un diritto di rapina, il commercio, l’industria, la banca come i mezzi naturali, per sfruttare il popolo e arrangiare il paese. Ancor più pesante l’atto d’accusa verso la «classe del denaro», lanciato da un altro «lombrosiano», l’avvocato Rodolfo Laschi (La delinquenza bancaria nella Sociologia, nella Storia, nel Diritto, Fratelli Bocca Editori, Torino 1899), il quale scriveva: «Il regime capitalistico, se pure ha portato qualche vantaggio all’economia pubblica, lo ha scontato ben presto, creando nella sua inesauribile sete di potenza e di guadagno quelle immense trappole finanziarie, nelle quali sono caduti gli illusi di tutte le classi: i contadini tolti al grembo fecondo delle loro terre, i piccoli commercianti rovinati dal grande affarismo industriale, gli operai che vi sacrificarono i residui dei sudati salari. Ha predicato il risparmio per inghiottire nelle sue catastrofi bancarie le ultime briciole della ricchezza nazionale: ha accumulato leggi sopra le predilette sue creazioni, le borse, le società commerciali, le banche, fingendo di non vedere che il male non instà in una previsione più o meno previdente del codice, ma nella mancanza di ogni onestà, di ogni senso morale, dovuta alle avidità da esso create ed alimentate. E così, attorno a questa classe del denaro, si è formato il nucleo criminale dei truffatori d’alto bordo, dei falsi geni finanziari, dei mille spostati, a cui la coltura tecnica delle nostre scuole è stata sufficiente per insegnare l’uso e l’abuso della cambiale».
Allo storico e sociologo Guglielmo Ferrero (La morale politica e la morale individuale, in Riforma Sociale, Anno I, fasc. 11 e 12), discepolo di Cesare Lombroso, era sembrato che si fosse affermata una nuova morale e che la morale politica si trovasse in un periodo di sviluppo inferiore alla morale individuale. All’avvocato Rodolfo Laschi pareva, invece «naturale che l’affarismo, serpeggiante come una linfa corrotta per tutto il paese, salisse fino sugli scanni dei ministri e a questi fosse lecito coprire della loro autorità o della loro audacia le proprie e le altrui vergogne, oppure fingere improvvise austerità per salvare amici compiacenti o colpire temuti avversari». In particolare, il Laschi istituiva anche una linea di continuità, per così dire, genetica, fra «le classi elevate, quelle che un tempo facevano professione di integrità e di disinteresse», senza tuttavia disdegnare di appartenere al «mondo di pubblicani, dalle coscienze elastiche e dalle mani rapaci, che si gettano a capofitto nelle speculazioni più arrischiate, nelle più pazze imprese, sfruttando la credulità del pubblico, cogli inganni più delittuosi», e la «casta, che si (poteva) dire ne (avesse) acquistato tutti i privilegi, avendone in comune la crescente degenerazione: quella dei parlamentari, favoreggiatori di leggi in pro delle speculazioni, a cui hanno dato la loro influenza e il loro nome, sfruttatori di banche che pagano la loro eloquenza o piuttosto il loro silenzio, o addirittura complici di veri reati, mascherati sotto una pretesa necessità di stato».
La condiscendenza della magistratura di quel periodo al potere politico concorre a spiegare perché, nell’Italia del secolo XIX, non solo poterono ripetersi operazioni truffaldine di grande portata, ma anche perché i responsabili poterono rimanere ignoti o evitare serie conseguenze, con sentenze assolutorie o condanne a pene assai blande. Questa condiscendenza era dovuta a un duplice ordine di fattori. Uno d’ordine costituzionale, cioè l’autonomia soltanto parziale dei giudici rispetto all’esecutivo; l’altro d’ordine socio-culturale. L’avvocato Rodolfo Laschi, quanto al primo, ricordava la «intrusione del potere esecutivo nel giudiziario», gli «ordini dall’alto», le «strategie processuali elaborate nei gabinetti governativi», i «magistrati fatti segno a vendette politiche». Del resto, si ebbero esempi clamorosi di questo modo di procedere, nell’affaire della Regìa dei tabacchi, quando un giudice di Milano, che aveva assolto 22 cittadini, i quali avevano manifestato a favore del deputato Cristiano Lobbia, dopo il tentato omicidio del 14 giugno 1869, fu trasferito a titolo punitivo; e quando altri giudici vennero trasferiti, per precostituire un tribunale propenso ad assecondare l’accusa di simulazione rivolta al Lobbia e il procuratore del re di Firenze, Borgnini, che non si era piegato alle pressioni, fu spinto alle dimissioni. Quanto al secondo fattore, sempre l’avvocato Laschi spiegava come per comprendere perché, «quando davanti ai giudici comparivano non già malcapitati ladruncoli, ma persone altolocate, riverite dai più, che nella tranquillità di esteri asili avevano potuto architettare le loro difese, affidandole poi a principi dell’eloquenza e a periti dottissimi nelle elastiche discipline della contabilità», si arrivasse sempre ad «assoluzioni scandalose», si dovesse tenere anche conto che esse erano il prodotto dell’ambiente sociale da cui provenivano e in cui operavano i giudici: un ambiente nel quale il criminale d’affari, sebbene «certamente colui che froda scientemente chi gli affida il proprio avere nella cieca fiducia della sua onestà, non commette azione meno riprovevole del ladro, che corre almeno qualche rischio e paga di persona», non raccoglieva più intorno a sé «l’universale disprezzo», a differenza di quanto accadeva magari sino a poco tempo prima.
Con la condiscendenza giudiziaria, a creare un ambiente favorevole ai criminali d’affari, concorreva la legislazione. Non a caso, infatti, ammoniva l’avvocato Laschi: «la sfiducia deve estendersi a tutto il sistema legislativo»; spiegava, quindi: «Già è evidente che una assemblea, la quale conti dei colpevoli nel proprio seno, non avrà mai il coraggio di proprie leggi repressive contro se stessa, fosse pure per non aumentare lo scapito che ad essa ne deriva. Si aggiunga che il sistema parlamentare (dispone di così fatti accomodamenti, che può sostituirsi addirittura ai magistrati e impedire il corso della giustizia; non ad esso dunque sono da chiedersi nuove leggi, che ben presto rimetterebbero il parlamento in gravi imbarazzi verso se stesso»; stigmatizzava, finalmente, come «sotto la spinta della paura», si fossero potute «votare tumultuariamente leggi eccezionali contro la libertà di parola o di pensiero», ma, avvertiva, «parlamenti usciti dalla classe del denaro e dal denaro bacati nella loro origine stessa, non arrischieranno mai di urtare tutta la falange degli interessati alle grosse speculazioni, buoni clienti della causa dell’ordine, e, più ancora, di deputati-avvocati».
Con la legislazione e la condiscendenza giudiziaria, concorreva anche chi pretendeva di dirigere l’opinione pubblica: per costoro era giocoforza smarrire il concetto stesso del senso morale, allorché questo, rigettato dalle aule di giustizia e dei parlamenti, si abbassava sempre più. è, ancora una volta l’avvocato Rodolfo Laschi, a rendere testimonianza al riguardo: « “Ognuno sa che la morale finanziaria è più larga ancora dell’Istmo di Panama” scriveva il De Molinari in favore di quell’impresa disgraziata: e col rigido economista, ecco il giornalista mondano, il Magnard, trovare sul Figaro una ben curiosa giustificazione a proposito dei pensionati: “Non si potrebbero paragonare gli accusati d’oggi a dei volgari tagliaborse. Essi possono dire di essersi conformati ai costumi finanziari in uso da gran tempo”. E un altro giornalista il Fouquier, reputa la condanna di Baïhault (il ministro concussionario) “eccessiva quasi fino all’iniquità, in un paese e in un ambiente, le virtù dei quali non sono ordinariamente così austere”». Tranchant il commento del lombrosiano: «E se questi sono verosimilmente gli onesti, o passano per tali, che cosa si possa attendere dalle penne e dalle coscienze vendute, a comperar le quali sono concorse le somme sottratte al risparmio di migliaia di lavoratori, ha dimostrato la storia di quest’ultimo decennio, senza che per questo l’opinione pubblica abbia avuto una rivolta, se non per opera di qualche solitario, che lo scetticismo e l’indifferenza dei più, o la lega di interessi delittuosi, hanno presto ridotto al silenzio».
Indispensabile al successo dei delinquenti dediti alle pratiche riconducibili alla categoria della criminalità d’affari, era l’influenza personale che essi, talora di elevata intelligenza, esercitavano sulle masse», le quali anche spinte ad aprire gli occhi, vogliono essere ingannate e della propria rovina non sanno ingannare i veri autori, per l’ascendente che esercitano sopra di esse anche dopo la catastrofe». I rilievi sono di Laschi, ma sembra d’essere di fronte a un deja vu.
1) L’impresa “disgraziata” alla quale si riferisce il Laschi è il taglio del Canale di Panama e relativa vicenda di corruzione, che travolse molti uomini politici e industriali francesi durante la Terza Repubblica francese e mandò in rovina centinaia di migliaia di risparmiatori. Lo scandalo nacque dalle difficoltà di finanziamento incontrate dalla Compagnie universelle du canal interocéanique de Panama, creata da Ferdinand de Lesseps (già realizzatore del Canale di Suez) per raccogliere i fondi necessari a realizzare il progetto. Essendosi l’opera rivelata più onerosa del previsto, Lesseps dovette lanciare una sottoscrizione pubblica per finanziarlo. Una parte di questi fondi fu utilizzata dal finanziere Jacques de Reinach per corrompere dei giornalisti ed ottenere illegalmente il sostegno di personalità politiche. Lo scandalo scoppiò clamorosamente, e molti politici furono accusati di corruzione, quando la compagnia fu messa in liquidazione giudiziaria mandando i rovina i sottoscrittori delle sue azioni, e il barone di Reinach fu trovato morto. Il 21 novembre 1892, all’indomani del ritrovamento del corpo di Reinach, il deputato nazionalista Jules Delahaye denunciò dalla tribuna della Camera la compromissione della classe politica. Fu quindi creata una commissione d’inchiesta parlamentare. Il ministro dell’Interno, Émile Loubet, si dimise. Il ministro delle Finanze, Maurice Rouvier, fu messo sotto accusa. Il 20 dicembre successivo fu richiesta l’autorizzazione a procedere contro cinque senatori, tra i quali Albert Grévy, Léon Renault e François Thévenet, nonché i deputati Emmanuel Arène, Dugué de La Fauconnerie, Antonin Proust, Jules Roche e Maurice Rouvier. Alla Camera dei deputati Déroulède propose un’interpellanza contro Cornelius Herz et Georges Clemenceau. Si disse che anche Charles de Freycinet e Charles Floquet avessero giocato un ruolo sospetto, ma in mancanza di prove non furono perseguiti. Le prime sentenze si ebbero nel 1893, con la condanna a cinque anni di prigione per l’ex ministro dei Lavori pubblici Charles Baïhaut. Lesseps ed Eiffel furono condannati, ma sfuggirono alla prigione per un vizio di forma. Lesseps figlio fu condannato come suo padre a cinque anni e si prese, in un altro processo, una condanna a un anno per corruzione. Gustave Eiffel, condannato a due anni di prigione e 20.000 franchi di ammenda, fu alla fine riabilitato grazie ad un’altra inchiesta che dimostrò che non era implicato nelle malversazioni. Gli strascichi giudiziari si protrassero ancora per qualche anno: il 27 marzo 1897 fu richiesta l’autorizzazione a procedere contro un senatore e tre deputati, che furono processati in dicembre. Il 30 marzo 1898 la commissione d’inchiesta presentò il proprio rapporto alla Camera. Il fatto che Herz e Reinach fossero ebrei alimentò il crescente antisemitismo popolare, la compromissione dei deputati alimentò la propaganda dei partiti antiparlamentari e, non ultimo, gran parte della stampa uscì screditata dalla vicenda, ritrovandosi affibbiata la reputazione di venalità.
Cap. XII
Con un colpo di spada o di coltello, non si uccide la Storia
La spedizione dei Mille provocò un sussulto giovanile di partecipazione in tutto il Paese.
Giosuè Carducci, in un frammento di poesia del giugno 1860, in proposito, avrebbe scritto: «Garibaldi ! / Al tuo nome a mille a mille / fuggon giovini eroi le dolci case / e de le madri i lacrimosi amplessi… ». E tra quei giovani che si unirono a Giuseppe Garibaldi vi fu Felice Cavallotti che si arruolò a Milano all’insaputa dei genitori. A lui, come a un figlio, si legò, per vari motivi, lungo gli anni, l’Eroe dei due Mondi, al punto di dedicargli una poesia: «Salve o cantore dei Pezzenti! O prode / vendicatore delle plebi… / Dimmi Felice, questa manomessa / plebe dalla tirannide e dal furbo / seminatore di menzogne, un giorno / non avrà di vendette?» Sebbene, dunque, il nome di Felice Cavallotti non sia conosciuto come quelli di Garibaldi e Mazzini, tuttavia, alla fine dell’Ottocento, era considerato unanimemente l’erede dei due eroi del Risorgimento: capo riconosciuto dell’Estrema Sinistra nel parlamento dell’Italia liberale pregiolittiana e fondatore, insieme ad Agostino Bertani, del Partito Radicale.
Giornalista d’impeto e d’impegno, Felice Cavallotti che, per dirla con l’abate lodigiano Luigi Anelli, manteneva l’onore d’Italia «in mezzo a uomini servi di cuore, neppur liberi di lingua, scandalo non forza della nazione» e che di sé e della sua parte affermò: «Abbiamo una parola d’ordine: onestà; una religione: giustizia ed uguaglianza, libertà e progresso; un usbergo: la coscienza delle nostre opere; un’arma: il coraggio delle nostre opinioni.», quando, negli anni Novanta dell’Ottocento, scoppiarono gli scandali bancari che investirono la Banca Romana, il Banco di Sicilia e il Banco di Napoli, fu anche la punta di diamante della battaglia sulla «questione morale», che per lui, convinto che «un popolo che transige con l’onore non vive», era fondamentale nella vita profonda di un Paese.
Descritto come persona dal carattere passionale e testardo, nel corso della sua vita Felice Cavallotti combatté trentatré duelli: negli atti parlamentari, dal 1873 allorché venne eletto per la prima volta, ricorre a periodi alterni l’annotazione di prammatica «Il Ministro Guardasigilli trasmette alla Camera domanda di autorizzazione a procedere per reato di duello contro il deputato Cavallotti»: quasi un rito che accompagnò la caduta del governo di Destra e la formazione del gabinetto Depretis, l’ascesa di Crispi e il trasformismo, la Triplice e l’uccisione di Oberdan, l’acquisto della baia di Assab e la questione di Tunisi.
La morte lo volle al terzo assalto del trentatreesimo duello all’arma bianca della sua esistenza battagliera. Quel fiotto di sangue che gli sgorgò dalla bocca alle tre del pomeriggio del 6 marzo 1898, nei giardini di Villa Cellere, a mezz’ora di carrozza da Roma, fuori Porta Maggiore, si trasformò in breve in una grande tragedia tutta italiana. La notizia fece il giro della penisola in un baleno. L’Italia si fermò. Felice Cavallotti era morto trafitto dalla sciabola del conte Ferruccio Macola, direttore e proprietario della Gazzetta di Venezia, giornalista anche lui e deputato liberal-monarchico.
La tragedia scosse a tal punto il Paese che i suoi funerali, tenutisi a Milano il 9 marzo, furono paragonati, per l’imponente partecipazione, a quelli di Garibaldi e si trasformarono in una manifestazione popolare contro le forze conservatrici e moderate.
Anche Giosuè Carducci commemorò Cavallotti all’Università di Bologna come un eroe rivoluzionario vittima della reazione governativa. Il polemista Olindo Guerrini, sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, accusò in versi il Verre Crispi capo del Governo che, un anno dopo, avrebbe portato l’Italia alla tragedia di Adua: «Ed or che in bocca la civil rampogna il ferro ti recide, / Verre beato nella sua menzogna, / Verre il ribaldo ride… / Verre t’inganni! / Nel mortal duello non fu tua la vittoria. / Con un colpo di spada o di coltello / Non si uccide la Storia».
Nel 1910, emarginato con l’accusa di essere stato l’esecutore d’un omicidio commissionato da Crispi, Ferruccio Macola si sarebbe sparato un colpo di pistola alla tempia sui banchi di Montecitorio e, dopo qualche mese, con la stessa arma, si sarebbe suicidata anche l’ultima moglie, Lina.
La scomparsa di Felice Cavallotti fu comunque una doppia tragedia per il Paese, perché il «Bardo della democrazia» era l’unica personalità politica che avrebbe potuto mediare quello che poi accadde: la rivoluzione del 1898, che portò alle cannonate di Bava Beccaris, il 7 maggio 1898, con 80 morti ufficiali, oltre 500 secondo i manifestanti, e migliaia di feriti a Milano, e le imponenti sollevazioni del 26 e 27 aprile 1898 a Faenza, Bari, Foggia, un incendio che si propagò anche a Siracusa, Palermo, Reggio Calabria, Benevento, Avellino, Minervino, Murge, Ascoli Piceno, Caserta, Parma, Piacenza, Bologna, Ravenna, Livorno, Pisa, Siena, Brescia, Venezia, Genova.
Una lacerazione devastante che attraversò l’intera penisola.
Cap. XIII
Gli attentati anarchici di fine Ottocento
Sul finire del secolo XIX, nell’ambito della problematica sociale e politica europea, il movimento anarchico, in seguito ad una serie di attentati terroristici contro alcune personalità forti di vari governi continentali, salì alla ribalta: gli anni novanta dell’Ottocento furono il periodo del così detto «bombismo», anni in cui molte azioni di puro impatto dimostrativo ed i tragici attentati, contribuirono a creare nell’immaginario collettivo, grazie spesso ad un’accorta strumentalizzazione da parte delle autorità politiche, lo stereotipo dell’anarchico crudele e bombarolo.
Alcuni attentati del movimento anarchico, peraltro, furono diretti contro individui assurti, agli occhi della popolazione civile, a simbolo dell’oppressione: molti di questi furono sovrani europei o esponenti di spicco di governi reazionari divenuti celebri nel mondo per la crudeltà con cui governavano il proprio paese, soggiogando le classi sociali più povere.
Emblematico il caso di Sante Caserio, un anarchico italiano, che il 24 giugno 1894 decise di eliminare il Presidente della Repubblica francese Sadi Carnet, compiendo così, ai suoi occhi, un atto di solidarietà verso i compagni di fede francesi Auguste Vaillant ed Émile Henry, autori nei mesi precedenti di attentati e per questo condannati entrambi a morte, colpiti dalla reazione governativa: il suo fu un puro atto individuale perché solo un individuo ne fu l’artefice, anche se la polizia francese cercò in ogni modo di avvalorare la tesi del complotto per infiammare l’animo nazionalista dei francesi contro l’Italia, come anche solo un individuo ne rimase vittima.
Nel corso degli anni immediatamente precedenti la fine del secolo, si assistette ad una graduale teorizzazione dell’individualismo d’azione per il quale la propaganda del fatto violento e sovvertitore fu considerata l’unico ed efficace strumento di lotta anarchica, anche perché le durissime repressioni governative nei confronti delle associazioni sovversive e dei moti di rivolta popolare, oltre alla definitiva scissione tra «socialismo legalitario» e «socialismo anarchico», gettarono il movimento in una condizione di profonda crisi strategico-politica. A partire dal 1896, Errico Malatesta aveva formulato le concezioni che prevedevano la riorganizzazione del movimento anarchico su base nazionale, l’ipotesi della costruzione di un «partito» dotato di un suo programma politico, di un organo di stampa e di un minimo di struttura generale e permanente; al contrario individualisti ed antiorganizzatori ritenevano tutto ciò non conforme alla pura tradizione anarchica figlia delle tesi di Michail Bakunin e degli scritti, pervasi da una sorta di determiniamo ottimista secondo il quale la storia avrebbe maturato una società anarchica, di Pëtr Alekseevič Kropotkin, imputando allo stesso Malatesta di concepire l’impegno politico militante in chiave legalitaria e borghese.
Nel quadro del netto rifiuto organizzativo, aveva preso corpo all’interno del movimento anarchico la propensione all’atto isolato, frutto della scelta individuale o di piccoli gruppi che rivendicavano orgogliosamente la loro totale autonomia. Fu così, insomma, che era nato quell’individualismo definito d’azione, corrente minoritaria all’interno del movimento anarchico che, soprattutto in una fase in cui l’illusione dell’imminenza della rivoluzione era forte e diffusa, tradusse il suo desiderio di affermazione in seno al contesto politico nazionale nell’utilizzo della violenza giustiziera. Gli atti di violenta insubordinazione erano diventati così il mezzo con cui alcuni anarchici si contrapponevano alle ingiustizie della società borghese.
Agli occhi delle classi dominanti degli Stati europei l’anarchia assunse il ruolo di nemico principale dell’ordine costituito ed i conseguenti attentati contro le Massime autorità dello Stato furono fonte di timori e di squilibri politico-sociali a livello internazionale: l’impatto che essi ebbero sulle classi dirigenti dei diversi Stati colpiti, fu così forte da richiedere una mobilitazione totale ed immediata di queste ultime al fine di eliminare o almeno arginare quell’incombente pericolo.
Particolarmente preoccupato, il governo italiano, per risolvere il problema, ritenne necessario promuovere e organizzare un convegno internazionale anti-anarchico, che si tenne a Roma, nel 1898: lo «spirito anarchico» era assai diffuso in Italia, certamente originato dalle cattive condizioni economiche, ma legittimato, soprattutto, da una precisa tradizione storica, inaugurata dalla borghesia italiana prima dell’Unità, cioè al tempo della propaganda risorgimentale; detto altrimenti, cospiratori e regicidi rappresentavano altrettanti personaggi cui rendere gloria: uomini come Agesilao Milano, impiccato a Napoli nel 1856 per aver tentato di uccidere il re Ferdinando II, o Felice Orsini, il discepolo di Mazzini, che nel 1858, a Parigi, aveva attentato alla vita di Napoleone III, erano avvolti da un’aura tutta speciale, esaltata dai romanzieri di appendice che alimentavano una sorta di estetica della violenza.
Le classi dirigenti, peraltro, non manifestarono soverchi dubbi nell’interpretare la successione degli atti di terrorismo in Europa, quali tappe di un complotto internazionale, malignamente volto a cancellare ogni forma di potere costituito sulla faccia della terra. Al punto di porre la scienza al servizio della dimostrazione politica: Cesare Lombroso, ottenendo per questo larga fortuna non soltanto presso gli ambienti accademici, ma anche fra i tutori dell’ordine, italiani ed europei, essi stessi protagonisti della storia, mise a punto le sue teorie sulla degenerazione atavica dei seguaci del movimento libertario sulla base di tutto un quadro clinico-fisiognomico, che voleva gli anarchici con i visi immancabilmente asimmetrici e con la mascella inferiore immancabilmente sporgente.
Cap. XIV
L’attentato di Passannante a Umberto I
Appena salito al trono, Umberto I aveva subito predisposto un tour nelle maggiori città del Regno, al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare almeno una parte della notorietà goduta dal padre durante il Risorgimento: lo accompagnarono la moglie Margherita, il figlio Vittorio Emanuele III e il presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli. Partito da Roma il 6 luglio, il 10 luglio era stato a La Spezia, dall’11 al 30 luglio, aveva soggiornato a Torino, il 30 era stato a Milano, poi a Brescia e il 16 settembre si era recato a Monza, dove aveva assistito all’inaugurazione del primo monumento dedicato al padre, Vittorio Emanuele II.
Il 4 novembre i reali erano arrivati a Bologna: il 7 avevano incontrano il poeta Giosuè Carducci, di idee repubblicane, il quale, rimasto incantato dalla grazia e dalla bellezza della regina Margherita, scrisse per lei pagine di grande ammirazione e le dedicò la celebre ode Alla regina d’Italia. Tre giorni dopo Umberto e Margherita erano stati a Firenze, il 9 novembre a Pisa e a Livorno, il 12 novembre si erano recati ad Ancona, l’indomani a Chieti e poi a Bari.
Il 16 novembre, alla stazione di Foggia, un certo Alberigo Altieri tentò di lanciarsi verso il sovrano: venne fermato in tempo, tanto che quasi nessuno si avvide del fatto e nemmeno la stampa ne fece parola. Tuttavia, un’indagine della polizia avrebbe portato a scoprire come il giovane non avesse agito da solo, ma nell’ambito di «un complotto per l’assassinio dell’Augusto sovrano» che aveva «il proposito di farne eseguire il tentativo nelle diverse città visitate».
Era l’avvisaglia di quanto sarebbe accaduto il giorno dopo, il 17 novembre 1878, quando, a Napoli, l’anarchico lucano Giovanni Passannante, cuoco di professione, assalì con un coltello di circa 12 cm Umberto I, al grido di «Viva la repubblica universale», esprimendo così il suo rammarico verso l’inadempienza della classe liberale, che aveva partecipato al Risorgimento, e il disagio sociale dell’Italia appena unita. Il Re riuscì a difendersi con la propria spada, subendo un leggero taglio ad un braccio, mentre il primo ministro Benedetto Cairoli, tentando di difendere il re, fu ferito ad una coscia.
Il tutto si compì in un tempo così breve che le altre carrozze vicine a quella reale non dovettero mai fermare la loro marcia. Sanguinante per le ferite alla testa, Passannante non venne accompagnato in ospedale per essere medicato, ma subì altre sevizie. Affermò di aver agito da solo, di aver programmato l’attentato due giorni prima e negò di appartenere ad alcuna organizzazione politica. Al momento dell’arresto, gli furono sequestrati documenti, fra i quali una lettera, che definì il suo «testamento», indirizzata ad un tale don Giovannino, in cui lo pregava di elargire i suoi miseri averi ad alcune persone.
L’attentato fallito avrebbe sconvolto il regno intero e prodotto opposti sentimenti da una parte, con cortei di protesta solidali nei confronti del Re, cui si contrapposero coloro che invece elogiavano l’attentatore, ma avrebbe anche innescato una dura repressione delle associazioni internazionaliste e repubblicane, poiché si temeva un complotto contro la corona, la fuga di numerosi anarchici all’estero, disordini in molte città italiane, cortei di protesta contro e a favore del cuoco lucano e la caduta del governo Cairoli.
Il 18 novembre 1878, a Firenze, venne lanciata una bomba contro un corteo monarchico: due uomini e una bambina restarono uccisi e una decina di persone furono ferite; la tragedia fu ascritta agli internazionalisti: vennero arrestati diversi esponenti del movimento, che sarebbero stati poi scarcerati per mancanza di prove, ma uno di loro, Cesare Batacchi, sarebbe stato graziato solo il 14 maggio 1900. A Pisa, un’altra bomba venne fatta esplodere durante una manifestazione a favore del re, ma senza fare vittime: arrestato, nonostante diverse prove di innocenza, Pietro Orsolini sarebbe morto, nel carcere di Lucca, nel 1887. La notte del 18 novembre venne anche assalita una caserma a Pesaro con un deposito di 5.000 fucili. Molte persone furono arrestate al solo elogio verso l’attentatore o alla sola denigrazione nei confronti del re: accade a Torino, Città di Castello, Milano, Guglionesi, La Spezia e Bologna.
Il poeta Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua Ode a Passannante, distrutta subito dopo la lettura; ma il poeta, in seguito, sarebbe stato arrestato per aver manifestato a favore degli anarchici, a loro volta tratti in arresto per i disordini generati dalla condanna di Passannante.
Cap. XV
L’attentato di Acciarito a Umberto I
Pietro Acciarito, in possesso di una limitata istruzione e cresciuto in una famiglia molto povera, costretto per mancanza di lavoro, al principio del 1897, ad abbandonare Artena, uno dei paesi poveri dell’entroterra laziale dove era nato il 27 giugno 1871 e dove aveva aperto una bottega di fabbro, in via Machiavelli, entrò ben presto in contatto con le correnti socialiste e con la stampa anarchica.
Il 22 aprile 1897, si mescolò tra la folla che salutava l’arrivo di Umberto I presso l’ippodromo delle Capannelle a Roma, e si lanciò verso la sua carrozza armato di coltello. Il re notò tempestivamente l’attacco e riuscì a schivarlo, rimanendo illeso.
Arrestato, prima di portare a compimento il suo proposito, interrogato, negò di essere stato spinto da moventi politici e di appartenere a gruppi anarchici, attribuendo alle precarie condizioni economiche la ragione del suo gesto: «Io l’attentato che ho fatto, prima di tutto non c’è complotto e non sono stato spinto da nessuno, ma lo feci perché ero in miseria. Si buttano li milioni in Africa e il popolo ha fame perché mancano li lavori. è questa la questione: è la micragna».
Nonostante queste dichiarazioni, già all’indomani del tentato regicidio, Di Rudinì ipotizzava un gigantesco complotto ordito ai danni della casa reale e, a Roma, si ebbero numerosi arresti di persone sospette di socialismo o anarchia, tra cui il falegname anarchico Romeo Frezzi, che morirà nel carcere di San Michele, a causa dei maltrattamenti subiti durante l’interrogatorio: la polizia cercò di far passare la sua morte come un suicidio, ma venne smascherata da l’Avanti, giornale socialista, suscitando gran clamore in tutto il Paese.
All’esito del processo a suo carico, che si svolse il 28 e 29 maggio 1898, nel corso del quale prese la parola per accusare le ingiustizie della società e la parzialità della corte giudicante, nonostante non avesse ferito o ammazzato nessuno, l’Acciarito venne condannato ai lavori forzati a vita e a sette anni di segregazione cellulare. Udita la sentenza, proclamò: «Oggi a me, domani al governo borghese. Viva l’anarchia! Viva la rivoluzione sociale!».
La sua vicenda giudiziaria ebbe, comunque, un seguito, poiché non si rinunziò, nell’infuocato momento politico, alla ricerca di complici e di mandanti. Prosciolto in istruttoria alla fine del 1897 un primo gruppo di sette anarchici, all’inizio del 1899 furono tratti a giudizio altri cinque presunti complici, tra i quali l’anarchico Aristide Ceccarelli, in esecuzione di una vera e propria trama ordita, tra la fine del 1897 e l’inizio del 1898, dal direttore generale delle carceri e il Ministero della Giustizia, con l’intento di incrementare e giustificare la repressione sociale. L’accusa era di avere istigato e sostenuto l’Acciarito nel suo disegno criminoso, per i rapporti stabiliti presso l’Unione socialista.
Il 22 giugno 1899, si celebrò alle Assise di Roma, il secondo processo, nel quale l’Acciarito intervenne come testimone a carico dei cinque anarchici. Risultò, però, che le accuse dell’Acciarito al Ceccarelli e agli altri erano state ottenute dal direttore del carcere di Santo Stefano, tramite pressioni e mediante le delazioni di tale Petito, suo compagno di cella. L’Acciarito ammise di avere stilato la sua confessione dietro promessa di amnistia. In aula, tuttavia, Acciarito ritrattò e l’accusa non riuscì a dimostrare l’esistenza di un complotto antigovernativo.
Ne derivarono emozione nell’opinione pubblica, interpellanze parlamentari, incidenti in tribunale, fino alle dimissioni dell’intero collegio di difesa, un membro della giuria abbandonò l’aula, il processo venne di conseguenza rinviato e, finalmente, insabbiato, ma nessun responsabile della macchinazione processuale venne incriminato.
Tutto questo non servì a cambiare il destino dell’anarchico di Artena: vano fu il tentativo di Francesco Saverio Merlino di ricorrere in Cassazione, contro la condanna all’ergastolo; e Pietro Acciarito morirà nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, il 4 dicembre 1943.
Cap. XVI
L’assassinio di Umberto I
Il 29 luglio 1900, a Monza, Gaetano Bresci, un anarchico italiano venuto da Patterson appositamente, vendicava sulla persona del re le vittime delle repressioni del 1893-1894 e del 1898. Era l’epilogo tragico, e in qualche modo simbolico, di un aspro conflitto sociale e politico, nel quale il re e gli ambienti di corte avevano giocato un ruolo centrale, tra il 1898 e il 1900, alla ricerca di una soluzione autoritaria, che orientasse in senso accentuatamente conservatore il riequilibrio dei poteri, nella società italiana in trasformazione; aspirazione, questa, ampiamente condivisa altresì in ambienti rappresentativi delle istituzioni elettive e vitalizie, dell’esercito, della magistratura e dell’amministrazione, oltre che dai più consistenti settori del mondo economico, agrario e industriale.INon era stato un caso che Umberto I, nel giugno del 1898, avesse insignito con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia il generale Fiorenzo Bava Beccaris, che, il 7 maggio precedente, aveva ordinato l’uso dei cannoni contro la folla a Milano, per disperdere i partecipanti alla cosiddetta «protesta dello stomaco», causata dall’intollerabile aumento del costo del grano, per effetto della «tassa sul macinato», compiendo un massacro: secondo le stime della polizia dell’epoca, ritenute da alcuni storici approssimate per difetto, cento sarebbero stati i morti e oltre cinquecento i feriti. E, per questo, il monarca era stato aspramente criticato dall’opposizione anarchicosocialista e repubblicana, consapevole che la difesa patriottica dello Stato nazionale dall’attacco di anarchici, socialisti, repubblicani e clericali, si univa alla tutela dei diritti intangibili della proprietà borghese attaccata dalle inaudite pretese proletarie ad un lavoro equamente retribuito.
A completamento della repressione armata di maggio, infatti, e a garanzia di una più energica risolutezza per il futuro, Antonio Starabba, marchese di Rudinì, per rispondere al desiderio sempre più evidente del re e del «partito di corte» di avere, per dirla con Domenico Farini, apprezzato consigliere del re, un «ministero crispino, senza Crispi», aveva presentato a metà giugno alla Camera un nuovo gabinetto, tutto orientato a destra, e la proposta di una serie di provvedimenti che prevedevano l’aggravamento delle disposizioni sul domicilio coatto, la facoltà di militarizzare ferrovieri e dipendenti delle poste, il divieto di sciopero e di associazione per i dipendenti pubblici, limiti pesanti alla libertà di associazione, di stampa e d’insegnamento.
L’arresto e la condanna, ad opera di tribunali militari, di deputati, politici e giornalisti socialisti, repubblicani, radicali, cattolici, da Filippo Turati ad Andrea Costa e a don Davide Albertario; la chiusura di numerosi giornali; lo scioglimento di organizzazioni e Camere del lavoro socialiste e repubblicane, nonché di associazioni cattoliche intransigenti; la reazione scatenata in tutto il Paese, nel 1898, come risposta a movimenti sociali di protesta per la fame e per il lavoro di limitate dimensioni, spintasi addirittura sino alla rimozione dall’incarico di docente presso l’accademia scientifico-letteraria di Milano dello storico Ettore Cicciotti, per aver simpatizzato apertamente per gli insorti milanesi, ragion per cui era stato costretto a riparare in Svizzera, per sottrarsi all’arresto, poiché accusato di propaganda sovversiva, e che appariva ancor più grave ed ingiustificata della pesante repressione crispina del 1894 in Sicilia; l’azione eccessiva, insomma, di cui si era fatto carico il governo di Rudinì, non era giunta a soddisfare pienamente gli esponenti più reazionari delle consorterie conservatrici toscane e lombarde, tra cui brillavano anche industriali moderni come l’imprenditore tessile Ernesto De Angeli. Il re, pertanto, aveva deciso di affidare la guida del governo al generale savoiardo Luigi Pelloux, proprio in vista del consolidamento autoritario del potere esecutivo, in uno stretto rapporto fiduciario con la corona, ma con l’avallo del consenso parlamentare, specialmente alle misure volte all’inasprimento della tutela dell’ordine pubblico.
Nell’estate del 1898, sembrava si fosse ricomposto uno schieramento largamente unitario della classe politica, sia di tendenze liberali sia di convinzioni autoritarie, che consentiva l’approvazione di provvedimenti eccezionali, limitati alla durata di un anno, per il mantenimento dell’ordine pubblico, sovrapponibili a quelli presentati il mese precedente da Rudinì.
La stasi politica, tuttavia, era durata sino al febbraio 1899, quando Pelloux aveva presentato provvedimenti volti a rendere permanenti quelle misure adottate in via provvisoria: nel tentativo di garantire l’approvazione dei provvedimenti eccezionali, secondo il mandato ricevuto dal re e condiviso dallo schieramento conservatore, usando strumentalmente la rottura dello schieramento unitario delle forze costituzionali, sul terreno della politica estera e di una ripresa delle spese militari, Pelloux si era dimesso, dando così vita a un nuovo governo da lui presieduto, ma composto e orientato da Costantino Sidney Sonnino, che ormai conduceva personalmente lo scontro per la sanzione legislativa di un riequilibrio dei poteri istituzionali, a vantaggio del governo e del sovrano, rispetto alla dialettica parlamentare e politica.
Tale atteggiamento era stato, comunque, bloccato alla Camera dai socialisti, che fecero ricorso all’ostruzionismo: fallito il tentativo di cambiare il regolamento parlamentare, Pelloux, su sollecitazione di Sonnino, aveva deciso di promulgare, con decreto 22 giugno 1899, i provvedimenti, in aperta lesione delle norme statutarie e manifestando ormai chiaramente l’intenzione di procedere ad una svolta autoritaria.
La difesa delle prerogative parlamentari, tuttavia, era stata sancita dalla Corte di cassazione il 20 febbraio 1900, con una sentenza che annullava i provvedimenti eccezionali promulgati per decreto legge e non approvati nei termini previsti.
La sanzione giuridica della sconfitta politica del tentativo di Pelloux e di Sonnino di forzare in senso autoritario l’ordinamento dello Stato liberale aveva costretto il governo, prima, ad annunciare, il 6 aprile 1990, il ritiro definitivo del decreto legge, quindi, a sciogliere la Camera e ad indire nuove elezioni nel giugno 1900, che avevano visto una decisa avanzata della sinistra.
II
I risultati delle elezioni non fecero che accelerare lo sfaldamento della compagine governativa, già tutt’altro che unita e monolitica, e le spinte centrifughe.
Il re, dal canto suo, era preoccupato e non sapeva come agire, per quanto il discorso della corona per l’inaugurazione della XXI legislatura, il 16 giugno 1900, non fosse privo di accenni alla volontà di continuare lungo la strada sino ad allora battuta.
Pelloux fece un ultimo tentativo di tenersi in sella, sfruttando i timori del sovrano, prendendo in considerazione la possibilità di rafforzare la maggioranza con la nomina di ben 35 nuovi senatori, tentando, addirittura un riaccostamento alla sinistra liberale, il cui effetto fu, tuttavia, l’apertura della crisi ad opera dei principali componenti della destra lombarda nel governo. Privo, dunque, di una reale maggioranza, il 18 giugno 1900, Pelloux rassegnò le dimissioni, che ne segnarono la scomparsa dalla scena politica.
Per risolvere la crisi di governo aperta da quelle dimissioni senza un voto della Camera, dunque, ancora una volta extraparlamentare, il re si rivolse a Giuseppe Saracco, un vecchio senatore piemontese, privo di duttilità, da tempo legato alle società ferroviarie, che incarnava la linea tradizionale del senato, rigidamente conservatrice e ultramonarchica, tanto più acuita, per reazione, dalla recente avanzata delle forze popolari.
La scelta di Saracco, parlamentare di modesto rilievo, alla soglia degli ottant’anni, con alle spalle mezzo secolo di politica, piccolo, magro, ricurvo, incartapecorito, dal colorito giallastro, còlto dalle vignette dei giornali satirici dell’epoca nella sua abitudine di camminare rasente i muri oppure in atteggiamenti che evocavano la grande avarizia di cui godeva fama da molto tempo, permetteva al sovrano di conciliare la prospettiva di un governo che non fosse la negazione totale del precedente, con quella di evitare la persona di Pelloux o di qualche altro esponente troppo compromesso nel passato tentativo reazionario. Ne era la riprova che, nella composizione del gabinetto, destra e centro conservassero un peso rilevante; ancorché, all’insegna della pacificazione degli animi e soprattutto per scongiurare l’ostilità dei maggiori gruppi della Camera, traesse dalle file della sinistra liberale Emanuele Gianturco, che andò alla giustizia, e lo zanardelliano Paolo Carcano all’agricoltura, industria e commercio.
Per differenziarsi dai precedenti Gabinetti, Saracco ribadì il proprio rispetto della volontà dell’assemblea elettiva, come prassi del governo e altrettanto fece il nuovo presidente della Camera, il crispino Tommaso Villa.
Pur senza osteggiare la nuova compagine ministeriale per isolare Sonnino all’opposizione, gli uomini della sinistra liberale si rendevano ben conto della precarietà di essa, del suo carattere eterogeneo, sbilanciata com’era più a destra che a sinistra, dell’assenza di un vero programma di riforme economiche e finanziarie. E se Tommaso Senise scriveva a Giolitti: «il fine di questo Ministero non è che uno: ritorno della reciproca tolleranza tra le parti avverse politiche e ripresa delle buone norme costituzionali»; Pietro Rossano, di rimando, chiosava: «Il nuovo Ministero… fa ridere, ma per ora bisogna sostenerlo per divenirne gli Eredi».
Il centro e parte della destra, di contro, non erano della stessa idea: pur avendo il tentativo reazionario subito un duro smacco elettorale, almeno nelle prime settimane di vita fino al regicidio, il Gabinetto Saracco rimaneva aperto a tutte le soluzioni, non esclusa quella di una ripresa della politica liberticida, che molti moderati continuavano ad attendere e a caldeggiare.
A troncare definitivamente le aspettative dei conservatori, intervenne, tuttavia, l’eliminazione fisica di Umberto I, uno dei cardini e dei punti di forza di tutti i tentativi reazionari del «decennio di sangue» e, in particolare, dell’ultimo, più complesso e organico, tra il 1898 e il 1900. La tragica fine di Umberto I fu, infatti, un monito eloquente non solo e non tanto per il nuovo sovrano, lo sconcertante «re socialista», almeno per uomini come Pelloux, intenzionato, per sua stessa ammissione, a «pensare unicamente alla quistione economicofinanziaria, con riforma dei tributi», quanto soprattutto per la sopravvivenza stessa della dinastia.
III
Il 29 luglio 1900, era trascorso appena un mese dall’insediamento del nuovo governo Saracco e cinquanta giorni dalle elezioni. Era domenica e la giornata era molto calda. Umberto I si trovava nella villa reale di Monza; ne era uscito alle ventuno, in carrozza aperta, senza indossare sotto il panciotto, per la gran calura, la solita maglia d’acciaio; lo attendevano in una palestra della città, per la premiazione degli atleti vincitori del saggio organizzato da una società ginnica monzese. Alle 23,30 il sovrano lasciò la palestra e s’infilò nella carrozza, fra le note della marcia reale e gli applausi dei presenti; i cavalli muovevano i primi passi, mentre il re salutava, col cilindro in mano, quando Gaetano Bresci balzò sul predellino della carrozza ed esplose quattro colpi, tre dei quali andarono a segno: uno alla spalla, uno al polmone, uno al cuore. La morte sopraggiunse istantanea: il cocchiere aveva fatto partire i cavalli al gran galoppo verso la villa, distante poche centinaia di metri, ma il re vi arrivò già cadavere.
Enorme fu l’emozione suscitata dal tragico evento nella borghesia. Immediato il moto d’indignazione, che da parte moderata si trasformò in parossistico tentativo di rilanciare ancora una volta gli obiettivi di una drastica politica repressiva: mentre venivano aggrediti e malmenati a Roma gli strilloni dell’Avanti!, Turati riceveva a Milano decine di lettere anonime veicolanti minacce di morte. Ambienti militari e alti esponenti della magistratura tornarono ad invocare leggi contro la libertà di stampa, di associazione, di riunione e magari anche l’eliminazione fisica dei socialisti. Sacerdoti e giornalisti liberali disapprovarono l’avvenuta abolizione della pena di morte, mentre i fogli moderati proposero, volta a volta, che Bresci fosse torturato, o magari semplicemente assoggettato a un processo sommario di pura apparenza, non senza esternare il rammarico per il fatto che la polizia avesse impedito il linciaggio del regicida. La retorica nazionale, intanto, colorava l’avvenimento, si vendevano a migliaia cartoline ricordo del re e sgorgavano con grande dovizia poesie e canzoni, che s’acquistavano a un soldo per le strade.
Il 20 settembre, Ettore Sacchi commemorò Umberto I a Bologna, a nome dei radicali, tessendo le lodi del defunto, ad un tempo rivendicando l’assoluta correttezza costituzionale del sovrano, respingendo in modo assoluto ogni più lontana idea di responsabilità di S.M. il re Umberto negli atti del governo che caratterizzarono gli anni 1894, 1898 e 1899» e segnando, in tal modo, il punto d’arrivo della linea legalitaria, anticlassista e antiunitaria portata avanti all’interno del fronte dei partiti popolari dai radicali, i quali nel rifiutare la politica di alleanze nelle forme e nei modi durati due anni, guardavano, ormai, sempre più esclusivamente all’area di governo e alla sinistra liberale. Questo elogio funebre, tuttavia, provocò la spaccatura tra la linea vincente di Sacchi e il gruppo milanese raccolto intorno al Il Secolo e a Giuseppe Marcora e Carlo Romussi, che anzi protestò, immediatamente, col deputato cremonese:«Il discorso è troppo elogiativo per re Umberto. Fu a parer mio (e la storia lo dirà ancor più severamente) un re fa niente della stirpe merovingia. Era uno zero occupato a metter via danari (le pere per la sete temuta), e niente altro. Tu hai voluto farlo cambiare invano... ».Più severo fu Napoleone Colajanni, che scrisse a Sacchi:
«Tu andasti troppo oltre nell’apologia di Umberto I. come uomo lo giudico davvero un galantuomo; come re ora fu inetto, ora fu porco. Fu porco insuperabile quando firmò la proroga del 14 dicembre 1894 a difesa delle turpitudini private di Francesco Crispi».
Non tutti i repubblicani, peraltro, condividevano l’opinione di Colajanni, visto che alcuni si associarono alle onoranze e si affrettarono a dichiarare in parlamento che la tradizione del partito «ha sempre condannato l’assassinio politico».
Né da meno furono i socialisti riformisti a respingere con fastidio il fatto, per la viva preoccupazione, addirittura il «panico» per dirla con Arturo Labriola, che esso potesse mandare a monte la linea politica ormai tracciata e assegnata al partito.
Insomma, in una ridda di proteste, i socialisti accusarono gli anarchici; i moderati accusarono i socialisti; gli anarchici romani rifiutarono con sdegno ogni solidarietà all’«individuo che ha compiuto l’uccisone»; il deputato salernitano Enrico De Marinis seguì il corteo funebre; Filippo Turati, vivamente pregato da Gaetano Bresci, rifiutò di assumerne la difesa, per il timore di una speculazione sul nesso tra socialismo e anarchismo, tanto caro ai conservatori.
In prima linea nelle manifestazioni di affettuoso cordoglio e di aperto ossequio all’istituzione monarchica furono anche i cattolici di tutt’Italia e il clero. E per quanto le alte gerarchie vaticane sottolineassero che i funerali religiosi al re «usurpatore» erano soltanto «tollerati» e non approvassero la «preghiera» composta dalla regina Margherita, le manifestazioni di lealismo monarchico furono numerosissime e sincere. Pure Giovanni Battista Paganuzzi, sotto l’impressione dell’avvenimento, prese l’iniziativa, che comunque non ebbe alcun seguito, di manifestare al pontefice l’esecrazione per l’atroce misfatto, l’«immenso dolore», il pianto irrefrenabile di tutte le organizzazioni cattoliche «sulla salma esangue di un mite e valoroso Principe nel vigore degli anni».
IV
Gaetano Bresci, frattanto, era stato incarcerato, in mezzo alle solite liti tra carabinieri e pubblica sicurezza per aggiudicarsi il merito di averlo acciuffato dopo che aveva sparato sul re.
Processato dinnanzi alla Corte d’Assise di Milano il 29 agosto 1900, appena un mese dopo il regicidio, al termine di un dibattimento pro forma, durato poche ore, venne in die condannato all’ergastolo e relegato a Santo Stefano.
Neppure un anno dopo, il 22 maggio 1901, l’anarchico, secondo il comunicato ufficiale, s’impiccò con un asciugamano alle sbarre della finestra della propria cella: il tutto in meno di tre minuti, durante una distrazione della guardia carceraria che aveva l’obbligo tassativo di sorvegliarlo «a vista» senza perderlo d’occhio e nonostante la palla di ferro al piede.
In realtà, per ordini ricevuti dall’alto, nel timore di un’evasione del prigioniero, preparata dall’esterno, quel 22 maggio, tre guardie gli avevano fatto il «Santantonio»: buttategli addosso coperte e lenzuola l’avevano ammazzato di bastonate.
I miseri resti furono fatti sparire senza lasciare traccia da due ergastolani, inviati appositamente da un’altra casa di pena e tenuti all’oscuro del nome del morto. Poco dopo, il direttore dell’ergastolo fu promosso e le tre guardie furono premiate. Presidente del Consiglio dei Ministri era Giuseppe Zanardelli e ministro dell’Interno Giovanni Giolitti.
Mentre un altro «suicidato» entrava nella lunga storia delle istituzioni repressive italiane, qua e là per l’Italia quegli stessi popolani che, al passaggio della salma del re, erano apparsi agli esterrefatti uomini politici liberali «senza alcun segno esteriore di commozione e di lutto», comiciarono sommessamente a cantare: «è morto Umberto primo / quel malfattore / viva Gaetano Bresci / vendicatore».
Cap. XVII
L’affaire Murri
La mattina del 2 settembre 1902 la polizia fu informata che un odore sgradevole, sempre più forte e nauseante, sprigionava dall’abitazione del conte Francesco Bonmartini in Palazzo Bisteghi, a due passi dal Portico dei Servi, nel centro di Bologna.
Decisamente raccapricciante la scena che si presentò ai primi che penetrarono nell’appartamento: in un angolo dell’ampia anticamera, giaceva a terra, in un lago di sangue, il grosso corpo del conte, in stato di avanzata decomposizione, crivellato da numerosi colpi di pugnale, che non avevano risparmiato né il volto né le mani.
Quell’assassinio poteva restare un semplice episodio di cronaca nera dell’Italia d’inizio Novecento e non si sarebbe trasformato, come invece accadde, nel caso giudiziario più discusso dell’epoca giolittiana, se non vi fossero stati coinvolti i figli di Augusto Murri, clinico di fama e personaggio noto in Italia per la sua levatura filosofica e morale, esponente della cultura positivistica e democratica predominante nell’Italia di fine Ottocento. La stessa che Benedetto Croce, nel 1905, dichiarò avergli ispirato sui banchi di scuola un orrore così violento «da soffocare per parecchi anni persino le tendenze democratiche che (erano) state sempre naturali al (suo) animo».
Giornali, pubblicazioni a dispense, cartoline illustrate, fogli volanti, volumi stampati ancor prima della celebrazione del processo, fecero di questo evento giudiziario un fenomeno collettivo di grande portata sociale, tale da oltrepassare i confini nazionali.
Secondo i parigini, impegnati in quegli anni con lo scandalo finanziario della famiglia Humbert in cui, a loro dire, tante erano le cifre e poco l’amore, espressero invidia per il «bel delitto italiano» che, avvenuto non tra «gente volgare», ma della «buona società», avrebbe avuto il vantaggio di appassionare il grande pubblico e nel contempo di rassicurarlo, svelando agli spettatori del loggione turpitudini e vizi della «gente per bene», insegnando che la ricchezza «non fa la felicità».
Il Times, invece, sottolineò che il popolo italiano fosse più di altri incline a credere il male e che tale credulità si associasse allo «scarso senso della giustizia».
Il processo a carico di Teodolinda Murri, vedova del Bonmartini, di Tullio Murri, del medico e amico di questi Pio Naldi, del dottor Carlo Secchi, ex assistente del professor Murri e amante di Linda, nonché di Rosina Bonetti, la « sartina » romagnola amante di Tullio, si aprì a Torino il 21 febbraio 1905.
Meno di un mese prima, il 14 gennaio 1905, dopo quasi due anni d’assenza, Augusto Murri era tornato in cattedra e per un’ora e tre quarti aveva intrattenuto i suoi studenti con una dotta prolusione dal titolo Il pensiero scientifico e didattico della clinica medica bolognese. «Un dramma di Eschilo, questa lezione universitaria», con «Intorno alla cattedra tutti i discepoli, quelli antichi che non dubitano, della coscienza piena; quelli nuovi, tuttora incerti, tormentati da un segreto sgomento. Fuori la calca dei farisei furibondi che intendono sfuggire al soffio alato della parola, piena della ferma fede antica...». così la raccontò Claudio Treves, che dalle pagine del Tempo spiegò come il «Maestro» avesse fortunatamente fatto tutto ciò che doveva, vale a dire, non lasciarsi «uccidere nel Padre».
E non si pensi si trattasse di mera retorica: la campagna giornalistica, pesante e diffamatoria, nei confronti di Augusto Murri, non volle distinguere tra padre e figli, le cui colpe furono fatte ricadere sul primo, schiacciato dall’opinione pubblica fino a far coincidere le figure del genitore e dell’intellettuale. Ma se i colpi partiti dalle pagine dei giornali avevano ferito Augusto Murri in profondità, infangandone sia la figura di padre sia l’immagine pubblica di scienziato, essi non riuscirono, tuttavia, a incrinarne il credo scientifico e ideologico. Fu nell’incrollabile fiducia nel metodo scientifico e nel culto della verità che il professore aveva ritrovato la forza di riappropriarsi della scena pubblica: il suo ritorno all’ateneo bolognese fu l’estrema
difesa dei valori che avevano guidato la sua vita intellettuale, prima ancora che scientifica. Una dichiarazione d’innocenza. La stigmatizzazione della credulità popolare di fronte alle ipotesi prive di scrupolo morale, formulate dalla stampa di quegli anni nei confronti della sua famiglia.
A chi andava sostenendo che l’educazione laica e positiva, additata dagli scienziati e intellettuali positivisti dell’Italia di fine secolo come il mezzo per arginare il fenomeno della degenerazione fisica e morale della nazione, producesse invece immoralità e delinquenza, il professore marchigiano replicò: «Nella clinica come nella vita bisogna avere un preconcetto, uno solo, ma inalienabile, il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero, può essere falso; bisogna farsi una regola costante di criticar tutto e tutti prima di credere; bisogna domandarsi sempre come primo dovere: perché io devo credere questo?»
Cap. XVIII
Sequestro e omicidio di Giacomo Matteotti
Per l’Italia post-bellica, dove accanto ad un popolo povero, ancora vestito di nero per i suoi seicentomila morti inghiottiti dall’Apocalisse della Prima guerra mondiale, alle prese con la disoccupazione o la sotto-occupazione e con la battaglia quotidiana per la sopravvivenza, convivevano corsari della finanza, capitani d’industria, faccendieri di grande e piccolo cabotaggio, lestofanti di varia estrazione, «pescicani» arricchiti con le forniture militari a fattura gonfiata o con il mercato nero, trafficanti di favori, il 1924 fu annus horribilis.
Il fascismo al potere, affamato di finanziamenti per la propria organizzazione e per i leader giunti ai «palazzi» con le toppe ai pantaloni, ma con un patologico bisogno di rivalsa e onnipotenza, era ancora una dittatura dissimulata dietro la redingote e il cilindro di Benito Mussolini, l’uomo che di lì a poco sarebbe stato il «duce della rivoluzione».
Nel caldo pomeriggio del 10 giugno 1924, un deputato uscì di casa, sul Lungotevere, recando con sé una borsa piena di documenti. Era diretto in Parlamento, ma non vi sarebbe mai giunto e neppure sarebbe tornato più a casa: dopo averlo picchiato mortalmente, alcuni uomini, appartenenti alla «Ceka del Viminale», un gruppo segreto di squadristi reclutato dal ministero dell’Interno e guidato da Amerigo Dumini, uomo chiave del delitto, anello di congiunzione tra certi affaristi del regime, autore, a suo dire, di undici omicidi, assiduo nelle sedi del partito e a Palazzo Chigi, dov’era accolto «con grande confidenza», lo caricarono in macchina e partirono a tutta velocità verso la periferia di Roma.
La vittima non era un deputato qualsiasi: nato a Fratta Polesine nel 1885, possidente terriero illuminista, avvocato, sindaco di Villamarzana, consigliere provinciale di Rovigo, eletto nel 1919 alla Camera dei deputati, Giacomo Matteotti, nel 1922, aveva promosso la costituzione del Partito socialista unitario, divenendone segretario nazionale.
Intransigente antifascista, difensore dei braccianti agricoli poveri, più volte minacciato e aggredito da gruppi fascisti, ostacolato nella professione forense e nell’attività parlamentare, solo dieci giorni prima della sua sparizione, quale leader di uno dei maggiori partiti di opposizione se non quale leader dell’opposizione intera, aveva pronunciato alla Camera dei deputati una documentata requisitoria sulle violenze fasciste contro i candidati socialisti, comunisti, repubblicani, liberali progressisti.
Circa due mesi dopo la sua sparizione, il cadavere di Matteotti venne trovato, malamente sepolto, in un’area seminascosta da una fitta boscaglia. Accanto ai poveri resti, nessuna traccia della borsa che aveva con sé al momento del sequestro, contenente le prove che il regime fascista stava in piedi anche e soprattutto con l’aiuto della corruzione; che i suoi uomini si arricchivano truffando lo Stato, incassando jugulatorie tangenti; che il Partito nazionale fascista esigeva parte dei proventi «succhiati» ai big della finanza e dell’industria, i quali ricevevano in cambio favori e appalti, per finanziare le federazioni che stavano sorgendo in tutta Italia, i quotidiani fiancheggiatori e le clientele di fedelissimi che avevano ben meritato prima, durante e dopo la marcia su Roma e tuttora meritavano per ragioni che erano ai limiti o fuori della legalità.
Due, in particolare, gli scandali ad alto potenziale distruttivo che minacciavano il regime: la sistematica truffa ai danni dello Stato rappresentata dal traffico dei residuati bellici e l’operazione Sinclair Oil con la quale Mussolini tentò di dare in concessione esclusiva i diritti per la ricerca petrolifera in Italia al gigante Usa Standard Oil. Il che, come appare ovvio, rappresentava un danno incalcolabile per il nostro Paese. Manca ancora la prova diretta che leghi Mussolini all’assassinio di Matteotti, la mole di testimonianze e indizi che si concentrarono su di lui fu tale, però, da incatenarlo quasi subito al sospetto d’essere il mandante del delitto: Mussolini conosceva fin troppo bene Dumini, avendogli già affidato diverse spedizioni punitive per difendere il fascismo con la violenza «chirurgica e intelligente» che rivendicava come necessaria, tanto da intimare agli avversari di «sottomettersi o perire»; Matteotti, per altro, era l’unico uomo politico che avesse il coraggio, l’intransigenza e la lucidità per ostacolare seriamente un progetto già pronto a sfociare in regime e che non sarebbe arretrato in nessun caso, per quanto prevedesse la propria fine: «Io il mio discorso l’ho fatto», aveva detto il 30 maggio 1924 ai suoi compagni, dopo aver pronunciato il durissimo atto d’accusa a Montecitorio, «ora sta a voi preparare l’orazione funebre per me».
Ce n’era, dunque, abbastanza per le immediate dimissioni del governo.
Tutto sembrava far credere a una crisi, ma non fu questo che accade: l’opposizione parlamentare scelse la strada della protesta morale, il governo resistette, la maggioranza non accennò a spaccarsi, il regime si consolidò.
Benito Mussolini, il trionfatore delle elezioni del 1924 contro le quali aveva tuonato Giacomo Matteotti, forzò la sorte e instaurò la «dittatura a viso aperto».
Cap. XIX
Gli attentati a Benito Mussolini
Il 31 ottobre 1926, a Bologna, in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della marcia su Roma, venne esploso un colpo di pistola contro la macchina che trasportava Benito Mussolini verso la stazione; il presunto attentatore, un giovane anarchico quindicenne, Anteo Zamboni, venne immediatamente linciato e ucciso dai fascisti presenti: più tardi, sul suo cadavere furono contate quattordici pugnalate profonde, un colpo di pistola e tracce di strangolamento.
Secondo alcune recenti ricostruzioni (Marco Cesarini Sforza, Gli attentati a Mussolini, Per pochi centimetri fu sempre salvo, in La storia illustrata n°8 Anno 1965, pag. 244), l’attentato sarebbe stato, in questo caso, il risultato di una cospirazione maturata all’interno degli ambienti fascisti contrari alla normalizzazione inaugurata da Mussolini, contrario a ulteriori eccessi rivoluzionari, e allo strapotere delle formazioni squadriste: stando a tali ipotesi, il colpo di pistola non sarebbe provenuto da Anteo Zamboni, semplicemente vittima delle circostanze.
Almeno inizialmente, del resto, le indagini di polizia si svolsero, pur senza approdare a risultati utili negli ambienti squadristi bolognesi, per verificare l’ipotesi del coinvolgimento di ras locali: «Furono sospettati a turno» racconta l’allora capo dei servizi politici presso la Direzione generale della PS, Guido Leto, «Farinacci, Balbo, Arpinati, quest’ultimo perché proveniente dalle file anarchiche e amico della famiglia Zamboni, e lo stesso Federzoni, ma le indagini accurate che furono eseguite dalla questura di Bologna, diretta allora da un eccellente funzionario, il questore Alcide Luciani, e da un altro espertissimo funzionario, perfetto conoscitore dell’ambiente bolognese, Michelangelo Di Stefano, giunsero alla conclusione che non v’era alcun elemento apprezzabile per sostenere la tesi di un complotto organizzato nei ranghi fascisti. Ve n’erano, invece moltissimi per convalidare quella di un gesto di un isolato».
Un’inchiesta segreta fu anche compiuta, in seguito, per iniziativa del Sottosegretario all’Interno, conte Giacomo Suardo, dal magistrato Noseda del Tribunale Speciale; ma i risultati non differirono da quelli stabiliti dalle indagini della polizia.
I procedimenti penali successivi condannarono a pene detentive il padre e la zia dell’attentatore per aver comunque influenzato il giovane nelle sue scelte, ma Mussolini poco tempo dopo decise di graziare i due condannati e di sovvenzionarne il fratello che si trovava in difficoltà economiche. In realtà, i dubbi sono molti, sia su chi avesse veramente ordito l’attentato e armato la mano del «ragazzino»: innanzitutto, perché tanta fretta nell’ammazzarlo? La folla intorno a lui era tutta di innocenti ammiratori del Duce o c’era qualche nerbo di scherani dei servizi segreti?
Le stesse testimonianze di Arpinati e di Mussolini furono contraddittorie: Arpinati parlò di un giovanotto vestito di marrone; Mussolini di un uomo in abito chiaro, col cappello floscio. Forse videro doppio per l’agitazione del momento, ma forse gli attentatori erano due. E, infine, in un’intervista rilasciata in quei giorni, Dino Grandi testimoniava: «Intanto dall’automobile che seguiva quella presidenziale l’on. Balbo, l’on. Ricci e il Seniore Bonaccorsi si precipitano sull’aggressore che immediatamente scompare, stretto e afferrato da mille braccia in un tumulto è in un urlo terribile». L’intervista pecca, magari, di retorica, ma è importante: Grandi indicava come primi immediatamente intervenuti i tre capisquadristi, tutti in fama di mano pronta, specie l’Arconovaldo Bonaccorsi, seniore (poi generale) della Milizia.
Quello attribuito ad Anteo Zamboni fu, comunque, il quarto attentato subito tra il 1925 e il 1926 da Benito Mussolini.
Il primo era stato ideato il 4 novembre 1925 dal deputato socialunitario Tito Zaniboni e dal generale Luigi Capello. Zaniboni avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione austriaco da una finestra dell’albergo Dragoni, fronteggiante il balcone di Palazzo Chigi, da cui si sarebbe dovuto affacciare il Duce per celebrare l’Anniversario della vittoria, ma le forze di polizia guidate dal questore Giuseppe Dosi avevano sventato tempestivamente la minaccia.
Il 7 aprile 1926, era stata Violet Gibson, una donna irlandese risultata essere una squilibrata, ad esplodere un colpo di pistola in direzione di Mussolini, mancandolo di poco: un repentino balzo all’indietro aveva salvato il Duce dalla morte, lasciandolo con solo una lieve ferita al naso.
L’11 settembre 1926, l’anarchico Gino Lucetti, fermo dove la strada si restringe sulla destra di Porta Pia, aveva lanciato contro la prima vettura una bomba a mano tipo Sipe, che colpiva il tetto della macchina senza esplodere, rimbalzava a terra e solo allora deflagrava, facendo otto feriti leggeri tra i passanti; immediatamente immobilizzato da un passante, tale Ettore Perondi, l’attentatore era stato raggiunto dalla polizia e trovato armato anche di una pistola caricata a proiettili dum-dum.
Benito Mussolini si salverà da altri due attentati progettati e non eseguiti per ingenuità o per mancanza di determinazione, nel 1931 e nel 1932. L’anarchico sardo Michele Schirru partito dall’America per attentare alla vita di Mussolini, pur non avendo attuato il proposito, sarà arrestato il 3 febbraio del 1931, con una pistola, e poi fucilato a Forte Braschi, a Roma, per avere progettato di uccidere il capo del governo.
Un altro anarchico, Angelo Pellegrino Sbardellotto, giunto dal Belgio, verrà arrestato il 4 giugno del 1932 con un passaporto falso, una pistola e un’ordigno; confesserà anch’egli di avere avuto l’intenzione di uccidere Mussolini. Viene condannato a morte e fucilato il 17 giugno: lo stesso giorno di Domenico Bovone, genovese emigrato in Francia, organizzatore di alcuni attentati dinamitardi senza vittime, arrestato dopo che lo scoppio di materiale esplosivo aveva ucciso sua madre e lo aveva ferito.
Nella sentenza di morte pronunciata contro Michele Schirru il 2 maggio 1931, si legge testualmente: «Chi attenta alla vita del Duce attenta alla grandezza dell’Italia, attenta all’umanità, perché il Duce appartiene all’umanità».
Tra l’altro, Schirru non aveva neanche attentato, ma aveva, forse, pensato di attentare: con sottintesa, quanto evidente polemica, l’Osservatore Romano del 1° giugno 1931 comunicava, in breve, ai propri lettori la notizia che era stato condannato a morte e fucilato Michele Schirru, ritenuto colpevole di aver avuto «l’intenzione di uccidere il capo del governo».
Cap. XX
Leggi «fascistissime» per annientare l’opposizione
È fuori discussione, ormai, che la vicenda giuridica del fascismo vada letta in termini di continuità con l’assetto politico culturale che ne precedette l’avvento: sebbene la figura dello Stato venisse sottoposta ad una rotazione in senso totalitario, tale da produrre una drammatica alterazione del rapporto tra Autorità e individui, questo non impedì, tuttavia, la formale permanenza dell’assetto statutario. In fondo, lo Statuto del 1848 era una fonte normativa fra le altre, senza preminenza gerarchica sulla legge e senza la rigidità di una costituzione fondante, dunque in grado di sopportare anche radicali sconvolgimenti, senza per questo dover mutare la propria natura. La continuità, peraltro, dipese anche dal lavoro teorico di giuristi come Oreste Ranelletti e Santi Romano, i quali, in un sordo conflitto con i giuristi di regime, operarono per mantenere in un rapporto di compatibilità la caduta della funzione parlamentare, la centralità dell’esecutivo, l’autonomia dell’amministrazione e il ruolo del partito fascista, nel tentativo di salvaguardare, sebbene in un quadro irrimediabilmente deformato, la figura storica dello Stato amministrativo, affermatasi in Italia con l’età giolittiana.
Dove, invece, il regime fascista riuscì ad imprimere una straordinaria accelerazione, così da realizzare una qualche forma di discontinuità con il passato, fu nella riforma della legislazione: qui il regime dispiegò i postulati della sua ideologia in strategie repressive, contenuti punitivi e innovazioni di sistema, che modificarono profondamente i termini stessi dell’ordine giuridico penale del Paese, esasperandone il carattere repressivo ed esaltandone la funzione intimidatoria: esso, per un verso, venne caricato oltre ogni limite di contenuti autoritari; per l’altro, i suoi connaturati compiti di difesa sociale, una volta pieni di attenzione ai diritti dei cittadini e alla tranquillità della società, vennero stornati e messi innanzi tutto al servizio dello Stato.
Dopo un primo provvedimento di amnistia del dicembre 1922, che molto fece discutere per la sua tendenziosità politica, e un altro emanato nell’ottobre del 1923, una volta oltrepassata la crisi provocata dal caso Matteotti, Mussolini e il suo ministro Alfredo Rocco diedero definitiva attuazione al programma di neutralizzazione delle opposizioni politiche, avviato da tempo con i fatti, coronandolo con lo strumento della legge penale.
In una sorta di prosecuzione della politica dello squadrismo con altri mezzi, tra il 1925 e il 1926, le leggi che saranno poi dette «fascistissime» delinearono l’intelaiatura dello Stato totalitario, articolantesi in «leggi di difesa», quelle, cioè, sulle società segrete, sui fuoriusciti, sulla burocrazia e sulla difesa dello Stato; e in «leggi di riforma costituzionale», cioè quella sul potere legislativo dell’esecutivo e quella sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo.
Alfredo Rocco, subito dopo le leggi eccezionali del 1925 e del 1926, mentre si preparava la monumentale riforma penale del 1930, avviata il 30 gennaio 1925, poteva scrivere: «Il Fascismo appartiene al novero di quelle rivoluzioni, le quali (…) realizzano la loro ideologia. La realizzazione nel campo spirituale, svegliando nella massa il sentimento del dovere, l’abitudine della disciplina, l’idea della subordinazione dell’individuo alla Nazione. La realizzazione nel campo giuridico, creando sulle rovine dello Stato liberale e democratico, lo Stato fascista» (Introduzione a La trasformazione dello Stato. Dallo Stato Liberale allo Stato Fascista, Roma, La Voce, 1927).
Uno scritto del penalista fascista militante Silvio Longhi (Fascismo e diritto penale, in Anticipazioni della riforma penale, Treves, Milano 1927), il quale avrebbe assunto l’ufficio di procuratore generale presso la Corte di cassazione nel 1930, illumina il senso di quei provvedimenti, tesi all’annientamento di ogni opposizione: «Quando nel 1924 più difficile e contrastato si fece per il Regime il processo di coordinamento e consolidamento, il Segretario generale del Partito Fascista on. Farinacci ebbe ad affermare la esigenza di una triplice istituzione coercitiva, dalle menti superficiali giudicata allora strana, violenta, orribilmente partigiana: il bando, il confino, la pena di morte»; il trittico farinacciano, chiariva ancora Longhi, era «affermazione di un sistema di difesa (…) generato dal congiungimento della forza con lo Stato», dunque, più semplicemente, rivolto a porre l’ordinamento penale al servizio della repressione politica.
Eliminata mezzo secolo prima, con l’abolizione di fatto decretata da Pasquale Stanislao Mancini nel 1876 e con quella di diritto sancita dal Codice penale del 1889, la pena di morte fu reintrodotta nell’ordinamento penale italiano, con la legge n. 2008 del 1926, recante Provvedimenti per la difesa dello Stato. In proposito, il solito Silvio Longhi scriveva che la presenza della morte è effetto della guerra che la nazione combatte contro i suoi nemici d’ogni sorta: essa verrà data con la fucilazione e comandata alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, con il che si renderà meno orribile il supplizio, portandosi «maggior rispetto alla persona del giustiziato, il cui cadavere non viene ad essere né troncato né deformato. Cade il condannato come in battaglia: la battaglia della vita, comunque vissuta e combattuta». Unico tribunale competente per l’irrogazione della pena di morte, riservata ai gravi delitti politici e sociali, era il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito a tempo determinato, che alcuni avrebbero voluto come permanente, ma che, comunque, sarebbe stato poi indefinitamente prorogato. Esso costituisce l’evidente riprova della continuità, anche durante il fascismo, che si potrebbe pensare non ne dovesse sentire alcun bisogno, di uno dei caratteri originari o permanenti del sistema penale italiano, gestito con leggi speciali e strumenti d’eccezione. Ad un tempo, manifestazione dell’imponenza dell’apparato di repressione messo in piedi dal regime, e indizio delle sue insicurezze, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, per un verso, fu un efficiente dispositivo a guardia del regime, prova ne siano le 42 condanne a morte pronunciate, di cui ne furono eseguite ben 31; e, per altro verso, la dimostrazione che il fascismo, per cancellare i suoi oppositori, non avrebbe potuto contare sulla magistratura ordinaria, sulle Corti d’assise e sul normale funzionamento del sistema processuale.
La legge di pubblica sicurezza venne anch’essa organizzata nel nuovo testo unico 6 novembre 1926, n. 1848, che irrobustì e ampliò i poteri di intervento preventivo della polizia, rendendone piena l’effettività. Essa si arricchì, peraltro, di vere e proprie fattispecie di reato e attribuì alla sola polizia la valutazione di comportamenti quali il «manifestare propositi» e il «dimostrare intenzioni», conferendo all’autorità uno spazio amplissimo d’intervento discrezionale, in una materia tradizionalmente considerata squisitamente di diritto. Rafforzò e approfondì, insomma, il duplice livello di legalità instauratosi nell’ordinamento penale italiano all’indomani dell’Unità, indizio di una continuità ormai comprovata, ma anche di una esitazione del regime su questo terreno. Il fascismo, infatti, non operò la riunificazione in chiave autoritaria dei livelli di legalità, che pur ci si sarebbe potuti attendere da uno Stato totalitario, sicuro dei suoi ordinamenti e dei suoi apparati.
A questi due livelli di legalità, peraltro, un terzo se ne affiancò, in conseguenza dell’istituzione del «Servizio speciale di investigazione politica, avente per scopo la difesa dello Stato», creato allo scopo di vigilare sul dissenso politico, di contrastare le attività dei fuoriusciti, di reprimere l’antifascismo. Compiti questi affidati all’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo (Ovra), ma svolti, sia pure in minor misura anche dalla Milizia, le quali, com’è noto, potevano valersi entrambi di modi e strumenti ancor meno che giurisdizionali e amministrativi.
Cap. XXI
L’arresto illecito di Antonio Gramsci
L’8 novembre 1926, inizia la sua odissea giudiziaria e carceraria Antonio Gramsci, che alle ore 22.30 viene tratto in arresto a Roma, nei pressi della sua abitazione, in via Morgagni 25, dalla polizia fascista e rinchiuso a Regina Coeli. Il 5 novembre precedente, in due successive sedute, si era svolto il Consiglio dei Ministri.
Al mattino, su proposta del ministro dell’Interno Luigi Federzoni, erano stati approvati i «provvedimenti amministrativi», una serie, cioè, di drastiche misure di polizia, comportanti, fra l’altro, la revisione di tutti i passaporti per l’estero, sanzioni contro l’espatrio clandestino, la sospensione, di fatto, di tutta la stampa d’opposizione, lo scioglimento di tutti i partiti «che esplica(ssero) azione contraria al regime», il confino di polizia; il guardasigilli Alfredo Rocco, peraltro, aveva proposto un disegno di legge per l’introduzione della pena di morte per chiunque attentasse alla vita e all’integrità personale del re, della regina, del principe ereditario e del capo del governo, nonché la reclusione da tre a dieci anni per chi avesse ricostituito partiti ed associazioni disciolte.
Nella seduta pomeridiana, Luigi Federzoni, la cui credibilità appariva irrimediabilmente compromessa a causa dei frequenti attentati ai quali, nell’ultimo anno, era sfuggito Benito Mussolini, si era dimesso da ministro dell’Interno. L’interim, al Viminale, era stato assunto dallo stesso Mussolini, che, in tale veste, aveva disposto la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei «provvedimenti amministrativi». Dovendo questi essere, comunque, controfirmati dal re, la loro pubblicazione era avvenuta l’8 novembre e, quello stesso giorno, Benito Mussolini diramava l’ordine di «applicazione immediata» del
nuovo Testo Unico di pubblica sicurezza. Così, mentre l’occupazione delle sedi dei disciolti partiti scattava nella notte dell’8 novembre, l’arresto dei deputati slittava invece al 9 mattina, dovendosene prima dichiarare la decadenza dal mandato.
La sera dell’8 novembre, dunque, l’arresto di Antonio Gramsci, fu senz’altro atto illecito: se, per un verso, il deputato comunista non era stato ancora dichiarato decaduto dalla funzione, per altro verso, neppure era stata definita la lista esatta dei deputati di cui dichiarare la decadenza. Né vale addurre, per legittimare l’abuso, che il capo della polizia, Arturo Bocchini, con telegramma delle ore 14 e 15 dell’8 novembre, avesse chiesto a tutti i prefetti di procedere a «rigorosissime perquisizioni personali et domiciliari deputati iscritti partito comunista» residenti nelle rispettive province, nonché al «loro fermo fino disposizione (dello stesso) Ministro che (avrebbe dovuto) vagliare elementi raccolti in perquisizione».
Perché la Camera potesse procedere alla declaratoria di decadenza occorreva una mozione ad hoc, e di questa s’era fatto promotore Roberto Farinacci. Il suo elenco, stando al testo pubblicato il 7 novembre dal suo giornale, Il Regime Fascista, e l’8 novembre dal Tevere, comprendeva i soli deputati «aventiniani»; la motivazione escogitata era la diserzione sistematica dei lavori parlamentari, non ascrivibile ai 19 deputati comunisti, i quali avevano lasciato l’Aventino già il 24 ottobre. La Camera, tuttavia, nella seduta delle ore 16,00 del 9 novembre si vide sottoporre un’altra mozione, il cui primo firmatario era il nuovo segretario del PNF Augusto Turati, che, facendo leva sull’art. 49 dello Statuto albertino, dove si prevedeva la decadenza di chi avesse abusato delle prerogative parlamentari per compiere opera di «eccitamento e sovvertimento contro i poteri dello Stato», annoverava tra i licenziandi anche i comunisti.
Quanto alla genesi di questo colpo di scena, in un libro di memorie degli anni Sessanta, Ezio Riboldi, deputato comunista all’epoca dei fatti, già socialista dell’area massimalista, allineatosi col fascismo, negli anni Trenta, dopo l’esperienza del carcere, quindi collaboratore, dal 1940 al 1943, de La Verità di Nicola Bombacci, anch’egli ex comunista, e conterraneo di Mussolini, passato al fascismo «rivoluzionario» e finito a Salò, racconterà che a Farinacci, il quale, convocato con Turati, difendeva la sua posizione, Mussolini avrebbe confidato che era stato il re a pretendere l’inclusione dei comunisti, poiché reputava «assurdo» estromettere dal parlamento liberali e popolari, mantenendo in carica proprio i comunisti.
Nel 1945, per contro, Vittorio Emanuele III, aveva rivendicato, invece, d’essersi opposto al provvedimento di decadenza dei deputati aventiniani, ritenendo che simile provvedimento potesse avere, invece, un senso se adottato verso una forza sovversiva, quale il PCdI.
Cap. XXII
Gramsci, Grieco, Togliatti e il mistero della «strana» lettera
All’alba del 27 aprile 1937, moriva Antonio Gramsci: due anni prima aveva riacquistato la libertà piena.
Rinascita, la rivista culturale fondata da Palmiro Togliatti, pubblicò nel numero 32 del 9 agosto 1968 alcune lettere inedite tratte dagli archivi di Stato e dall’archivio del PCI, scambiate, nel marzo 1928, da Ruggero Grieco, che era a Mosca insieme Togliatti, con Gramsci e Umberto Terracini, i quali erano, invece, reclusi nel carcere di San Vittore a Milano, in attesa di processo.
Nel consegnare la lettera inviata da Grieco, il giudice istruttore commentò: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». Per cogliere il senso di questo commento, occorre concentrare il fuoco dell’attenzione, oltre che sul testo delle missive anche sul contesto storico, politico e geopolitico, nel quale le vicende di cui alle missive s’inserivano.
Nel marzo 1928, mentre a Mosca, Stalin espelleva dal partito Trotzki, Zinoviev e Kamenev, che lo avevano accusato di favorire il ritorno del capitalismo in Russia e per il comportamento seguito sia nei riguardi della questione cinese, sia nei riguardi dei contadini, a Gramsci e a Terracini, detenuti nel carcere di San Vittore, venivano recapitate due lettere inviate da Mosca, a firma di Ruggero Grieco, per posta normale e non attraverso canali clandestini, come il PCdI era uso fare date le circostanze.
Il contenuto delle missive, salvo i convenevoli di rito circa la richiesta di notizie sulla salute dei destinatari, era estremamente riservato, soprattutto là dove, non solo giustificavano le epurazioni staliniane, ma addirittura le esaltavano, in quanto, scriveva Ruggero Grieco, «quelle epurazioni», che avevano eliminato l’opposizione e ogni forma di dissenso, erano inevitabili e necessarie poiché la minaccia di guerra con l’URSS «è un fatto reale e, in questa situazione, non si può giocare all’opposizione».
Indubbiamente, Ruggero Grieco, scrivendo in questi termini a Gramsci, non intendeva semplicemente informarlo di quanto accadeva a Mosca, ma, piuttosto, chiudere la querelle innescata dallo stesso Gramsci, due anni prima, nel 1926, allorché aveva inviato a Stalin, una lettera in cui manifestava il suo dissenso sui metodi interni di conduzione del partito; lettera, peraltro, mai consegnata da Togliatti al destinatario.
è, dunque, evidente che la frase di Grieco «non si può giocare all’opposizione dati i tempi», per un verso, assolveva Stalin per l’eliminazione dei dissidenti e, per l’altro, condannava Gramsci, che di quel dissenso si era fatto portatore: Trotzki, Zinoviev e Kamenev, aveva scritto Gramsci a Stalin, hanno contribuito ad educarci per la rivoluzione, sono stati nostri maestri, non possono essere espulsi.
Quattro anni dopo, sarebbe stato Gramsci a spiegare il «mistero» della lettera: «Può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». Vari elementi inducono a ritenere che, nello scambio di quelle missive, Togliatti avesse giocato un ruolo. Innanzitutto, il compagno Ercoli, già schierato con Stalin, aveva, due anni prima, risposto seccamente a Gramsci «di tenere i nervi a posto», che «il problema era della giustezza o meno della linea seguita dalla maggioranza del comitato centrale del partito comunista sovietico» e che si trattava di scegliere: «o con gli uni o con gli altri», ma, soprattutto, perché questa volta Grieco scriveva per conto di Togliatti. E, del resto, era lo stesso Grieco a scusare Togliatti, per il fatto che non fosse stato lui a scrivere, con questa frase: «la sua avarizia [nello scrivere, n.d.r.] è degna di un rabbino».
Comprensibile, dunque, perché Terracini, nella risposta a Grieco, sarcasticamente affermasse che «per scrivere, oltre al francobollo, occorre un certo quid di sentimenti e di impulsi non cedibili e permutabili». è evidente che i rapporti, non solo politici, ma umani e personali, fra Togliatti e Gramsci, ma anche del primo con lo stesso Terracini, per quanto avveniva in quei giorni non fossero dei più tranquilli; e le lettere di Grieco erano un chiaro invito, rivolto, a Gramsci e a Terracini, affinché si schierassero con Giuseppe Stalin.
La corrispondenza, in quel contesto politico, in cui si decidevano anche le sorti di chi doveva essere scelto a capo della segreteria del PCdI, rispondeva, comunque, ad altre finalità: Stalin, vincitore, si apprestava ad incarcerare e a far giustiziare, in un secondo tempo, tutti i suoi oppositori; all’interno degli Stati europei, l’eversione «comunista» era in atto e veniva fronteggiata anche con leggi eccezionali; concorrente alla segreteria del partito, con Togliatti, che si trovava a Mosca, Gramsci, detenuto a San Vittore in attesa di processo, nella sua difesa, e per ottenere la scarcerazione, aveva sempre sostenuto, pur non rinnegando la sua fede, di non far parte dell’esecutivo del partito; ovvio, dunque, che le lettere di Grieco, nelle quali Gramsci veniva indicato, per la stessa natura delle notizie che gli venivano fornite, come un alto dirigente internazionale del PCdI, inviate senza alcuna cautela, per posta normale, al carcere di San Vittore, dove tutta la corrispondenza dei detenuti veniva controllata, era una vera e propria denuncia, diretta a coloro che lo ritenevano colpevole di eversione contro lo Stato.
Scrivendo alla cognata Tania Schucht, Gramsci sarebbe tornato più volte su quella «strana» lettera, ricevuta nel carcere di San Vittore, nel marzo 1928, e si sarebbe chiesto se fosse stata solo «leggerezza irresponsabile oppure un atto criminale, un atto scellerato», esprimendo il dubbio che chi la scrisse fosse stato «irresponsabilmente stupido» e «qualche altro», meno stupido, lo avesse invece indotto a scrivere. Il riferimento di Gramsci, appare chiaro, è a Palmiro Togliatti. Gramsci era tanto sicuro di quello che affermava che, sempre alla cognata Tania, riferiva l’episodio della consegna di quella lettera da parte del giudice istruttore.
è stato scritto che questo episodio, oltre che gettare sul PCdI l’ombra «di tradimenti, provocazioni, cedimenti», accentuò l’isolamento morale di Gramsci dal partito stesso, fino ad esporlo all’accusa di essere un socialdemocratico, o a quella più infamante di avere ottenuta la libertà di morire nella Clinica Quisisana di Roma, per avere abiurato.
Cap. XXIII
Del ruolo di Stalin e di Togliatti nella guerra civile in Spagna
Dal luglio 1936 all’aprile 1939, si combatté in Spagna una guerra civile, che vide contrapposti i Nacionales, i nazionalisti, cioè, autori del colpo di stato ai danni della seconda Repubblica spagnola, ed i Republicanos, vale a dire le truppe fedeli al governo repubblicano, guidato dal Frente Popular di ispirazione marxista. La Guerra Civile Spagnola, che portò al crollo della Repubblica e segnò l’inizio della dittatura del generale Francisco Franco, fu senza ombra di dubbio uno degli eventi storici chiave del secolo XX, da alcuni definita «ensayo y prólogo» della Seconda Guerra Mondiale, è stata, per ragioni di convenienza, inevitabilmente oscurata: da una parte e dall’altra sarebbe stato poco producente capirne le ragioni e i misteri più profondi. Giustamente si pensa al conflitto come la prima fase dello scontro armato tra fascisti e antifascisti: le forze in campo dal 1936 al 1939 sono le stesse che si daranno battaglia fino al 1945, soprattutto sul fronte fascista, Adolf Hitler e Benito Mussolini a sostegno di Franco; sull’altro fronte, a fianco di un governo democraticamente eletto, solo Russia, Messico e un’infinità di volontari provenienti da tutto il mondo. Il silenzio di Francia, Inghilterra e Stati Uniti è stata la ragione per cui, fino alla morte di Franco, languirono le indagini sul conflitto. L’opposizione di Stalin all’estensione della rivoluzione proletaria in Spagna, già in atto in quasi tutta la Catalogna grazie agli anarchici, finalmente, fu, di fatto, la causa dello sfaldamento interno del Frente Popular e la vittoria di Franco.
A tale ultimo riguardo, secondo Paul Preston, La guerra civile spagnola, Mondadori, Milano 2011, l’obiettivo di Stalin sarebbe stato quello di tenere occupato Hitler sul fronte occidentale. Questo è senza dubbio possibile, tuttavia, non si può trascurare la circostanza che, negli anni Trenta, la politica di Stalin fu caratterizzata da brusche svolte. All’epoca della crisi capitalista del 1929, i dirigenti stalinisti credevano che la rivoluzione fosse vicina e si lanciarono, dunque, in una politica ultra-sinistra settaria. Il potente Partito comunista tedesco chiamava i socialdemocratici «social-fascisti, fratelli gemelli dei fascisti» e fu proprio quella politica di divisione della sinistra a permettere che Hitler prevalesse, nel 1933. La netta inversione di tendenza attuata nel 1934 dall’Internazionale Comunista, invece di realizzare l’unità d’azione tra comunisti e socialisti contro il fascismo, come raccomandato da Lev Trotsky, fece sì che gli stalinisti optassero per la politica dei Fronti Popolari, accordi programmatici opportunisti rispettosi della legalità capitalista, coi socialisti ma anche coi repubblicani borghesi. E furono proprio i governi dei Fronti Popolari a bloccare, nel giugno 1936 in Francia e dal Luglio 1936 al Maggio 1937 in Spagna, l’ondata rivoluzionaria.
Senza voler qui mettere in discussione l’importanza del ruolo del Pci nella Guerra di Spagna, giova evidenziare che essa è stata amplificata sia dalla storiografia sia, soprattutto, dalla memorialistica di parte comunista, che per fare di quel ruolo un mito fondatore hanno dovuto tentare, per la verità con mediocre successo e non senza imbarazzo, di separarlo dal contesto delle decisioni dell’Internazionale comunista. Basta, infatti, periodizzare le diverse fasi dell’afflusso di volontari, per constatarne lo stretto legame con le scelte del Comintern: la partecipazione dei comunisti, non solo italiani, particolarmente ridotta nei primi mesi dopo il 19 luglio 1936, iniziò, invece, a crescere rapidamente dopo la decisione adottata a Mosca il 18 settembre 1936 di impegnarsi maggiormente nel conflitto; tra i primi volontari, del resto, era decisamente prevalente la percentuale di anarchici, socialisti di varie tendenze e antifascisti non organizzati, compresi alcuni degli atleti che avevano partecipato alle Spartakiadi di Barcellona.
Non è casuale, a questo riguardo, che Luigi Longo, nel suo Le brigate internazionali in Spagna, Editori Riuniti, Roma, 1972, affermi, ad esempio, che «fin dai primi giorni della lotta (…) decine e centinaia di lavoratori e di democratici francesi e belgi, di emigrati italiani, polacchi, tedeschi, sfuggiti al patrio fascismo, combattono fianco a fianco con i fratelli spagnoli» (p. 41): la formula «decine e centinaia», anche fin troppo generica, lascia intendere che, in ogni caso, la partecipazione «di lavoratori e di democratici francesi e belgi, di emigrati italiani, polacchi, tedeschi, sfuggiti al patrio fascismo» rimaneva nei limiti di quella che può essere considerata una partecipazione spontanea, fisiologica, dovuta in primo luogo ai militanti di vari paesi già presenti in Spagna per ragioni diverse; compresi sia i non pochi maghrebini immigrati per lavoro che si arruolarono, ma la cui presenza fu quasi sempre taciuta, così da poter affrontare in termini razzisti la questione dei mercenari marocchini arruolati da Franco, sia coloro che per particolare sensibilità e a titolo individuale accorsero rapidamente da paesi limitrofi. Neppure è casuale, d’altra parte, che l’esponente comunista lasci nel vago la composizione politica di quei primi nuclei e faccia ben pochi nomi, così da nascondere l’iniziale esiguità della presenza comunista: erano «comunisti, socialisti, repubblicani, seguaci di Giustizia e Libertà», egli scrive, dimenticando completamente gli anarchici, che avevano invece un peso notevole tra i primi arrivati. Di essi, e anche qui non a caso, Luigi Longo si ricorda solo per denigrare la colonna di «Giustizia e Libertà», naturalmente rendendo omaggio al suo promotore, dato che era morto: «Nonostante il valore e la rettitudine di Carlo Rosselli, che ne è il fondatore e l’animatore», egli scrive, «questa colonna è travagliata e quasi paralizzata da profondi dissidi, e le sue capacità militari sono ridotte a ben poca cosa. (...) Nella colonna Giustizia e Libertà il gran numero di anarchici, refrattari per principio ad ogni subordinazione e centralismo, non aiuta certo a farne una salda ed omogenea unità militare» (ivi, p. 220). Un quadro di maniera, insomma, nel quale si citano gli anarchici solo per evocare lo stereotipo che li presentava come distruttori del potenziale militare della Repubblica, in contrapposizione ai comunisti che invece «per abitudine (...) al lavoro collettivo e ordinato» garantivano «l’unità e la combattività» delle loro formazioni, ma che non tiene conto delle trasformazioni indotte rapidamente dall’esperienza nelle stesse formazioni esclusivamente e rigorosamente anarchiche; funzionale, dunque, sia ad occultare lo scarso peso dei comunisti nella prima ondata di volontariato, sia a non far emergere, soprattutto, che ciò non dipendeva da loro mancanza di entusiasmo e di volontà di accorrere in soccorso della Repubblica, quanto piuttosto dal fatto che l’Internazionale comunista sosteneva che in Spagna ci fosse bisogno solo di armi e non di volontari.
Indiretta testimonianza, così sul ritardo iniziale nell’invio di volontari come, soprattutto, sui fattori esterni che determinarono la svolta del Pci e degli altri partiti del Comintern, la si ricava, del resto, da una nota, in data 27 ottobre 1936, ma che faceva riferimento a una richiesta di chiarimenti dei giorni precedenti, con la quale il Psi contestava al Pci, a cui lo legava un «Patto di unità d’azione», la mancata tempestiva informazione circa la campagna di arruolamenti a cui questo partito aveva dato corso quando, in ottobre, l’Internazionale comunista aveva cambiato bruscamente linea: «Noi avevamo deplorato (...) che a proposito della azione comune in Ispagna, il vostro partito si fosse creduto autorizzato ad iniziative che, a volte, erano in aperto contrasto con gli impegni assunti e in particolare col punto di vista affermato e difeso da vostri rappresentanti in molteplici riunioni. Voi respingete l’assunto poiché “a condizioni modificate doveva corrispondere un’azione diversa”. Sì, cari compagni, a condizioni modificate doveva e deve corrispondere un’azione diversa, ma non un’azione intrapresa in ordine sparso, ma preventivamente coordinata dai due Partiti, senza di ciò non c’è unità d’azione» (in Archivio del Partito comunista, presso Istituto Gramsci, Roma, 1395/66).
è ormai fuori discussione che la maggiore responsabilità dell’Urss e dell’Internazionale stalinizzata sugli esiti della Guerra civile spagnola fu proprio la politica di «non intervento», proposta e attuata zelantemente dal governo del Front populaire francese, di cui i comunisti erano parte essenziale e da cui comunque non si dissociarono: al non intervento proclamato il 4 agosto avevano subito aderito Germania e Italia, che, tuttavia, rifornivano già, fin dall’inizio, i ribelli e che continuavano a inviare aerei e truppe, ma anche, il 23 agosto, la stessa l’Unione Sovietica, coerentemente con il segreto disegno di Stalin di non permettere che la Repubblica venisse definitivamente sconfitta e nello stesso tempo di non aiutarla a vincere; un disegno questo che spiega la ricorrente disposizione, mai completamente abbandonata nel corso della guerra, a considerare la possibilità di un’alleanza con la Germania (Max Beloff, Foreign Policy of Soviet Russia, 1929-1941, London 1947).
Oggi sappiamo, inoltre, che soltanto nella seconda metà di settembre 1936, Stalin aveva deciso sia di dare il via all’Internazionale comunista, impegnatasi da ottobre a garantire un forte afflusso di volontari in Spagna, consentendo la formazione delle Brigate internazionali, sia l’invio di armi, che cominciarono ad arrivare in ottobre, in quantità comunque sufficiente per resistere, ma non per vincere.
Sappiamo, infine, che pur disponendo l’Urss di quadri di altissimo livello, quando venne finalmente spiegato l’intervento, ad un impegno minimo sul piano militare fece, invece, riscontro un impegno formidabile sul piano politico della maggior parte dei «volontari» sovietici, molti dei quali ebbero un ruolo determinante negli assassinii di antistalinisti: per tutto il periodo della guerra civile, un certo numero di «consiglieri» affiancò i capi comunisti spagnoli. In proposito, Pierre Broue ed Emile Témime, La Rivoluzione e la Guerra di Spagna, Sugar, Milano, 1962, scrivono: «Tutti costoro sono circondati da tecnici e da consiglieri la cui esperienza è preziosa e che sono quasi sempre agenti dei servizi segreti russi». L’Internazionale comunista, peraltro, delegò fra gli altri l’argentino Victorio Codovilla, conosciuto sotto lo pseudonimo di Luis Medina, il bulgaro Pavel Stepanov e il nostro Togliatti a prendere in mano la direzione e l’organizzazione del partito. La politica militare del Pce, almeno in un primo tempo, fu invece nelle mani di Vittorio Vidali, uno dei più importanti agenti della Narodnyj komissariat vnutrennich (Nkvd) all’estero, conosciuto in Spagna col nome di Carlos Contreras.
Non è da escludere che, dopo i primi mesi di incertezza e di attesa, il gruppo dirigente sovietico, di fronte ai successi dei franchisti, si fosse preoccupato e quindi interrogato sulle ragioni della complicità anglo-francese con il massiccio intervento di Italia e Germania. In ogni modo, l’intervento dell’Urss venne ufficialmente motivato con l’esigenza di contrastare l’offensiva del fascismo in Europa e con la volontà di raggiungere un accordo antitedesco con le borghesie di Francia e Gran Bretagna, a cui si garantiva il «senso di responsabilità» dell’Urss e del Comintern, cioè un forte impegno per arginare la dinamica rivoluzionaria in Spagna e in Francia. Al tempo stesso, però, è indubitabilmente anche vero che l’uso propagandistico degli aiuti servisse sia sul piano internazionale, per far dimenticare o giustificare lo sterminio dei dirigenti dell’Ottobre 1917, nel corso dei processi di Mosca, sia su quello interno all’Urss, dove milioni di lavoratori sottoscrissero per pagare le armi da dare alla Repubblica.
Gli invii di quelle armi, apparentemente generosi e disinteressati, sia detto per inciso, erano stati pagati, comunque, con le ingenti risorse auree della Spagna, oltre 510 tonnellate di oro, che l’Urss si era fatta consegnare per «metterle al sicuro» e che, in realtà, trattenne dopo la fine della Repubblica.
Quello che, insomma, i sovietici presentarono come «aiuto disinteressato» era invece un ottimo affare economico oltre che una corda al collo del governo repubblicano: il decreto per «mettere in salvo l’oro» era stato adottato il 13 settembre 1936, quando Madrid non era in pericolo, dal governo di Francisco Largo Caballero, su impulso del ministro delle Finanze, il socialista di destra Juan Negrín, dimostratosi, ad ogni effetto ed anche in seguito, prezioso complice dell’Urss: nel 1937, divenuto primo ministro, avrebbe avallato perfino la versione dell’evasione, funzionale a coprirne l’assassinio, di Andrés Nin, esponente apicale del Partido Obrero de Unificación Marxista (Poum), alternativo al Partido Comunista Español (Pce), legato invece alla Terza Internazionale e a Stalin. Il segreto sulla consegna dell’oro, ovviamente, venne mantenuto gelosamente per tutta la durata della guerra, smentendo sempre categoricamente ogni voce in proposito, così da consentire all’Urss di assicurarsi anche il monopolio delle forniture, mentre i diplomatici in Messico stipulavano contratti per acquistare aerei statunitensi, non onorati per mancanza di denaro.
Stalin era mosso, comunque, anche dall’intento di «conquistare a tutti i costi» il controllo politico e militare sulla situazione spagnola. E condizione essenziale per conseguire questo obiettivo era l’eliminazione di ogni opposizione, imponendo al paese un governo totalitario, che interpretasse ogni critica come un tradimento. Questo spiega perché dovunque si scatenò «la lotta per il potere e per il comando»: nell’amministrazione statale, nell’esercito, nelle organizzazioni politiche, nei partiti, nelle fabbriche, nelle campagne, nei trasporti.
La pressione poliziesca, la corruzione, l’inganno, una martellante propaganda, la spregiudicatezza tattica, ma anche l’efficienza, l’autoritarismo e la monoliticità delle organizzazioni comuniste unitamente alla capacità di sacrificio dei suoi militanti e all’eroismo dei suoi combattenti migliori nelle zone di guerra, furono all’origine del successo.
Furono i servizi segreti sovietici a organizzare la faida interna alle milizie di volontari socialisti, comunisti, repubblicani, democratici e anarchici, per eliminare i non allineati all’Internazionale Comunista guidata da Mosca.
Con metodi che andavano dalla calunnia, all’arresto fino all’assassinio, venne spaccato il Frente Popular in due tronconi e gli stalinisti del Pce e del Partit Socialista Unificat de Catalunya (Psuc), vicini al sindacato Unión General de Trabajadores (Ugt), si sbarazzarono dei loro alleati e delle loro milizie operaie: gli anarcosindacalisti dell’organizzazione di massa Confederación Nacional del Trabajo (Cnt), l’organizzazione politica specifica Federación Anarquista Ibérica (Fai), i comunisti dissidenti e i trotzkyisti del Poum.
Per effetto dell’azione extraparlamentare del Pce i governi caddero o mutarono composizione: di fronte a un partito socialista diviso in fazioni, i comunisti sfruttarono con grande abilità i contrasti interni, secondo una tecnica di cui erano maestri, la ricerca dell’anello più debole, appoggiando ora l’uno ora l’altro, rovesciando la posizione il giorno dopo e così di seguito: per neutralizzare Francisco Largo Caballero, sostennero Prieto e Negrín; per farla finita con Prieto, utilizzarono Negrín.
L’atteggiamento di Stalin nei confronti della rivoluzione spagnola segnala il fastidio e il timore che potesse avere successo una rivoluzione libertaria e non manipolabile, la quale avrebbe potuto rappresentare un punto di riferimento alternativo e credibile, nel movimento operaio europeo e nella stessa classe operaia sovietica, che non a caso espresse con tanto entusiasmo la sua solidarietà. Se ne ricava una conferma nel comportamento verso le rivoluzioni jugoslava e cinese, dapprima osteggiate e con cui quando arrivarono comunque al successo Stalin e i suoi successori arrivarono a scontrarsi.
Quanto al ruolo degli stalinisti in Spagna, Lev Trotsky affermerà: «Gli stalinisti furono i più coerenti all’interno del blocco dirigente. Furono la punta della controrivoluzione borghese-repubblicana. Miravano ad eliminare la necessità del ricorso all’intervento dei fascisti dimostrando alla borghesia spagnola e mondiale che sarebbero stati in grado di soffocare la rivoluzione proletaria apponendovi il sigillo della “democrazia’’. Questa fu l’essenza della loro politica» (The Class, The Party, and the Leadership. Why Was the Spanish Proletariat Defeated? Questions of Marxist Theory, 20 agosto 1940).
Andrés Nin, fondatore del Poum, in precedenza aveva detto dei socialisti del Psuc, che «Consolidare la Repubblica era il loro motto, e consolidare la Repubblica significava dare alla borghesia la possibilità di superare i momenti più difficili e, una volta rafforzate le proprie posizioni, portare l’attacco a fondo contro il proletariato» (cfr. Reazione e rivoluzione in Spagna).
Se si confrontano questa affermazione di Nin con quella di Trotsky, quantunque l’una sia riferita al Partito Socialista e l’altra agli stalinisti, si capisce come la collaborazione di classe sia stato un elemento caratterizzante tanto la socialdemocrazia quanto lo stalinismo: non è un caso che Stalin stesse rispolverando proprio in quegli anni la rivoluzione a tappe di Leonid Martynov.
Impegnato nel massacro della vecchia guardia bolscevica con la macabra montatura dei processi di Mosca, fece sterminare l’85% dei quadri protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre, Stalin stava infatti procedendo alla costruzione di una forma totalitaria di capitalismo di stato, servendosi della tecnologia americana ed estraendo il plusvalore grazie anche all’ausilio del terrore. Con grande meticolosità, aveva estromesso anche dai partiti aderenti al Comintern gli ultimi partigiani della rivoluzione mondiale, riducendo l’Internazionale a strumento di sostegno dell’Urss e di esaltazione del mito della costruzione del «socialismo in un solo paese». I capi dell’Urss, che si apprestavano a fare un patto di spartizione imperialistica prima con Hitler, poi con gli Alleati, di tutto avevano dunque bisogno, fuorché della nascita di un vero potere proletario, in un’altra parte del mondo. La repubblica dei soviet catalana avrebbe potuto divenire un punto di riferimento per il movimento rivoluzionario internazionale, alternativo a Mosca, e avrebbe potuto ridare forza all’opposizione di classe in Urss, per questo essa andava schiacciata. Ed è per questo che, quando, nell’autunno del 1936, Mosca aveva deciso di intervenire nel conflitto, lo aveva fatto imponendo la parola d’ordine: «Prima vincere la guerra, poi fare la rivoluzione»; con il corollario pratico: «Affossare al più presto, e con ogni mezzo, la rivoluzione spagnola».
In Catalogna, i sovietici avevano, tuttavia, ben pochi alleati. Gli stalinisti del Psuc erano poche migliaia: perlopiù piccolo borghesi, tanto che l’organizzazione venne ben presto ribattezzata «il partito dei bottegai». Ad essi, la borghesia locale finì con l’affidarsi come all’ultima àncora di salvezza. Il governo repubblicano, ormai terrorizzato dall’avanzata proletaria, diede carta bianca agli agenti inviati dal Comintern, tra cui Togliatti, Vidali, Longo, Orlov. Scrisse, in proposito, l’anarchico italiano Camillo Berneri: «Tutto ciò mi puzza di Noske», alludendo a Gustav Noske, il ministro socialdemocratico degli Interni, che nel 1919 aveva fatto assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, per reprimere la rivoluzione tedesca.
La posizione degli stalinisti fu chiara fin da subito: difendere ad ogni costo la proprietà privata, rovesciare il processo di socializzazione. In quei giorni, Santiago Carrillo, uno dei leader del Psuc giunse a dichiarare: «Noi non siamo marxisti, noi lottiamo per una repubblica democratica parlamentare». E Stalin, in una lettera a Francisco Largo Caballero: «è necessario precisare che il governo spagnolo non tollererà alcun atto ai danni della proprietà privata».
Poiché non si doveva, dunque, fare la rivoluzione, ma vincere la guerra, per dar vita a una democrazia di «tipo nuovo», venne liquidato ogni potere rivoluzionario che spontaneamente si fosse formato nei Consejos o Juntas degli operai e contadini, e si procedette alla restaurazione dello Stato. Tutti i capi del comunismo spagnolo insistevano sul fatto che non si trattasse di una rivoluzione proletaria, ma di lotta nazionale e popolare contro la Spagna semifeudale e contro i fascisti stranieri, come pure di un episodio della lotta mondiale che metteva di fronte i «democratici» da una parte e la Germania e l’Italia dall’altra. Secondo José Diaz, «lanciarsi in tentativi di socializzazione e di collettivizzazione (… era) assurdo ed equivale(va) a diventare complici del nemico».
In The Spanish Cockpit: An Eyewitness Account of the Spanish Civil War, (University of Michigan Press, 1963), dedicato al primo anno della guerra, Franz Borkenau sintetizza così la situazione: «I comunisti non si opporranno solamente al dilagare delle socializzazioni, ma si opporranno a ogni forma di socializzazione. Non si opporranno solamente alla collettivizzazione dei lotti contadini, ma avverseranno con successo ogni politica determinata dalla distribuzione delle terre dei grandi proprietari terrieri. Non si opporranno soltanto, a giusto titolo, alle idee puerili dell’abolizione locale del danaro, ma avverseranno addirittura il controllo dello Stato sui mercati»; e ancora: i comunisti hanno «non solo organizzato una polizia attiva, ma per le forze di polizia dell’antico regime, tanto odiato dalle masse, hanno sempre mostrato una deliberata preferenza. In una parola agivano non certo con l’obiettivo di trasformare l’entusiasmo caotico in entusiasmo disciplinato, ma con lo scopo di sostituire un’azione militare e amministrativa disciplinata all’azione delle masse e di sbarazzarsene completamente».
Il punto più alto della controrivoluzione lo segnarono le vicende del maggio 1937.
Già a fine settembre del 1936, il governo borghese della Catalogna aveva cominciato a rialzare la testa. Gradualmente, con l’intervento delle ricostituite forze della repressione statale, il potere venne strappato dalle mani dei comitati operai, e riconsegnato alle vecchie istituzioni borghesi. A vigilare sul buon esito delle operazioni furono schierate nuove forze di polizia, ben armate e sottoposte al diretto controllo degli stalinisti. Col passare dei mesi, la reazione divenne ancora più aperta. Il 5 marzo del 1937, Nin venne denunciato come «agente del fascismo». Il 31 fu la volta dell’anarchica Cnt, che, nonostante ostentasse supina sudditanza nei confronti delle istituzioni borghesi, fu accusata di «difendere i traditori trotzkisti e dar spazio a oscuri elementi falangisti». Dalle calunnie alle pallottole alla nuca, il passo fu breve.
Nei primi giorni di maggio del 1937, di fronte all’ennesima provocazione, il proletariato catalano decise di reagire: lunedì 3 maggio 1937, i ripetuti scontri tra il governo di Frente Popular della Generalitat di Catalogna e gli operai di Barcellona, in gran parte anarcosindacalismi, arrivarono ad un punto decisivo. Allorché tre camion carichi di Guardias de Asalto, guidate dal capo stalinista della polizia, cercarono di impadronirsi della Telefónica, la centrale principale dei telefoni, strappandola ai lavoratori della Cnt, che la occupavano e che controllavano quel centro strategico delle comunicazioni, gli operai di tutta la città si riversarono nelle piazze ed eressero delle barricate, violando tra l’altro le espresse direttive dei dirigenti anarchici; per qualche breve giorno la città tornò sotto il controllo operaio: le forze armate borghesi vennero rapidamente sconfitte; i marinai dell’insediamento navale fraternizzarono con gli insorti. Secondo il testimone oculare Lois Orr (May Events. A Revolution Betrayed, «Information Bulletin» [Issued by the International Bureau for the Fourth Internationl], luglio 1937, p. 1), «Martedì mattina i lavoratori in armi dominavano la maggior parte di Barcellona. La fortezza di Montjuich, che coi suoi cannoni controlla il porto e la città, era tenuta dagli anarchici; la collina del Tibidabo, il porto e tutti i sobborghi della città in cui vivono gli operai erano sotto il loro controllo; e le forze governative, eccezion fatta per alcune barricate isolate, erano state completamente sopraffatte e si concentravano nel centro della città, nei quartieri residenziali borghesi, dove potevano facilmente essere circondate da ogni lato come lo erano stati i ribelli il 19 luglio 1936». Poi, nuovamente, mancando una chiara direzione politica l’opportunismo ebbe il sopravvento: sul finire della settimana i lavoratori furono disarmati e le loro barricate smantellate, non a seguito di una sconfitta militare, bensì del sabotaggio, della confusione e del disfattismo seminati da «dirigenti operai traditori». L’obiettivo di smantellare le barricate, mancato dagli stalinisti, che pure costituivano, almeno secondo Trotsky, «l’avanguardia combattente della controrivoluzione borghese-repubblicana», venne conseguito dai capi della Cnt e del Poum, i cui militanti presidiavano le barricate stesse. Mentre gli operai insorti erano infuriati per il tradimento dei loro dirigenti, soltanto i trotskisti della Sección Bolchevique-Leninista de España (Sble) e gli anarchici di sinistra degli Amigos de Durruti, i quali, pur non essendo in grado di rompere né organizzativamente né politicamente con la Cnt, cercarono di spingere in avanti la rivoluzione. Quello era il momento decisivo: la vittoria a Barcellona avrebbe potuto portare ad una Spagna operaia e contadina e infiammare l’Europa in una lotta rivoluzionaria alla vigilia della Seconda guerra mondiale. La sconfitta, invece, aprì la strada ad una pesante repressione, che comportò la soppressione del Poum e l’assassinio o l’imprigionamento dei suoi dirigenti.
Il 17 maggio 1937 cadde il gabinetto di Largo Caballero e Juan Negrín divenne capo del governo. La stampa stalinista si scatenò contro l’insurrezione, il Poum venne sciolto e tutti i suoi dirigenti arrestati. Andrés Nin venne consegnato alla polizia politica, torturato ed assassinato. Numerosi militanti trotskysti furono uccisi. Venne creata una polizia speciale: controllata dal PCE e da «tecnici» russi. Alla fine del 1937, gli invii di armi diminuirono velocemente e quasi tutto il personale civile e militare russo che era stato in Spagna dall’inizio della guerra cadde in quell’oscuro, silenzioso, orrendo olocausto delle terribili repressioni di massa e della liquidazione della vecchia guardia bolscevica nell’Urss.
è probabile che il clima della rivoluzione, la prima sia pur momentaneamente vittoriosa dopo quella d’Ottobre, avesse finito per contagiare anche una parte di coloro che erano stati inviati per svolgere ruoli infami, come l’ambasciatore Marcel Rosenberg, il suo vice e successore Jacob Gaikins, Mikhail Koltzov «corrispondente fittizio» della Pravda, i generali Emil Kleber e Ivan Antonovic Berzin detto «Goriev», il console a Barcellona Volodymyr Oleksandrovyč Antonov-Ovssenko. D’altronde, il sospetto d’essersi fatto contagiare dal clima rivoluzionario circondava perfino un esecutore zelante dei crimini staliniani, come Vittorio Vidali, il quale, nelle sue memorie, assicura di essere stato avvertito da Elena Stassova che per lui era più salutare non recarsi in Urss dopo il ritiro delle Brigate Internazionali dalla Spagna, come invece, gli era stato proposto. Sarà forse stato un caso, ma anche molti dei militanti comunisti sterminati negli anni Cinquanta in Ungheria e in Cecoslovacchia, nel quadro e ai margini dei processi a Rudolf Slánský e a László Rajk, avevano fatto parte delle brigate internazionali.
Stando alle testimonianze di molte persone, per esempio di Jesús Hernández ministro della Repubblica spagnola, già membro della direzione del Pce e dell’esecutivo del Comintern; di Julián Gorkin, già dirigente del Poum e direttore del giornale La batalla, del leggendario generale Campesino; dell’ex-commissario generale delle Brigate internazionali ed «eroe del Mar Nero» André Marty, nonché di numerosi altri maggiori e minori testimoni, e infine anche secondo lo storico della guerra civile spagnola, l’inglese Hugh Thomas (The Spanish Civil War, 2001), risulta che Togliatti si fosse stabilito in Spagna sin dall’agosto 1936: e, «pur facendosi vedere il meno possibile», dedicasse «il suo lavoro completamente alle questioni spagnole, a quelle del partito comunista e del movimento popolare spagnolo».
Si racconta che in una riunione dell’Ufficio politico del partito comunista spagnolo, tenuta nell’aprile 1937, alla quale avrebbero assistono Codovilla, Stepanov, Marty, Togliatti, Geroe, Gaikins e per la prima volta lo stesso Orlov della Gosudarstvennoye Politicheskoye Upravlenie (Gpu); in essa Togliatti avrebbe posto senza mezzi termini il problema dell’estromissione dal governo di Francisco Largo Caballero; Díaz e Hernández avrebbero protestato: il primo rivendicando la necessità di una politica conseguente verso gli uomini e i partiti, ma anche asserendo non gli sarebbero state chiare le ragioni per le quali si voleva sacrificare Caballero e sostenendo che ciò equivaleva ad attirarsi «l’inimicizia della maggioranza del partito socialista e degli anarchici», poiché si sarebbe potuto dire «che i comunisti pretendono esercitare un’egemonia nella direzione della guerra e della politica»; per Hernández, l’affare Caballero non avrebbe avuto alcun senso politico: grazie a Caballero, i comunisti avevano potuto organizzare il Frente Popular, unificare i movimenti giovanili, collaborare con il Partito socialista e con gran parte dell’anarchismo; Caballero aveva garantito la predominanza comunista nell’esercito, non si era neppure opposto all’attribuzione dei migliori armamenti alle «unità» comuniste e s’era mostrato docile ai consigli dei tecnici sovietici; rompere con lui avrebbe significato spezzare il «nostro fronte di lotta»: perché, a che scopo? Non Mosca, secondo Stepanov, ma «la Storia» condannava Caballero, in quanto dopo la costituzione del suo governo «noi andiamo di catastrofe in catastrofe»; A sua volta Gaikins avrebbe spiegato: «Caballero non vuole ascoltare i nostri consigli. Pochi giorni fa ha congedato Rosenberg quasi brutalmente, perché chiedeva con insistenza la soppressione del giornale La batalla e la messa fuorilegge del Poum»; finalmente Diaz e Hernández, pur non modificando la loro opinione, avrebbero dichiarato di rimettersi alle decisioni della maggioranza; Togliatti, a quel punto avrebbe senz’altro invitato l’Ufficio politico a occuparsi dell’organizzazione della campagna contro Caballero e «soavemente» suggerito di cominciare con un grande comizio a Valenza «nel corso del quale il compagno Hernández farà un discorso; sarà di grande effetto politico che un ministro dello stesso governo Caballero si levi contro il presidente».
Da parte sua, Palmiro Togliatti così racconta, invece, su Rinascita del 19 maggio 1962, la sua partecipazione alla guerra civile di Spagna: «Quando io giunsi in Spagna, Negrín era già capo del governo e non ebbi quindi parte alcuna nelle vicende politiche che dettero origine alla caduta di Largo Caballero (...). In Parigi mi giunse la comunicazione pura e semplice di Dimitrov di recarmi in Spagna e mettermi a disposizione del partito spagnolo». Anche i suoi biografi «ufficiali», Marcella e Maurizio Ferrara, affermano che Togliatti non giunse in Spagna prima del luglio 1937 e che «si doveva far vedere il meno possibile».
In realtà, Togliatti non poteva aver partecipato né alla riunione in cui si sarebbe decisa la caduta di Francisco Largo Caballero, né a quella in cui si sarebbe deciso l’assassinio di Andrés Nin: in quel periodo, il «compagno Ercoli», da buon burocrate controrivoluzionario faceva la spola tra l’Urss e la Francia, per coordinare la campagna di menzogne che doveva far accettare nel mondo l’assassinio dei principali dirigenti comunisti nei Processi di Mosca. Ma questo, se dimostra che Hernández era un turpe personaggio prima di entrare nel Pce, che assurdamente lo designò come ministro dell’istruzione, e che rimase tale durante la sua ascesa nel partito e nel governo, ma anche ovviamente dopo aver rotto col partito, e che quindi per nascondere le sue colpe non esitò a inventare particolari fantasiosi per scaricare le sue stesse responsabilità ad altri, non può essere addotta, da sola, a discolpa del «Migliore» dall’accusa di essere stato subordinato a Stalin né lo assolve dalle sue responsabilità dirette, nella repressione di tutte le tendenze di sinistra, accomunate sistematicamente ai «trotsko-fascisti».
A negargli ogni autonomia che, del resto, non volle mai avere, rispetto a Stalin, di cui fu fedele collaboratore, ma senza mai un’ombra di coraggio umano, al punto di rifiutarsi di muovere un dito perfino quando suo cognato Paolo Robotti, avevano sposato due sorelle, fu arrestato, a Mosca, dall’Nkvd, e ad esaltarne le responsabilità per la sua supervisione della politica dell’Internazionale comunista in Spagna, spacciata come una battaglia per la democrazia, ma che, in realtà, sacrificò la rivoluzione alle esigenze della burocrazia sovietica di «offrire garanzie di rispettabilità» alla borghesia franco-britannica, s’incaricano i testi delle relazioni da lui stese per l’Internazionale tra il 1936 e il 1939. In essi, rimproverava, infatti, il Pce per le esitazioni e il pur docile governo Negrín di non aver colpito abbastanza duramente gli anarchici incontrollabili e il Poum, criticando pure il Pce, propenso a ritenere che «la controversia con gli anarchici (dovesse) essere regolata con le armi»: visto che i rapporti di forza, almeno in Catalogna, non lo consentivano, tanto valeva «compiere sforzi per attrarre nuovamente gli anarchici alla collaborazione nel governo» che aveva già dato buoni frutti durante il governo di Largo Caballero. Da questi scritti, infatti, secondo Paolo Spriano (Il compagno Ercoli. Togliatti segretario dell’Internazionale, Editori Riuniti, Roma 1980), emerge un dirigente «differente dallo stereotipo per il quale in Spagna avrebbe assolto alla funzione di persecutore di anarchici», mentre rivelano un intelligente e cinico fastidio nei confronti della repressione indiscriminata, a cui proponeva di sostituire un’azione più articolata e selettiva.
In particolare, come risulta da una relazione del 30 agosto 1937 (in Palmiro Togliatti, Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 261), si trattava, per Togliatti, di attrarre i dirigenti della Cnt, riformisti prudenti e «realisti», dunque sensibili alle lusinghe della collaborazione di classe, perché così sarebbe stato possibile «seminare discordia nelle loro file», combattendo più facilmente quella che egli definiva «l’ala illegale costituita dai trotskisti e dagli anarchici» irriducibili, assimilati ai primi perché agivano «illegalmente e illegalmente» pubblicavano «opuscoli, venduti come organo della Fai». Inutile dire che decidere cosa fosse «illegale» era naturalmente una sua prerogativa. Evidente il suo compiacimento, in un rapporto del 28 gennaio 1938, per avere il partito «conosciuto una serie di successi, sia con la persuasione, sia con la pressione», vale a dire, l’istituzione dei «tribunali speciali contro i disfattisti, i diffusori di stampa fascista e trotskista», ch’egli sempre accomunava, la «dissoluzione del Poum» e la sua eliminazione dagli organi rappresentativi locali in cui era stato eletto.
Con buona pace della «democrazia» per cui si lottava in Spagna. Più tardi, il 12 marzo 1939, in un rapporto immediatamente successivo al colpo di Casado, che attribuiva naturalmente ai soliti trotskisti, sorvolando sul fatto che gran parte dei militari insorti avevano la tessera del Pce ed erano stati lusingati ed esaltati contro il «disordine delle milizie», descriveva lo sfaldamento dell’esercito, la fuga di molti quadri del partito e del governo e dello stesso Negrín, sospettato, quindi, a questo punto, di complicità con Casado. Ributtante il suo cinismo allorché ammette: tentando una resistenza «ci mancherebbe pure l’appoggio delle masse», sicché «potremmo mantenere le retrovie solo a condizione di scatenare il terrore, fucilazioni in massa di dirigenti di altri partiti, ecc., cose che nell’attuale situazione non sono consigliabili».
In un più ampio testo del 18 marzo 1939, a sconfitta consumata, firmato «Comitato centrale del Partito comunista di Spagna», ma scritto di suo pugno, si denunciavano, a riprova che egli potesse addirittura decidere non solo cos’era legale o illegale, ma perfino chi fosse o no spagnolo, «membri della FAI, anarchici con un passato più o meno oscuro e con un grado di appartenenza alla nazione assai dubbio»; e veniva bollato lo stesso partito socialista come approdato «al trotskismo controrivoluzionario poliziesco». Questo testo non fu mai diffuso, per essersi il partito ormai liquefatto, ma sulla bozza egli aveva comunque cancellato la tradizionale dizione «sezione dell’Internazionale comunista», che pure aveva scritto e che poi aveva ritenuto inopportuna in quel contesto catastrofico, in cui era emerso su larga scala il risentimento nei confronti dell’Urss, a cui giustamente l’Internazionale comunista veniva associata. Una vera e propria ossessione per i trotskisti, che spuntano da ogni parte, emerge nel bilancio quasi definitivo tracciato il 21 maggio 1939, catalogato come strettamente confidenziale.
Pur partendo da un riferimento alla capitolazione di Monaco, non c’è in quel documento nessuna analisi delle basi oggettive della demoralizzazione, e ancor meno un accenno alle ragioni della fine degli aiuti sovietici e del ritiro delle Brigate internazionali, ma tutto quel che è accaduto viene attribuito ad un complotto. Vi si afferma, tra l’altro, dimenticando magari l’Autore di essere un italiano inviato da Mosca a guidare il partito comunista spagnolo, che «la lotta contro il governo Negrín, contro il fronte popolare e contro il partito comunista era (…) ispirata e diretta dall’estero». Nella lista dei sobillatori figurano anche «gli agenti della II Internazionale». Ma nessun dubbio su chi avesse avuto la maggiore responsabilità per il crollo della Repubblica: «Dal punto di vista ideologico il trotskismo, collegato con gli estremisti e i provocatori anarchici, ha svolto il ruolo principale. Elementi del Poum penetravano nel partito socialista (Pso), nelle organizzazioni anarchiche (Cnt e Fai), nei sindacati (Ugt), nei partiti repubblicani ed anche nell’organizzazione della gioventù (Jsu) e vi portavano la lotta contro l’unità, contro il fronte popolare e contro il partito comunista». (Palmiro Togliatti, Opere, cit. p. 345). Giunti alla rituale e prevedibile «autocritica» del Pce e dell’Internazionale comunista, si scaricano tutte le colpe sul secondo governo Negrín, di cui si ammette: «ha collaborato più strettamente con la direzione del partito comunista, e che più ampiamente e più rapidamente dei precedenti ha accettato e realizzato le proposte del partito» (Ivi, p. 347). Le cause degli insuccessi evidenti si rinvengono nelle «debolezze», talvolta banali, come le divisioni interne, di cui, però, non si spiega l’origine, altre volgari e ingenerose, e anche bizzarre, sol che si pensi alla strenua difesa di Negrín, in cui l’Autore s’era speso: «Fra le debolezze di Negrín occorre anche menzionare il suo stile di lavoro, quello di un intellettuale sregolato, fanfarone, disorganizzato e disorganizzatore, e la sua vita personale, quella di un bohêmien non senza qualche segno di corruzione (donne)» (Ivi, p. 248): si usa e si getta! Era, del resto, già toccato a Francisco Largo Caballero, passato da «Lenin spagnolo» a trotskista. A questo punto, le critiche alla debolezza del governo si fanno più precise: «Nella lotta contro la quinta colonna e contro i trotskisti», ulula assatanato l’Autore, «si è verificato fra il mese di agosto e il mese di ottobre un periodo di debolezza, caratterizzato soprattutto dal risultato scandaloso del processo contro il Poum che terminò senza nessuna condanna seria (pena massima: 15 anni)» (Ivi, p. 249): pochi, vivaddio, per un reato di opinione! Alla luce di queste critiche a quel processo, si capisce meglio la logica dell’assassinio di Andrés Nin, che, naturalmente, mai viene citato nel rapporto. La responsabilità della «debolezza» del governo, di cui si da per scontato che la magistratura deve essere il braccio, viene attribuita ancora agli onnipresenti trotskisti: «In questa occasione ebbe modo di rivelarsi l’azione nefasta del ministro della giustizia, González Peña, caduto sotto l’influenza del trotskismo durante il suo viaggio nel Messico, e di Paulino Gómez, che nel corso del processo proibì alla stampa qualsiasi campagna contro i traditori trotskisti. Il partito condusse (con sensibile ritardo) la sua agitazione con pubblicazioni illegali e protestò energicamente giungendo a provocare le dimissioni del ministro degli interni. Negrín si disse d’accordo in tutto con noi, ma fece macchina indietro in seguito alla pressione del partito socialista (che minacciò di aprire una crisi), della II Internazionale e di ogni sorta di canaglia. Il suo intervento avvenne con molto ritardo e non fu energico. La lotta dell’apparato dello Stato contro i trotskisti e contro la quinta colonna fu assai intensa e buona in novembre, gennaio, ma soltanto in Catalogna».
Cap. XXIV
La lotta del fascismo alla mafia
La propaganda fascista è stata da sempre abilissima nel dipingere il regime mussoliniano quale acerrimo nemico della mafia.
La vulgata vuole che la lotta alla mafia da parte del regime abbia avuto inizio nel 1924, a seguito di una visita, il 6 maggio, del presidente del Consiglio, Benito Mussolini a Palermo, Trapani e Girgenti: recatosi a Piana dei Greci, oggi Piana degli Albanesi, racconta Giuseppe Tricoli (Mussolini a Palermo nel 1924, ISSPE, Palermo 1993), ebbe modo di «prendere coscienza, col suo sensibile intuito, della nozione di mafia, come costume, come “morbosità psichica”, come autorità di tipo tribale». Sicché, tornato a Roma, convocò il ministro dell’Interno Luigi Federzoni perché nominasse prefetto di Trapani Cesare Mori.
Costui, figura mitizzata dal fascismo, quando nel 1922 era prefetto di Bologna s’era dimostrato inflessibile nell’applicazione della legge, essendo fra i pochissimi rappresentanti degli organi di repressione dello Stato, che considerassero lo squadrismo fascista al pari del «sovversivismo» di sinistra e, quindi, da reprimere in egual maniera. Duramente contestato dal fascismo rampante, per aver bloccato una spedizione punitiva di squadristi, Mori era stato dispensato dal servizio attivo e si era ritirato in pensione a Firenze, quando venne richiamato in servizio e nominato prefetto di Trapani, dove arrivò il 2 giugno 1924 e dove rimase fino al 12 ottobre 1925.
Come primo provvedimento, Cesare Mori ritirò subito tutti i permessi relativi alla detenzione e al porto d’armi e, nel gennaio 1925, nominò una commissione provinciale che provvedesse ai nulla osta, resi obbligatori, per il campieraggio e la guardianía, attività tradizionalmente controllate dalla mafia.
Dopo l’ottimo lavoro in provincia di Trapani, Cesare Mori venne nominato prefetto di Palermo, dove si insediò il 20 ottobre 1925, con poteri straordinari e con competenza estesa a tutta la Sicilia, al fine di sradicare il fenomeno mafioso nell’isola. Qui, dove rimase fino al 1929, attuò una durissima repressione della malavita e della mafia, colpendo anche bande di briganti e signorotti locali, anche attraverso metodi extralegali, fra cui la tortura, la cattura di ostaggi fra i civili e il ricatto, con l’esplicito appoggio di Mussolini, ottenne significativi risultati e la sua azione continuò per tutto il biennio 1926-27.
Anche nei tribunali le condanne per i mafiosi cominciarono a essere durissime.
L’azione condotta dal prefetto Mori e i suoi incontestabili risultati pratici di eradicazione del fenomeno furono, tuttavia, condizionati dalle relazioni che vi furono fra mafia ed esponenti locali del fascismo. E se è pur vero che numerosi mafiosi furono arrestati durante il fascismo, soprattutto nell’epoca del «Prefetto di Ferro», è vero, tuttavia, che, il fascismo, dopo la grande retata di «pesci piccoli» realizzata da Cesare Mori, venne a patti con l’«alta mafia».
Nel 1929, il «Prefetto di Ferro» venne richiamato a Roma e nominato senatore, mentre la Sicilia veniva, in un certo senso, «restituita» ai capi mafiosi ormai fascistizzati: i condoni e le amnistie, subito concesse dal governo dopo il richiamo di Mori favorirono molti pezzi da novanta, che, appena tornati in libertà, si schierarono subito a sostegno del regime, anche se, dopo il 1943, gabelleranno i pochi anni di carcere o di confino, come prova del loro antifascismo (Christopher J. Duggan, La mafia durante il fascismo, Rubettino, Soveria Mannelli 2007); i fascisti, peraltro, non ebbero scrupoli nel liberare molti dei mafiosi detenuti, quando si trattò di utilizzarli in sporche operazioni contro gli antifascisti.
Emblematica dei rapporti tra la mafia e il fascismo, che poi si intreccerà con l’intervento dei servizi segreti americani, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, fu la protezione accordata dal regime, nel 1935, a Vito Genovese, il quale si sarebbe sdebitato con la costruzione della «Casa del fascio» di Nola e l’assassinio dell’anar-
chico Carlo Tresca, di cui fu probabilmente il mandante, materialmente eseguito da Carmine Galante.
L’omicidio di Carlo Tresca, personaggio scomodo, che denunciava pubblicamente i falsi antifascisti, permise di stendere un velo oscuro sugli ex-fascisti, che cercavano di sbarazzarsi del loro scomodo passato e di riciclarsi come antifascisti. Esemplare, in tal senso, fra i tanti, il caso di Generoso Pope, prima sostenitore di Mussolini, poi antifascista dell’ultima ora, entrato a far parte dell’americana Mazzini Society, proprio quando questa era dilaniata dalla lotta intestina per l’ammissione di alcuni italiani, trasferitisi negli Usa, con un passato di sostegno al fascismo, nei comitati del Fronte Unito Antifascista, costituito nel 1943.
Vito Genovese, anche nel periodo post bellico, ormai affiliato alla famiglia di Joseph Bonanno, avrebbe avuto un enorme potere in Sicilia, dopo lo sbarco alleato, dimostrando una costante, duratura e ascendente importanza.
Quanto sin qui evidenziato contraddice, o quantomeno ridimensiona pesantemente, le tesi dello scontro irriducibile, tra mafia e fascismo: sia prima sia dopo l’8 settembre 1943, mafia e fascismo intrattennero rapporti ben saldi, al punto che collaborarono, ai fini della repressione dei movimenti socialisti, comunisti e anarco-rivoluzionari, che si andavano a sviluppare in Sicilia.
Per quanto lento, il processo di contagio e contaminazioni tra Stato e mafia, in tessuti, quali l’istituzionale e l’economico, un tempo antagonisti, si è sviluppato per tappe e acquisizioni successive: la monarchia sabauda, in cambio della propria legittimazione, riconobbe lo status quo feudale nel sud; la mafia, da parte sua, ha rappresentato, in seguito, un costante interlocutore per la Repubblica, dalle trattative per preparare lo sbarco alleato in Sicilia al sistema di scambio votofavore dell’epoca democristiana.
In tale contesto, il ruolo della capitale morale settentrionale, cioè Milano, è andato focalizzandosi sulla controparte legale, il riciclaggio di denaro.
Un equilibrio che si è tuttavia definitivamente infranto a cavaliere del 1980, con lo scoppio di una sanguinosa guerra intestina, che, con un bilancio assimilabile a una guerra civile, ha portato al prevalere dei clan più arretrati e feroci, i corleonesi, e a una tardiva reazione istituzionale.
Cap. XXV
L’assassinio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli
Pochi drammi della Storia possono eguagliare l’assassinio di Carlo e Nello Rosselli, i due antifascisti fiorentini uccisi il 9 giugno 1937, nella Bassa Normandia, da sanguinari sicari del movimento Osarn (Organisation Sécrète d’Action Révolutionnaire Nationale), detto anche la «Cagoule», per via del cappuccio che gli aderenti usavano indossare nel corso delle loro riunioni segrete.
I due sparatori si chiamavano Jean Filliol, 28 anni, e Férnand Jakubiez, 27 anni. Il processo nei loro confronti ebbe inizio il 2 marzo 1939, ma si interruppe con lo scoppio della guerra e la presa del potere da parte del filofascista generale Pétain, non senza, però, che prima avessero rivelato che il duplice omicidio era stato loro commissionato da «camerati» venuti da Roma. Fatto più che attendibile: Carlo Rosselli era stato l’animatore di una delle più combattive formazioni di volontari antifascisti, impegnati duramente nella guerra di Spagna.
Poco tempo dopo la presa di Roma da parte degli Alleati, nel giugno 1944, saltarono fuori i nomi dei mandanti: nel settembre 1944, arrestato e tradotto dinnanzi all’Alta Corte, il colonnello del Sim (Servizio Informazioni Militari), Santo Emanuele dichiarò di avere ricevuto l’ordine di uccidere i Rosselli dall’allora ministro degli Esteri Galeazzo Ciano e da Filippo Anfuso, braccio destro del primo. Emanuele aggiunse di aver trasmesso l’ordine al maggiore Roberto Navale, recatosi a Bagnoles-de-l’Orne, dove aveva arruolato i sicari. Emanuele e Navale furono condannati all’ergastolo; Anfuso a morte. La Corte d’Assise d’Appello di Perugia, il 14 ottobre 1949, rovesciò il verdetto. Tutti assolti: «per insufficienza di prove» i due ufficiali e con formula piena l’Anfuso.
La Storia, per cinquant’anni, ha accettato la tesi che vuole la responsabilità per il duplice omicidio riconducibile esclusivamente ai servizi segreti fascisti, su mandato di Mussolini. Più di recente, sollevando vivaci polemiche, qualcuno ha preteso di assolvere l’operato di Ciano e dei suoi fedelissimi funzionari, vedendo nel movente dell’attentato la mano dei servizi segreti stalinisti, con la complicità di Togliatti e dei comunisti italiani.
La prima tesi si fonda su prove documentali notevoli; mentre la tesi della collaborazione segreta dell’Ovra, il servizio segreto fascista, e dei servizi segreti stalinisti per uccidere i Rosselli, pur in mancanza di documenti ufficiali che l’avvalorino, si fonda su prove logiche, facenti leva sul fatto che la lettera con cui Trotsky rispondeva positivamente all’invito di raggiungere i suoi numerosi sostenitori in Spagna, mai giunta a destinazione, fu ritrovata, a liberazione avvenuta, proprio negli archivi dell’Ovra.
La difficoltà di accettare la seconda, fra queste due «verità» dipende dall’immagine del tutto astratta che si ha del regime fascista: perverso, ma duro; suicida, ma dai fianchi blindati; stupido, ma occhiuto e vigilante senza tregua, ventiquattr’ore su ventiquattro. Esso, per contro, fu friabile, penetrabile, inquinabile dall’esterno, quanto e forse più delle vecchie e collaudate democrazie.
Errore di prospettiva gravissimo: proprio una classe politica «nuova» come quella fascista, composta da uomini sbalzati da cattedre elementari o da piccole professioni e commerci all’amministrazione della cosa pubblica, in uno Stato moderno alle prese con problemi internazionali immensi, può essere la sede elettiva di un buon lavoro di penetrazione, agevolato oltretutto dalle forti tensioni interne esistenti in ogni regime dittatoriale, e ancor più dalla gracilità delle strutture economiche, industriali, diplomatiche e militari di uno Stato costituitosi in nazione, nel 1937, da meno di settat’anni.
La querelle sarebbe indubbiamente meno virulenta se si accettasse, senza inutili ipocrisie, che la nostra storia recente è nient’altro che la risultante finale di molte e potenti pressioni, ricatti e minacce, più o meno espliciti; ma soprattutto di forze e personaggi interni, comunque eterodiretti verso obiettivi non necessariamente coincidenti con quelli della nazione, se non addirittura in contrasto con essi. Si pensi, tanto per fare un paio d’esempi, all’interventismo dannunziano del 1914 e 1915, o alla risoluta azione dello stesso Mussolini contro ogni tentazione di pace negoziata, nel 1917 e 1918, largamente finanziata con denaro britannico.
Cap. XXVI
Giuseppe Cambareri il «Mago dei Generali»
Una mattina dell’agosto 1934, Giuseppe Cambareri, alias Ganbareri, alias Cambarer, alias Elio, trentatreenne basso e tozzo, ma pieno d’energia e dagli azzurri occhi lampeggianti, venne ricevuto a Berlino, da Arnold Krum-Heller, un anziano signore dalla lunga barba e dall’aria ispirata, con un passato misterioso e turbolento, Sovrano Commendatore della Fraternitas Rosacruciana Antiqua (Fra). Fu lì, a Berlino, che, all’indomani dell’ascesa di Hitler al potere, dal Supremum Consilium della Fra fu decisa la sua avventura.
Proveniente dal Brasile, ma nativo di un paesino della Calabria, Cambareri, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per l’America Latina, sempre più affascinato dall’occultismo e autoconvintosi d’essere la reincarnazione di Cagliostro, trascorse alcune settimane a Berlino, si recò finalmente a Roma, con l’incarico di svolgervi una missione segreta.
Francisco Quartier d’Alcantara, amico e seguace fedelissimo di Cambareri, per quarant’anni, nel 1973, scrivendo a un giornalista italiano, affermò che la missione decisa dal Supremum Consilium della Fra consisteva nell’organizzazione di un movimento rosacrociano in Italia « in modo da costituire un forte movimento antifascista » e fece anche notare che Cambareri, in precedenza, aveva avuto, in Argentina, a Rosario di Santa Fé, alcuni contatti con dirigenti della Società Teosofica, tradizionalmente «diretta da personalità anglosassoni» e già impegnata, nel corso della prima guerra mondiale, a favorire la vittoria dell’Intesa. Se a ciò si aggiunge che due anni prima di chiedere l’iscrizione al Pnf Cambareri aveva aderito alla massoneria e alla Società Teosofica, ne esce avvalorata la tesi che sarebbe stato reclutato, fin da allora, da «ambienti anglosassoni» e, per essere più chiari, dall’Intelligence Service. Si potrebbe ipotizzare, insomma, che Cambareri, agganciato dall’I.S. all’interno della massoneria e della Società Teosofica di Rosario di Santa Fé, fosse stato convinto a tornare in Italia come agente dei servizi britannici sotto il manto dell’esoterismo.
Gli elementi biografici del Cambareri e del suo capo Arnold KrumHeller, nonché il complicato, ma vivissimo rapporto tra esoterismo e nazismo, inducono, però, a nutrire qualche serio dubbio in proposito. A Roma, comunque, Cambareri restò quattordici anni, inserendosi in alcuni dei più clamorosi snodi che caratterizzarono la crisi del regime fascista e la drammatica transizione alla repubblica democratica, invischiato, a vario titolo, nel reticolo di generali adusi a non rispondere alla politica, al popolo sovrano e qualche volta nemmeno al Sovrano, chiusi nel loro sabba autoreferenziale, talvolta in intelligenza col nemico, e nel frattempo immersi in un circuito esotericoaffaristico che in un periodo critico e tragico, come quello che va dal 1940 al 1945, ha largamente surrogato la politica.
Cambareri entrò nell’entourage del generale Pietro Badoglio, quando non era neppure immaginabile il suo ruolo nell’abbattimento di Mussolini; offrì la sua casa e la sua organizzazione al generale Giacomo Carboni come sede del quartier generale di Roma, dopo l’armistizio del 1943; durante i nove mesi dell’occupazione nazista della capitale fu tra i principali animatori di una rete spionistica al servizio degli Alleati e, contemporaneamente, una sorta di uomo tuttofare del generale Roberto Bencivenga, clandestino comandante militare e civile della città, per ordine del re.
In ogni caso, l’ambiente in cui si mosse Cambareri non fu, però, soltanto quello dei militari di Roma città aperta e degli uomini dei servizi segreti, dei rosacrociani e dei massoni, ma anche degli agenti provocatori, dei potenti faccendieri, degli inesausti procacciatori e mediatori di affari, dei frequentatori di salotti e anticamere importanti: snodi e interpreti di quel nesso politica-affari che, mentre interessa quotidianamente la cronaca, sembra invece avere scarso interesse per lo storico.
A torto, perché il personaggio di Cambareri non è un cammeo, una figura unica e irripetibile; egli è, al contrario, una figura esemplare e paradigmatica: il medesimo mix di politica, affari ed esoterismo lo ritroveremo in personaggi come Licio Gelli e Lopez Rega, negli stessi ambienti, con le stesse modalità di azione.
La storia delle sue gesta, magistralmente ricostruita da Silverio Corvisieri nel saggio Il mago dei generali, Odradek, Roma, 2001, se molto ha da dire sulla vocazione eversiva delle classi dominanti di questo Paese, molto di più svela quanto alla sua infamante sottocultura, del tutto estranea alla tradizione laica e scientifica moderna, alla cultura di qualsiasi borghesia, anche di quella che tanto poco ha inciso nella storia di questo Paese.
Populismo, interclassismo, sincretismo, variamente conditi con l’esoterismo, sono filoni che ora hanno un rilancio; ma sono anche alla base di quel revisionismo permanente che mina, insieme, la tenuta della società civile e gli strumenti scientifici per l’analisi della società.
Cap. XXVII
Mito e realtà dei «buoni italiani»
Alla fine della seconda guerra mondiale, il giudizio sui militari del Regio Esercito era diviso tra un’opinione pubblica internazionale, che li considerava criminali di guerra, e un’opinione pubblica interna incline a considerarli vittime della guerra fascista e «buoni italiani». Va riconosciuto a Davide Conti, autore de bel saggio L’occupazione italiana dei Balcani, dal significativo sottotitolo «Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943)», edito da Odradek, nel 2008, il merito di aver concentrato il fuoco dell’attenzione sulle cause che determinarono una percezione tanto difforme della realtà degli eventi legati alle guerre d’aggressione dell’Italia fascista.
Grazie all’analisi condotta sulla documentazione, in gran parte inedita e ricavata dall’Archivio Centrale dello Stato e da quello del ministero degli Affari Esteri, è ormai emerso come la condotta delle truppe del Regio Esercito, durante l’occupazione in Jugoslavia, Grecia e Albania, negli anni 1940-1943, fosse stata caratterizzata dalla «snazionalizzazione», dalle repressioni contro i civili, dagli internamenti, dalle esecuzioni sommarie: crimini di guerra, insomma.
Sulla scorta, per altro, della testimonianza del partigiano romano Rosario Bentivegna, il quale ha ricordato come, pur combattendo nelle file delle formazioni della Resistenza in Montenegro, percepisse nei suoi confronti una certa remora e una latente diffidenza da parte dei civili e degli stessi resistenti montenegrini delle brigate combattenti, si è anche chiarito come questa diffidenza traesse origine dalla condotta del Regio Esercito italiano d’occupazione, che, coadiuvato dalle milizie fasciste, aveva operato, in quella regione, internamenti, fucilazioni, spopolamento di intere cittadine, repressione anti-partigiana e incendi di decine di villaggi locali, tanto da portare la popolazione civile a ribattezzare il soldato italiano « palikuca », cioè «incendiario», «brucia-tetti».
Sebbene in Slovenia, Serbia, Croazia, Montenegro, l’italiano avesse avuto il volto dell’occupante, dell’aggressore, responsabile della fame, dei bombardamenti, delle privazioni e delle stragi civili, con quelle specifiche caratteristiche, tuttavia, viene descritto soltanto il nazista tedesco: sia i giornali, sia il cinema, sia le stesse istituzioni culturali e politiche della Repubblica tendono ancora oggi a restituirci la consueta e stereotipata figura del «bravo italiano», dell’occupante pacifico e bonario di «una faccia una razza», assai difforme dall’immagine e dalla stessa percezione della presenza delle truppe del Regio Esercito nei Balcani.
è questa la prova evidente della difficoltà, se non addirittura della reticenza, con cui l’opinione pubblica italiana si misura con questo tema, sostituendo all’elaborazione critica del passato fascista un generale processo di rimozione e autoassoluzione, coniugato al falso mito del «buon italiano».
La questione potrebbe essere liquidata rilevando che la retorica è un male endemico del nostro Paese, male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura, una delle cause principali, se non la principale, delle nostre sciagure.
Non v’è dubbio, però, che le ragioni che hanno consentito l’affermarsi del paradigma degli «italiani brava gente» trovino origine altrove, vale a dire nella particolare situazione internazionale del dopoguerra, quando le necessità di riorganizzare il blocco occidentale in chiave anticomunista evitò l’estradizione e il processo ai numerosi criminali di guerra italiani, richiesti dai governi albanese, jugoslavo e greco, al fine di favorire un rapido riarmo dell’Italia e la sua inclusione all’interno dell’Alleanza Atlantica.
Se la mancata estradizione dei criminali e la non celebrazione dei processi possono essere interpretati come la prima pacificazione forzata della guerra fredda in Europa, non di meno l’opinione pubblica italiana, sostenuta dallo schieramento conservatore dei partiti antifascisti, si mostrò immediatamente disponibile alla ricezione di tali istanze internazionali assumendo e introiettando una narrazione che, svincolandola dalle responsabilità storiche del consenso al fascismo, rappresentò uno dei fattori principali che concorsero alla determinazione di quella «continuità» dello Stato che, sin dalla nascita della Repubblica, è stata un’ipoteca sullo sviluppo democratico della società italiana.
Dagli inizi degli anni Novanta, nonostante i mutamenti epocali del triennio 1989-1991 che ridisegnarono il quadro geo-politico internazionale, il tema dei crimini di guerra italiani è ancora un argomento contraddittorio e sostanzialmente inevaso sul piano della rielaborazione collettiva: la narrazione dei miti del «bravo italiano» e dell’occupazione «morbida», insieme all’oblio dei processi per i crimini commessi nei Balcani e in Africa, si prestano ad essere utilizzati come terreno di coltura del consenso politico, con buona pace della verità storica e di quella giuridica.
Cap. XXVIII
Le esecuzioni post-conflitto e le tensioni in seno alla Resistenza
Nei mesi seguenti la Liberazione, nel clima dell’insurrezione e con spinte rivoluzionarie tra la base partigiana comunista, si ebbe un’esplosione di violenza: furono numerosi gli eccessi e le esecuzioni sommarie principalmente di fascisti o collaborazionisti, ma anche di appartenenti a brigate partigiane di diverso colore politico, preti e semplici esponenti delle classi sociali conservatrici e anticomuniste.
I fatti sanguinosi, sia pure con intensità calante, proseguirono per alcuni anni. Il numero degli uccisi di parte fascista, dopo il 25 aprile 1945, è stato oggetto di acceso dibattito, con strumentalizzazioni in sede pubblicistica e politica e, comunque, allo stato attuale, non si dispone di cifre attendibili delle morti fasciste che distingua in modo chiaro tra esecuzioni immediatamente successive alla fine delle ostilità, che con la Wehrmacht, con cui la Repubblica Sociale Italiana era alleata, si ebbe solo il 3 maggio 1945, e omicidi, vendette e violenze verificatesi nei mesi seguenti.
Ad un primo sguardo, quella tragica nebulosa di violenza appare largamente una tragica «rivelazione» dei dolori della guerra e dell’occupazione nazista, rimandando molte di quelle uccisioni a stragi e rappresaglie antifasciste: cospicua fra le vittime fu la presenza di appartenenti alla Repubblica di Salò. Illuminante, in proposito, l’analisi di Luciano Lama, sindacalista, politico e partigiano italiano, noto per essere stato il segretario della Cgil dal 1970 al 1986, quale ce la restituisce Concita De Gregorio (Ora è il momento di ricordare, “La Repubblica”, 8 settembre 1990): «Il desiderio di vendetta non è un crimine, è un risentimento. Ricordo bene quando mi dissero che avevano fucilato mio fratello. La rabbia ti sale alla testa, te la senti nelle mani quando imbracci un fucile. Qualcuno ha resistito altri no. Magari volevi vendicarti, ma non potevi, non dovevi... Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no. La Resistenza fu una battaglia terribile, disperata e atroce. Vivevamo nascosti nelle buche dei campi di granoturco, eravamo circondati da nemici: non erano solo tedeschi e fascisti, c’erano le spie, ti potevano tradire in ogni momento. Vedevamo sparire i nostri compagni, fucilavano famiglie intere. Eravamo sopraffatti dal dolore, dalla rabbia... Altrimenti non avremmo potuto... Non saremmo riusciti a sparare a chi ci guardava in faccia. Una cosa è tirare una cannonata, un’altra è uccidere chi ti sta di fronte. Ripugna. Si può fare solo se ci si crede ciecamente. Aiutano l’odio, la paura, l’utopia». Peraltro, secondo l’ex partigiano cattolico Ermanno Gorrieri, alla fine della guerra «molta rabbia si era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il 25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i fascisti dopo la Liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò che era avvenuto prima e con il clima infuocato dell’epoca. I fascisti non hanno titolo per fare le vittime» (Ermanno Gorrieri, con Giulia Bondi, Ritorno a Montefiorino. Dalla Resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2005, p. 183).
L’incerta categoria della «giustizia sommaria», tuttavia, non si presta a fornire una spiegazione soddisfacente ed esaustiva del fenomeno, le cui molteplici ragioni non si esauriscono nel desiderio di vendetta dopo tanti lutti e sofferenze, nell’odio sociale e ideologico, nel timore dei partigiani, dopo la fine della fase insurrezionale, di una punizione poco efficace o addirittura di una totale impunità per i gerarchi fascisti che si erano macchiati di gravi crimini. Basti pensare, per rendersene conto all’Emilia-Romagna, la regione che destò allora più preoccupazione, dove, cioè, le uccisioni furono più elevate, la loro durata si prolungò molto di più, evocando «rese dei conti» molteplici, intrecciate magari, ma fra loro diverse. In quel luogo chiave della storia e della memoria di questa vicenda, la ferita del 1943-1945 si sovrapponeva a quella aperta dall’avvento del fascismo, nel 1921-1922: in molti casi, la tipologia delle vittime rimandava anche a violenze e crimini dello squadrismo fascista, oltre che ad una lunga catena di soprusi compiuti durante il regime; se non addirittura ancora più indietro, a quella lunga storia di conflitti rurali, che aveva segnato in profondità la regione.
Il sovrapporsi di lutti, di dolori e di rancori di comunità e di famiglie, condotto ad emersione da una miriade di storie specifiche, viene evocato da una relazione, totalmente dissonante con la campagna sui «triangoli della morte» e sul «terrore rosso» in Emilia, che sarebbe iniziata di lì a poco, nel clima della Guerra fredda, per tornare a intermittenza sino ai giorni nostri, che l’Arma dei Carabinieri inviò, nell’agosto del 1945, all’allarmato Comando alleato: «Prima dell’avvento del fascismo, l’Emilia fu un focolaio di gravi agitazioni, e per affermarsi (…) il fascismo dovette dare largo sviluppo allo squadrismo (…). Tutto ciò ha concorso a creare odi e rancori. A ciò si aggiungono le distruzioni operate dalla guerra e i soprusi compiuti su larga scala, in maniera talora efferata, durante la dominazione nazifascista. Si è così determinata un’atmosfera di odi e rancori che spiega, se non giustifica, i criminosi atti di reazione verificatisi dalla data della liberazione in poi (…) ».
Se il rapporto con una storia più antica si presentava in Emilia in maniera particolarissima, altri elementi erano comuni a tutto il Paese: ovunque il protrarsi e il riaccendersi di atti di violenza nei confronti di fascisti si intrecciava con il diffondersi della sensazione che nelle sedi deputate non venisse fatta giustizia: successivamente alla «normalizzazione» postbellica, infatti, ai processi contro alcuni partigiani per presunte «stragi» e «assassinii» compiuti nella fase insurrezionale della Liberazione facevano da contrappunto la sostanziale impunità di cui godettero molti ex fascisti, dai funzionari che avevano collaborato alla cattura di Giovanni Palatucci, il commissario di polizia che aiutò la fuga di migliaia di ebrei, al comandante della Xª Flottiglia MAS Junio Valerio Borghese, al maresciallo Rodolfo Graziani, che si erano macchiati di reati molto gravi, ma anche la lentezza di un’«epurazione» molto parziale, soprattutto nella pubblica amministrazione e nelle strutture economiche capitalistiche, a causa di necessità politiche di «pacificazione», culminate nell’amnistia firmata dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946, seguita, il 7 febbraio 1948, da un decreto del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, con cui si estinguevano i giudizi ancora in corso dopo l’amnistia.
Cap. XXIX
Giuseppe Albano: il «Gobbo del Quarticciolo»
I materiali destinati a dare vita all’«altro Stato» presero forma nel magma del doppiogiochismo e dei trasversalismi degli ultimi nove mesi dell’occupazione nazista di Roma: in quel torbido retroscena fu scritto il copione della prima trama eversiva, madre di tutte le successive.
Giuseppe Albano, meglio noto come il «Gobbo del Quarticciolo», affetto da malformazione alla schiena dovuta ad una caduta, trasferitosi assieme alla famiglia, all’età di soli 10 anni, dalla natia Calabria a Roma, andando a vivere per l’appunto, nella borgata del Quarticciolo, iniziò sin da giovanissimo a commettere piccoli reati assieme ad altri suoi coetanei, abitanti dello stesso quartiere della periferia sud-est, anche loro per lo più figli di immigrati meridionali.
Negli anni dell’occupazione nazista, divenne protagonista della Resistenza romana: cominciò la sua lotta partigiana tra l’8 e il 10 settembre 1943, dapprima a Porta San Paolo e successivamente nella zona di Piazza Vittorio Emanuele II; partecipò a numerose operazioni di sabotaggio, diede l’assalto ai forni per distribuire la farina alla popolazione affamata e divenne subito famoso per la rapidità d’azione e l’abilità nel dileguarsi, impegnando moltissimo le truppe tedesche che occupavano la città.
Proprio per questo divenne un idolo per la popolazione che lo vedeva come una sorta di giustiziere e difensore dei più deboli.
Sebbene fosse riconosciuto dai giovani della Resistenza di Centocelle e del Quarticciolo, come il proprio leader, in realtà la vera mente organizzativa era Franco Napoli, detto «Felice», anch’egli calabrese, socialista, compagno di lotta di Sandro Pertini, e già arrestato in passato per un fallito attentato a Mussolini in Calabria.
Con la liberazione di Roma, il «Gobbo» collaborò con la questura per scoprire i torturatori di via Tasso, formando una banda di pregiudicati con base operativa al Quarticciolo, che consentì la cattura di parecchi ex militanti del partito fascista e persino di alcuni esponenti della famigerata banda del torturatore nazista Pietro Koch.
C’era anche chi sosteneva che in realtà si trattasse soltanto di una banda di criminali, in guerra con i clan rivali per contendersi il controllo del territorio, essendo l’attività del gruppo, sempre più spesso, mirata a condurre espropri e rapine ai danni degli arricchiti della «borsa nera» e degli ex fascisti, con redistribuzione di generi di prima necessità e viveri alla popolazione affamata.
Fu, comunque, proprio durante una di queste azioni che rimase ucciso un caporale inglese, evento a seguito del quale venne scatenata un’imponente caccia all’uomo, con l’invio di mezzi blindati e carri armati che trasformarono il Quarticciolo in una zona di guerra.
Secondo la versione ufficiale, il «Gobbo», dopo essere riuscito in un primo momento a sfuggire, venne riconosciuto ed ucciso, il 16 gennaio 1945, a seguito di un conflitto a fuoco con i carabinieri, nell’androne di un palazzo di via Fornovo 12, dove aveva sede l’Unione Proletaria (UP), formazione provocatrice e di provocazione all’interno della sinistra antifascista, indipendentemente dal nome «comunista».
Una controinchiesta condotta da Franco Napoli, tornato a Roma nel 1945, parve dimostrare che il «Gobbo» fosse stato assassinato, invece, con un colpo d’arma da fuoco alla nuca da una ex-spia dei tedeschi appartenente a UP, nella quale il «Gobbo» stesso era stato infiltrato per volere di Pietro Nenni. Il caso, comunque, venne immediatamente insabbiato.
Sulla scorta di testimonianze e documenti divenuti nel frattempo accessibili, Silverio Corvisieri (Il Re, Togliatti e il Gobbo. 1944: la prima trama eversiva sull’assassinio di Giuseppe Albano, Odradek, Roma, 1998) riprese in mano, dopo più di mezzo secolo, il filo che collegò il «Gobbo» al capo di UP, Umberto Salvarezza, e costui a Umberto II di Savoia, attraverso i meandri di una cospirazione golpista ante litteram, che vide protagonisti generali badogliani, dignitari di corte, gran maestri della massoneria, avventurieri, imprenditori compromessi col fascismo, falsi estremisti della Resistenza con un piede nella Rsi e l’altro nei servizi segreti alleati.
Una cospirazione che, sebbene avesse mancato l’obiettivo di sostituire il primo governo democratico post-fascista con un governo di «tecnici» guidato da Pietro Badoglio, raggiunse, tuttavia, lo scopo principale: in funzione della continuità dello Stato, bloccò il processo dell’epurazione.
Stando alla ricostruzione storiografica operata da Silverio Corvisieri, la morte del «Gobbo», lungi dall’essere avvenuta per mano dei carabinieri, sarebbe stata, invece, l’esecuzione, ad opera di sicari del leader di Up, di una scheggia impazzita della Resistenza, come ve ne furono altre in altre città, che rifiutavano un accomodamento «democratico», con uomini fino a poco tempo prima collaborazionisti dei fascisti, e la strategia sarebbe stata diretta da Umberto II, per portare ad un governo del Re.
Cap. XXX
Il Noto Servizio
In Italia, dal 1945 al 1949, erano tante le strutture d’intelligence: quelle dei partiti politici, tutti dotati di una struttura parallela a quella ufficiale, con compiti militari ed informativi; quelle della Chiesa cattolica; quelle dei reduci della Rsi che collaboravano con gli americani; quelle create dai servizi segreti militari italiani e del ministero dell’Interno, che dovevano aggirare, in qualche modo, il controllo esercitato nei loro confronti dagli Alleati.
Lo storico Aldo Giannuli ha, tuttavia, scritto su un servizio segreto «noto» agli atti e a pochi privilegiati (Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Tropea editore, Milano 2011), che, negli anni dell’immediato dopoguerra, avrebbe rappresentato la confluenza in un unico apparato degli uomini dei servizi segreti della Repubblica sociale italiana e di quelli del Regno del sud e delle varie formazioni partigiane liberali, monarchiche, democristiane, tutte decisamente anticomuniste.
è stata questa una struttura clandestina, a metà strada tra servizi statunitensi, servizi militari e imprenditori, sorta di ombra che s’intravvede, nella storia dell’Italia segreta alla base della Repubblica, fin dal suo sorgere, e immanente, lungo tutta la sua storia, sino ai nostri giorni; un’ombra che non si riesce ad illuminare.
Il «Noto Servizio» s’identifica con quello costituito, nel giugno del 1944, da Ivanoe Bonomi, posto agli ordini dell’allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla ricostituzione ed al funzionamento di quel Servizio segreto della presidenza del Consiglio, le cui funzioni, con la stabilizzazione della situazione italiana, oltre che semplicemente informative, furono necessariamente anche operative, parrebbero aver contribuito sia esperti stranieri, i quali, in quel periodo, contavano certamente molto di più degli italiani, sia, sebbene non direttamente perché in stato di detenzione, attraverso uomini fidati, il generale Mario Roatta.
Fu costui un personaggio emblematico, nella sua poliedricità, del passaggio dalla Dittatura alla Democrazia: ritenuto lo sconfitto di Guadalajara, la battaglia perduta del corpo di spedizione italiano in Spagna durante la guerra civile; il regista occulto dell’assassinio dei fratelli Rosselli in Francia nel giugno 1937; il massacratore dei partigiani titini in Croazia; ma anche il protettore degli ebrei che cercavano rifugio nelle zone d’occupazione dell’esercito italiano, Mario Roatta era stato, innanzi tutto, il creatore dell’intelligence militare del regime fascista; descritto come «un buon linguista, un intelligente e navigato militare con tendenza a essere un seccatore. Il perfetto attaché militare» dal «cervello (…) più sviluppato e ricco di sostanza del (…) fegato», nei diari di Harold Macmillan, ministro residente della Gran Bretagna nel Mediterraneo, che lo aveva incontrato a Brindisi, dove era giunto tra i fuggiaschi dell’8 settembre, a bordo della nave salpata da Pescara; considerato da Indro Montanelli (L’Italia dell’Asse, ed. Rizzoli) come «un tipico generale da tavolino e da corridoio», senza «il fisico del condottiero. Con gli occhi e la incipiente pinguedine – caratteristiche comuni a troppi alti ufficiali italiani del tempo», ma comunque «capace di destreggiarsi egregiamente nella rivalità e negli intrighi che inquinavano i vertici delle Forze armate, abile nel tessere ottimi rapporti con la gerarchia fascista»; mentre, da altri, addirittura un personaggio demoniaco, il «cuore di tenebra» dell’italianità.
Affidato da Ferruccio Parri, divenuto presidente del Consiglio il 21 giugno 1945, al comando del questore Luca Osteria, già capo della «Squadra azzurra» a Milano, il quale conduceva il doppio gioco ai danni dei tedeschi con i quali fingeva di collaborare, dopo il 10 dicembre 1945, giorno in cui si costituì il governo presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi, sul Noto servizio calò il più rigoroso silenzio: rimasto ufficialmente operante fino a quando il Servizio segreto militare restò agli ordini dello Stato maggiore della difesa, fu emarginato allorché il Servizio segreto militare venne posto alle dipendenze della presidenza del Consiglio.
Ovviamente, i suoi uomini, lungi dall’essere congedati, rimasero a disposizione del Sismi che li utilizzò per operazioni inconfessabili: Aldo Giannuli ne ha rilevato la presenza, a volte con certezza altre con il beneficio del dubbio, in quasi tutte le vicende oscure italiane, ma questa caratteristica è comune a tanti uomini che hanno fatto parte delle strutture segrete e clandestine della Repubblica, perché il regime ha creato un apparato bellico in funzione anticomunista e di difesa propria, che è rimasto integro ed operante per almeno mezzo secolo, nel quale si sono mossi i servizi segreti ufficiali con le sotto-strutture che hanno, volta a volta, costituito e moltiplicato, quelli ufficiosi come il Noto servizio, quelli creati dal complesso industriale, quelli delle tre Armi, quello dell’Arma dei carabinieri e così via, tutti con compiti politico-informativo-operativi.
La sua scoperta parrebbe imporre di ristudiare tutto: la Liberazione, gli anni del «centro-sinistra», la strategia della tensione, i casi Feltrinelli, Calabresi, Moro e Fausto e Iaio. Ma anche la storia della Democrazia cristiana milanese e quella del «Servizio di via Statuto», la Maggioranza silenziosa e i Mar di Fumagalli, Gianni Nardi e padre Zucca, le Br e Raffaele Cutolo. Un esercizio tutt’altro che facile e, comunque, non fine a se stesso: la ricostruzione della sua storia implica di tentare la riscrittura della storia di un Paese, in cui trame oscure sono state ordite da organizzazioni sovrastatali non democratiche, vicine a massoneria e criminalità organizzata; apparati dediti più spesso al traffico di armi che non alla politica; intenti più alla salvaguardia di se stessi che ad un’effettiva presa del potere; in grado, tuttavia, di orientare la storia d’Italia, lasciandosi dietro una scia di sangue.
Cap. XXXI
Sui rapporti tra lo Stato repubblicano e la Mafia
Il Novecento ha conosciuto lo Stato fascista, quello nazionalsocialista e lo Stato sovietico. Accanto a queste è da annoverare anche una nuova tipologia di degenerazione dello Stato, la quale, senza troppi indugi, si può definire «criminale». Categoria, quest’ultima, alla quale ricondurre quegli Stati in cui la collusione tra potere politico e attività illecite è talmente elevata ed evidente che parlare di essi come di difensori della legalità risulterebbe paradossale.
I fattori che portano a tale degenerazione dell’apparato statale sono diversi e complessi, ma sicuramente dipendono da elementi quali le vicende storiche, la posizione geografica, la corruzione locale, la debolezza delle istituzioni, difficoltà e crisi economiche.
La Colombia, ad esempio, si configura come un «Narcostato»: l’attività prevalente in essa è difatti il commercio di droga. I cartelli di Medellin e Calì sono vere e proprie organizzazioni con collegamenti in tutto il mondo, le quali trovano un ultimo, decisivo elemento: i legami con i poteri politici. Nella «polveriera balcanica», continuando nella nostra esemplificazione, i problemi tragici d’illegalità nacquero in seguito al crollo delle barriere ideologiche e dei grandi apparati federali e multietnici. La fine drammatica del modello, il quale era allo stesso tempo un sogno, «grandeserbo» e l’isolamento internazionale dovuto all’irrazionale reazione dell’allora presidente Slobodan Milosevic, si pensi soltanto al genocidio in Kosovo, hanno provocato una crisi, al contempo, economica e di legittimazione. L’unico rimedio a tale situazione era costituito dal ripiego in attività illecite: traffico di droga, di armi, emigrazione clandestina. Pertanto, bisogna parlare della Serbia come di uno Stato criminale per necessità. L’Albania, infine, è da considerare quale «Stato-mafia». Anche qui, come per la Colombia, una fatale combinazione di fattori storico-sociologici ha contribuito al deperimento dello stato shqipetaro: una società tradizionalmente clanica, patriarcale, in cui prevale la figura del capo ed in cui sono forti i legami di sangue, il possesso della terra ed il concetto della fedeltà. Presso questo popolo, la legalità ha una dimensione flessibile e si adatta alle circostanze. Caratteristiche queste che hanno ovviamente favorito il proliferare di organizzazioni di tipo mafioso, suddivise in famiglie e dedite ad attività illegali.
Per quanto concerne l’Italia, quella non esorcizzabile dei tentativi golpisti, della «strategia della tensione», degli «anni di piombo», della criminalità organizzata di stampo mafioso, comunque localmente denominata, di «tangentopoli», del terrorismo mediorientale e dello «stragismo mafioso», non si può parlare di uno Stato criminale, quanto, più tosto, di uno Stato debole, nel quale istituzioni pubbliche ed organizzazioni criminali sono state costrette a convivere e, pur non facendo corpo unico, ad intrecciarsi, collaborare, scontrarsi. Né mai, d’altra parte, quell’Italia ha corso il rischio, almeno sino ad oggi, di diventare uno Stato criminale, dal momento che alle organizzazioni criminali, di qualunque segno esse fossero, ciò non conveniva: meglio per loro convivere con istituzioni inefficienti, piùttosto che sostituirsi ad esse.
Una simbiosi micidiale, ben resa da Gaspare Pisciotta: «Siamo un corpo solo, banditi, Polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
Il rapporto della mafia con le istituzioni è stato, peraltro, magistralmente descritto da Francesco Cossiga (Per carità di Patria. Dieci anni di storia e politica italiana. 1992-2003, Milano, 2003, p. 24): «Nessun politico fa parte della mafia. Possono esserci politici vicini, contigui o complici. Ma, come mi spiegò Giovanni Falcone, la mafia non può accettare l’affiliazione dei politici perché non si saprebbe quale livello gerarchico competerebbe loro. Notoriamente Salvo Lima fu vicino alla mafia, almeno fino al 1984. Che dopo se ne fosse allontanato è dettaglio che non influenza lo svolgersi della sua vicenda politica e umana. Sono state le promesse fatte alla mafia, rispetto al maxi-processo, per esempio, o meglio il mancato aggiustamento in Cassazione delle sentenze del maxi-processo che hanno provocato la sua morte. Non tanto una vendetta quanto un avvertimento a tutti i politici che la mafia considerava a sé vicini. Dispiace dirlo, nella morte di Salvo Lima si ripeté lo stesso meccanismo che portò all’uccisione del politico democristiano Piersanti Mattarella. Che il padre Bernardo avesse connessioni con la mafia, cominciate nel dopoguerra, sta scritto nei libri di storia».
Dal crollo del fascismo ad oggi, nella storia dei rapporti fra lo Stato e il crimine organizzato si possono distinguere tre fasi. La prima va dallo sbarco alleato in Sicilia, il 9 luglio 1943, alla proclamazione dell’autonomia regionale della Sicilia, il 15 maggio 1946. In questa fase, richiesta dagli Stati Uniti, Cosa Nostra, con Lucky Luciano, aiutò lo sbarco alleato e la travolgente avanzata, quindi appoggiò il separatismo, che però perse di significato con l’inizio della guerra fredda tra Est e Ovest. La seconda fase copre i decenni della guerra fredda, gli anni, cioè, dal 1946 al 1991, durante la quale gli alleati ebbero bisogno che la criminalità organizzata, Cosa Nostra in testa, partecipasse al contenimento del comunismo e dell’Unione Sovietica: sotto la protezione strategica degli Stai Uniti si intrecciò la convivenza del crimine organizzato con la politica, con gli apparati di sicurezza e con i palazzi di giustizia. La terza fase ha avuto inizio nel 1991 e si è resa evidente nei due anni successivi, col crollo dell’impero sovietico, la crisi della prima Repubblica e la crisi del crimine organizzato, che ha perso i suoi punti di riferimento: esso non soltanto non serve più ai suoi protettori italiani e stranieri, ma, addirittura, può ostacolarne i piani.
Così, dalla seconda metà degli anni Ottanta, il crimine organizzato ha cominciato a subire colpi durissimi: è stata la stagione dei pentiti, dei maxiprocessi, della cattura dei latitanti storici, ma anche gli anni delle bombe mafiose, dalla strage di Natale, passando per quelle di Capaci e di via D’Amelio, sino a quelle di Milano, Roma e Firenze, del 1993.
Sulla fase attuale dei rapporti pesano gli esiti di una trattativa, che lungo il suo iter ha subìto molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall’altra, allungandosi fino al 1994, non limitata a singoli obiettivi tattici, ma, assai più ambiziosamente, tesa a un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
Cap. XXXII
Un convitato di tutto rispetto al tavolo antidemocratico: la Mafia
L’Europa, tra il 1943 e il 1948 è una realtà spaccata in due e occupata da potenze straniere: gli Usa e l’Urss. Tre i vincitori della partita: Stati Uniti d’America, Gran Bretagna e Unione Sovietica; tre gli sconfitti: Germania, Giappone, Italia.
Qui agiscono movimenti politici, che si ispirano alla monarchia sabauda e che non vogliono perdere la corona a cui sono fedeli da sempre; che si ispirano al fascismo della Repubblica Sociale Italiana e che vorrebbero la continuità del vecchio regime, magari senza il re e senza Mussolini; che si riconoscono nel Comitato di liberazione nazionale e che pensano a un futuro tutto da costruire.
Tutti tirano carte truccate, studiano il modo di trarre vantaggi dal doppio gioco, tentano il salto temerario sul carro del vincitore. Costi quel che costi, insomma, si mettono al rimorchio per non morire.
Con la sconfitta del nazifascismo, la divisione del mondo in blocchi e con l’affermarsi della supremazia americana nell’Europa occidentale, tuttavia, inizia una nuova e pericolosa partita, destinata a durare ben oltre il crollo del muro di Berlino, nel 1989.
A ben vedere, questa partita è iniziata quando l’altra era ancora in corso: nel 1943 e, per essere precisi, nelle settimane dello sbarco angloamericano in Sicilia e del colpo di Stato a Mussolini. Poi, son venute la Liberazione e la vittoria della Repubblica sulla Monarchia: due date che, per un verso, fondano la trasformazione democratica del nostro Paese, per l’altro, invece, imprimono spinte involutive ispirate dai superstiti del nazifascismo.
Protagonista del gioco è l’America: contro la «minaccia comunista», gli Stati Uniti, al di là di Yalta e di Potsdam, individuano le ragioni dell’atlantismo nel teatro mediterraneo, favoriti, in Italia, da una poderosa campagna propagandistica e dalle gerarchie vaticane; all’impresa partecipano anche gli ex servizi germanici e bande nazifasciste, che si muovono specialmente nell’orbita dell’aristocrazia terriera meridionale, già orientata in senso eversivo: nel 1943, mentre, da un lato, prende corpo la teoria delle «uova del drago», elaborata dalle alte gerarchie naziste, che, in vista del crollo dell’Asse, stanno preparando il terreno per la guerra non ortodossa, sperimentazione inedita nel Vecchio continente, fatta propria da Benito Mussolini e da Alessandro Pavolini nella Repubblica Sociale Italiana, e marchio di fabbrica del terrorismo nero, che attraverserà indenne, come un fiume carsico, sia la prima sia la seconda Repubblica; dall’altro, gli angloamericani concepiscono un piano strategico per l’isolamento dell’Urss sullo scacchiere mondiale, paventando inesistenti piani d’attacco dell’Armata Rossa e individuando nei partiti comunisti e socialisti europei gli alleati sotterranei di Mosca.
In Italia, peraltro, mentre le forze antifasciste tenteranno una strada originale e autonoma, creando nuovi modelli democratici e costituendo governi di unità democratica nazionale, in cui possano convivere i Togliatti e i Croce, così da realizzare un’esperienza di democrazia fra le più proficue nell’Europa appena uscita dal secondo conflitto mondiale, Stati Uniti e Vaticano attiveranno una conventio ad excludendum nei confronti delle forze politiche artefici della rinascita politica del Paese, destinate ad essere totalmente rimosse, e faranno da schermo ai gruppi eversivi e reazionari.
Per la prima volta, comunque, al tavolo antidemocratico siede un convitato di tutto rispetto: la mafia, grazie anche all’America, per la posizione di forza che acquisirà dopo il secondo conflitto mondiale. Gli americani, infatti, erano ricorsi ai buoni uffici del gangster Lucky Luciano per la preparazione degli attacchi dal cielo e dal mare, che avevano preceduto lo sbarco in Sicilia del luglio del 1943; in Sicilia, peraltro, Lucky Luciano aveva incontrato Michele Sindona, che avrebbe in seguito combinato il ruolo di banchiere con quello di mafioso, e Gaetano Badalamenti, che sarebbe diventato più tardi un boss della mafia, entrambi, probabilmente, già in contatto con i servizi segreti americani; ottenuta la collaborazione della mafia, il comando militare statunitense insediò come sindaci, in molte città siciliane, uomini delle cosche. Insomma, dopo due decenni di dittatura fascista, durante i quali le autorità erano parse determinate a sopprimerla, la mafia, grazie in parte all’aiuto americano, riesce a tornare sulla scena. Per molti anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i leader politici nazionali ignoreranno ostinatamente il problema: occhi chiusi, orecchie tappate o una pura e semplice complicità permetteranno alla mafia di rafforzarsi e di insinuarsi in profondità nel tessuto economico, sociale e politico della Sicilia, fino a controllare molti esponenti politici.
Un segnale assai inquietante sarebbe stato l’omicidio di Accursio Miraglia, leader dei braccianti agricoli, tra i maggiori esponenti del movimento per la riforma agraria, ucciso a Sciacca, davanti al seicentesco Palazzo Graffeo, il 4 gennaio del 1947, vittima della sinistra alleanza tra la mafia e i proprietari terrieri siciliani, sostenitori della Democrazia cristiana e da quella, a loro volta, spalleggiati.
Quella stessa Democrazia cristiana, che, fondata ne 1942, aveva giocato un ruolo marginale nella lotta contro il fascismo, ma le cui fortune nell’isola si legano, da subito, alle sue relazioni con Cosa nostra.
Cap. XXXIII
La strage di Portella della Ginestra
La strage di Portella della Ginestra, del Primo Maggio del 1947, è uno dei capitoli più oscuri e tragici della storia d’Italia, dove agiscono intrecci tra banditismo, mafia, politica e persino servizi segreti italiani e internazionali.
Nel pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, una sparatoria interruppe la festa del primo maggio 1947, a cui partecipavano migliaia di persone. Secondo le fonti ufficiali, undici furono i morti e ventisette i feriti. Successivamente, ci furono altri morti per le ferite riportate.
Nel 1947 non si festeggiava solo il primo maggio, ma anche la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo, nelle prime elezioni regionali svoltesi il 20 aprile. Sull’onda della mobilitazione contadina che si era andata sviluppando in quegli anni le sinistre avevano ottenuto un successo significativo, ribaltando il risultato delle elezioni per l’Assemblea costituente. La campagna elettorale era stata abbastanza animata, non erano mancate le minacce e la violenza mafiosa aveva continuato a mietere vittime.
Il 1947 era cominciato, il 4 gennaio, con l’assassinio del dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia e il 17 gennaio era stato ucciso il militante comunista Pietro Macchiarella; lo stesso giorno i mafiosi avevano sparato all’interno del Cantiere navale di Palermo. Alla fine di un comizio il capomafia di Piana, Salvatore Celeste, aveva gridato: «Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre» e la stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato la moglie di un «qualunquista truffatore» aveva avvertito le donne che si recavano a Portella: «Stamattina vi finirà male» e a Piana un mafioso non aveva esitato a minacciare i manifestanti: «Ah sì, festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!» (Umberto Santino, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997). La matrice della strage apparve subito chiara: la voce popolare parlava dei proprietari terrieri, dei mafiosi e degli esponenti dei partiti conservatori e i nomi erano sulla bocca di tutti: i Terrana, gli Zito, i Brusca, i Romano, i Troia, i RioloMatranga, i Celeste, l’avvocato Bellavista, che durante la campagna elettorale aveva tuonato contro le forze di sinistra e a difesa degli agrari. I carabinieri telegrafarono: «Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge»; «Azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia». Settantaquattro le persone fermate, tra cui mafiosi notori. All’Assemblea costituente, il giorno dopo la strage, Girolamo Li Causi, segretario regionale comunista, lanciò la sua accusa: dopo il 20 aprile c’era stata una campagna di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si intratteneva con i mafiosi e tra gli sparatori c’erano monarchici e qualunquisti. Venne interrotto da esponenti dei qualunquisti e della destra e il ministro dell’Interno Mario Scelba dichiarò che non c’era un «movente politico», essendosi trattato soltanto di un «fatto di delinquenza». Il ministro, peraltro, ritornò sull’argomento in un’intervista del 9 maggio: «Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari». Nel frattempo, i fermati venivano rilasciati e si affermava la pista che portava alla banda Giuliano, il cui nome venne fatto dall’Ispettore di Pubblica Sicurezza Ettore Messana, lo stesso che l’8 ottobre 1919 aveva ordinato il massacro di Riesi (quindici morti e cinquanta feriti) e che ora Li Causi addita come colui che dirige il «banditismo politico». La banda Giuliano sarebbe pure stata indicata come responsabile degli attentati del 22 giugno, in vari centri della Sicilia occidentale, con morti e feriti.
L’inchiesta giudiziaria si concentrò sui banditi e procedette con indagini frettolose e superficiali: non si fecero le autopsie sui corpi delle vittime e le perizie balistiche per accertare il tipo di armi usate per sparare sulla folla. Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria della Corte d’appello di Palermo rinviò a giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda. La Corte di Cassazione, per legittima suspicione, decise la competenza della Corte d’assise di Viterbo, dove il dibattimento iniziò il 12 giugno 1950 e si concluse il 3 maggio 1952, con la condanna all’ergastolo di dodici imputati, ma non di Giuliano, ufficialmente assassinato il 5 luglio del 1950.
Nella sentenza, a proposito della ricerca della causale, si sosteneva che Giuliano, compiendo la strage e gli attentati successivi, aveva voluto combattere i comunisti e si richiamava la tesi degli avvocati difensori, secondo cui la banda Giuliano aveva operato come «un plotone di polizia», supplendo in tal modo alla «carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia». Cioè: la violenza banditesca era stata impiegata come risorsa di una strategia politica volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava tra le righe che le «carenze dello Stato» erano da attribuire all’azione della coalizione antifascista allora al governo del Paese.
La sentenza di Viterbo non toccò il problema dei mandanti della strage e dell’offensiva contro il movimento contadino e le forze di sinistra, ma si limitò ad affermare esplicitamente che la causa doveva essere ricercata altrove. Contro di essa fu proposto appello e il processo di secondo grado si svolse presso la Corte d’assise d’appello di Roma, ma, nel frattempo, molti degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, erano morti. La sentenza del 10 agosto 1956 confermò alcune condanne, riducendo la pena e assolvette altri imputati per insufficienza di prove. Con sentenza del 14 maggio 1960, la Corte di Cassazione, alla fine, dichiarò inammissibile il ricorso del pubblico ministero e così la sentenza d’appello divenne definitiva.
La ricostruzione giudiziaria suscita non poche perplessità: certa la presenza della banda Giuliano a Portella, ma, al contempo, anche quella di altri tre attori: la mafia; infiltrati nella banda come Salvatore Ferreri, il quale verrà ucciso, in circostanze molto oscure, dopo un conflitto a fuoco alle porte di Alcamo, nel Giugno 1947, e persino una squadra della destra reazionaria, scesa dal nord con intenti stragisti, avente come punto di riferimento i servizi segreti italiani e internazionali.
Parrebbe, addirittura, che gli uomini della banda Giuliano avessero sparato in aria, mentre il Ferreri con i suoi uomini abbassavano il tiro verso la folla, preceduti forse dal lancio di piccole bombe, i cui scoppi furono scambiati per mortaretti: su alcuni cadaveri e sui corpi di taluni feriti furono trovate schegge di armi non in possesso degli uomini di Giuliano e persino ogive di armi da fuoco anch’essi di altro tipo; indizi inequivocabili, insomma, che non fosse stato Salvatore Giuliano l’autore materiale della strage, bensì qualcun altro.
Dopo la strage, il destino di Giuliano era cambiato radicalmente: venne ricercato non più per omicidi e rapine, bensì per strage compiuta per finalità politiche.
Il fuorilegge non aveva tardato a comprendere, per un verso, che i veri colpevoli dei fatti di Portella erano i politici anticomunisti e monarchici, nonché pezzi deviati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti italiani, in combutta con quelli internazionali, sostenuti dalla mafia, e che, per altro verso, lo Stato, sebbene ne fosse stato informato, non aveva voluto o potuto far nulla per impedirli. La conoscenza acquisita, riversata, peraltro, in alcuni memoriali gli consentì una certa autonomia operativa, potendo egli minacciare costantemente il buon nome di quanti, usando lui come parafulmine, avevano organizzato, da dietro le quinte, quell’orribile strage.
Costoro, per quanto sotto scacco, dopo la strage, avrebbero preteso dal fuorilegge che ammettesse la propria colpevolezza, nascondesse il vero, dicesse e scrivesse il falso, mandandogli allo scopo, a più riprese, emissari, tra i quali Ciro Verdiani, diventato nel contempo il responsabile di una sorta di Ministero delle Frontiere italiane.
Si racconta, peraltro, che Giuliano si fosse impegnato a fare come gli consigliavano, a patto però di avere salva la vita, cosa che Verdiani pare gli avesse garantito, informandolo costantemente delle mosse del collega Ugo Luca e, infine, rivelandogli le trame oscure dell’amico fidato Gaspare Pisciotta, forse per il tramite di quel Giuseppe Marotta, il quale, non a caso, si vocifera gli fosse andato a fare visita nella notte fatidica della sua presunta morte, invitandolo, in pratica, a fuggire immediatamente dalla trappola della casa Di Maria di Castelvetrano, dove si era rifugiato in attesa appunto di emigrare.
Cap. XXXIV
Il mistero della scomparsa di Salvatore Giuliano
Non pochi misteri caratterizzano il decisivo passaggio, in Italia, dalla dittatura ventennale del fascismo alla fondazione della repubblica democratica, che ha avuto luogo nel biennio che va dal 2 giugno 1946 al 1 gennaio 1948, quando la Costituzione è entrata in vigore, ma che affondano le loro radici nell’ancor più decisivo biennio finale del secondo conflitto mondiale, tra il 1943 e il 1945, e, in particolare, dal luglio 1943, quando gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia, qualche settimana prima del 25 luglio, si impadronirono dell’isola, trovando una scarsa resistenza, e si prepararono a percorrere il lungo cammino che avrebbe portato le truppe alleate nel Nord, dopo aver sconfitto, risalendo tutta la penisola, la tenace opposizione delle truppe della Wermacht, alleate a quelle della Repubblica Sociale Italiana. Ma la scomparsa di Salvatore Giuliano è tra quelle in cui più a lungo si è esercitato il depistaggio da parte di molti governi italiani, e con maggior successo.
Nel Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 56 (2001) in Treccani.it de L’Enciclopedia Italiana, (http://www.treccani.it/enciclopedia/salvatore-giuliano/), alla voce «Giuliano, Salvatore Bandito siciliano (Montelepre 1922 Castelvetrano 1950)», si legge: «Nel 1943 costituì una banda che estese le sue attività nella Sicilia occid., potendo contare sul titolo di copertura di Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (EVIS) e conducendo un’attività criminosa cui non fu estraneo il terrorismo politico contro i partiti di sinistra (il 1º maggio 1947 compì la strage di Portella della Ginestra) e contro l’esercito. Essendosi convertito alla legalità il movimento indipendentista e venutegli a mancare complicità e coperture, G. cadde in un tranello e venne ucciso dalle forze dell’ordine».
Quando all’inizio degli anni Sessanta apparve, con grande successo di critica e di pubblico, il film italiano a lui dedicato, firmato da Francesco Rosi, la leggenda reggeva ancora: molti, se non tutti, credevano ancora a due verità, destinate con il tempo ad essere prima messe in dubbio e, successivamente, smentite su tutta la linea: che il bandito di Montelepre fosse una sorta di Robin Hood, il quale rubava ai ricchi per dare ai poveri; che fosse suo il cadavere su cui il professor Ideale del Carpio svolse la sua autopsia, nel cimitero di Castelvetrano.
L’imponente documentazione archivistica emersa negli ultimi anni induce a rovesciare completamente la prima affermazione e a dubitare della seconda, su cui si addensa un mistero non ancora svelato. Dai documenti d’archivio dell’Oss statunitense e del War Office britannico, analizzati da Giuseppe Casarubea e da Mario J. Cereghino (Lupara nera. La guerra segreta alla democrazia in Italia 19431947, Bompiani, Milano 2009), si apprende che «Giuliano, un ventitreenne dal carattere forte e determinato, responsabile dell’assassinio del carabiniere Antonio Mancino», era «una cartina di tornasole ma non (…) un bandito montanaro»; che si muoveva «in lungo e in largo per l’Italia»; che «I Servizi non lo perd(eva)no mai di vista. La mafia gli fa(ceva) da scudo. Il mitra subentra(va) alla lupara. Il tritolo al taglio delle viti. La strage alla vendetta personale»; che, «in sintonia con i capi famiglia dell’isola», era, insomma, l’emblema del momento convulso in cui si dibatteva la Sicilia, tra spie senza scrupoli, mafiosi scappati di galera, criminali comuni che aspiravano a fare carriera, terroristi e sabotatori nazifascisti: più un terrorista e organizzatore di bande terroristiche ben collegato ai Servizi segreti americani e italiani che un bandito nel senso di tradizionale e antico di «scorridore» delle campagne siciliane, come, invece, una certa leggenda dura a morire ha tentato di dipingerlo, sia per nascondere, almeno in parte, la netta collocazione a destra, nel fascismo di Salò, del giovane siciliano sia per giustificare, almeno in parte, le troppe vittime della sua azione sanguinaria.
Sorvolando sul fatto che esistono decine di versioni sulla morte di Giuliano, ultimamente alcuni studiosi hanno cominciato ad indagare insistentemente su un altro «mistero» ben più corposo e inquietante: se fosse stato davvero di Giuliano, quel corpo «apparecchiato» nel cortile De Maria. Vi è, infatti, tutta una serie di avvenimenti che sembrano riaprire il caso dopo oltre sessant’anni dalla presunta morte del famoso fuorilegge.
In primis, l’autopsia sul corpo, la quale, a quanto pare, sembra di difficile, se non impossibile consultazione, in quanto forse secretata insieme ad altri documenti consimili top secret; alcune versioni parlano di riconoscimento ufficiale da parte della madre, altre smentiscono tale riconoscimento; c’è chi parla di strani rumori sulle tegole delle case attorno al cortile e c’è chi dice di non aver sentito alcuno sparo, o al massimo uno o due, in quella notte fatidica, tra il 4 e il 5 luglio del 1950; c’è chi dice che Giuliano fosse ancora vivo e vegeto la sera del 4 e chi ancora che si stesse preparando a decollare da un aeroporto di Castelvetrano in disuso, avendo ricevuto precise soffiate dell’approssimarsi dei suoi nemici; si vocifera, a questo proposito, di una lettera segreta inviatagli da Ciro Verdiani, ex Capo dell’Ispettorato antibanditismo, per metterlo in guardia da possibili tradimenti dei suoi uomini più fidati; infine, c’è anche chi sostiene che i responsabili dell’oscura trama lo avrebbero addormentato e ucciso in una villetta di Monreale, distante un centinaio di chilometri da Castelvetrano, e quindi trasportato e adagiato nel cortile per simulare un conflitto a fuoco, volendosi arrogare gli onori del caso.
Un fatto, però, sembra a tutti evidente, vale a dire, che molte cose non quadrano e che ancora deve essere pronunciata l’ultima parola su questo oltremodo misterioso e stranissimo omicidio, senza escludere in via preventiva che Salvatore Giuliano sia potuto in qualche modo sopravvivere ai tradimenti, che certo erano stati orditi per catturarlo.
Cap. XXXV
L’attentato a Palmiro Togliatti
Accadde nell’Italia del 1948, fresca di una Costituzione entrata appena allora in vigore e che versava in situazione di sbando: nelle piazze e nelle strade la gente contrapponeva odi mai sopiti e vendette ancora fresche di coltello. E si sparava: ex partigiani, ammantati delle glorie della recente Liberazione, supportati da un Partito Comunista che incontrava sempre maggiori consensi, si contrapponevano a ex fascisti e saloini allo sbando, i quali cercavano, invece, di mantenere un profilo basso, quasi a voler dimenticare che fino a tre anni prima avevano tenuto in pugno il Paese. C’era ancora gente che andava a prendere altra gente, nell’intimo delle proprie abitazioni, strappandola dagli affetti familiari e facendola sparire nei boschi, dentro qualche buca scavata frettolosamente. Agguati notturni tesi a Tizio che rientrava dall’osteria e si trovava con un indesiderato surplous di piombo nello stomaco. Bombe a mano lanciate nelle sedi dei partiti, stanzoni messi a disposizione da questo o da quello; irruzioni a suon di spranghe e schioppettate sulla base del solo sospetto che proprio lì, in quel luogo, un manipolo di dissidenti cercasse di rinfocolare le lotte politiche del dopoguerra. La politica, insomma, veniva vissuta visceralmente e impetuosamente e, morto un leader, se ne cercava un altro. La dialettica nelle piazze era cambiata di poco, se non di nulla: alle camicie nere e agli «eja eja alalà!» erano subentrate bandiere rosse e pugni alzati.
Un uomo incarnava tutto ciò e plasmava le folle tornate a riempire le piazze: Palmiro Togliatti. Figura controversa: ideologicamente aderente alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, intendeva importare anche in Italia il modello sovietico; le sue erano idee forti, spesso eversive, talvolta anche scomode, se non addirittura poco limpide: non fu mai realmente chiarita, ad esempio, la sua posizione politica sui Quaranta Giorni di Trieste e Gorizia, quando il IX° Korpus jugoslavo invase le due città firmando una delle pagine più assurde e dolorose del nostro recente passato: quella delle foibe.
S’insinuava, in proposito, che i partigiani jugoslavi avessero fatto il loro ingresso nella Venezia Giulia, già con in mano le liste delle persone da epurare, fornite direttamente da esponenti del Pci; si sussurrava, altresì, che lo stesso Togliatti avesse segretamente promesso l’annessione alla Jugoslavia dell’intero Friuli Venezia Giulia fino al fiume Tagliamento, che ne sarebbe dovuto diventare il nuovo confine. In ogni caso, l’atteggiamento del leader comunista nelle discussioni e nelle lotte su Trieste e sul confine orientale, era stato tale da suscitare più di qualche dubbio.
Nella lotta politica degli anni successivi, tuttavia, Togliatti aveva impedito il deragliamento del Pci su posizioni eversive, riconoscendo, nel 1943, il governo monarchico italiano, in attesa del referendum, e impedendo, nel novembre 1947, una crisi di proporzioni imprevedibili, stroncando con poche gelide parole gli ex partigiani comunisti che avevano occupato la Prefettura di Milano: «Compagno Togliatti! Abbiamo conquistato la Prefettura!» «Bravi… e ora che ve ne fate?».
Era, dunque, mercoledì 14 luglio, quando, poco prima di mezzogiorno, Palmiro Togliatti, accalorato e insoddisfatto per la discussione che si trascinava in Parlamento, si alzò per avviarsi all’uscita secondaria di Montecitorio, seguito, a pochi passi di distanza, dall’on. Nilde Iotti, con la quale aveva intrecciato una relazione sentimentale nel 1946, allorché, giovane membro del Pci eletta alla Costituente, aveva ventisei anni.
Appena arrivato in via della Missione, il segretario comunista venne affrontato da un giovane magro e bruno il quale gli esplose contro quattro colpi, con una pistola calibro 38: attinto da tre proiettili, alla nuca e alla schiena, apparentemente privo di vita, cadde riverso sul selciato.
Mentre Nilde Iotti chiamava a gran voce i primi soccorsi, l’attentatore, Antonio Pallante, studente universitario militante in un movimento di destra, si consegnò al primo carabiniere incontrato per strada. Più tardi, avrebbe confessato di aver attentato alla vita del «Migliore», come ormai Togliatti iniziava ad esser soprannominato ironicamente dai suoi avversari, perché non tollerava che un italiano partecipasse alle riunioni del Cominform ed anche perché lo riteneva responsabile delle uccisioni di italiani avvenute nel Nord dopo la liberazione.
Trasportato d’urgenza al Policlinico di Roma, il segretario del Pci, nonostante le tre pallottole in corpo, aveva parlato con il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, giunto in ospedale cinquanta minuti dopo l’attentato; solo dopo quel colloquio venne sottoposto ad intervento chirurgico da una équipe guidata dal famoso cardiochirurgo Pietro Valdoni. All’esito dell’intervento, alle 17.45 dello stesso giorno, Togliatti fu considerato ormai fuori pericolo. In quelle ore, comunque, si erano diffuse le voci più diverse sullo stato di salute del ferito; era addirittura circolata anche la notizia della sua morte.
Il clima politico del Paese era caldissimo: soltanto due mesi prima, il 18 aprile 1948, le prime elezioni della storia della Repubblica avevano sancito la vittoria della Democrazia Cristiana sul fronte delle sinistre, a cui aderivano il Partito Comunista e il Partito Socialista. Si racconta che Togliatti, prima di entrare in sala operatoria, fosse riuscito a dire ai proprio collaboratori: «Mi raccomando, non fate sciocchezze!».
Sebbene Togliatti fosse riuscito a superare questo «terribile incidente», a ben altri rischi restava esposta, invece, la neonata Repubblica, precipitata a causa di quell’attentato in uno dei momenti più difficili della sua esistenza.
Prim’ancora che il Comitato esecutivo della Cgil avesse dichiarato lo sciopero generale, migliaia di lavoratori abbandonarono spontaneamente le fabbriche e si riversarono nelle piazze, e in questa spontanea dimostrazione di solidarietà umana, sebbene vi fossero anche agitatori, mestatori politici, facinorosi, c’era, tuttavia, soprattutto gente semplice, unicamente interessata ad avere notizie più precise sui fatti accaduti e sulla salute del leader comunista.
Con la dichiarazione di sciopero generale, invece, la spontanea dimostrazione si trasformò in un vero e proprio atto di protesta politica, denunciata dalla corrente democratica all’interno della Cgil, che, guidata da Giulio Pastore, invitò i propri simpatizzanti ad astenersi dallo sciopero. Giuseppe Di Vittorio, raggiunto telefonicamente, in America dove si trovava, dalla notizia del grave attentato prese il primo aereo per l’Italia e vi giunse la stessa notte del 14 luglio.
Il giorno successivo, 15 luglio, la protesta e le dimostrazioni degenerarono. Si occuparono fabbriche, vennero devastate decine di sedi di partito e, naturalmente, arrivarono le prime vittime. Incidenti si verificarono in diverse località, fra le quali Roma, La Spezia, Abbadia San Salvatore; nel corso di violentissime manifestazioni di protesta si registrarono alcuni morti; Genova reagì con forse maggiore tempestività ed impegno, sia per la forte presenza comunista fra la sua popolazione sia perché a molti non era sfuggito il ricordo sentimentale di un Togliatti genovese, sebbene emigrato subito dopo la nascita in Sardegna, per vivere poi a Torino e, a lungo, in Russia; gli operai della Fiat di Torino sequestrarono nel suo ufficio l’amministratore delegato Vittorio Valletta; buona parte dei telefoni pubblici smisero di funzionare e si bloccò la circolazione ferroviaria; in Puglia, l’incidente più grave avvenne a Taranto ad appena tre ore dopo l’attentato a Togliatti: la città era imbandierata e festante per la Fiera del Mare che avrebbe dovuto svolgersi il giorno successivo, ma le notizie apprese dalla radio produssero un moto spontaneo di popolo che al primo incontro con la forza pubblica si incattivì; lo scontro iniziò con il lancio di sassi e finì a revolverate: un agente ed un operaio rimasero uccisi. La scintilla che scatenò le tante piccole e grandi battaglie nei maggiori centri urbani del Paese fu, tuttavia, il subitaneo, enorme spiegamento delle forze dell’ordine, predisposto dal ministro dell’Interno, il democristiano Mario Scelba: il manifesto della Cgil, apparso su tutti i muri delle grandi città, era stato particolarmente duro, nel dichiarare che il Governo, per la politica che perseguiva, non garantiva la libera e pacifica convivenza di tutti i cittadini nell’ambito della legalità democratica, ma il comunicato del Governo, in risposta alla Cgil, fu perfino più duro e insinuante, nell’affermare l’esistenza di uno scopo dichiarato di sovvertire la situazione creata dalle elezioni.
Il 16 luglio, alle ore 12, lo sciopero generale terminò; si registrarono sedici morti e alcune centinaia di feriti. Circa settemila sarebbero state le denunce, gli arresti e i fermi, a cui sarebbero seguiti processi destinati a protrarsi sino a tutta la prima metà degli anni Cinquanta. Nell’ottobre del 1951, Pietro Secchia traccerà in Senato il bilancio di un biennio di repressione poliziesca: sessantadue lavoratori uccisi, più di tremila feriti, più di novantamila arrestati e quasi ventimila condanne, per settemilacinquecentonovantotto anni di carcere complessivi.
Cap. XXXVI
Il caso Montesi
Una mattina dell’incipiente primavera del 1953, sull’arenile di Tor Vaianica, un ragazzo rinvenne il cadavere di una giovane donna, dell’apparente età di venti o, forse, venticinque anni, capelli chiari, mani lunghe e affusolate, unghie dipinte di rosso.
Quei miseri resti appartenevano a Wilma Montesi, ventitreenne romana, bionda, formosa, di famiglia piccolo borghese.
La polizia, per bocca del questore di Roma, fornì una versione del fatto che apparve subito più tosto bizzarra: « La ragazza si era recata più volte a Ostia per pediluvi di acqua marina. Colta da improvviso malore, è scivolata in acqua ed è annegata ». Fu così che ben presto iniziò a circolar voce che le circostanze in cui era avvenuta la morte della giovane sarebbero state tali da coinvolgere la responsabilità di un uomo che si trovava con lei quando era stata colta dal malore mortale.
Quando la povera Wilma morì, non si parlava ancora né di Moro, né di Sofri, né di Gelli e neanche di Craxi, e pure la logica surreale dei servizi segreti e della giustizia era già ben visibile, solo che si avessero occhi per vederla.
Su un giornale di tendenze neofasciste apparve una vignetta di rara malizia, raffigurante un reggicalze portato in questura da un piccione viaggiatore: un chiaro riferimento al ministro degli Esteri Attilio Piccioni, successore in pectore di Alcide De Gasperi.
Mancava un mese alle elezioni politiche e s’era nel pieno della polemica pro o contro la legge che aveva modificato in senso maggioritario il sistema proporzionale precedentemente in vigore, introducendo un premio di maggioranza, consistente nell’assegnazione del sessantacinque per cento dei seggi della Camera alla lista o a un gruppo di liste apparentate in caso di raggiungimento del cinquanta per cento più uno dei voti validi.
Non stupisce, dunque, che in quel momento di febbre elettorale si cercasse di servirsi anche di un argomento così pietoso a fini di propaganda politica.
Nel dramma Montesi, a quel punto, entrò in scena una nuova protagonista, la Fama o Diceria, sorta d’ombra del crimine, che può proteggere, ma anche tradire il criminale, componente fondamentale anche di molti altri processi memorabili celebrati in Italia. La polizia condivide con il popolo, di cui è al servizio e da cui proviene, la certezza che ovunque avvenga un delitto, prima o poi qualcuno ne parlerà: un vicino, una portinaia, un passante, un testimone casuale.
Probabilmente, si pensa, non sporgerà denuncia, perché questo potrebbe comportare noie e fastidi, se non essere addirittura pericoloso: chi sa in quali guai, ragiona la gente, ci si andrà a cacciare! Ma non si può tener solo per sé quel che si è visto o supposto: se ne parlerà, magari, sotto banco, per allusioni; un giorno una di queste allusioni rimarrà impigliata nella rete della polizia e dei suoi informatori; e non andrà certo perduta: non appena una voce giunge all’orecchio degli investiganti e diventa, quindi, «ufficiale», essa si consolida, prende corpo, assume forma durevole.
La forma, per intenderci, del dossier, nella quale si materializzerà tutto ciò che si è infiltrato, inafferrabile, attraverso le pareti, tutto quel che un alito di vento ha soffiato all’orecchio. Nel dossier entrano più informazioni di quante il cittadino possa immaginare: dai precedenti penali, agli scritti ufficiali, ai documenti, e giù giù sino alle segnalazioni, alle osservazioni, alle informazioni di seconda, terza e quarta mano, alle supposizioni, alle insinuazioni. Esso ripete, insomma, lo schema classico di un’indagine poliziesca che utilizza ancora agli strumenti propri del secolo XIX, quelli di Fouché e di Metternich.
Voci e dossier, originariamente, erano, infatti, strumenti delle potenze regnanti, contro cui non esistevano né obiezioni né difese e soltanto le autorità decidevano in quale modo e contro chi usare le informazioni incappate nelle reti della polizia.
All’epoca dell’affaire Montesi, erano ormai passati, anche in Italia, i tempi dello Stato autoritario, ma la democrazia italiana scoprì d’essersi munita di uno strumento che, nella ricerca delle informazioni attraverso voci e dossier, può competere con la stessa polizia e usare questi metodi contro chi li ha diffusi: la stampa.
Fu, dunque, insieme colpa e merito della stampa se la storia della fanciulla annegata della Ballata di Bertolt Brecht, che è anche quella di Ofelia, della Maria di Woyzeck, delle eroine di Reinhold Lenz e di Charles Baudelaire, è venuta ad associarsi, nell’immaginario collettivo, a storie di droga, di orge e di milioni tipiche dei romanzi d’appendice, fino a formare una sorta di sciarada del potere che dominava in Italia; e se il destino di una ragazza morta venne trasformato in uno scandalo che avrebbe condotto la società italiana sulla soglia di una sommossa.
Cap. XXXVII
L’affaire Mattei
Sabato 27 ottobre 1962, ore 18 e 50. Poco prima di atterrare all’aeroporto di Linate, l’aereo Morane Saulnier 760, proveniente da Catania e diretto a Milano, si schianta sulle campagne di Bascapé, nel cuore della provincia pavese. I corpi, orribilmente mutilati e carbonizzati del presidente dell’Eni Enrico Mattei, del pilota Irnerio Bertuzzi e del giornalista americano William McHale, finiscono a pezzi tra le pozzanghere.
Vissuto da ragazzo nelle Marche, ma ben presto partito per Milano a cercare il futuro, Enrico Mattei vi aveva avviato una piccola fortunata industria chimica; dopo aver partecipato alla Resistenza, aveva frequentato gli ambienti politici democristiani, rivitalizzato l’Agip e fondato l’Eni, rivoluzionato la politica energetica nazionale ed internazionale, diventando «l’italiano più importante dopo Giulio Cesare». La sua strategia, volta a spezzare il monopolio delle «sette sorelle», sia per il tornaconto dell’ente petrolifero nazionale sia per stabilire rapporti nuovi tra i paesi industrializzati e i fornitori di materie prime, era semplicemente inaccettabile per le grandi compagnie petrolifere, che si spartivano le ricchezze del mondo.
Testimone oculare del disastro è Mario Ronchi, un agricoltore abitante nella vicina cascina Albaredo, che fornisce due versioni antitetiche. Nell’immediatezza, racconta a Fabio Mantica, cronista del Corriere della Sera, di un «tuono strano, perché anche se pioveva, non pareva tempo da nubifragio»; di una palla di fuoco che rotola nel cielo, seguita da numerose «stelle filanti», di bagliori luminosi che scendono rapidamente verso terra sotto una pioggia battente, precisando d’aver capito subito che si trattava di un aereo.
Escusso dai carabinieri, il 29 ottobre 1962, Mario Ronchi cambia tutto: racconta d’aver notato, a trecento metri da casa sua, a terra e non più in cielo, «un incendio di proporzioni gigantesche»; di aver tentato d’avvicinarsi al luogo della sciagura, ma «di essere stato bloccato dalle fiamme, dal buio intenso e dalla pioggia»; di aver capito solo più tardi che si trattava di un apparecchio caduto.
Nel 1997, lo stesso Ronchi spiegherà che la mattina del 28 settembre 1962, quindi dopo l’uscita del pezzo di Mantica con le sue rivelazioni a caldo, alcuni dipendenti della Snam, consociata dell’Eni, si presentarono alla sua cascina e l’accompagnarono in un non meglio precisato ufficio, dove venne interrogato su quanto aveva visto la sera precedente. Non si sa cosa sia effettivamente accaduto in quell’ufficio, non si può dunque affermare che il testimone fosse stato minacciato, subornato o, magari, semplicemente consigliato di modificare la sua originaria versione. Si sa, però, che Mario Ronchi, dopo quel colloquio, stipulò un regolare contratto per la pulizia e il taglio dell’erba nel recinto Snam, con la retribuzione di circa ottocentomila lire all’anno. Sulla scorta della seconda versione, reiterata da Mario Ronchi alla Commissione ministeriale d’inchiesta, resta esclusa l’ipotesi del sabotaggio e sull’intera vicenda cala un ultratrentennale silenzio.
Nonostante depistaggi, manipolazioni, soppressioni di prove e di documenti, pressioni che impediscono l’accertamento della verità, le indagini sulla morte di Mattei, riaperte a metà degli anni Novanta, dalla Procura di Pavia, grazie soprattutto alle nuove competenze tecniche e alla ricerca sugli effetti delle esplosioni sui metalli, pervengono a esiti clamorosi: l’aereo fu dolosamente abbattuto.
Donato Firrao, docente di tecnologia dei metalli al Politecnico di Torino, consulente del pubblico ministero pavese, non ha dubbi: «è scoppiata una bomba sull’aereo, si è trattato di un sabotaggio», e la sua certezza si basa sull’analisi dei frammenti metallici, che forniscono dei segnali microstrutturali inequivocabili.
Il 20 febbraio 2003, il procuratore di Pavia Vincenzo Calia chiuderà, però, l’inchiesta, chiedendo l’archiviazione per quanto riguarda esecutori e mandanti. Pur non essendo stati trovati i colpevoli, nella richiesta di archiviazione il magistrato scrive, tuttavia, che «la programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e comportarono il coinvolgimento di uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano».
Per il pubblico ministero, insomma, il fondatore dell’Eni fu inequivocabilmente vittima di un attentato, la cui «esecuzione (…) venne pianificata quando fu certo che (…) non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato»; l’esplosione nei cieli di Bascapé, che abbatté il bimotore Morane Saulnier fu causata da una bomba collocata nel carrello d’atterraggio del velivolo; e anche l’inchiesta del 1962, presieduta dal generale dell’Aeronautica Ercole Savi, conclusasi dichiarando l’impossibilità di accertare la causa del disastro, fu in realtà un mostruoso insabbiamento, a cui non sarebbero stati estranei uomini inseriti nell’Eni e negli organi di sicurezza dello Stato.
Iniziata la sua carriera di piccolo industriale privato, prima in una conceria a Matelica, poi nel mercato delle vernici a Milano, dove si era trasferito nel 1928, Enrico Mattei, attraverso Marcello Boldrini, entrò qui in contatto con gli eredi del Partito Popolare di don Luigi Sturzo.
Fu proprio il professore di Statistica all’Università Cattolica, anche lui di Matelica, ad aiutarlo, nei primi anni Quaranta, a uscire dall’anonimato politico, per assumere un ruolo di primo piano nell’Italia democratica, facendogli conoscere, a Roma, Giuseppe Spataro, già numero due di don Sturzo nel Partito Popolare, che avrebbe lavorato al fianco di Alcide De Gasperi e di Guido Gonella, insieme a Ivanoe Bonomi e ad altri personaggi dell’Italia prefascista, nei 45 giorni del primo Governo Badoglio. Spataro, a sua volta, segnalò Mattei al gruppo dei dirigenti cattolici milanesi, perché lo tenessero presente per compiti futuri.
Così, quando dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, iniziò la stagione della Resistenza, Enrico Mattei fu designato rappresentante dei partigiani cattolici, nel Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai), con l’incarico di gestirne le finanze. Veste nella quale fece il giro di tutte le formazioni partigiane dell’Italia Settentrionale, per rendersi conto delle diverse situazioni e necessità.
L’unica a non reclamare aiuti, né in mezzi né in denaro, e a volere restare finanziariamente autonoma dal potere centrale fu la brigata «Giovanni Di Dio», comandata da Eugenio Cefis, di quindici anni più giovane di Mattei, già ufficiale in servizio permanente effettivo, il quale, subito dopo l’8 settembre, aveva lasciato l’esercito italiano per unirsi ai partigiani, entrare, quindi, subito in contatto con gli americani della testa di ponte vicino a Bergamo e così stabilire un solido canale per copiosi rifornimenti.
Sino alla fine della guerra di Liberazione, non furono molti i contatti fra Mattei e Cefis: per non entrare in conflitto con il secondo, che mostra chiaramente di non gradire interferenze nel suo operato, quella di Bergamo è zona che il primo evita con cura. Erano due caratteri temprati dalla guerra: tanto Cefis era freddo e determinato quanto Mattei era impulsivo e passionale; ma condividevano entrambi un anticomunismo viscerale, che portò il secondo a fondare la Federazione Italiana Volontari della Libertà, sorta di «quarta colonna contro il comunismo», col compito di «sorvegliare nelle fabbriche ogni nucleo promotore della disobbedienza, delle minacce contro l’efficienza e la produttività, e ostacolare la scalata comunista ai posti e alle posizioni di comando e di responsabilità»; e il primo, memore dei suoi antichi legami con gli americani in Val d’Ossola, a iniziare, in tempi di Guerra fredda, a coltivare rapporti con l’oltranzismo atlantico, fino ad alimentare veri e propri sogni autoritari, nella seconda metà degli anni Settanta.
Nominato, con l’avallo del capo dell’amministrazione militare alleata Charles Poletti, commissario straordinario dell’Agip, l’ente per la lavorazione e la distribuzione dei petroli, Enrico Mattei s’insediò il 12 maggio 1945, con le macerie della guerra ancora fumanti.
Il suo compito era quello di liquidare le attività d’un’azienda di Stato, considerata ormai un carrozzone inutile: aveva già scavato trecentocinquanta pozzi senza mai trovare nulla. E, poi, c’era una direttiva dei colonnelli Usa Henderson e King, che imponeva il passaggio immediato della distribuzione dei prodotti Agip al Comitato Italiano Petroli (Cip), ente in mano agli Alleati. Mattei, convinto che le smobilitazioni volute dagli americani fossero in contrasto con gli interessi nazionali, fece tutto il contrario, intenzionato a garantire un polo energetico nazionale, in grado di assicurare lo sviluppo della piccola e media impresa a prezzi più bassi rispetto a quelli degli oligopoli internazionali, a un Paese che doveva essere ricostruito, in cui il carbone scarseggia e non c’era traccia di altre materie prime.
Per conseguire l’obiettivo, Mattei aveva bisogno, però, di alleanze politiche, di rapporti forti nel governo, di abili collaboratori pronti a tutto. Ed è a questo punto che si ricorda del combattente «Alberto», cioè di Eugenio Cefis, il partigiano freddo, glaciale, lesto di fucile, amico degli americani, ex ufficiale del Sim (Servizio informazioni militare), al quale offrì di entrare a lavorare con lui all’Agip.
Sotto la spinta propulsiva di Enrico Mattei e del suo staff tecnico, l’Agip ottenne risultati insperati ed eccezionali: un giacimento di gas naturale fu scoperto a Ripalta; un piccolo giacimento di petrolio a Cortemaggiore.
Questi giacimenti apparivano senz’altro inadeguati a soddisfare il fabbisogno energetico nazionale, tuttavia Mattei, mettendo in campo la sua innata capacità comunicativa, ne enfatizzò a dismisura la portata economica effettiva, così da alimentare il mito di una rinascita economica italiana: le azioni dell’Agip salgono vertiginosamente, come pure la popolarità e il carisma politico dello stesso Mattei, che, nel 1953, diede impulso alla costituzione dell’Eni, super ente deputato a coordinare tutte le attività riguardanti gli idrocarburi e a sovrintendere ad esse.
Resosi, per altro, immediatamente conto dell’impossibilità di reperire nel sottosuolo italiano il petrolio necessario a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese, Mattei decise anche di uscire dall’ambito nazionale e puntare tutto sul commercio diretto con i Paesi produttori di greggio, andando a contrastare su scala mondiale gli interessi economici del gigantesco cartello che raggruppa le sette più potenti compagnie petrolifere del mondo, tutte americane e britanniche, che detengono il monopolio di fatto del mercato internazionale. A tal fine, dovette fare uso sia della sua proverbiale capacità comunicativa per assicurarsi l’appoggio e la benevolenza di parte dell’opinione pubblica nazionale, sia di tutta la sua abilità diplomatica nell’intavolare difficili trattative con i Paesi arabi, per la ratifica di accordi commerciali vantaggiosi e per l’Eni e per i Paesi produttori. La grande intuizione del presidente dell’Eni fu quella di promuovere un dialogo paritario ed equilibrato con i Paesi in via di sviluppo, che continuavano a subire il giogo del passato coloniale. Di qui il tentato accordo con lo Scià di Persia e i tentativi con il Marocco, la Libia, e l’Algeria dove, sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale durante la guerra franco-algerina, assicurò una corsia preferenziale all’Eni presso il futuro governo algerino. Gli accordi commerciali che Mattei promuoveva erano di portata rivoluzionaria e arrecavano enormi vantaggi ai Paesi produttori di greggio: il 75% dei profitti contro il 50% offerto dal cartello petrolifero mondiale, e, in aggiunta, la promessa di utilizzo e qualificazione della forza-lavoro locale.
Il fatto che si ponessero così le basi per un possibile sviluppo industriale delle ex colonie europee, uno sviluppo industriale equo ed autonomo dal controllo delle grandi potenze mondiali era il motivo della crescente ostilità che la politica «neoatlantista» di Mattei attirava su di sé, da parte di ambienti legati non solo alle grandi compagnie petrolifere, ma anche ai governi di Inghilterra e Usa, che temevano i risvolti tanto politici quanto economici della via inaugurata dal presidente dell’Eni.
Ostilità più di Londra che di Washington: erano i servizi segreti di sua maestà a lavorare per rovesciare il governo libico, che ha raggiunto un accordo di massima con Mattei. In un rapporto confidenziale del Foreign Office britannico datato 19 luglio 1962, del resto, si legge: «Il Matteismo è potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza. Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica Matteista rappresenta la distruzione del libero sistema petrolifero in tutto il mondo».
Nonostante la propaganda faziosa intendesse dipingerlo come tale, il neoatlantismo di Mattei non era affatto un antiamericanismo: la battaglia del presidente dell’Eni non era contro gli Stati Uniti d’America, ma contro il sistema coloniale perpetrato dalle grandi holding petrolifere. E di questo Mattei riuscì addirittura a convincere il presidente J. F. Kennedy, che, da parte sua, esercitò pressioni su una delle compagnie facenti parte delle «Sette sorelle», la Exxon, affinché concedesse all’Eni diritti di sfruttamento. Sembra anzi che Mattei si dovesse recare a Washington per la ratifica di questo accordo, fortemente caldeggiato dal presidente americano, ansioso, dopo la risoluzione positiva della crisi dei missili a Cuba, di dare seguito ad una politica di distensione mondiale.
Ad impedire l’evento intervenne, però, il 27 ottobre 1962, la tragedia di Bascapè.
Enrico Mattei aveva surrogato la politica estera del Governo, scompaginato i giochi delle major petrolifere, disturbato gli interessi degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica per le sue posizioni terzomondiste e le sue aperture all’Urss e agli Stati mediorientali; esercitava una forte influenza su chi avrebbe dovuto controllarlo, il ministro delle Partecipazioni statali Giorgio Bo; aveva un forte ascendente su Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica, ruolo al quale sembrava aspirasse; aveva creato dal nulla la corrente democristiana di Base, guidata da Giovanni Marcora; con la forza e il denaro dell’Eni alimentava la politica, i partiti e, last but not least, a differenza degli altri, lo dichiarava. Non a caso, dunque, fu scritto che con la morte del fondatore dell’Eni mezza Italia continuò a ricattare per decenni l’altra metà.
Qualunque sia il lato da cui la si osservi, l’affaire Mattei, nella storia della Repubblica, appare una delle prime e più eclatanti operazioni di depistaggio e disinformazione. L’inchiesta della Procura di Pavia, avviata nel 1994, chiusa nel 2003 e archiviata nel 2005, ha stabilito che il Morane Saulnier della Snam partito dall’aeroporto di Catania, su cui viaggiava il presidente dell’Eni, fu sabotato. Non di meno, le opinioni sulle cause della sciagura continuano a divergere. Non manca, infatti, chi sostiene ancora che il disastro fu dovuto al maltempo imperversante quella sera su Linate e a un errore di manovra del pilota, nella fase di avvicinamento alla pista, giusta la conclusione a cui approdò la commissione d’inchiesta istituita dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti, condivisa, per altro, anche da autorevoli esponenti del mondo Eni, di indiscussa statura morale e, dunque, al di sopra di ogni sospetto. Né manca chi reputa stravagante la scelta dell’accusa, di chiudere il caso, chiedendo e ottenendo dal giudice l’archiviazione delle indagini, perché, dicono, se c’è un crimine deve esserci anche un criminale che l’abbia commesso, quasi che ignoto il reo il reato evapori.
C’è, però, anche chi sposa questa scelta senza riserve, dando atto al «coraggioso e valoroso» inquirente di aver gestito l’indagine «con grande professionalità e soprattutto con rara e apprezzata discrezionalità (sic!)». Là dove è evidente, sia detto per inciso, che la scelta di una fra più possibili alternative, implicata dalla parola «discrezionalità», nulla abbia a che vedere con la «discrezione», propria di chi, senza nulla lasciar trapelare sui media, abbia assunto come testimoni, accanto a gente comune, vertici delle istituzioni; sottufficiali e alti ufficiali dei servizi, dei Carabinieri e dell’aeronautica militare; politici; parenti di Mattei; familiari di Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo, scomparso mentre indagava sugli ultimi due giorni del presidente dell’Eni in Sicilia; Eugenio Cefis, che dopo aver preso il posto di Mattei aveva scalato la Montedison e ne aveva assunto la presidenza, lasciando l’Eni.
Già nella prima biografia politica del fondatore dell’Eni, scritta da Giorgio Galli nel 1976, si ipotizzava che la tragedia di Bascapè fosse da ascrivere a un attentato e si collocasse nell’alveo della strategia della tensione e del patto scellerato mafia-politica, che avrebbe portato, nel 1969, alla fuga dal carcere del boss Luciano Liggio, mentre era in corso di preparazione la strage di Piazza Fontana, così spianando la strada all’affermazione dei «corleonesi» in Cosa Nostra.
Sempre secondo ricostruzioni d’antan, la collaborazione di Cosa Nostra al sabotaggio del Morane Saulnier mentre si trovava nell’aeroporto di Fontanarossa sarebbe arrivata tramite il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, molto vicino a Graziano Verzotto, segretario regionale della Dc siciliana, responsabile delle relazioni esterne dell’Eni nell’Isola e futuro presidente dell’Ente minerario siciliano.
è noto che Mattei, reso cauto dalle minacce di morte ricevute, fosse restìo ad andare in Sicilia, da dove era appena tornato. A convincerlo della necessità di quel viaggio, si racconta, sarebbero state le insistenze del presidente della Regione siciliana, Giuseppe D’Angelo, che ne reclamò la presenza a Gagliano Castelferrato, Comune dell’ennese in cui l’Eni aveva trovato metano, per calmare gli abitanti, insorti nel timore che non si volessero più realizzare gli investimenti promessi.
Si vera sunt exposita, considerato che Mattei ricevette a Gagliano Castelferrato un’accoglienza entusiastica e che il suo discorso fu un trionfo, se ne dovrebbe inferire che Giuseppe D’Angelo, il quale, invitato ripetutamente da Mattei ad accompagnarlo nel volo di ritorno a Milano, gli avrebbe poi opposto un fermo rifiuto, mentisse e che, dunque, il presidente dell’Eni fosse stato fraudolentemente attirato nell’Isola, indotto a spostare l’aereo da Gela a Catania, dove qualcuno lo avrebbe sabotato, e ad anticipare la partenza dalla sera al pomeriggio del 27 ottobre 1962.
Il 25 ottobre 1962, quarantott’ore appena prima del disastro di Bascapè, il Financial Times pubblicò un articolo dal titolo «Will signor Mattei have to go?»: se ne dovrà andare il signor Mattei? «L’ironia della situazione», scriveva il giornale, «è che tra i molti argomenti usati contro di lui c’è anche quello ch’egli non saprà adattarsi all’economia pianificata decisa dall’attuale governo di centro-sinistra. Egli è ora accusato di autocrazia e alcuni dei membri del governo più convinti della necessità della pianificazione affermano che è necessario rimpiazzarlo con un esecutore più docile». Il mandato di Mattei sarebbe scaduto, nel marzo del 1963, dopo essere stato già rinnovato una volta, nel 1957.
Allora era stato un fatto d’ordinaria amministrazione, questa volta si sarebbe accesa un’accanita battaglia politica intorno al suo nome. La morte gli evitò, dunque, di veder messa in discussione la sua opera, da parte di quegli stessi uomini a fianco dei quali aveva per lungo tempo combattuto, per il conseguimento d’obiettivi comuni.
Pur se diverso nei mezzi e nei fini, Mattei apparteneva anch’egli al mondo dei vari Valletta, Mariotti, Costa, Giustiniani, sgominati dalla nazionalizzazione elettrica, così che il tramonto di costoro coincise sia con la sua morte fisica sia col declino dell’Eni, quale era stato per tutto l’arco degli anni Cinquanta.
Fu Raffaele Mattioli, come raccontano Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani (Razza padrona, Rizzoli, Milano 1974), a rievocare i tratti salienti della sua opera: «Ha creato l’Eni partendo da zero, e l’Eni ormai fa parte del panorama industriale italiano», disse Mattioli, «ma dei fini che si proponeva non ne ha raggiunto nessuno. I suoi successori appartengono a una razza diversa, si propongono altri obiettivi. Se Mattei riaprisse gli occhi oggi non riconoscerebbe la sua creatura».
Stando sempre alla narrazione di Scalfari e Turani, a chi gli domandava cosa restasse dell’opera di Mattei, a parte un’azienda come l’Eni e la scoperta del metano in Val Padana, Mattioli rispose: «Rimane che Mattei ha insegnato ai suoi successori come si può comprare la Repubblica»; e poiché stimolato, «Tu pensi che sia stato un corruttore?», aggiunse: «Vedi caro, il caso Mattei è diverso. Lui è stato il più grande corruttore di questo paese. Dico grande non per le somme spese o il fascino che impiegò per sedurre, ma per un’altra ragione: Mattei ha messo le debolezze e la corruttela dei politici al servizio del suo disegno. Gli altri che sono venuti dopo l’hanno imitato solo nel peggio: hanno messo la corruttela dei politici a servizio dei loro interessi. Che pena». Sfruttando, dunque, la posizione dell’Eni, Mattei aveva costituito un suo sistema di potere, che esercitava influenze e pressioni, stabiliva alleanze politiche, svolgeva, insomma, un ruolo di protagonista, molto al di là della sfera naturale del grande imprenditore pubblico.
A Mattei succedette Eugenio Cefis, che fra tutti era l’unico a non aver subito il fascino del capo, al quale incuteva rispetto e fastidio ad un tempo. Entrò sulla scena italiana in punta di piedi, come un grosso gatto sornione, capace di balzi felini mentre tutti lo credono addormentato sopra un fornello, e pose mano a un sistema che divenne progressivamente un vero e proprio potentato: sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche, condizionava pesantemente la stampa, usava illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo d’informazione, praticava l’intimidazione e il ricatto, compiva manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompeva politici, stabiliva alleanze con ministri, partiti e correnti.
Nella struttura del sistema politico-economico-istituzionale italiano, col sistema Cefis, trovarono spazio e ragion d’essere centri di potere decisionali alternativi in grado di surrogare le istituzioni statuali a causa della progressiva perdita di capacità dei meccanismi democratici e parlamentari, di rappresentare ed esprimere le grandi scelte politiche. Breve, la crescita dei poteri occulti intrecciati con i poteri ufficiali, com’era quello che prese corpo intorno a Cefis, trasse origine, ad un tempo, dalla trasformazione partitocratica del regime democratico e dalla crisi dei partiti della maggioranza, a cominciare dall’asse portante dei governi di oltre un ventennio, la Democrazia cristiana.
Cap. XXXVIII
Il «Sistema Cefis»
Eugenio Cefis, presidente dell’Eni nella seconda metà degli anni Sessanta e quindi alla testa della Montedison dal maggio 1971, usando la preminente posizione in campo economico e finanziario, delegatagli dai politici, organizzò un centro di potere che si avvaleva in maniera sempre più aggressiva delle risorse del gruppo da lui gestito, per annettere a sé uomini, gruppi e risorse nei diversi settori della vita nazionale (per quel che ha rappresentato Eugenio Cefis sulla scena italiana è utile consultare Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, Razza padrona, Rizzoli, Milano 1973).
Il sistema Cefis, sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche, divenne progressivamente un vero e proprio potentato, in grado di condizionare pesantemente la stampa, usare illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, praticare l’intimidazione e il ricatto, compiere manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompere politici, stabilire alleanze con ministri, partiti e correnti.
La capacità dell’uomo e del suo sistema di coinvolgere elementi nei più disparati settori era esemplare. Come prima il «partito di Mattei» aveva spostato equilibri politici e condotto un’autonoma politica estera, così, all’inizio degli anni Settanta, il «partito di Cefis» poteva contare, in Parlamento, sostenitori in tutti i settori dello schieramento politico.
L’Eni prima e la Montedison poi, con la presidenza Cefis non furono semplici anche se potenti lobbies economico-finanziarie, ma vennero usate come strumenti di intervento per influenzare il corso degli avvenimenti del Paese.
L’uso illecito di apparati dello Stato a fini privati ed extraistituzionali raggiunse il massimo nel rapporto tra Cefis e i servizi segreti.
Il presidente della Montedison assoldò un vero e proprio servizio di informazioni con elementi appartenenti o appartenuti al Sid, che preparano fascicoli e informative su uomini politici e imprenditori da utilizzare per manovre di ogni tipo. Il capo del Sid del tempo, Vito Miceli, era in ottimi rapporti con Cefis tanto da chiedergli, nel momento della sua incarcerazione, un contributo in denaro per alleviare le presunte cattive condizioni finanziarie: ebbe a riferirlo Ugo Niutta, audito dalla Commissione P2, il primo dicembre 1983. Ma l’asse principale con l’apparato del servizio segreto è stabilito con il generale Gianadelio Maletti, responsabile del servizio parallelo di intercettazioni e spionaggio realizzato per conto della Montedison, con collegamenti anche con il comandante generale dei carabinieri, generale Enrico Mino.
Anche l’importanza del controllo della stampa al fine dell’esercizio del potere non sfuggì a Cefis e al suo gruppo di «amici», primi fra tutti Gioacchino Albanese, Ugo Niutta e Umberto Ortolani.
Il giorno stesso del referendum sul divorzio, 13 maggio 1974, si diede l’annuncio che Il Messaggero era stato acquistato dalla Montedison, per evitare che si ripetessero campagne di libertà come quella che il giornale romano aveva condotto in prima linea a favore del divorzio.
L’acquisto de Il Messaggero, del resto, non fu che il caso più eclatante di una più generale offensiva per la conquista e l’assoggettamento della stampa (per questa fase dell’assalto ai giornali si veda Giampaolo Pansa, Comprati e venduti, Bompiani, Milano 1977): alcune testate vennero direttamente comperate e altre finanziate, come il Giornale nuovo, La Gazzetta del Popolo, Il Borghese, Paese Sera; e i giornalisti furono assoggettati a condizionamenti, sino alla corruzione, perfezionando le pratiche che erano già state ampiamente sperimentate da Mattei.
Potere economico e finanziario, controllo della stampa e uso dei servizi segreti non erano altro per Cefis che le premesse e gli strumenti per esercitare pressioni sul mondo politico, per stabilire alleanze e per usare i partiti che a loro volta utilizzavano i servizi di Cefis.
Il presidente della Montedison fu il padrino della più importante operazione politica del tempo, il cosiddetto «patto di Palazzo Giustiniani», che nel giugno 1973 riportò Amintore Fanfani alla testa della Dc e delineò l’assetto del partito sotto la guida congiunta dei due «cavalli di razza», Aldo Moro e lo stesso Fanfani.
Anche l’assoggettamento dei giornali, oltre ad essere finalizzato al sostegno delle manovre economico finanziarie, doveva servire per Cefis come merce di scambio con i partiti: «Ho comperato Il Messaggero per fare piacere a Fanfani e a De Martino dichiara Cefis nel 1976 in una intervista a Biagi».
In definitiva, questo complesso sistema di potere cefisiano, al tempo stesso occulto e funzionale alla natura della lotta politica del Paese, puntava anche a trasformazioni istituzionali dell’assetto dello Stato: al culmine dell’espansione del suo potere, (come nella citata Audizione riferirà ancora Ugo Niutta), Cefis enunciò una sorta di proposta tecnocratico autoritaria, la cui ispirazione di fondo viene annunciata in un discorso non casualmente tenuto all’Accademia militare di Modena nel febbraio 1972.
Il caso Cefis, non nuovo, ma certamente più complesso di altri simili che lo avevano preceduto, sulla scena italiana, era il sintomo inequivoco di come trovassero spazio e ragion d’essere, nella struttura del sistema politico economico-istituzionale italiano, dei veri e propri centri decisionali alternativi, in grado di surrogare le istituzioni dello Stato a causa del progressivo indebolimento dei meccanismi democratici e parlamentari e della degenerazione dei partiti nonché della loro capacità di rappresentare ed esprimere le grandi scelte politiche. Il sistema di potere cefisiano, protagonista della vita nazionale nella prima metà degli anni Settanta, più in particolare, non si sarebbe potuto sviluppare senza il logoramento della Dc, partito inteso come organismo unitario dotato di autonomia politica, capace di rappresentare, mediandoli, gli interessi di uno schieramento moderato di centro maggioritario nel Paese.
La crescita di poteri occulti intrecciati con i poteri ufficiali, come era quello che aveva preso corpo intorno a Cefis, traeva la sua origine, per un verso, dalla trasformazione partitocratica del regime democratico e, per l’altro, dalla crisi dei partiti della maggioranza, a cominciare dall’asse portante dei governi di oltre un ventennio, la Democrazia cristiana.
Cap. XXXIX
Giovanni de Lorenzo e il «Piano Solo»
Il «Piano Solo», approntato dal generale Giovanni de Lorenzo, Comandante dell’Arma dei carabinieri, nei dieci giorni del luglio 1964, durante i quali si dipanano le trattative per la soluzione della crisi del primo governo Moro, prevedeva l’arresto e la deportazione in Sardegna dei principali dirigenti dei partiti della sinistra e dei sindacati operai, nonché la restrizione dei diritti politici e civili della popolazione.
Esso rappresenta uno dei maggiori enigmi dell’Italia repubblicana; un mistero a lungo protetto dal segreto di Stato col risultato di alimentare interpretazioni esasperate, che lo hanno reso prototipo del golpismo potenziale, preludio alla strategia della tensione che, nel volgere di un quinquennio, precipiterà la nazione nella sanguinosa spirale terroristica.
Antonio Segni, eletto alla carica di Presidente della Repubblica, il 6 maggio 1962, da sempre ostile alla partecipazione del Partito Socialista Italiano al governo del Paese, pose Aldo Moro e Pietro Nenni di fronte ad una scelta drammatica: o si rinviavano le riforme strutturali del sistema italiano, care a Riccardo Lombardi, «a data da destinarsi» o vi sarebbe stato un gabinetto d’affari tecnico-burocratico, appoggiato dal centro-destra parlamentare e dalla destra economica, amministrativa e militare.
La paura di mosse avventate di settori degli apparati dello Stato spinsero i socialisti a rinunce fondamentali, pur di ricostituire il governo di centrosinistra con la Democrazia cristiana di Aldo Moro: in un Paese in cui era ancora ben vivo l’incubo della dittatura mussoliniana e lo spettro di Tambroni, bastava il «rumor di sciabole», per costringere Moro e Nenni ad accettare le imposizioni moderate che provenivano dal Quirinale, dalla Banca d’Italia e dal cosiddetto «Pentagono Vaticano», vale a dire gli ecclesiastici più reazionari, come il Cardinal Siri, il Cardinal Ottaviani ed il Cardinal Oddi.
Non fu necessario che il progetto golpista venisse applicato nei suoi aspetti più brutali e repressivi, perché fosse ampiamente raggiunto l’obiettivo propostosi dal Presidente Segni e dalle destre, ossia il bloccare l’azione riformatrice del centro-sinistra. Il successivo 7 agosto, Segni fu colpito da un ictus cerebrale, probabilmente dopo un’accesa discussione con l’onorevole Giuseppe Saragat, smentita, però, da entrambi i supposti protagonisti, il quale lo minacciò di denuncia all’Alta Corte, per la condotta tenuta durante la crisi di governo: probabilmente la Presidenza della Repubblica non era all’oscuro delle attività del generale de Lorenzo, ricevuto ufficialmente al Quirinale, durante le consultazioni di rito, che seguono la crisi di un governo, fatto unico ed inspiegabile nella storia repubblicana.
Accertata la condizione di impedimento temporaneo, dal successivo giorno 10, viene istituita la supplenza del Presidente del Senato, Cesare Merzagora, fino al 28 dicembre 1964. Indro Montanelli, che un decennio prima, d’intesa con l’ambasciatrice degli Stati Uniti Clare Booth Luce e alcuni intellettuali della destra, aveva auspicato l’«uomo forte», che restaurasse l’ordine e bandisse i comunisti, definì il generale de Lorenzo «guappo di cartone», innescando un’aspra polemica. Nel gennaio del 1968, infatti, il generale scrisse al giornalista una lettera risentita che chiudeva in modo brusco: «Quanto Ella ha espresso negli articoli che mi riguardano mi obbliga a definirla un buffone e un vigliacco».
Nella primavera di quello stesso anno, sacrificato dai democristiani agli alleati di governo e aspettandosi un mandato di cattura, il generale de Lorenzo, accettò la candidatura offertagli dai monarchici, che attraversando una fase difficile intendevano raccogliere così i voti dei carabinieri e dei loro familiari.
In una lettera aperta ai carabinieri e ai poliziotti, il generale presentò la propria candidatura come «un moto di rivolta» al tentativo delle sinistre «di colpire colla diffamazione e la calunnia, attraverso la (sua) persona, il prestigio, la compattezza e la funzionalità di tutte le Forze di Polizia». Per questa iniziativa, un’inchiesta militare disposta dal ministero della Difesa gli infliggerà tre mesi di sospensione dall’impiego.
Divenuto parlamentare, de Lorenzo avvalorerà lo stereotipo del generale filofascista manifestando nel centro di Roma con chi inneggiava al duce e ai colonnelli greci.
La nomea di golpista gli rimase attaccata, come pure l’etichetta affibbiatagli da Montanelli.
Cap. XL
La strage di Piazza Fontana
Al culmine della stagione di scioperi e di lotte operaie che va sotto il nome di «autunno caldo», il 12 dicembre 1969, scoppia a Milano, in una sede della Banca dell’Agricoltura, una bomba che uccide sedici persone, un’altra morrà di lì a poco, e ne ferisce altre ottantotto. Due giorni dopo, la polizia arresta Pietro Valpreda, un anarchico individualista, già espulso, per l’ambiguità e la violenza delle sue posizioni, dal circolo milanese «Ponte della Ghisolfa», quindi fondatore, a Roma, di un suo gruppo eterogeneo di sedicenti anarchici, il «22 marzo», al cui interno ci sono un infiltrato fascista, un poliziotto in incognito che spia il gruppo, ex fascisti convertiti all’anarchia da poche settimane e ragazzi in cerca delle emozioni forti, che solo la
rivoluzione può dare.
I giornali moderati, il Corriere della Sera primo fra tutti, lo presentano all’opinione pubblica come l’autore dell’attentato.
Per accertamenti, peraltro, è convocato alla Questura di Milano Giuseppe «Pino» Pinelli, ferroviere anarchico milanese, esperantista, uomo mite, che vuol riempire la sua vita con l’impegno politico e che, sette mesi prima, ha allontanato Valpreda dal circolo «Ponte della Ghisolfa», accusandolo tra l’altro di contatti non chiari e di essere un informatore della polizia.
Passano tre notti e il corpo di Pinelli vola giù dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, dove in quel momento si trovano un ufficiale dei carabinieri e quattro agenti di polizia. è un giornalista a trovare Pinelli steso al suolo, ormai privo di conoscenza. Due ore dopo, in un’improvvisata conferenza stampa notturna, il questore di Milano, Marcello Guida, dichiara ai giornalisti che Pinelli, messo di fronte alle prove inoppugnabili della sua complicità nell’attentato eseguito da Valpreda, si è gettato dalla finestra gridando: «è la fine dell’anarchia!».
In seguito la circostanza viene, però, smentita: si dice che Pinelli, in una pausa dell’interrogatorio, per fumare una sigaretta si sia accostato alla finestra dalla quale sarebbe precipitato, poiché colto da un malore.
A queste versioni contrastanti se ne contrappone, però, una terza, cominciata insistentemente a circolare nell’ambito della sinistra, extraparlamentare e non: attinto da un colpo mortale di karate, infertogli da un agente, Pinelli sarebbe stato gettato già cadavere dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi.
Immediatamente, il gruppo Lotta Continua dà corso, sui propri organi di stampa, a una violenta campagna contro Luigi Calabresi, il funzionario di polizia che nella Questura milanese segue i gruppi della sinistra extraparlamentare, che ha orientato le indagini sugli anarchici e su Valpreda in particolare, che, soprattutto, ha condotto l’interrogatorio di Pinelli: l’accusa è di essere l’assassino.
Dopo alcuni mesi, Calabresi querela per diffamazione il giornale Lotta Continua. Nel corso del processo, il 22 ottobre 1971, si decide di riesumare il cadavere di Pinelli. Poco dopo, però, l’avvocato di Calabresi ricusa il Presidente del Tribunale e il processo è rinviato a nuovo ruolo.
Il 17 maggio 1972, Calabresi viene ucciso con due colpi di pistola sotto il portone della propria abitazione. Nessuno ne rivendica l’assassinio. Il giorno dopo, un articolo apparso sul quotidiano Lotta Continua esprime sull’omicidio un giudizio sostanzialmente favorevole, definendolo «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Qualche tempo dopo, alcuni estremisti di destra vengono indiziati del crimine, ma il procedimento verrà poi fatto cadere per mancanza di prove.
Trascorsi sedici anni, il 19 luglio 1988, un ex operaio della Fiat, già militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, si presenta alla stazione dei carabinieri di Ameglia, non lontano da Bocca di Magra, dove vive con la famiglia. Dice d’essere in preda a una crisi di coscienza e vuole confessare vari reati connessi alla sua passata militanza politica. Il 20 luglio lo conducono negli uffici del nucleo operativo dei carabinieri di Milano, dove rilascia le prime dichiarazioni. Il giorno dopo, alla presenza del sostituto procuratore della Repubblica di Milano Ferdinando Pomarici, racconta di aver preso parte, oltre che a una serie di rapine commesse tra il 1971 e il 1987, anche all’uccisione del commissario Calabresi, decisa a maggioranza dall’esecutivo nazionale di Lotta Continua: sollecitato a partecipare all’azione da Giorgio Pietrostefani, uno dei dirigenti del gruppo, vi aveva acconsentito soltanto dopo che Adriano Sofri gli aveva confermato la decisione; recatosi quindi, a Milano, aveva aspettato sotto casa di Calabresi che Ovidio Bompressi ne eseguisse l’omicidio, per poi guidare l’auto con cui erano fuggiti.
Per l’omicidio di Luigi Calabresi vengono condannati lo stesso Marino e i tre esponenti di Lotta Continua ai quali costui ha mosso le sue dirette, ma spesso contraddittorie accuse.
Cap. XLI
La violenza di Stato
Nel sofferto articolo La violenza di Stato (in Resistenza, XXIV, gennaio 1970, n. 1, p. 3) Norberto Bobbio scriveva: «Vi sono fatti inquietanti che non ci permettono di adagiarci nella tranquilla certezza che la violenza sia dall’altra parte», dalla parte cioè della protesta, dei cortei e delle agitazioni studentesche. «L’unico modo di riconoscere la violenza è quello di riconoscerla anche quando non scende e grida in piazza, ma si nasconde dietro la decorosa facciata delle istituzioni che difendiamo».
Era trascorso meno di un mese dal 12 dicembre 1969, dalla strage di piazza Fontana. Tra i vapori spessi della manipolazione mediatica e dell’opera di depistaggio, si cominciava ad intravvedere, minaccioso, il profilo ancora embrionale della «strategia della tensione». E s’intuiva, silenziosamente all’opera, l’intreccio di «apparati deviati» e di «poteri occulti», di «corpi separati» e funzionari infedeli. Ciò avrebbe indotto a parlare di «strage di Stato» e al maestro torinese avrebbe suggerito l’idea di quello che, alcuni anni più tardi, avrebbe definito il «doppio Stato»: uno «Stato normativo», lo Stato di diritto, cioè, sottoposto all’imperio della Legge, e uno «Stato discrezionale», libero di operare al di fuori del principio di legalità, «in base a un mero giudizio di opportunità».
I fatti, purtroppo, hanno confermato queste intuizioni: oggi sappiamo che i protagonisti della Prima Repubblica hanno salvaguardato il bene supremo dello Stato in continuità con il fascismo e sotto il controllo degli americani, affidandosi a una massa di personaggi senza scrupoli; una folla livida che ha agito nell’ombra, nel disprezzo della volontà popolare.
Affatto casualmente, per altro, nel 1998, dagli archivi del Viminale è venuta fuori la storia di un organismo segreto, il «noto servizio» o «Anello», di cui mai nessuno aveva mai parlato prima, sebbene, dal 1945 ai primi anni Ottanta, alle dipendenze «informali» del capo del governo, avesse svolto un ruolo decisivo nella storia della Repubblica, ostacolando le sinistre e condizionando il sistema politico con mezzi illegali, senza tuttavia sovvertirlo.
Di questo «protagonista» della guerra sporca e segreta, affidata a ufficiali felloni, soldati di ventura, artisti del ricatto, sbirri e spioni corrotti, mafiosi, trafficanti di droga, gangster, killer e prostitute, che ha insanguinato l’Italia con le stragi e attentato alla democrazia con ripetuti tentativi golpisti, era forse a conoscenza Arnaldo Forlani, segretario della Dc, che il 5 novembre 1972, pronunciò a La Spezia, durante un comizio elettorale, parole allarmanti: «è stato operato – disse – il tentativo più pericoloso che la destra reazionaria abbia mai tentato e portato avanti dalla Liberazione a oggi con una trama disgregante che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti, che ha trovato solidarietà internazionali. Questo tentativo non è finito. Noi sappiamo in modo documentato che questo tentativo è ancora in corso».
Il settimanale Il borghese del 26 novembre 1972 e il quotidiano Il Tempo del 3 dicembre successivo, pubblicarono uno scritto anonimo, già diffuso, comunque, fra i parlamentari, in cui si richiamavano fatti e indicavano personaggi che sarebbero risultati, in seguito, legati al «noto servizio».
Nel denunciare «l’esistenza di una organizzazione di estrema destra che a Milano faceva capo a un Maggiore dei Carabinieri con l’incarico di ufficiale di collegamento tra l’Arma ed il Sid, ed al costruttore Battaini», l’anonimo, secondo alcuni (S. Limiti, L’Anello della Repubblica, Milano, 2009; A. Giannuli, Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Milano 2011), avrebbe fornito una possibile chiave di lettura dell’allarme lanciato da Arnaldo Forlani: il capo del governo, Giulio Andreotti, sarebbe stato in grado di manovrare, «tramite i suoi fiduciari», il protagonismo della destra golpista, cosicché il segretario politico del suo partito avrebbe inteso indirizzargli un messaggio chiaro, dicendo di sapere «in modo documentato» che la democrazia correva un serio pericolo a causa dell’esistenza di una «trama nera».
La cautela, naturalmente, è d’obbligo, ma, dopo quarant’anni dal discorso spezzino, sparita da vent’anni la DC, cambiato il panorama politico sia interno sia internazionale, scoperto il «noto servizio», morti quasi tutti i protagonisti della strategia della tensione, Arnaldo Forlani potrebbe fornire l’interpretazione autentica delle sue parole, contribuendo così a dissipare il mistero.
Cap. XLII
L’Italia dei golpe abortiti
La sicurezza e l’ordine, in Italia, sono stati spesso il frutto di trame oscure: i protagonisti della Prima Repubblica hanno salvaguardato il bene supremo dello Stato, in continuità con il fascismo e sotto il controllo degli americani, affidandosi a una serie di personaggi senza scrupoli, una folla livida che ha agito nell’ombra, nel più assoluto disprezzo della volontà popolare.
«Vogliamo i colonnelli», uno dei film più belli, anche se non tra i più conosciuti, di Mario Monicelli, mette con inesorabile leggerezza il dito nella piaga, riecheggiando molto da vicino la vicenda del fallito colpo di Stato, che nella realtà fu tentato, con l’organizzazione neofascista del Fronte Nazionale, dal colonnello Junio Valerio Borghese, già comandante della Decima Mas, che aveva aderito alla Repubblica di Salò, dopo la caduta di Mussolini.
Il film esce nel 1973, a non molta distanza dagli eventi, che risalivano alla notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970. Ne è protagonista l’onorevole Giuseppe Tritoni, impersonato dal solito immenso Ugo Tognazzi, ex ufficiale dell’esercito, divenuto parlamentare di estrema destra, che, giudicando troppo «democratico» il suo partito, punta alla svolta autoritaria, organizzando campi di addestramento paramilitari, col supporto della Grecia, all’epoca veramente in mano ad una giunta militare, e programmando sia il rapimento del Presidente della Repubblica, che non ricorda quello di allora, quanto piuttosto il predecessore, il vecchio e malato Antonio Segni, sia l’occupazione della Rai. In Italia, quando non se ne aveva ancora piena conoscenza, forte era comunque il sospetto che dietro alle trame eversive e agli svariati golpe, a volte tentati, a volte rinviati, a volte solamente minacciati, tuttavia mai ridicoli come quello organizzato dall’onorevole Tritoni, agissero apparati d’intelligence di Stato (Sifar-Sid, Uaarr, Sios, Ufficio «I» della Gdf, eccetera) e altri considerati «paralleli» (P2, Gladio, Supersismi).
Eppure, quantunque sepolte negli archivi più maltrattati del paese, e cioè quelli dell’ex Ufficio Affari Riservati, oggi Direzione Centrale di Polizia di Prevenzione (Dcpp), ma anche in quelli del Sismi e del Comando generale della Guardia di Finanza, le prove non mancavano: attendevano soltanto d’essere condotte ad emersione.
A cavaliere del 2000, una consulenza ordinata dalla procura di Brescia nell’ambito delle indagini sulla strage di Piazza della Loggia, all’esito di una puntigliosa e metodica ricostruzione, basata unicamente su documenti cartacei e su testimonianze dirette e ufficiali, giungeva alla conclusione che, nel secondo dopoguerra e fino agli anni delle stragi, in Italia è prosperato e ha agito «un servizio segreto clandestino, irregolare ma comunque innestato sul tessuto istituzionale», che, diverso da Gladio, può «identificarsi con il Sid Parallelo, di cui parlarono Amos Spiazzi e Roberto Cavallaro (della Rosa dei venti, n.d.r.), e/o con il Supersismi dei primissimi anni ottanta». Si tratta di quello che, in un’informativa del 4 aprile 1972, scovata dal prof. Aldo Giannuli nel 1998 presso l’archivio della Dcpp, è indicato come «Noto Servizio».
Vi si legge: «Questa è la storia di un servizio informazioni che opera in Italia dalla fine della guerra e che è stato creato per volontà dell’ex capo del Sim, generale Roatta». La storia, insomma, di una struttura clandestina a metà strada tra servizi statunitensi, servizi militari e imprenditori, operante soprattutto a Milano: alla città meneghina appartengono gli imprenditori «reclutati»; lì si muovono gli americani a sostegno della struttura parallela; lì i supporter politici agiscono da catalizzatori e, come nel caso delle aggressioni al sindaco Aldo Aniasi, lì si concentrano le pressioni sul Psi che avrebbe portato «il gruppo dirigente socialista a percepire la presenza di tale servizio» in quanto «maggiore vittima politica» della sua azione.
Comprensibile, dunque, per dirla col consulente, che «l’azione di alcuni personaggi, indicati come suoi membri, possa essere intrecciata con la strage di Piazza Fontana», ma anche che «tale servizio possa essere in qualche modo connesso alla strage di Piazza della Loggia (anche se non necessariamente come mandante o organizzatore) al punto che le indagini su questa potessero portare ad esso». In un’intervista rilasciata il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli afferma che a capo di questa struttura, denominata anche «l’Anello», ci sarebbe stato Giulio Andreotti: «… io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello». Finalmente, nel settembre 2011, è stato dato alle stampe, per Marco Tropea Editore s.r.l., il volume dello storico Aldo Giannuli, Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, che Corrado Stajano, sul Corriere della Sera, ha giustamente definito un «vero romanzone, il ritratto della mala Italia». Si tratta del risultato di un lavoro di ricerca durato quasi quindici anni, che l’Autore ha svolto quale consulente delle autorità giudiziarie di Brescia, di Milano e di Palermo, approdato alla conclusione che «Per quanto il Noto servizio cambiasse pelle e componenti nel tempo, c’era una costante che l’accompagnava: il suo ambito d’azione era costantemente circoscritto in un triangolo i cui vertici erano l’arma dei carabinieri e il servizio segreto militare, poi gli ambienti imprenditoriali prossimi alla Confindustria e, infine, i servizi segreti americani. E c’era un’altra costante: il suo referente politico è sempre stato Giulio Andreotti… Beninteso: il Noto servizio non è mai stato “agli ordini” di Andreotti». Costui «era piuttosto, l’interfaccia politico di questa struttura a metà strada fra militari e imprenditori. Il tutto con quei margini di reticenza e ambiguità propri di un personaggio che non avrebbe sfigurato fra i dignitari di una corte rinascimentale».
Cap. XLIII
Il caso De Mauro
Un omicidio difficile da ricostruire, quello di Mauro De Mauro, figura non sempre chiaramente individuabile su uno sfondo opaco.
La sera del 16 settembre del 1970, il giornalista uscì dalla redazione de l’Ora di Palermo diretto verso casa, dove, però, non giunse mai: sparito nel nulla.
Una molteplicità di documenti d’intelligence attestano che, nell’inverno del ’43-’44, nella Roma occupata dai nazisti, era stato un assiduo collaboratore di Kappler e Priebke; che, quale membro della famigerata banda Koch, aveva affiancato il lavoro del questore Pietro Caruso; che, a guerra finita, aveva conservato rapporti con ambienti dell’estrema destra, proponendosi ancora per qualche tempo come interno ad essa.
Per la Procura di Palermo, «Cosa nostra» è sicuramente colpevole, ma l’omicidio non sarebbe stato compiuto solo nell’interesse di «Cosa nostra» né sarebbero una coincidenza i depistaggi e le deviazioni sul caso De Mauro. Le motivazioni che stanno alla base del rapimento e dell’omicidio sarebbero da ricercare, infatti, nei meandri dei «misteri italiani» degli anni ’60 e ’70. Due, in particolare, si intrecciano con il caso De Mauro: la morte di Enrico Mattei e il fallito golpe Borghese.
Per quel che riguarda il caso Mattei, De Mauro, prima di essere ucciso, stava lavorando alla ricostruzione delle ultime ore di vita del presidente dell’Eni, deceduto la sera del 26 ottobre del 1962, quando l’aereo su cui viaggiava precipitò nei pressi di Buscapè. Il giornalista, quindi, sarebbe stato ucciso per evitare che svelasse la vera trama della morte di Mattei: un sabotaggio, secondo le testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia e i risultati dell’inchiesta della Procura di Pavia, ascrivibile a un complotto ordito da « Cosa nostra » e potentati politico-economici; un favore fatto alle major americane del petrolio, infastidite dal forte attivismo del Cane a sei zampe.
Il movente che punta invece al golpe Borghese, definito dalla Procura di Palermo «convergente» col primo, fu già ipotizzato da Bruno Carbone, collaboratore di vecchia data di De Mauro a l’Ora (cfr. Bolzoni e Viviani, «De Mauro è stato ucciso perché sapeva del golpe», in La Repubblica, 26 gennaio 2001): l’ipotesi, confortatata dal capomafia di Altofonte, Francesco Di Carlo e successivamente confermata anche dal neofascista Giacomo Micalizio e dal mafioso Antonino Calderone, i quali tutti ne attribuiscono la scomparsa ai patti scellerati del principe Borghese con la mafia siciliana, è avvalorata dal passato del giornalista scomparso (per la cui puntuale ricostruzione, cfr. Casarrubea e Cereghino, Lupara Nera. La guerra segreta alla democrazia in Italia 1943-1947, Bompiani, Milano, 2009): De Mauro, in gioventù saloino e volontario proprio nella X Mas, sarebbe riuscito a sfruttare le vecchie conoscenze giovanili nel mondo della destra estrema e neofascista per ottenere informazioni di prima mano; come pure si sarebbe voluto avvalere delle rivelazioni di Emanuele D’Agostino, boss di Cosa Nostra che frequentava il Circolo della Stampa di Palermo.
A proposito del passato di Mauro De Mauro, Aldo Giannuli, nella Relazione di consulenza tecnica sulla scomparsa del giornalista, disposta dall’Autorità giudiziaria il 17 novembre 2001, redatta il 25 aprile 2003, scrive con giustificata perplessità: «De Mauro si sarebbe reso responsabile di colpe assai gravi: identificazione di partigiani, probabile partecipazione a sevizie, persino il coinvolgimento nella strage delle Ardeatine. Per molto meno altri repubblichini vennero passati per le armi ed è da segnalare che la sua posizione non era sconosciuta tanto al servizio militare quanto alla Resistenza (…). Eppure», sottolinea, in proposito, Aldo Giannuli, «non solo De Mauro salva la vita, ma va incontro a una detenzione che non sembra essere stata molto lunga, se già all’8 gennaio 1946 non si sapeva dove fosse. Non sappiamo quando uscì da Coltano ed, ancor più, come evitò un processo per collaborazionismo. Una possibile soluzione » aggiunge, «ce la suggerisce (un) documento del 1950 che dipinge De Mauro, da un lato, come corrispondente segreto di Borghese e collaboratore di un foglio dell’Msi, dall’altro come informatore d’imprecisati elementi comunisti. Questi elementi, messi insieme, ci suggeriscono che De Mauro – ricattabile per le non lievi responsabilità accumulate nei venti mesi di Salò – possa essere stato rilasciato in cambio di un impegno a fare da informatore sull’area del clandestinismo fascista». In effetti, nel documento in questione si afferma che era De Mauro ad avvicinare elementi «attaccati al passato regime fascista, dicendo di essere in corrispondenza segreta col principe Borghese», ma ciò non prova l’esistenza dell’asserito contatto. Rebus sic stantibus, conclude Giannuli, «tornerebbe anche la possibilità che le percosse che lo avevano sfigurato e reso claudicante fossero venute da “camerati traditi”».
Cap. XLIV
Opposti estremismi
La parabola della sinistra, iniziata nel 1968 con la rivolta studentesca e continuata nel 1969 con la grande stagione rivendicativa e unitaria delle lotte operaie dell’autunno caldo, tocca il culmine nel 1975. Medio tempore, le bombe, utilizzate con spietata puntualità ogni cinque o sei mesi, l’aggressività delle formazioni neofasciste, i tentativi di colpo di Stato. Il Paese reagisce con una grande lotta di resistenza per bloccare quella che sembra esclusivamente una controffensiva «di classe», e si rafforza nella grande battaglia difensiva.
Nel 1974, il referendum sul divorzio sembra dimostrare che il Paese si sia ormai affrancato dalla pesante ipoteca confessionale su cui, per trenta lunghi anni si è basato il potere della Dc, aprendo la strada alla vittoria delle sinistre e, dunque, a una reale speranza di cambiamento. Nell’estate di quello stesso anno, tuttavia, si registra anche l’ultimo vero tentativo golpista.
«Drago scarlatto» è il nome in codice di quel complotto, tanto articolato quanto pericoloso, ordito fuori dalla Dc e contro la stessa Dc, nel quale si materializza il rischio del ripetersi in Italia del sanguinosissimo colpo di Stato organizzato dagli americani, in Cile, nel 1973, paventato da Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, bloccato in extremis dall’intervento di Giulio Andreotti, mediante la tempestiva rotazione di una decina di alti ufficiali da un incarico all’altro.
La grande avanzata delle sinistre, con le elezioni regionali e amministrative del 1975 e le politiche anticipate del 1976, avviene, comunque, in un clima di relativa calma: la presenza nei corpi militari di migliaia di ex studenti e laureati, semplicemente di sinistra o soltanto simpatizzanti, già testimoni e protagonisti del 1968 e del 1969, collegati con le reclute diciottenni, in virtù del giuramento di fedeltà alla Costituzione, basta a trasformare l’esercito di leva in un baluardo della democrazia, in grado di reagire con determinazione ai tentativi eversivi.
Non si tratta certo di una svolta come quella che il 25 aprile del 1975 innesca in Portogallo la «rivoluzione dei garofani», ma è sicuramente una svolta in senso democratico: nel dicembre 1975, si tiene a Roma l’assemblea generale del movimento dei soldati, ove si riuniscono i rappresentanti di tutti i corpi delle forze armate con la sola eccezione dei carabinieri, che chiude la prima fase della «strategia della tensione», caratterizzata dallo stragismo e dai tentativi di colpo di Stato militari.
I nuovi rapporti politici ed elettorali usciti dal «biennio rosso» 1975-1976 non producono, tuttavia, quel rinnovamento e l’auspicata modernizzazione della realtà italiana, sicché matura il disincanto di moltissimi militanti e simpatizzanti di sinistra, spingendone alcuni verso la «lotta armata», divenuta il «brodo di coltura» della seconda fase della strategia della tensione, che in comune con la prima ha l’obiettivo: l’onorevole Aldo Moro. E questo non perché Moro sia un pericoloso sovversivo o un agente di Mosca, ma semplicemente perché è troppo imprevedibile, intelligente, spregiudicato, furbo e, in ultima analisi, indipendente. Tra le questioni centrali che le Br, nei cinquantacinque giorni del sequestro dello statista democristiano, vorranno conoscere dal prigioniero, ci sarà proprio la «verità» sulla strage di Piazza Fontana, evento che ha segnato l’inizio della stagione del terrorismo in Italia come metodo di lotta politica: «A Moro – racconterà, il 4 febbraio 1980, Patrizio Peci agli inquirenti, che ne raccolgono le fluviali confessioni – era stato detto che se avesse denunciato gli scandali di regime, come per esempio i retroscena della strage di Piazza Fontana, sicuramente sarebbe stato liberato». è grande, dunque, l’importanza che i brigatisti riconnettono ai retroscena degli attentati del 12 dicembre 1969, eventi che sottendono almeno due segreti. Uno giudiziario: chi e come ha eseguito le stragi, e su questo lo Stato per undici volte ha dimostrato la sua impotenza a pronunciarsi; l’altro politico: perché il Potere decise di coprire esecutori e mandanti.
Che la verità sulla strage valga per le Br la libertà dell’ostaggio, lo confermerà, minimizzando, tuttavia, la portata delle dichiarazioni di Moro, anche Adriana Faranda, la «postina», con Valerio Morucci, delle lettere del prigioniero: «Moro non parlò, fu evasivo nelle risposte. Se avesse detto “come Dc siamo coinvolti nel golpe Borghese o nella strage di Piazza Fontana” forse si sarebbe salvato. Probabilmente le Br avrebbero finito per fare una scelta diversa, si sarebbe portato avanti il discorso su uno scambio di prigionieri».
Decorreranno dieci anni dalle rivelazioni di Patrizio Peci, prima del «ritrovamento» nella base brigatista milanese di Via Monte Nevoso, di un pacco di manoscritti di Moro – il secondo, dopo quello dell’ottobre 1978 –, attestanti che il prigioniero non ha mai creduto alla pista «rossa» per la strage, dietro alla quale ci sarebbero state, invece, centrali straniere, determinate a «normalizzare» l’Italia postsessantottina.
Cap. XLV
Il moralizzatore della politica italiana e il viceré del Pri in Sicilia
Ha scritto Leonardo Sciascia che non si capirà nulla della mafia senza fare la storia delle miniere di zolfo baronali. E proprio le «preistoriche miniere» baronali consentono di illustrare le gesta di Aristide Gunnella, la cui carriera politica è strettamente legata alle vicende dell’Ente Minerario Siciliano, di cui fu, prima di essere deputato, consigliere delegato.
Questa carica gli consentì di assumere, alla vigilia delle elezioni del 1968, il capo mafia Giuseppe Di Cristina, signore incontrastato delle miniere di Riesi. E proprio a Riesi, spogliate le schede delle elezioni del 1968, si ebbe la sorpresa: il Partito Repubblicano Italiano, in quella terra, prendeva 19 voti, che salirono, tuttavia, a 400, mentre 270 furono le preferenze per Gunnella.
Espulso dai probiviri del Pri, il 19 febbraio 1975, e rimasto al suo posto per volontà di La Malfa, Gunnella dichiarò: «Io rappresento la faccia pulita del partito», ma, forse, quell’aggettivo, «pulita», aveva un sapore polemico e suonava provocatorio, stando almeno alla sentenza dei probiviri, a suo carico. In essa, infatti, si legge: «è fuor di dubbio che il partito, in questi ultimi anni in Sicilia sia stato al centro di scandali e polemiche che ne hanno gravemente compromesso il buon nome». E della turbolenta costellazione di clientele adombrata dai probiviri, del resto, dovettero occuparsi, a più riprese, antimafia, magistrati e giornalisti.
Di fronte alla mozione del Pci, che chiedeva la sospensione con immediate dimissioni, nel novembre del 1970, dell’appena eletto sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, perché accusato d’intrallazzi mafiosi, tutto il Pri, fece significativamente quadrato attorno al boss democristiano: «Bisogna attendere la sentenza del magistrato», aveva subito dichiarato Gunnella; «Noi abbiamo fatto degli accordi con gli altri partiti, che hanno indicato la persona del signor Ciancimino per ricoprire la carica di sindaco. Noi abbiamo rispettato questi accordi politici», aveva rincarato l’avvocato Mazzei, segretario regionale del partito, davanti all’antimafia, come a dire che se la Democrazia cristiana avesse proposto Liggio, i repubblicani non avrebbero battuto ciglio; se l’Assemblea regionale siciliana avesse approvato la mozione, il 1° dicembre telegrafava, finalmente, Ugo La Malfa, segretario nazionale del Pri, «investirò ogni situazione che esprima fenomeni degeneratori e necessità moralizzatrici, non esclusa situazione grave come quella palermitana». Insomma, fuor di metafora, questa la minaccia del moralizzatore della politica italiana: «Se fate dimettere Ciancimino io provoco la crisi su tutto il territorio nazionale... ».
Il «caso Ciancimino» diventava, così, «il caso La Malfa»: la sera, all’antimafia, l’on. Vincenzo Gatto definiva il telegramma «mafioso nella forma e nella sostanza»; ma la Voce Repubblicana insisteva: «è tanto palese il livello di deterioramento della classe politica e amministrativa nazionale, che se il Pri volesse aprire una discussione sui nomi non potrebbe forse partecipare a nessun accordo politico e amministrativo»; la sera del 2 dicembre, all’Ars, il capogruppo comunista De Pasquale ribadiva: «è un atteggiamento ricattatorio…, nel complesso uno dei più classici atteggiamenti mafiosi che si possono adottare. Il leader repubblicano afferma che esistono situazioni a sua conoscenza che abbisognano di un intervento moralizzatore. Dal punto di vista politico egli non sarebbe che un cialtrone se non dicesse all’opinione pubblica quali sono questi elementi degenerativi. Invece invita l’Assemblea a coprire Ciancimino in cambio di coperture per altre situazioni. Ebbene, chi ragiona così non è certo degno di rappresentare il nostro paese».
Il ricatto di La Malfa, almeno inizialmente, riuscì: per non far votare la mozione, il 3 dicembre, il governo regionale si dimise. Quattro giorni dopo, tuttavia, anche Ciancimino fu costretto a dimettersi.
Si sospettò che, così agendo, La Malfa avesse voluto attaccare indirettamente l’antimafia, che indagava sui boss repubblicani in Sicilia, come l’on. Diego Giacalone, repubblicano, di Trapani, in relazione ad «un ampio investimento clientelare ed elettorale», nel periodo in cui era stato assessore regionale alla pubblica istruzione, allorché s’era proceduto all’assunzione in massa di docenti per chiamata diretta, «anche dopo la formulazione delle graduatorie e nonostante queste fossero stracaricate di aspiranti».
Tra i chiamati, ricorda Orazio Barrese (I complici. Gli anni dell’antimafia, rieditato da Rubettino nel 1988), «v’(era) chi (era) stato condannato per violenza carnale, chi per ratto di minorenne e violazione di domicilio, chi per truffa, chi per lesioni personali, chi per insolvenza fraudolenta, chi per appropriazione indebita aggravata. Un campionario di reati infamanti».
A un certo punto, questi educatori avrebbero voluto partecipare al concorso per passare di ruolo: ma a causa dei loro trascorsi erano stati esclusi dalla Corte dei conti. Niente paura: Giacalone aveva presentato delle controdeduzioni in loro difesa, assieme al democristiano Sammarco, anche lui ex assessore alla pubblica istruzione; i due avevano fornito «ottime referenze» in base a «informazioni riservate» dei direttori delle scuole. E la Corte dei conti s’era rimangiata la decisione.
L’antimafia accertava anche un’altissima concentrazione di doposcuola e scuole professionali nella provincia di Trapani, collegio di Giacalone, mentre in altre mancavano del tutto: che volete, affermerà il segretario regionale del Pri Mazzei, interrogato dall’antimafia: «è evidente che l’on. Giacalone era più sensibile alle segnalazioni che gli pervenivano dalla sua provincia, o gli era più facile raggiungerle, avvertirle, averne conoscenza».
La Malfa, che pativa queste indagini come un insulto, diventò rabbioso quando l’antimafia aprì il dossier Di Cristina, che coinvolgeva il pupillo Gunnella.
Giuseppe Di Cristina, noto mafioso nativo di Riesi, appena tornato in Sicilia dal confino, con lettera del 22 febbraio 1968, firmata dall’amministratore delegato on. Gunnella, venne assunto alla Sochimisi. Non era passato che qualche giorno, quando fu presentata un’interrogazione al’Assemblea regionale; ma lo scandalo sarebbe scoppiato poco più di un anno dopo: il 16 maggio 1969, la Commissione antimafia dispose il sequestro della pratica d’assunzione; della vicenda si occupò anche De Mauro, un anno prima di sparire; interrogato dall’antimafia, il 17 novembre 1970, il segretario regionale del Pri Mazzei parve cadere dalle nuvole: «Non credo che questo Di Cristina fosse mafioso così noto, se pure lo è»; messo, tuttavia, alle strette, spiegò che il capo mafia era stato assunto da Gunnella, su segnalazione del senatore democristiano Graziano Verzotto e del segretario provinciale della Dc nissena, Cigna; ma il 24 febbraio 1971, Giuseppe Di Cristina, che frattanto aveva continuato nel suo incarico di copertura alla Sochimisi, venne arrestato come mandante dell’assassinio di Candido Ciuni; poche ore dopo, Gunnella, costretto a dimettersi da segretario provinciale del Pri, dichiarò: «Prima che detto signore si presentasse alla Sochimisi (…) non era a me assolutamente noto né come persona né come nome. Fra l’altro non aveva il marchio giallo o la campanella ai piedi… ».
La spiegazione, per dirla con Orazio Barrese, faceva «fottere dalle risate»: in una regione ad altissimo tasso di disoccupazione e emigrazione, bastava che uno sconosciuto si presentasse in un’azienda, per essere ricevuto subito dall’amministratore delegato, essere assunto e fare una rapida carriera.
L’antimafia tornò sulla vicenda il 4 marzo 1971: lo stesso giorno in cui Di Cristina venne licenziato dalla Sochimisi per «ingiustificata assenza»: era finito in galera. La stampa, intanto, faceva a pezzi Aristide Gunnella: alla Sochimisi lavoravano, oltre a Di Cristina anche i mafiosi Calogero Giambarresi e Gaetano Lo Grasso, e costui, in carcere per due mesi, nel 1968, aveva addirittura ottenuto un permesso per «gravi ragioni di famiglia»; l’onorevole era solito circondarsi di «loschi figuri sino al punto di farli eleggere consiglieri comunali di Palermo», come Ferdinando Lo Cicero, già suo segretario particolare, che ottenne un voto di solidarietà della direzione provinciale del Pri, quando era stato condannato per sfruttamento della prostituzione; o l’avvocato Di Pasquale, anch’egli divenuto consigliere comunale «per alti meriti repubblicani», che sarebbe stato condannato per patrocinio infedele su denuncia della vedova Ciuni, per essersi dimenticato, quale suo difensore, di predisporre gli atti per la costituzione di parte civile, senza che i dirigenti del Pri prendessero alcun provvedimento.
Incalzato dalle denunce, già indebolito dal caso Ciancimino, Aristide Gunnella rischiava di affogare, ma La Malfa non era uomo da abbandonare i suoi nella tempesta, e il 13 maggio 1971 apparve su l’Unità una sua lettera di protesta contro il giornalista Diego Novelli, che aveva definito Di Cristina uomo di fiducia di Gunnella: «è una grave offesa» scrisse La Malfa, «non solo per l’uomo, ma per l’intero partito»; Di Cristina «non ha mai avuto alcun rapporto con il deputato repubblicano». E se questi ha commesso «errori di valutazione per quel che concerne alcuni uomini ammessi nel partito» l’aveva fatto solo «nell’ansia di rafforzare ed estendere le basi del partito».
Il giornale comunista, sempre sensibile al fascino di La Malfa, ritirò l’accusa. Ma Novelli non era d’accordo, e non potendo ribattere sul giornale del suo partito scrisse direttamente a La Malfa: «Ho detto che Di Cristina era l’uomo di fiducia di Gunnella in quanto è a tutti noto che fu un suo grande elettore». Infatti, se i voti del Pri a Riesi erano passati dai 19 del 1967 ai 400, di cui 270 per Gunnella, del 1968; subito dopo era stata costituita a Riesi la sezione del Pri: nel verbale di fondazione, marzo 1969, si leggevano le firme di Di Cristina e Lo Grasso, che Gunnella avrebbe fatto togliere, dopo lo scandalo. Ma sia lui sia La Malfa mentirono. I probiviri del Pri avrebbero accertato che Aristide Gunnella conosceva bene Giuseppe Di Cristina. Nella sentenza d’espulsione, dopo aver dimostrato l’impossibilità che, al momento dell’assunzione, il politico repubblicano non conoscesse i trascorsi del mafioso, tirarono fuori la prova di un incontro tra i due, durante la campagna elettorale del 1968, al Motel Agip di Gela: si scambiarono «lunghi baci, abbracci e pacche sulle spalle» e si appartarono per mezz’ora in una stanza del motel. Al momento degli addii, Di Cristina assicurò che a Riesi «tutto era fatto e che non c’era bisogno di andarci».
Un esempio delle gravissime irregolarità riscontrate dai probiviri nazionali nelle loro indagini sui metodi di gestione del partito in Sicilia: nella direzione provinciale del Pri di Caltanissetta, nel 1974 risultavano due dirigenti di sezione della Democrazia cristiana e un iscritto al Partito socialdemocratico; un altro democristiano figura, addirittura, nel collegio dei probiviri del Pri; alcuni di questi ibridi dirigenti avevano fatto propaganda per l’abrogazione del divorzio, servendosi dell’organizzazione democristiana. 18 tesserati della Sezione di Porto Empedocle, appartenevano alla Dc, 4 al Pci, 3 al Psi, 1 al Psdi, 3 al Msi; alcuni erano anche consiglieri comunali dei rispettivi partiti. 10 tesserati della Sezione di Grotte, appartenevano alla Dc, 2 al Pci, 1 al Msi, 1 era simpatizzante Dc, 3 erano regolarmente defunti, 1 apparteneva al Pri. A Caltanissetta figuravano in pochi mesi 600 nuovi tesserati, quanti Dc e Pci messi assieme non sarebbero riusciti a totalizzare.
probiviri nazionali erano esterrefatti: il tesseramento irregolare, concludevano, è «cosa assai frequente nel partito in Sicilia». A molti repubblicani autentici non venivano consegnate le tessere, che in genere venivano affidate, a pacchetti, a fiduciari di Gunnella, che poi le distribuivano secondo criteri loro. Non è un caso che pullulassero le sezioni fantasma.
Con simili metodi Gunnella, che per un certo periodo aveva cumulato le cariche di consigliere nazionale, membro della direzione e del comitato esecutivo nazionali, presidente della direzione della federazione regionale, segretario provinciale di Palermo, commissario dell’unione comunale di Palermo, della consociazione di Caltanissetta e delle sezioni di Butera, Mussomeli, Serradifalco, S. Caterina, manovra i congressi locali e regionali. Al minimo pericolo di opposizione, si scioglievano sezioni, direttivi, consociazioni e s’inviavano commissari; le assemblee precongressuali o non si tenevano o venivano sciolte in modo irregolare, ad esempio convocandole quando erano già chiuse.
Una zona particolarmente turbolenta era Messina, controllata dal boss Salvatore Natoli, capogruppo alla Regione, passato dal Pli al Pri alla vigilia delle regionali del 1967, insieme alle clientele della destra liberale. I suoi metodi erano talmente spregiudicati da portare, nel 1972, alla formazione di fatto a Messina di due partiti repubblicani.
Appoggiato a spada tratta dalla Gazzetta del Sud, il quotidiano filofascista di Messina, Natoli realizzò nel 1972-73 a Gioiosa Marea un accordo con i fascisti della lista «Aquila», e fece eleggere sindaco il capolista dei fascisti, Magistro, ex consigliere provinciale e candidato per il Msi alle regionali. La maggioranza repubblican-fascista si rifiutò di votare un ordine del giorno di condanna della strage di Brescia e di convocare il consiglio in seduta straordinaria per protesta contro l’attentato all’Italicus. I probiviri riconobbero fondata l’accusa a Natoli di «comportamento e mentalità fascista».
Le conclusioni delle inchieste siciliane dei probiviri non lasciavano dubbi: il calo elettorale registrato dal Pri nell’isola alle ultime politiche era dovuto al malcostume e alla corruzione, che ne avevano intaccato il prestigio «facendolo apparire come il partito che predica(va) bene e razzola(va) male».
Conclusioni confermate dalle stesse disavventure che colpirono i probiviri. Come per Gunnella, infatti, anche per Natoli la sentenza di espulsione emessa il 9 dicembre 1974 venne annullata dalla direzione nazionale, il 27 dicembre 1974, prima ancora che venisse formulata la motivazione: «La Direzione considera che la situazione generale del Partito e alcune controversie sorte fra gli iscritti nella regione non giustificano sanzioni così pesanti, tali da dare impressione all’opinione pubblica di fatti morali che nell’ambito del partito non sono mai esistiti».
La risposta dei probiviri è contenuta in una comunicazione che inviarono al successivo congresso nazionale di Genova. «è la miglior prova» vi si affermava, fra l’altro, «che il deterioramento dei principi che informavano il nostro partito ha colpito anche la direzione nazionale, perché essa con la deliberazione del 27 dicembre 1974 ha violato le norme fondamentali che reggono ogni forma di vita sociale, addivenendo quale organo esecutivo all’annullamento della decisione di un organo giudicante. Neppure nei regimi dittatoriali riteniamo che ciò si sia mai verificato, e per trovare precedenti occorre risalire all’epoca delle monarchie assolute».
Nel corso del Congresso di Genova del Pri esplose lo scandalo sollevato dal professor Pasquale Curatola, già membro del collegio dei probiviri e candidato repubblicano al CSM, che aveva rivolto dure accuse alla gestione del partito da parte di Ugo La Malfa.
L’iniziativa del professor Pasquale Curatola fu sostenuta da Marco Pannella, che denunciò il fatto che nessuna comunicazione era stata data né ai Consiglieri Nazionali, né alla stampa della lettera con cui Curatola chiedeva che La Malfa si autodeferisse al collegio dei probiviri e, per suo conto, si dichiarava disposto ad accettare il giudizio di un giurì d’onore. Se La Malfa non avesse accettato nessuna delle due soluzioni, Curatola informava che non avrebbe avuto altra possibilità che rivolgersi alla Magistratura per tutelare la propria onorabilità dopo le gravi dichiarazioni rilasciate sul suo conto dal leader repubblicano.
La Malfa attaccò per questo Marco Pannella sostenendo che avrebbe agito su commissione della massoneria italiana e avrebbe creato tutto quello scompiglio per accumulare meriti antirepubblicani, per guadagnare così un qualche possibile compenso politico o parlamentare da parte dei socialisti.
Marco Pannella replicò al segretario repubblicano: «Ugo La Malfa ha fatto strage di legalità, di legalità repubblicana; Ugo La Malfa è vittima del suo realismo di stampo siciliano, crispino; vecchio errore di quanto, nella sinistra storica, non fu garibaldino o mazziniano. Egli ama le grandi idealità rivoluzionarie della borghesia progressista europea ma vive e pratica l’illusione del potere come perimetro esclusivo di creatività politica».
Cap. XLVI
Lo scandalo del petrolio
4 febbraio 1974, i rappresentanti dei partiti politici si riunirono a Montecitorio, indignati contro i «pretori d’assalto» che, dicevano, stavano screditando tutta la classe politica.
In realtà, indagando a Genova sui fenomeni d’imboscamento del petrolio a seguito della guerra del Kippur, combattuta nell’ottobre del 1973, i magistrati Mario Almerighi, Carlo Brusco e Adriano Sansa avevano messo le mani negli uffici del petroliere Riccardo Garrone, su documenti scottanti, che conducevano ad emersione come tutti i partiti politici, fatta eccezione per il il Pci, fossero stati finanziati dai petrolieri, per avere, e ottenendo, in cambio «favori legislativi»: dal decreto del 2 ottobre 1967 che assegnava loro un contributo dello stato di 90 miliardi di lire, quale rimborso dei maggiori costi di trasporto del greggio a causa della chiusura del canale di Suez, alla legge del 28 marzo 1968 con la quale si concedeva loro di pagare l’imposta di fabbricazione e l’Imposta Generale sull’Entrata (Ige) con tre mesi di ritardo; fino al decreto legge del 12 maggio 1971, con cui furono loro concessi imponenti sgravi fiscali.
Le indagini, peraltro, stavano anche facendo emergere il ruolo preminente giocato, nel nostro Paese, dalle sette sorelle: dopo l’uscita di scena di Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, e di Felice Ippolito, pioniere del nucleare, avevano spinto con decisione perché si scegliesse la via del petrolio, condizionando le scelte legislative, perché fossero sempre a loro favore. In cambio di tutto ciò, quando potevano pagavano, quando non potevano creavano casi giudiziari, senza rifuggire, sia pure quale extrema ratio, dall’opzione omicidiaria.
Ai partiti politici che, in quel febbraio 1974, lamentavano fosse stata intaccata la loro «onorabilità» e reclamavano «i nomi dei corrotti, intimando «altrimenti basta con lo scandalismo, statevi zitti», giunse, ben presto, la risposta dei «pretori d’assalto» Almerighi, Brusco e Sansa.
Un mandato di arresto, col quale si contestavano i delitti di corruzione aggravata e di associazione a delinquere, per aver corrotto dirigenti dell’Enel e partiti del centro-sinistra, affinché si servissero del petrolio anziché dell’energia nucleare, per far funzionare le centrali elettriche, venne emesso nei confronti del dottor Vincenzo Cazzaniga. Costui, giunto alla Esso Italiana nel 1948, l’aveva lasciata nel 1972, per assumere la vice-presidenza della Bastogi Finanziaria prima e poi della CTIP; nel 1950, era entrato a far parte del CdA della Esso Italiana, di cui, nel 1951, veniva nominato presidente, carica questa conservata fino al 1972, sebbene, nel 1954, della Esso Italiana fosse divenuto anche Amministratore Delegato; tra il 1965 e il 1970, aveva fatto parte del Board of Directors della 3M Minnesota Minerals & Mining di St Paul in Minnesota; ben introdotto nel mondo politico, soprattutto democristiano, era altresì consulente del governo per i rifornimenti petroliferi. Quando il 9 febbraio del 1974, agenti in borghese si recarono all’ingresso della villa di Vincenzo Cazzaniga, non lo trovarono: era già negli Usa.
A seguire, il 13 febbraio 1974 furono inviate 20 comunicazioni giudiziarie per corruzione aggravata: riguardavano i massimi dirigenti ed i consiglieri di amministrazione dell’Enel, tra cui il presidente Di Cagno, e gli amministratori di Dc, Psi, Psdi, Pri, i quattro partiti di centro-sinistra.
Il 20 febbraio furono consegnati al presidente della camera, l’on. Sandro Pertini, gli atti di accusa contro ministri o ex ministri, che avevano favorito i padroni del petrolio con provvedimenti legislativi. Si trattava dei democristiani Giulio Andreotti, Giacinto Bosco, Ferrari Aggradi e Athos Valsecchi, nonché i socialdemocratici Luigi Preti e Mauro Ferri. A loro carico, il 21 febbraio iniziò il procedimento davanti alla commissione inquirente e l’8 marzo, Andreotti, Ferrari Aggradi, Bosco e Preti vennero prosciolti dalla commissione, mentre rimasero in stato di accusa i più deboli politicamente: Valsecchi e Ferri.
Del 22 giugno 1977, la richiesta da parte del Pci di riaprire l’inchiesta sullo scandalo del petrolio, ma per alcuni dei ministri in oggetto era già maturata o stava per maturare la prescrizione, poiché i reati a loro ascritti risalivano a molti anni prima.
Si dice che i rappresentanti dei partiti politici, escluso il Pci, avessero preso 45 miliardi, per farsi ripetutamente corrompere, mentre l’Enel, oltre alla primitiva corruzione relativa alla scelta termo-elettrica, avrebbe preso più di un miliardo per maggiorare il prezzo di acquisto dell’olio combustibile e per riversare questo aumento di prezzo sulle tariffe pagate dagli utenti. Anche qui iniziò un’istruttoria il 26 marzo ma, di fatto e miseramente, essa fu chiusa il 24 ottobre.
Cap. XLVII
Perchè fu ucciso Pier Paolo Pasolini?
Una donna, Maria Teresa Lollobrigida, la mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romano di Ostia, in un campo incolto in via dell’idroscalo, scopre il cadavere di un uomo, che verrà riconosciuto per Pier Paolo Pasolini: « … giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo», scriverà il perito medicolegale, «I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata; la faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con i segni dei pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un’orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato.»
Nella notte i carabinieri fermarono un giovane, Giuseppe Pelosi, mentre era alla guida di una Giulietta 2000, risultata di proprietà dell’intellettuale. Interrogato dai carabinieri, e di fronte all’evidenza dei fatti, «Pino la rana» confessava l’omicidio. Raccontava, in particolare, di aver incontrato l’intellettuale presso la Stazione Termini e, dopo la cena in un ristorante, di avere raggiunto il luogo in cui il cadavere era stato trovato; lì Pasolini avrebbe tentato un approccio sessuale e, vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente, scatenando la sua reazione.
Il processo che ne seguì condusse ad emersione retroscena inquietanti: si ipotizzò da più parti il concorso di altri nell’omicidio, senza che sul punto si facesse veramente chiarezza, e, alla fine, Pino Pelosi venne condannato, unico colpevole, per la morte del poeta.
Trascorsi ormai trent’anni dal barbaro omicidio, «Pino la rana» si sarebbe presentato alla trasmissione televisiva Ombre sul giallo di Franca Leosini per dichiarare, in presenza degli esterrefatti Guido Calvi e Nino Marazzita, avvocati di parte civile al processo del 197576, che l’autore del delitto Pasolini non era stato lui, ma altre persone di cui tuttavia ignorava l’dentità, avendole viste, quel 2 novembre 1975, per la prima volta. Costoro, avrebbe raccontato ancora, lo avevano minacciato di fare del male alla sua famiglia se avesse parlato. E lui, semplicemente, si era adeguato.
Attorno alla sanguinosa vicenda, comunque, avevano giocato un ruolo taluni personaggi, tutti riconducibili a un medesimo ambiente: l’avvocato Rocco Mangia, già difensore dei neofascisti responsabili del massacro del Circeo, che, racconta sempre il Pelosi, sarebbe stato indicato alla sua famiglia da Francesco Salamone, giornalista de Il Tempo, tessera 678 della P2; consulenti della difesa del giovane «reo confesso», peraltro, furono, dapprima il criminologo Aldo Semerari, frequentatore dei terroristi di Ordine Nuovo, della banda della Magliana e dei clan camorristi napoletani, associato ai servizi segreti e in ottimi rapporti con la polizia libica; e, successivamente, Franco Ferracuti, tessera numero 849 della P2, psichiatra legato sia al Sisde sia alla Cia, il quale prese il posto di Semerari, quando il cadavere «decollato» di costui, nel 1982, fu rinvenuto in un’auto, nel feudo cutoliano di Ottaviano.
In ogni caso, dopo poco meno di quarant’anni dalla tragica scomparsa di Pasolini, è ancora negata la verità sulla sua morte, quantunque le tendenziose ricostruzioni giudiziarie e mediatiche, tese ad accreditare la tesi di una sordida storia di sesso, abbiano dovuto fare i conti con la testardaggine dei fatti, che, a differenza dei testimoni, non si lasciano mai subornare: a prescindere dagli elementi sconcertanti condotti ad emersione da dichiarazioni fatte a mezza bocca, i quali, comunque, legittimano di per sé una fitta trama di piste, sono stati comunque scovati, nei polverosi depositi dove si stoccano i
«corpi di reato» del tribunale di Roma, indumenti di ignoti, sequestrati all’epoca dei fatti ancora a bordo dell’auto della vittima, prima che ce se ne fosse potuti disfare, sporchi di sangue riconducibile a tre diversi dna.
Per Gianni D’Elia (L’eresia di Pasolini, Effigie, Milano 2005), l’autore friulano è stato perseguitato in vita ed è stato apparentemente «scandaloso» nella morte, quando invece il vero scandalo è stato quello «politico», di chi lo ha fatto impunemente uccidere. Tranchant Gianni Borgna, amico di Pier Paolo Pasolini, Assessore alla Cultura al Comune di Roma, per quattordici anni, fino al 2006: «Noi abbiamo sempre pensato che non si tratta di un omicidio sessuale ma politico. In Italia dietrologia è sinonimo di fantasticheria: invece purtroppo la nostra storia è fatta di misteri. Nel caso di Pasolini si voleva eliminare una voce scomoda, facendo passare il tutto per un delitto sessuale. Il caso Mattei è una possibile chiave». Ed è proprio Borgna ad aggiungere, significativamente, che «In quei mesi le (…) accuse politiche (di Pasolini, n.d.r.) erano diventate sempre più dure e circostanziate, cominciava a fare dei nomi. Bisognerebbe collegare il suo omicidio con Petrolio e con il fatto che proprio in quel periodo Pasolini maneggiava materiale incendiario».
Di questa stessa opinione è anche Gianni D’Elia: «Forse le radici del delitto di Pasolini vanno rintracciate nell’incompiuto Petrolio, una denuncia dell’intreccio corrotto tra i servizi segreti di Stato. Pasolini si è esibito come testimone autentico dell’epoca in cui viveva, sapendo di dover pagare di persona». Lo stesso D’Elia, peraltro, ha sostenuto che dell’ipotizzato assassinio di Mattei «il mandante possibile è in Petrolio». In effetti, non è difficile, leggendo i frammenti del romanzo, conoscere la convinzione di Pasolini. Si tenga presente che in Petrolio Cefis è Troya e Mattei è Bonocore, e si legga, per esempio, un appunto del 1974 dove si parla di un «preciso momento storico» in cui «Troya (!) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore».
La suggestiva ipotesi per la quale lo scrittore friulano potrebbe essere arrivato alle stesse conclusioni del giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, il quale aveva cominciato a indagare sulla morte di Mattei per incarico del regista Franco Rosi e che sarebbe stato eliminato quando, si dice, avesse ormai scoperto la verità, e, in particolare, che il 14 novembre 1974, allorché Pasolini scriveva sul Corriere della Sera, «Io so. Io so i nomi dei responsabili... », probabilmente sapesse davvero e non solo per intuito poetico, è stata formulata anche dal maresciallo Enrico Guastini, collaboratore del pubblico ministero pavese Vincenzo Calia e responsabile della parte investigativa delle indagini da questi condotte sul disastro aereo di Bascapè, che hanno incrociato spesso e volentieri la tragedia di De Mauro e con essa anche il nome di Graziano Verzotto.
Variegato il compendio indiziario che concorre a suffragare questa prospettazione.
A partire dalla primavera del 1972, accanto agli articoli che l’avevano reso l’intellettuale più ascoltato d’Italia, Pier Pasolini andava scrivendo anche il suo romanzo «politico», Petrolio e, proprio in funzione della stesura di quell’opera magmatica, nella quale intendeva fondare su basi rigorosamente documentarie la sua scrittura romanzesca, aveva messo le mani su materiali introvabili e spesso molto riservati. Egli, dunque, non era ormai più il poeta-narratore-corsaro istintivo, tutto rabdomantica intuizione, fin lì conosciuto, ma un accanito ricercatore di documenti, determinato a scrivere su dati certi e attestati. E per farlo a ragion veduta raccoglieva materiali scottanti, probabilmente grazie a «entrature» privilegiate nell’industria e nel mondo della politica: tra le carte di Petrolio, nell’archivio pasoliniano del Gabinetto Vieusseux, si sono rinvenuti articoli su Eugenio Cefis pubblicati dalla rivista dello psicoanalista Elvio Fachinelli, L’erba voglio; un Discorso commentato di Eugenio Cefis all’Accademia militare di Modena, pronunciato il 23 febbraio 1972; i ciclostilati di altre conferenze dello stesso presidente e, addirittura, l’originale di una conferenza intitolata Un caso interessante: la Montedison, tenuta l’11 marzo 1973, presso la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con annotazioni a margine, dello stesso Cefis, mai pronunciate; diversi ritagli di giornale sui «segreti dell’Eni».
Fra le carte, inoltre, sono presenti le fotocopie di un volume, «nato dai veleni interni all’ente petrolifero italiano», scritto da tale Giorgio Steimetz, uscito nell’aprile 1972 presso l’Ami, Agenzia Milano Informazioni, dal titolo Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente. Questo pamphlet sulla vita, sul carattere e sulla carriera del successore di Mattei alla guida dell’Eni, che ne narrava alcuni passaggi biografici, da quando era stato partigiano in Ossola, con alcuni risvolti poco chiari, alla rottura con Mattei nel 1962, mai perfettamente spiegata, al rientro all’Eni e al salto in Montedison, di cui Pasolini faceva la parafrasi, elencando le stesse società, petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità e della comunicazione, più o meno collegate a Cefis, magari assegnando alle stesse acronimi o sigle d’invenzione, era stato reperito con qualche difficoltà, come dimostra una lettera del 20 settembre 1974 inviata allo scrittore da Elvio Fachinelli, in cui si parla delle fotocopie del «libro (...) ritirato».
Non è agevole stabilire chi si celasse dietro lo pseudonimo di Steimetz, ma certamente era una persona ben inserita negli affari interni dell’Eni. In ogni caso, dietro l’Ami, editrice di quel solo titolo, c’era il senatore democristiano Graziano Verzotto, capo delle pubbliche relazioni Eni in Sicilia e segretario regionale della Dc, ai tempi di Mattei, di cui era stato amico personale: lo stesso Graziano Verzotto che, anni dopo, avrebbe rilasciato al pubblico ministero pavese Vincenzo Calia una lunga deposizione, nella quale, per spiegare l’«incidente» aereo dell’ottobre 1962, dopo aver escluse l’ipotesi delle «Sette sorelle», quella dei servizi segreti francesi e la pista algerina, arriva a chiedersi: «A chi ha giovato?»; per rispondersi: al successore di Mattei.
Quanto al libro Petrolio, curato da Aurelio Roncaglia e pubblicato nel 1992 dall’Einaudi, nella storica collana dei Coralli, contenente i frammenti di un grande romanzo che l’autore non riuscì a portare a termine, si tratta di un opera, non solo incompiuta, ma la cui parte scritta era ancora in fase di abbozzo e sarebbe stata certo rivista da Pasolini e limata anche in quelle tranche che sembrano più compiute. Del romanzo «a venire», peraltro, lo scrittore parlava con la curiosa consapevolezza di avere superato una soglia: esso, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere «il preambolo di un testamento», al punto che, in un’intervista a Lorenzo Mondo del gennaio 1975, aveva anticipato: «Petrolio contiene tutto quello che so, sarà la mia ultima opera: mi diverte moltissimo avere questo segreto». Segreto destinato, sembra, a rimanere tale, dal momento che, per effetto della scomparsa di un capitolo scottante, che l’autore attesta, tuttavia, di aver scritto, la conoscenza dei lettori è destinata a patire una irrimediabile mutilazione.
Nell’«Appunto 22», intitolato Il cosiddetto impero dei Troya: le filiali più vicine alla casa madre, Pasolini ricorda di aver già scritto il capitolo Lampi sull’Eni, dove presumibilmente doveva comparire il grosso della vicenda legata all’economia petrolifera italiana. Quel che ne resta, però, è solo il titolo, sotto l’«Appunto 21». Alla domanda dove siano finite quelle pagine date per scritte, non sa rispondere neppure il filologo che ha fatto la ricostruzione del romanzo: Aurelio Roncaglia parla di buchi «di fronte ai quali (...) la filologia rimane impotente» e si limita a sottolineare che Pasolini all’inizio del 1975 parlava di una stesura arrivata a 600 pagine, mentre ce ne sono pervenute poco meno di 400. Dunque, si può ipotizzare che con Lampi sull’Eni siano sparite anche altre (e non poche) pagine.
Steimetz, chiunque egli fosse e qualunque fosse lo scopo, forse anche ricattatorio o, almeno, intimidatorio, del suo libro nei confronti di Cefis, era pienamente consapevole del senso reale della sua affermazione, quando denunciava: «Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni» (il corsivo è nostro, n.d.r.). E, del resto, il fatto che il suo libro fosse immediatamente sparito dalla circolazione, la diceva lunga, in proposito. Da parte sua, Pasolini condivideva la consapevolezza di Steimez, al quale faceva eco in Petrolio, là dove, a proposito del protagonista, nel romanzo, annota: «Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire».
Se, dunque, come sembra, Pier Paolo Pasolini fosse approdato con quasi trent’anni di anticipo, alle stesse conclusioni alle quali, più o meno, è giunta l’indagine del pubblico ministero Calia, si dovrebbe convenire con il maresciallo Guastini là dove, secondo quanto riferisce Paolo Di Stefano (Il Petrolio al veleno di Pasolini. Il caso Mattei, i sospetti su Cefis e la morte violenta del poeta, in Corriere della Sera, 7 agosto 2005), ha enunciato come «possibilità logica» che l’ambiente politico-economico potenzialmente pregiudicato dal disvelamento del suo «segreto» avesse tutto l’interesse a eliminare Pasolini, «specialmente dopo che Pelosi ha fatto le sue ammissioni».
Cap XLVIII
L’Anonima Sequestri
Metà degli anni Settanta. Oltre ai marsigliesi, ai calabresi e a qualche banda squisitamente laziale, come la cosiddetta «banda delle belve» capeggiata da Laudavino «Lallo lo zoppo» De Santis, nella Capitale opera anche la tristemente nota «Anonima sequestri», consorteria sanguinaria e disumana per il suo modus operandi, la più spietata e crudele nel mondo dei sequestratori.
Vero e proprio «piccolo esercito di criminali», composto da un centinaio di persone in tutto, per lo più pastori sardi approdati da qualche tempo «in Continente», con ramificazioni nel Lazio, in Toscana e nelle Marche, tra il 1975 e il 1977, l’Anonima si rende responsabile di una quindicina di sequestri di persona, che fruttano riscatti per una quindicina di miliardi di lire.
Tra le vittime, alcune delle quali non faranno ritorno a casa, verosimilmente perché barbaramente uccise nonostante il pagamento del riscatto, il piccolo Claudio Chiacchierini, il minore Emanuele Riboli, gli industriali Mario Botticelli, Maleno Malenotti e Marzio Ostini, il possidente Matteo Neri, Massimo Baldesi, figlio del costruttore e vice presidente dell’A.S. Roma ingegner Renzo, Leone Concato, amministratore dell’Agusta, la signora Lucilla Carabelli Conversi, il commerciante Nazareno Fedeli, Savio Costantini, Albino Salvotti, Giannello Tamponi.
Liberato dopo il versamento di un cospicuo riscatto, è proprio Claudio Chiacchierini a raccontare di aver sentito «il belato delle pecore» e che «i banditi avevano un modo strano di parlare». Le percezioni del piccolo, sin dalla primavera del 1975, indurranno gli apparati polizieschi ad imboccare la «pista sarda», imprimendo una svolta ad investigazioni prospettatesi, comunque, subito difficili, per un verso, a causa della mancanza, al momento del verificarsi dei primi rapimenti, di elementi obiettivi precisi per l’esatta comprensione del fenomeno e, per altro verso, in ragione della frammentazione dell’Anonima in numerose «frange», con relativi capi e gregari.
Furono, a partire da allora, anni di accertamenti meticolosi, pedinamenti costanti, sopralluoghi, battute a largo raggio nelle zone ritenute maggiormente sensibili nel Lazio, in Toscana, in Umbria e nelle Marche, in tutto il centro Italia e in Sardegna, di intercettazioni, di servizi fotografici, che consentirono ai carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma di metter a nudo quella vera e propria «interregionale del crimine», in cui convivono banditismo sardo, malavita romana e mafia siciliana.
Gli investiganti, in particolare, ritennnero di individuarne il capo indiscusso in Bachisio Manca, grande proprietario terriero a Cingoli, in provincia di Macerata, ex luogotenente di Peppino Pes, sanguinario fuorilegge di Sedilo, ed è a lui che attribuirono la responsabilità di aver organizzato il rapimento dell’industriale Mario Botticelli, tenuto in ostaggio anche da Graziano Mesina. L’esecutore materiale di questo sequestro, nello stesso contesto investigativo, venne individuato in Giuseppe «Peppino» Pantò, boss della malavita siciliana, originario di Sant’Agata Militello in provincia di Messina, ma da tempo abitante a Roma, in borgata Casalotti.
Scavando nella vita di costui fu localizzata una villa in costruzione, dotata di tutti i confort, compresi piscina e campo da tennis, al ventesimo chilometro della Boccea, dove, all’interno di una cisterna, fu rinvenuto, occultato in un sacco impermeabile, il nécessaire per il perfetto rapitore: un mitra Sten, un fucile a canne mozze, due pistole automatiche, munizioni, passamontagna, cerotti, flaconi di etere, siringhe, tamponi, corde.
Insieme a Peppino Pantò fu anche arrestata la convivente, Maria Istria Serra, sarda di Baulada, a cui gli investiganti attribuirono l’importante ruolo di anello di collegamento fra Peppino Pantò, altri siciliani e i sardi: sarà seguendo le sue tracce che i carabinieri giunsero ad un garage dietro la stazione Termini, tenuto da sardi orunesi, dove in gran segreto erano stati predisposti i piani per l’attuazione dei sequestri di Marzio Ostini, Massimo Baldesi, Lucilla Carabelli Conversi, Bartolomeo Neri e Maleno Malenotti.
Uomo di fiducia di Peppino Pantò, secondo la ricostruzione dei carabinieri, sarebbe stato il giovane romano Giancarlo De Cinti, cui competeva la guida delle autovetture dei sequestrati, in stretti rapporti con Gino Tempera, anch’egli romano, i cui contatti con altre gang internazionali, non esclusa quella dei marsigliesi, gli consentivano di procurare le armi necessarie all’Anonima.
Fra i sardi, accanto a Bachisio Manca, un ruolo di primo piano gli investiganti lo attribuirono a Costantino Comboni, romano di nascita, ma di origini sassaresi, legato all’estrema destra, che, pur se considerato un duro, fornì tuttavia agli inquirenti molte e molto precise e circostanziate notizie sull’Anonima. Questi, il 4 giugno del 1977, venne trovato morto, impiccato con un lenzuolo, nella cella d’isolamento del carcere di Rebibbia dove era recluso dal momento del suo arresto, operato nella notte tra il primo e il 2 giugno precedente. Il pensiero, in proposito, corse al suicidio, forse per paura dell’atroce vendetta dei complici: pastori, impiegati, ergastolani, evasi, latitanti, piccoli delinquenti, figli di funzionari di banca, di possidenti, di già assicurati alla giustizia.
Le indagini consentirono di conoscere la tecnica altamente specialistica dell’Anonima: acquisire ogni possibile informazione sulle vittime, operare il sequestro, tenere segregato l’ostaggio sino al pagamento del riscatto, eliminarlo, quindi, se necessario ai fini di assicurarsi l’impunità, cambiare uomini in ogni fase; a operazioni compiute gli incensurati tornavano alle normali occupazioni, mentre i ricercati trovavano nuovi e più sicuri rifugi; il denaro del riscatto, immediatamente spartito veniva reinvestito in case, terreni e bestiame, da intestare a persone di estrema fiducia, familiari e lontani parenti.
Cap. XLIX
L’omicidio di Vittorio Occorsio
Il sostituto procuratore della Repubblica, Vittorio Occorsio, che indaga sui rapporti fra terrorismo fascista e massoneria, viene ucciso a Roma, il 10 luglio 1976, con una raffica di mitra da un commando fascista guidato da Pierluigi Concutelli di Ordine Nero.
L’agguato al magistrato sarà prima rivendicato dal gruppo terroristico Ordine Nuovo e successivamente dalle Brigate Rosse, con un volantino fatto trovare in una cabina telefonica a Reggio Emilia. Gli inquirenti però non credono a questa rivendicazione, essendo il documento assai diverso dal solito linguaggio delle Br.
Il pubblico ministero romano era stato il primo a intuire che poteva essere la massoneria a tirar le fila del terrorismo, utilizzando, a seconda delle contingenze, sia rossi che neri. Il giorno prima di essere ucciso, il magistrato parlando con un giornalista, aveva fatto notare che il totale della cifra pagata per i riscatti dei rapimenti per cui era stato arrestato Albert Bergamelli, i sequestri dei figli di Roberto Ortolani, Alfredo Danesi e Giovanni Bulgari, tutti e tre iscritti alla P2, corrispondeva esattamente alla cifra spesa per l’acquisto della sede dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica (Ompam), una superloggia internazionale con sede a Montecarlo, fondata nella primavera del 1975, da Licio Gelli.
Dopo l’assassinio del magistrato, si cominciò a parlare di P2 e massoneria e i collegamenti di essa con gruppi neofascisti e la Banda della Magliana. I colleghi che stavano lavorando con Occorsio per sgominare la gang dei sequestri, ebbero, da subito, le idee fin troppo chiare in proposito. Al giudice istruttore Ferdinando Imposimato, il magistrato che avrebbe avuto l’ultima parola a proposito delle indagini su Albert Bergamelli e sulla pletora di personaggi minori che erano finiti a Regina Coeli come suoi complici o come favoreggiatori, sui collegamenti del clan dei Marsigliesi con gli squadristi neri e con i massoni, anch’essi legati a filo doppio con i fascisti d’alto bordo, erano pervenute, nelle ultime settimane, numerose lettere anonime, scritte evidentemente da persone legate alla massoneria ufficiale e da esponenti della P2: lettere contenenti accuse roventi, rivolte dai massoni a quelli della P2 e viceversa. Alcune accomunavano il «gran maestro della massoneria grande oriente d’Italia» Lino Salvini e il venerabile maestro della «Propaganda 2» Licio Gelli. E proprio nei giorni immediatamente precedenti all’omicidio, Occorsio e Imposimato stavano esaminando l’incartamento che, per legge, essendo anonimo, non poteva essere acquisito agli atti, ma gli accertamenti potevano, comunque, stabilirne la validità del contenuto.
Ferdinando Imposimato dichiarò, dunque: «Se un legame c’è tra anonima sequestri e loggia P2, questo è dato da Albert Bergamelli e da Gian Antonio Minghelli. Basterebbe ricordare le frasi pronunciate dai due, spontaneamente, dopo l’arresto».
Il 30 aprile 1976, mentre, manette ai polsi, sostava in questura, Albert Bergamelli aveva affermato: «Se mi avete preso, vuol dire che qualcuno mi ha tradito. Ma la pagherà cara perché sono protetto da una grande famiglia». Dieci giorni dopo, interrogato da Occorsio e da Imposimato, per la prima volta come imputato di concorso nei sequestri di persona, Gian Antonio Minghelli aveva dichiarato: «I giornali dicono che io faccio parte della massoneria. è vero: ma questo che c’entra con le accuse contro di me?». Considerati, per un verso, il legame tra Bergamelli e Minghelli, e, per l’altro, l’appartenenza dell’avvocato alla Loggia P2 di Licio Gelli, era facile pensare che la «grande famiglia» di cui parlava Bergamelli fosse proprio la massoneria.
In una delle lettere anonime fatte pervenire al giudice Imposimato e alla finanza, si parlava di contrasti sorti nel marzo del 1975 nella gran loggia massonica: Salvini, il gran maestro, sarebbe stato attaccato da un avvocato palermitano, legato agli ambienti della mafia siciliana. L’operazione non sarebbe stata diretta a far dimettere Salvini, ma ad avvertirlo: «Non devi più intralciare i passi di Licio Gelli nella operazione trame nere». Questa, raccontava ancora l’anonimo, sarebbe stata diretta da Gelli per costringere Salvini a un riavvicinamento: la nuova, forzata alleanza avrebbe consentito a Gelli di scaricare Umberto Ortolani, che a Gelli non serviva più e di cui Salvini voleva vendicarsi. Raccontava ancora l’anonimo, che col rapimento di Amedeo Ortolani, si presero i classici due piccioni con una fava: l’estromissione di Umberto Ortolani dal campo massonico e la percezione di un miliardo, cioè il prezzo pagato per il riscatto.
Del sequestro, concludeva l’anonimo, era stato incaricato un esperto del ramo: Albert Bergamelli; e poiché la cosa era andata bene, s’era passati al secondo sequestro, quello di Gianni Bulgari, dal momento che «I sequestri servono a finanziare svolte a destra e la formazione di campi paramilitari fascisti».
Cap. L
La Banda della Magliana
Nata durante gli anni Settanta del Novecento non è per caso che la cosiddetta «Banda della Magliana» riesca, a cavaliere del fatidico 1978, a insediarsi saldamente al centro di ogni traffico criminale della Capitale e a imporre la propria supremazia in ogni settore di attività illegali.
Sono quelli gli anni in cui si va realizzando e consolidando la commistione di vertice tra gruppi mafiosi, con una base economica sempre più vasta, e settori della finanza, dell’imprenditoria e dell’amministrazione, il traffico di droga a fungere da volano e a produrre disponibilità di denaro liquido; sono gli anni durante i quali, nel Paese, la caccia ai sovversivi è momento genetico e fine ultimo di ogni inchiesta giudiziaria, accordo politico o campagna mediatica; sono gli anni in cui c’è dunque tutto il tempo e lo spazio per appropriarsi dell’Italia, mentre gli addetti alla sicurezza cavalcano l’ossessione terroristica; sono gli anni, finalmente, in cui alti gradi dell’Esercito e dei Servizi di Sicurezza, variamente connessi alla strategia della tensione, aderiscono alla Loggia massonica P2.
I promotori del sodalizio, figli della città, delle borgate, novità assoluta nei fragili equilibri della malavita capitolina, hanno un progetto: riprendersi Roma. La gestione del mercato della droga rappresenta per esso l’opportunità d’intessere «relazioni» paritarie con altri sodalizi criminali di prima grandezza nel panorama nazionale. La disponibilità di una massa ingente di liquidità d’illecita provenienza gli offre l’occasione di acquisire il controllo del mercato dell’usura, ma anche di spregiudicate scorrerie in settori dell’economia legale, che meglio e più di altri si prestano a remunerative operazioni di riciclaggio e reinvestimento dei capitali d’illecita provenienza. Ma se il rapporto intessuto da taluni fra i banditi e i grossi imprenditori del «prestito a strozzo» è lo strumento mediante il quale attuare il progetto «dalle borgate alle stelle», esso sarà anche l’elemento dissolutore della stessa holding criminale.
Fittissima la rete di collegamenti, complicità, coperture e agganci, che la banda intesse con gli ambienti più svariati, dalla Massoneria a taluni spezzoni dei Servizi di Sicurezza operanti, molto spesso, ai margini dell’illegalità.
A tale contesto sono riconducibili pure i rapporti operativi con ambienti eversivi di estrema destra, che, a Roma, prosperano anche grazie alle complicità e agli aiuti della banda, sia economici sia logistici: forniture di armi, rifugi, documenti d’identità contraffatti e altro. Paolo Aleandri, già appartenente alla formazione d’estrema destra «Ordine Nuovo» e uomo di fiducia del professor Aldo Semerari e del professor Fabio De Felice, oltre che tramite fra costoro ed il Venerabile Maestro della Loggia massonica P2 Licio Gelli, scelta la strada della collaborazione processuale, dopo la strage del 2 agosto 1980 alla Stazione ferroviaria di Bologna, rivendica di aver avuto piena consapevolezza della pericolosità del famigerato sodalizio capitolino e della rete di connivenze di cui gode, della quale è sintomo inequivoco la sostanziale impunità dei suoi adepti.
«Quanto alla pericolosità dell’organizzazione», queste le dichiarazioni in proposito dell’ex terrorista, «posso dire, per aver vissuto da protagonista quegli anni, che la banda della Magliana determinò un cambio di mentalità nell’ambiente malavitoso romano facendo passare il principio che si poteva imporre il proprio potere applicando regole semplici e feroci al fine di intimidire qualunque interlocutore che poteva, addirittura, essere fisicamente soppresso senza grossi rischi. In tal modo il sodalizio ha cambiato le precedenti regole del gioco diventando esso stesso l’ente che le poneva, a differenza di quanto accadeva prima e cioè che tutto dovesse essere contrattato». Nonostante l’abnorme crescita, nei quindici anni tra il 1975 e il 1990, dei crimini a Roma; nonostante il cruento riesplodere, alla fine degli anni Ottanta, della faida interna alla banda, iniziata nel 1978 e interrottasi tra il 1981 e il 1987, a causa delle vicissitudini giudiziarie che investono in quegli anni il sodalizio; e nonostante il «preoccupato allarme» lanciato dalla Commissione parlamentare antimafia, che, proprio nel settembre 1991, «richiama l’attenzione del Parlamento e del Governo su una situazione certamente pericolosa», il Prefetto di Roma Carmelo Caruso, ancora nell’ottobre del 1991, discutendo in Campidoglio i problemi legati alla criminalità organizzata con il sindaco, i capigruppo consiliari, il questore e i comandanti dei carabinieri e della guardia di finanza, dichiara che «se la mafia è intesa come una foresta che soffoca le città, a Roma ci sono soltanto alcuni alberi».
Quanto ricorda Macbeth, il prefetto Caruso, col suo sprezzante rifiuto di farsi intimidire dalle notizie riferitegli: Till Birnam wood remove to Dusinane / I cannot Taint with fear.
Un orgoglioso gesto di sfida o non, piuttosto, il discorso di un uomo «roso dal terrore»?
Cap. LI
Il lodo Moro
Secondo una dichiarazione di Francesco Cossiga, e pubblicata da Valerio Fioravanti, sul sito internet http://www.lesenfantsterribles. org/sette-gennaio/nar-in-principio-era-lazione, in virtù di un accordo segreto tra Italia e terrorismo palestinese, siglato quando era presidente del Consiglio Aldo Moro, «l’Italia avrebbe lasciato libertà di passaggio ai palestinesi; in cambio, i palestinesi s’impegnavano a non fare altri attentati in Italia, a non dirottare aerei italiani, a non colpire cittadini italiani all’estero. Inoltre, l’Italia s’impegnava ad impedire che i servizi segreti israeliani continuassero a compiere “omicidi mirati” di palestinesi sul suolo italiano».
Dire che l’Italia s’impegnava ad impedire nel proprio territorio l’esistenza stessa di attività sanguinarie israeliane contro i palestinesi significa che il «lodo Moro» presupponeva il coinvolgimento non solo dell’Olp ma anche dello Stato israeliano. E, com’è ovvio che fosse, comportava qualcosa in cambio non solo ai palestinesi, ma pure ad Israele da parte dell’Italia.
Il «lodo Moro» era quindi un accordo molto complesso, vale a dire una doppia operazione italiana, contraddistinta da un accordo di massima approvato in modo separato dalle parti in causa e da due mutevoli sottoaccordi relativamente compartimentati: da un lato con l’Olp e dall’altro con Israele. L’Olp e Israele, come stabiliva l’accordo di massima, non dovevano compiere attentati sanguinari nel territorio italiano. Per il resto, ognuna delle due parti avrebbe ricevuto in cambio qualche specifico favore dall’Italia.
Dal punto di vista dell’effettiva segretezza, il «lodo Moro» rappresenta un caso per alcuni aspetti unico e paradossale: tutti sapevano della sua esistenza, almeno a partire dal 1978, quando Aldo Moro ne parla ai brigatisti rossi e in alcune sue lettere, per evidenziare la necessità di uno scambio dei prigionieri fra Stato e Br, ma tutti finsero d’ignorarla, per i successivi trent’anni, anche se le allusioni all’esistenza di un qualche patto segreto, tra Italia e Olp, si andavano moltiplicando, nel corso dei decenni. L’esistenza del lodo, insomma, restò formalmente segreta, fino al 2008, quando Francesco Cossiga ne parlò, per la prima volta, ufficialmente: in un’intervista di Aldo Cazzullo, pubblicata sul Corriere della Sera dell’8 luglio 2008, il Presidente emerito della Repubblica affermava che «La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della “resistenza palestinese” che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo».
Nella stessa intervista, parlando delle possibilità garantite ai militanti palestinesi sul suolo italiano, Francesco Cossiga riferiva che «i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: “Quel missile é mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano”». Ancora sul Corriere della Sera, il 14 agosto 2008, veniva pubblicata un’intervista di Davide Frattini a Bassam Abu Sharif, nella quale, interrogato sulle dichiarazioni di Francesco Cossiga, relative all’esistenza del «lodo Moro», colui che, tra gli anni Settanta e Ottanta, seguiva la «politica estera» del Fronte di liberazione popolare palestinese, cioè i rapporti internazionali, compresi quelli con l’Italia, dichiarava: «Ho seguito personalmente le trattative per l’accordo. Aldo Moro era un grande uomo, un vero patriota. Voleva risparmiare all’Italia qualche mal di testa. Non l’ho mai incontrato. Abbiamo discusso i dettagli con un ammiraglio, gente dei servizi segreti, e con Stefano Giovannone (capocentro del Sid e poi del Sismi a Beirut, n.d.r.). Incontri a Roma e in Libano. L’intesa venne definita e da allora l’abbiamo sempre rispettata», e ancora: «Ci veniva concesso di organizzare piccoli transiti, passaggi, operazioni puramente palestinesi, senza coinvolgere italiani. Dovevamo informare le persone opportune: stiamo trasportando A, B, C… Dopo il patto, ogni volta che venivo a Roma, due auto di scorta mi aspettavano per proteggermi. Da parte nostra, garantivamo anche di evitare imbarazzi al vostro Paese, attacchi che partissero direttamente dal suolo italiano», specificando che ad essere informati fossero i servizi segreti italiani.
Il giornalista Dino Martirano, sempre sul Corriere della Sera, il 15 agosto 2008, riferiva che una conferma dell’esistenza di un patto tra le istituzioni italiane e il Fplp poteva trarsi dall’affermazione di Giovanni Pellegrino, già Presidente della commissione Stragi, per la quale l’esistenza del lodo Moro fosse da considerare «una certezza», dal momento che «Moro ne accenna in una lettera all’ambasciatore Luigi Cottafavi del 22 aprile del ’78, durante la sua prigionia: Noi con i palestinesi ci regoliamo in altro modo… ». E, del resto, anche Miguel Gotor, in Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008, dopo aver collocato il momento genetico del «lodo Moro» nell’ottobre del 1973, «l’anno della guerra del Kippur», ricordava, altresì, che «In una delle lettere dalla prigionia Moro (la stessa citata da Giovanni Pellegrino, n.d.r.) richiama l’esperienza di Giovannone, dicendo che solo i palestinesi potevano fare da intermediari con le Br. E, ora, Abu Sharif conferma». Sempre il 15 agosto 2008, il Corriere della Sera pubblicava una lettera al direttore, nella quale Francesco Cossiga scriveva: «Ho sempre saputo non da carte o informazioni ufficiali – che mi sono state sempre tenute segrete –, dell’esistenza di un “patto di non belligeranza” segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni della resistenza palestinese, comprese quelle terroristiche quali la Fplp, che si è fatta viva nuovamente in questi giorni. Questo patto fu ideato e concluso da Aldo Moro [...]. Le clausole di questo patto prevedevano che le organizzazioni palestinesi potessero avere basi anche di armamento nel Paese, che avessero libertà di entrata e uscita e di circolazione senza essere assoggettati ai normali controlli di polizia perché “gestiti” dai servizi segreti [...]».
Il giorno successivo, l’agenzia di stampa AGI pubblicava il commento del giudice Rosario Priore, istruttore dei procedimenti relativi al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro, che confermava: «Il patto Moro esisteva ed è esistito per anni». Il quotidiano Il Giornale del 19 agosto 2008 pubblicava un altro scritto di Francesco Cossiga, nel quale, oltre a riconfermare l’esistenza del patto segreto che avrebbe garantito la «salvaguardia del nostro Paese ed anche degli obbiettivi italiani all’estero, purché non cooperanti con il sionismo e con lo Stato d’Israele», affermava, altresì, che l’accordo «fu sempre rispettato, dato che anche l’attentato all’aeroporto di Fiumicino del 1985 (13 furono i morti e 67 i feriti, di varie nazionalità, n.d.r.) fu portato esclusivamente al banco di accettazione della compagnia aerea israeliana El Al e solo israeliane o ebree furono le vittime, e gli attentatori uccisi non furono colpiti dalle nostre forze di polizia ma dagli agenti segreti dello Shin Beth, dissimulati sotto le vesti di impiegati della compagnia di bandiera israeliana».
In una lunghissima intervista rilasciata a Menachem Ganz, corrispondente dall’Italia del quotidiano israeliano Yediot Aharonot, pubblicata il 3 ottobre 2008, l’ex ministro dell’Interno e poi presidente della Repubblica, non solo ribadiva che sarebbe stato firmato un accordo, in forza del quale i servizi segreti avrebbero chiuso gli occhi sulle attività logistiche ed economiche dei terroristi in Italia, in cambio di una sorta di immunità dagli attentati, ma aggiungeva che tale accordo non preservava i cittadini ebrei. Tanto che, il 19 ottobre 1982, c’era stato l’attacco alla Sinagoga di Roma.
Tutto era accaduto poco prima di mezzogiorno: un commando di sei terroristi sparò e lanciò bombe a mano sui fedeli che avevano appena finito la preghiera. Decine le persone ferite. Stefano Gaj Tachè, un bambino di due anni, rimase ucciso per mano dei terroristi. Dichiarazioni ufficiali di condanna furono subito rilasciate da politici al vertice, ma non convinsero gli ebrei di Roma. Grave la sensazione di abbandono: quel mattino, all’improvviso, erano sparite, senza spiegazione, le due volanti della polizia che, durante le feste ebraiche, fornivano protezione all’ingresso della sinagoga; solo uno degli attentatori, peraltro, Abd El Osama A-Zumaher, era stato catturato, e nemmeno dagli italiani, ma in Grecia, con esplosivi nella sua macchina: liberato dai greci, sei anni dopo, sarebbe scappato in Libia, e le Autorità italiane non ne avrebbero chiesto l’estradizione. Menachem Gantz, nell’incipit dell’articolo di Yediot Aharonot, offriva alcune interessanti informazioni sull’intervistato, prima di avanzare alcune ipotesi sulle ragioni da cui sarebbe stato indotto a rivelargli che i cittadini italiani di religione ebraica si dovessero considerare esclusi dal lodo Moro: «In casa di Francesco Cossiga, nel cuore del quartiere Prati di Roma, sventolano – l’una accanto all’altra – tre bandiere eleganti: quella dell’Italia, quella della Regione Sardegna e quella di Israele. Non sempre l’ex Presidente della Repubblica italiana […] è stato un tale amante di Sion. Una volta, negli Anni Cinquanta, fu lui ad inaugurare l’Associazione d’amicizia Italia-Palestina. Quando era Presidente del Senato, ha persino dato asilo, nel suo ufficio, ad Arafat, quando, nei suoi confronti, era stato emesso un mandato di cattura. Ma oggi, a ottant’anni, Cossiga ama Israele […]. Questo è forse anche il motivo per cui è disposto ad aprire, con raro candore, un vaso di Pandora tra i più stupefacenti e orripilanti dell’Italia, che egli ha conosciuto, nei lunghi anni di servizio pubblico. Sarà forse l’imbarazzo, la volontà di riparare al male causato dall’accordo in cui l’Italia avrebbe di fatto permesso di sottrarre la vita di qualsiasi ebreo in quanto tale – sarà forse questo che lo porta ad aprire la storia per intero». Probabilmente, si tratta di ipotesi troppo benevole. Secondo Francesco Cossiga, nel caso dell’attentato alla Sinagoga, i palestinesi avevano avvertito prima i nostri servizi, permettendo al Sismi di fare richiamare le due volanti di guardia al luogo sacro degli ebrei, consentendo di salvare i poliziotti, rendendo gli italiani complici della morte del piccolo Stefano Gaj Tachè. Quando diceva questo, sapeva perfettamente il significato di ciò che stava rivelando e ne conosceva la gravità. Lungi dal voler giustificare coloro che assunsero le decisioni, tentò, però, di spiegare la filosofia del «lodo»: l’Italia non si immischiava in quanto non la concerneva. A riprova, presentò l’altra parte: «L’azione del Mossad contro gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972», raccontò, «è passata anche per Roma»: a Roma, fu ucciso Adel Wahid Zuaitar, il simbolo della furbizia dell’organizzazione del Settembre Nero. «Crede», domandò in proposito all’intervistatore, «che l’Italia non potesse, a suo tempo, arrestare i due agenti che lo fecero fuori? Un giorno, mentre rientrava in casa, due giovani lo picchiarono all’ingresso e lo fecero fuori con due pistole munite di silenziatore. Crede che gli italiani non sapessero chi fossero? è ovvio che lo sapevano, ma in questioni del genere è meglio non mettere le mani, ed è questa la linea che guidava il comportamento dell’Italia». Menachem Gantz, naturalmente, non lasciò passare sotto silenzio questo paragone «salomonico» e domandò: «Lei paragona l’eliminazione di un terrorista all’assassinio di un bambino di due anni all’uscita della Sinagoga?». Obiettivamente in difficoltà, Cossiga rispose: «No, assolutamente no. Se avessi saputo che le volanti della polizia erano state indotte ad andarsene quella mattina, nell’ambito di quell’accordo di cui mi hanno sempre negato l’esistenza, forse tutto sarebbe andato diversamente». Attribuì, però, solo ed esclusivamente ad Aldo Moro la colpa.
Cap. LII
Sequestro Moro: il falso Comunicato n. 7
Nella mattinata del 18 aprile 1978, in seguito ad una telefonata anonima, un redattore del quotidiano romano Il Messaggero rinveniva in un cestino per rifiuti, in piazza Belli, un comunicato delle Brigate Rosse, nel quale si affermava che la salma di Aldo Moro giaceva «impantanata» nei fondali del Lago della Duchessa, in località Cartore di Rieti.
La comunicazione si rivelò ben presto non veritiera: il lago della Duchessa era gelato, il manto nevoso che ne ricopriva la superficie non segnato da orme; l’onorevole Moro era ancora vivo e le Brigate Rosse, quasi immediatamente, ne negarono l’autenticità, considerandolo una «provocazione del potere». Incomprensibili apparivano anche le finalità per cui il falso comunicato era stato diffuso, sia che lo stesso provenisse dalle Brigate Rosse, sia da ambienti a queste vicine sia da terzi.
L’interpretazione più attendibile apparve quella data a caldo dalla signora Eleonora Moro: «una prova generale per vedere come avrebbe reagito l’opinione pubblica», all’uccisione del prigioniero.
La gravità dell’episodio è innegabile: la conseguenza del falso comunicato fu, sull’opinione pubblica, l’annuncio dell’assassinio del leader democristiano, messaggio che, anticipando il lutto rispetto al reale svolgimento degli accadimenti, rendeva l’intera società pronta ad accogliere con minor resistenza e minor sofferenza una morte che dipendeva ancora da una molteplicità di circostanze, e sollecitava di fatto i brigatisti a percorrere la via cruenta e risolutiva: lo stesso Moro nel Memoriale sembra interpretare in questo senso l’episodio, allorché scrive dell’unilateralità del comportamento della stampa italiana a proposito della «macabra grande edizione sulla mia esecuzione». Il falso comunicato, commenterà Mario Moretti, «fu un disastro, ma lo fu anche la caduta di via Gradoli, nonostante non ce ne fossimo accorti subito. Anzi, quasi ringraziammo la buona sorte perché la casa era vuota (…). Nessuno in via Montalcini sapeva che via Gradoli era l’indirizzo di Barbara Balzerani e di Mario Moretti (…). Non potevamo certo immaginare che la scoperta dell’appartamento (…) sarebbe stata ricordata come uno dei “misteri” del caso Moro, anzi il “mistero dei misteri”».
Forze politiche e Brigate Rosse ebbero immediatamente la consapevolezza che una forza sconosciuta era in grado d’influire sui successivi sviluppi del sequestro del Presidente della Democrazia Cristiana.
L’incertezza creata ad arte impresse una tragica accelerazione agli avvenimenti. Quel che non era riuscito al governo ed alla stampa per un mese, ottenere cioè il silenzio dello statista sequestrato, dipingendolo come plagiato, riuscì in un sol giorno: dal 18 aprile sino al 9 maggio, Aldo Moro non fu più in grado di svolgere quella funzione di mediatore tra i terroristi ed il governo che s’era in precedenza ritagliata e vide l’iniziativa passare alle Brigate Rosse, le quali si scontrarono, tuttavia, contro il muro della fermezza.
Il 20 aprile le Brigate Rosse diffusero il vero «comunicato n. 7», nel quale, per la prima volta, si formalizzavano le richieste per la liberazione dell’ostaggio, ed una foto dell’onorevole Moro vivo, rispondendo così alla «provocazione» del falso «comunicato n. 7» del «Lago della Duchessa». L’Esecutivo brigatista, in particolare, indicò il responsabile del falso nell’onorevole Giulio Andreotti: questi avrebbe cercato di trasformare in un «buon affare» anche quest’ultima vicenda, così «come ha sempre fatto in tutta la sua carriera e che ha avuto il suo massimo fulgore con le trame iniziate con la strage di Piazza Fontana, con l’uso oculato e molto personale dei servizi segreti che vi erano implicati: Andreotti ha le mani già abbondantemente sporche di sangue, e non ci sono dubbi che la sceneggiata recitata dai vari burattini di Stato ha la sua sapiente regia». Mentre, dunque, i brigatisti interpretarono la giornata del 18 aprile come una «provocazione» del potere, il governo non prese mai, su quella stessa giornata, alcuna posizione ufficiale.
Si è accertato che autore del falso «comunicato n. 7», mendace nei contenuti ed anche apocrifo, era stato Antonio Giuseppe Chichiarelli, la cui specializzazione lo aveva predestinato a mettersi al soldo di apparati devianti dei servizi segreti, che di gente come lui hanno sempre bisogno per le tante operazioni «sporche» che compiono. Valga per tutti l’utilizzo di Guelfo Osmani, falsario al servizio del Sid, con il criptonimo di «Raffaello», nell’«operazione Camerino», allorché si fecero rinvenire armi ed esplosivi unitamente a materiale cifrato, predisposto dall’Osmani, che ne consentisse l’attribuzione ad esponenti di sinistra, coinvolgendo così gruppi politici di diversa provenienza geografica e anche uno studente greco. Il colonnello Antonio Viezzer, nel contesto del processo Pecorelli, avrebbe espressamente ammesso la natura simulatoria delle azioni compiute a questo proposito da Antonio Labruna, Antonio Esposito e Giancarlo D’Ovidio, sotto la supervisione di Vito Miceli.
Cap. LIII
A proposito di Mario Moretti
La verità, come la luce o come il silenzio, i quali comprendono tutti i colori e tutti i suoni, si scompone in tante ragioni che sono quel tanto di verità che a ciascuno pare d’aver raggiunto: quante più ragioni vengono esposte, tanto più è possibile che, mettendole insieme, ci si avvicini alla verità.
Esemplare il caso delle Br, la cui comprensione implica di dover risolvere l’ambiguità della figura di Mario Moretti, leader incontrastato dell’organizzazione terroristica dal 1975 al 1981: il più puro dei rivoluzionari o non, più tosto, una spia al servizio di quello stesso potere che dichiarava di voler abbattere? Questa seconda tesi è sviluppata nel dettaglio da Sergio Flamigni, nel libro La Sfinge delle Brigate Rosse (Milano, Kaos Editore, 2004), là dove, senza mezzi termini, dichiara di ricostruire la «torbida biografia» del «terrorista che come capo delle Br è stato l’efferato strumento per mutare il corso politico della storia italiana» e pone al lettore una duplice sfida: «Giudichi (…) la figura del capo brigatista ricostruita (…) attraverso documenti che non temono smentite» e «Dica (…) se si tratta di “dietrologia”, o se la vera storia delle Br morettiane, e del delitto Moro, sia in gran parte (…) ancora da scrivere».
Questi, in via di rapidissima sintesi, gli argomenti su cui si fonda la prospettazione del politico forlivese, già componente delle Commissioni Parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, sulla Loggia P2 e Antimafia, nonché autore di approfonditi studi sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro: «Studente filofascista al “Montani” di Fermo, mantenuto agli studi dai marchesi Casati Stampa. In via Gallarate 131 (Milano), centrale operativa del provocatore anticomunista Luigi Cavallo sodale di Edgardo Sogno. Sindacalista cislino dei “colletti bianchi” alla Sit-Siemens, contro la Cgil e contro il Pci. Esame di Dottrina e morale all’università Cattolica, docente don Luigi Giussani. Trasloco in via delle Ande: vicino di casa del capo dell’Ufficio politico della Questura milanese Antonino Allegra, e dell’ex comunista Roberto Dotti (braccio destro di Edgardo Sogno). L’entrata nelle Br come militarista-rapinatore. Al vertice delle Br, dopo l’arresto dei fondatori, sospettato di essere un infiltrato. Una lunga latitanza “protetta” come capo-padrone delle Br, scandita da decine di delitti. In via Gradoli 96 all’ombra dei Servizi. La strage di via Fani, la gestione del sequestro Moro, l’omicidio e la “censura” degli scritti morotei. L’improvviso arresto come un ladro di polli, e l’accoltellamento-avvertimento in carcere. Né pentito, né dissociato, né irriducibile, con sei condanne all’ergastolo. Silenzi e minacce, versioni di comodo, trattative e ricatti con settori della Dc, permessi premio e semilibertà».
Nel libro testimonianza Che cosa sono le Br, Milano, Bur, 2004, con postfazione del giudice Rosario Priore, Alberto Franceschini «padre fondatore» con Renato Curcio della principale organizzazione armata italiana ne interpreta l’evoluzione come una vicenda d’infiltrazioni e doppi fini, se non addirittura tripli o quadrupli, sino a retrodatare nel tempo i suoi sospetti. Per l’esattezza al 1972, dopo che le Br avevano fatto la loro comparsa tra Milano e Torino: «Avevamo l’impressione – dichiara a Giovanni Fasanella, giornalista di Panorama autore dell’intervista – che qualcuno ci proteggesse. Avevamo la sensazione precisa che la polizia non volesse scoprire certe nostre basi, che non volesse arrestare tutti i compagni».
Quella che narra Alberto Franceschini è, dunque, una controstoria del partito armato che va oltre la sensazione di essere stati protetti e tollerati fin dagli albori, per spingersi ad avallare l’ipotesi di essere stati utilizzati. Non dallo Stato, né dal Grande Vecchio venuto dall’Est, almeno non nella grossolana versione di cui si discettava in passato, ma da un signore misterioso che avrebbe «giocato» con le Br costruendo intorno a sé una specie di setta e mettendosi a disposizione di chissà quanti e quali servizi segreti, allo scopo, conseguito, di far crescere e indirizzare l’organizzazione terroristica a commettere il delitto politico più dirompente che ha cambiato la storia del Paese: l’omicidio di Aldo Moro.
Quell’uomo, cioè Corrado Simioni, secondo la «verità» di Franceschini, avrebbe fiancheggiato le Br all’atto della loro nascita con il suo Superclan per poi infiltrarle, inviando nel gruppo un proprio rappresentante, Mario Moretti, per l’appunto, che dal 1974, anno dell’arresto di Curcio e dello stesso Franceschini, prese in mano la guida dell’organizzazione.
Tra i tanti pentiti e dissociati del Partito armato, nessuno ha mai svelato simili segreti e sospetti, ma a dar credito alla controstoria di Franceschini è Rosario Priore, là dove si chiede perché quel Simioni, nato e cresciuto a Milano prima di riparare in Francia, pur se oggetto di indagini a Roma e in Veneto «non fu preso in degna considerazione dalla magistratura milanese».
Stando le ragioni alla ragione come i colori alla luce, è questa una buona ragione per prossimi, ulteriori approfondimenti.
Cap. LIV
La parabola dei fratelli Peci
Originari di Ripatransone, cittadina sulle colline a pochi chilometri dalla costa, i due fratelli Patrizio e Roberto Peci sono cresciuti a San Benedetto del Tronto: il padre, carpentiere edile, nel 1962 vi si era trasferito, per lavorare nei cantieri edili che stavano trasformando il paese di pescatori in una rinomata località turistica.
Quando l’armatore del peschereccio Rodi, affondato nel mar Adriatico il 23 dicembre 1970, s’era rifiutato di pagare le spese per il recupero delle salme dei marinai, tutti di San Benedetto del Tronto, in città era scoppiata la rivolta: i pescatori avevano bloccato la ferrovia e il porto; tra i manifestanti, Patrizio Peci, appena diciassettenne. Se la sommossa, alla fine, ottenne il suo scopo, essendo stati recuperati tutti i cadaveri, la lotta e la vittoria dei pescatori cambiò per sempre la vita di Patrizio Peci che, affascinato dalla lotta armata, insieme a quattro amici, fondò il Pail (Proletari Armati in Lotta), una delle mille sigle di quegli anni, dedita più che altro a bruciare macchine e a pestare avversari di destra.
Appena ventenne, Patrizio Peci si trasferì a Milano dove conobbe Mario Moretti, anche lui marchigiano di Porto San Giorgio. Costui, che dopo l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini nel settembre del 1974 era divenuto il capo effettivo delle Brigate Rosse, gli offrì l’opportunità di entrare nelle Br e di organizzare una colonna nelle Marche: ad Ancona, il 14 ottobre 1976, un commando delle Br assaltò una sede della Confapi, l’associazione delle piccole imprese, e all’azione partecipano i fratelli Roberto e Patrizio Peci.
Divenuto a tutti gli effetti un militante delle BR, Patrizio si spostò a Torino, dove l’organizzazione provvide alle sue esigenze abitative e di vita, gli assegnò uno stipendio 200 mila lire al mese e gli riconobbe anche un mese di ferie all’anno.
Era il 1977, annus terribilis a Torino, dove le Br uccisero tra gli altri Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa, Fulvio Croce, Presidente dell’Ordine degli avvocati, incaricato di procurare una difesa d’ufficio ai brigatisti del nucleo storico sotto processo proprio in quella città, gli agenti di polizia Ciotta, Berardi e Cortellessa: azioni queste decise ed eseguite, per lo più, proprio con la partecipazione di Patrizio Peci.
16 marzo 1978, strage di via Fani a Roma: le Br, uccisi gli uomini della scorta, rapirono il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, che avrebbero ucciso 54 giorni dopo. Senza aver avuto alcun ruolo nella vicenda, Patrizio Peci fu, però, tra i venti brigatisti più ricercati d’Italia.
Catturato il 18 febbraio del 1980 a Torino dai carabinieri di Dalla Chiesa, rinchiuso nel carcere di Cuneo, prese una decisione che cambiò la storia del terrorismo in Italia: «Collaboro perché non ci credo più, collaboro per fermare questa fabbrica di morte, collaboro anche perché il Generale Dalla Chiesa mi ha detto che è in cantiere una legge per aiutare chi si pente a ricostruire una vita», questo l’incipit del suo primo verbale d’interrogatorio. Agli investiganti rivelò nomi, piani, come si erano svolti i fatti, chi aveva partecipato, dove erano nascosti i militanti.
I risultati non tardarono ad arrivare. è il 28 maggio 1980 quando i Carabinieri del Generale Dalla Chiesa arrivarono a Genova, bussarono a un appartamento in Via Fracchia 12, i brigatisti risposero sparando; fu una carneficina: un agente gravemente ferito e quattro brigatisti morti. Il 4 aprile del 1980 fu la volta di Mario Moretti, con il cui arresto l’organizzazione delle Brigate Rosse si disarticolò in tre tronconi: le Brigate Rosse Partito Comunista Combattente; la colonna Walter Alasia a Milano; le Brigate Rosse – Partito della Guerriglia – Fronte delle Carceri che associa la colonna napoletana e parte di quella romana, sotto la direzione di Giovanni Senzani.
La scelta collaborativa di Patrizio Peci rivestì, comunque, un’importanza ancora più grande dal punto di vista squisitamente politico: era la prova che personaggi della sua importanza non credevano più nella teoria e nella pratica della lotta armata, nel brigatismo che consideravano un’esperienza fallita. Secondo Giovanni Senzani – laureato in Legge a Bologna, già consulente del Ministero di Grazia e Giustizia tra gli anni Sessanta e Settanta, in clandestinità dal 1979, dopo essere stato arrestato e scarcerato per insufficienza d’indizi –, per porre un argine alla frana delle defezioni e del pentimento occorreva una vendetta esemplare contro un pentito: il 3 agosto 1981, venne rinvenuto Roberto Peci, fratello dell’«infame» Patrizio, sequestrato dalle Br 54 giorni prima. Messaggio secco e raggelante.
L’assunzione da parte delle Br di questo mezzo tipico delle organizzazioni mafiose cementate dall’omertà e dalla prassi del sasso in bocca si rivelò, tuttavia, un boomerang in un’organizzazione politica, anche se puramente militaristica, ove il vincolo aveva pur sempre contenuto politico: essa era il chiaro sintomo della sua drammatica crisi. Per dirla con Brecht, della sua «crescente putrefazione in una pratica demagogica borghese».
Cap. LV
La soluzione di conflitti per via omicidiaria
Nel nostro paese, ormai da molti anni, l’eliminazione individuale è stata un mezzo normale di soluzione di conflitti: la storia italiana non è solo punteggiata dalle stragi, dal terrorismo e dalla grande criminalità organizzata, ma anche da delitti individuali, rispondenti talvolta all’esigenza di eliminare un concorrente in una qualche situazione di potere e talaltra di far tacere per sempre qualcuno a conoscenza di pericolose informazioni occulte.
Lo strumento dell’assassinio è stato usato in Italia con frequenza sia nel mondo militare e dei servizi segreti, sia nei rapporti fra malavita e manovalanza terroristica, ma anche sempre più diffusamente nei grandi casi nazionali di malaffare finanziario e politico, come quelli Sindona, Cirillo, Calvi, per ricordare alcune tra le più note fra le morti misteriose. Ma tanti altri sono gli assassini di cui non si conoscono ancora gli autori e i mandanti, se non velocemente rubricati come «suicidi», nonostante vistose contraddizioni, o addirittura come «incidenti», sulle cui modalità, tuttavia, si è deliberatamente rifiutato di indagare, spesso maturati nell’ambito della P2. Questo, naturalmente, non significa che la loggia P2 abbia ucciso o sia stata il mandante di delitti, ma solo che la morte di talune persone si inserisce, direttamente o indirettamente, in una trama nella quale ha attivamente operato la P2 o alcuni suoi autorevoli esponenti.
Si pensi ad esempio al colonnello Renzo Rocca, fino al giugno 1967 alla direzione dell’ufficio Ricerche economiche e industriali (Rei).
Assieme al generale Giovanni De Lorenzo – capo del Sifar dal 1955 per volere della Cia – Rocca è stato protagonista di vicende politicomilitari a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, l’epoca in cui è maturato il primo tentativo di colpo di Stato, luglio 1964 con presidente della Repubblica Antonio Segni, da parte dello stesso De Lorenzo. Il colonnello Rocca è a conoscenza di molti segreti e, secondo La Repubblica del 15 dicembre 1990, gli si attribuisce il reclutamento di squadre di volontari con il compito di provocare incidenti durante le manifestazioni della sinistra extraparlamentare e dei sindacati. Altro delicato incarico assegnatogli dai vertici dei Servizi è quello di raccogliere finanziamenti tra gli industriali in chiave anticomunista. Questo consente a Rocca di maneggiare molto denaro da destinare a gruppi della destra eversiva. Fatalmente, il colonnello viene a trovarsi al crocevia della cosiddetta «strategia della tensione», messa a punto da ambienti di destra in combutta con i Servizi segreti deviati e con l’appoggio della Nato, per combattere la temuta avanzata politica dei comunisti: sarebbe stato lo stesso Rocca a finanziare un convegno presso l’Istituto di storia militare Alberto Pollio, tenuto a Roma il 3 maggio 1965, a cui sono presenti, tra gli altri, uomini dei servizi, Guido Giannettini, burocrati come il prof. Pio Filippani Ronconi alle dipendenze del Ministero della Difesa e del Sid, politici noti come Pino Rauti ed estremisti di destra come Stefano Delle Chiaie. Assunto poi da Vittorio Valletta, presidente della Fiat, Rocca dirigerà un’agenzia con sede in Roma che, secondo successive indagini, sarà al centro del controllo delle armi.
Il 27 giugno 1968, verso le 20.30, il colonnello Rocca viene ritrovato morto nel suo ufficio, si sostiene per un colpo d’arma da fuoco alla tempia.
Il locale viene immediatamente perquisito dal Sid, anzi vi sono due gruppi di ufficiali dei servizi che si recano precipitosamente in via Barberini: tre sono mandati dal centro di controspionaggio, un altro, un colonnello, inviato dal capo dell’ufficio D, il generale Viola. Dopo di loro arriva anche un funzionario della divisione Affari Riservati del Ministero dell’interno e, buon ultimo, giunge un semplice commissario, che avvisa il magistrato di turno. Questi, appena arrivato, non comprende subito che i precedenti visitatori hanno svuotato i capaci archivi dell’ufficio di Rocca.
Tali documenti non potranno mai più essere consultati dai magistrati che poi si occuperanno del caso, o perché scomparsi o perché su di essi sarà apposto il vincolo del segreto di Stato. Il 10 luglio 1976, il pubblico ministero romano Vittorio Occorsio viene ucciso a raffiche di mitra a Roma, mentre si trova a bordo della sua auto. All’epoca, stava indagando su tre «entità»: eversione nera, malavita organizzata e loggia P2.In un borsello abbandonato su un taxi, il 14 aprile 1979, dal falsario Antonio Giuseppe Chichiarelli, la cui specializzazione lo aveva predestinato a mettersi al soldo di apparati devianti dei servizi segreti, che di gente come lui hanno sempre bisogno per le tante operazioni «sporche» che compiono, venne rinvenuta, tra l’altro, una scheda, intestata: «Mino Pecorelli (da eliminare)». Vi erano indicati gli indirizzi del giornalista e l’annotazione che avrebbe dovuto essere colpito «preferibilmente dopo le 19», nei pressi della redazione di OP, come in effetti era avvenuto. Vi era pure un’altra importante annotazione: «Martedì 6 marzo 1979 causa intrattenimento prolungato presso alto ufficiale dei carabinieri, zona piazza delle Cinque lune, l’operazione è stata rinviata». L’indicazione, però, è incompleta: all’incontro fra Pecorelli e l’«alto ufficiale», cioè il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, si dice fosse presente anche l’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare della Banca Privata Italiana, di proprietà di Michele Sindona. All’omicidio di Mino Pecorelli fecero seguito, in rapida sequenza, alcuni mesi dopo, sia l’uccisione dell’avvocato Ambrosoli sia quella del colonnello Varisco.
Verosimilmente quelle morti sono unite da un unico filo rosso. A partire, del resto, dal 16 marzo 1978, quando, in via Fani, per realizzare il rapimento di Aldo Moro, venne massacrata la sua scorta, si registra un’impressionante serie di morti violente, fra coloro che, a vario titolo ed in diversa misura, direttamente o indirettamente, erano stati coinvolti nella vicenda del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana. 9 maggio 1978, viene assassinato lo stesso Moro.
12 maggio 1978, a Venezia, falciato da una raffica di mitra dei carabinieri, muore Silvano «Kociss» Maestrello, pregiudicato, confidente nel periodo di detenzione trascorso fra i brigatisti rossi.
20 marzo 1979, viene eliminato, a Roma, Carmine «Mino» Pecorelli. Notte fra il 12 e il 13 luglio 1979, viene ucciso, a Milano, Giorgio Ambrosoli. Il presunto killer, Joseph Aricò, muore nel tentativo di evadere da un carcere americano, scavalcando una finestra, al nono piano.
luglio 1979, sul Lungotevere, a Roma, il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco viene freddato con modalità singolari rispetto a quelle abitualmente impiegate dalle Brigate Rosse, che pure rivendicano l’attentato.
settembre 1980, Franco Giuseppucci cade sotto i colpi di un killer del clan Proietti, che elimina, così, un elemento di primissimo piano della banda della Magliana e uno dei testimoni più importanti dei rapporti tra delinquenza organizzata, apparati dello Stato e potere politico. 3l febbraio 1981, muore, ucciso dai suoi stessi sodali, Nicolino Selis: aveva individuato il covo-prigione di Moro. 25 aprile 1981, viene ucciso a Palermo Stefano Bontade: contro il volere di Totò Riina e Michele Greco, s’era dichiarato favorevole all’intervento di Cosa Nostra per la liberazione di Moro. 12 maggio 1981, viene ucciso Salvatore Inzerillo: aveva condiviso la posizione di Bontade. 21 ottobre 1981, viene ucciso, a Roma, il capitano Antonio Straullu: oltre ad occuparsi di destra eversiva, aveva firmato i rapporti investigativi sul borsello fatto trovare il 14 aprile 1979.
Nel luglio 1982, a Milano, viene ucciso e bruciato all’interno del portabagagli di una macchina, Antonio Varone, fratello di Francesco Varone, che da lui autorizzato aveva collaborato con gli apparati dello Stato nella ricerca del covo prigione di Moro e si era sentito dire, a casa di Frank «tre dita» Coppola: «quell’uomo deve morire».
Sempre nell’estate del 1982, nel carcere di Nuoro, viene trucidato Francis Turatello: aveva cercato di utilizzare quanto fatto per l’individuazione del covo-prigione dell’onorevole Moro a fini ricattatori, nei confronti di personaggi politici ed istituzionali, perché lo aiutassero processualmente.
3 settembre 1982, a Palermo, viene eliminato il generale dei carabinieri, all’epoca prefetto della città, Carlo Alberto Dalla Chiesa, già Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale alle dirette dipendenze del ministro dell’Interno Virginio Rognoni, creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro.La scia di sangue che parte da via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978, quando viene massacrata la scorta di Aldo Moro, lungi dall’arrestarsi con l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Palermo, il 3 settembre 1982, continua negli anni successivi.
Il 29 gennaio 1983, mediante l’esplosione di un’autobomba piazzata a Roma, nelle vicinanze di Forte Braschi, sede del Sismi, viene ucciso il camorrista cutoliano Vincenzo «O’ Nirone» Casillo: a nome dei politici nazionali con cui manteneva i contatti, aveva imposto a Raffaele Cutolo di fermare la ricerca del covo-prigione di Aldo Moro; ma era anche stato testimone di un misfatto di Stato, avendo partecipato alla trattativa tra la camorra, i servizi segreti e le Br, per il rilascio di Ciro Cirillo, assessore ai Lavori pubblici della Regione Campania, rapito il 24 aprile del 1981: da latitante, aveva accompagnato nel carcere di Ascoli Piceno il sindaco democristiano di Giugliano e il tenente colonnello del Sismi, Belmonte, per stabilire accordi con il boss Cutolo; sebbene ricercato da polizia e carabinieri, aveva avuto dal Sismi del generale Santovito un lasciapassare per entrare ed uscire dal carcere di Ascoli Piceno; il piano per liberare Cirillo andò in porto: le brigate rosse, capeggiate da Giovanni Senzani rilasciarono il consigliere regionale della Dc dietro un riscatto di alcuni miliardi; un grosso affare per terroristi e camorra, scoperto grazie alle rivelazioni di alcuni brigatisti rossi successivamente arrestati.
Casillo conosceva anche altri segreti scottanti: aveva partecipato in prima persona all’affare degli appalti per le case ai terremotati in Irpinia. Giovanna «babydoll» Matarazzo, convivente di «’o Nirone», risparmiata in occasione della strage di Forte Braschi, sparirà di « lupara bianca », il 2 febbraio 1984, a Napoli.
Mario Cuomo, il quale si trova in macchina con «’o Nirone», rimasto invalido a causa dell’esplosione, l’11 ottobre 1990 verrà anch’egli ucciso, a Napoli. Il 5 febbraio 1984, muore in ospedale, mentre si trova agli arresti, il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi all’epoca del sequestro di Aldo Moro.
Il 28 settembre 1984, viene ucciso a Roma Antonio Giuseppe Chichiarelli, autore materiale del falso comunicato del Lago della Duchessa del 18 aprile 1978, e di altri interventi depistanti sugli omicidi Pecorelli e Varisco.
Nel dicembre 1984, muore per fibrillazione cardiaca, nel carcere di Volterra, Luigi Bosso, camorrista politicizzato a sinistra che si è vantato con il secondino Angelo Incandela di conoscere moltissime cose sul conto dei sequestri Moro e Cirillo.
Sempre nel 1984 – annus terribilis che si chiuderà con l’orrenda «strage di Natale», sul treno rapido 904 – si registra il suicidio, a Londra, di Ugo Niutta, grand commis di Stato, già collaboratore di Enrico Mattei e amico dell’onorevole Antonio Bisaglia, deceduto, alcuni mesi prima, cadendo da una barca.
Una morte misteriosa, quella del deputato democristiano: Antonio Bisaglia era stato chiamato pesantemente in causa dal parlamentare missino Giorgio Pisanò, per i fondi elargiti a Carmine « Mino » Pecorelli, proprio mentre il direttore di O.P. stava rivelando la grande truffa dei petroli: «13 milioni di barili di benzina spariti, mentre gli italiani vanno a piedi e le industrie sono in piena crisi energetica». Brutalmente scaricato dal proprio Partito, il parlamentare veneto prometteva clamorose rivelazioni.
Una morte la sua resa ancor più oscura da quella, avvenuta alcuni anni dopo, del fratello sacerdote, rinvenuto cadavere in un laghetto alpino del Bellunese, con le tasche piene di sassi. Strana fine per un prete, molto impegnato, tra l’altro, a far luce sulla morte del fratello. Ma v’è di più, il colonnello Antonio Varisco, dopo la morte di Carmine «Mino» Pecorelli, si era dimesso dall’Arma dei carabinieri e, nel momento in cui era stato ucciso, stava per andare a lavorare a Farmitalia, proprio con Ugo Niutta.
Il 20 marzo 1986 viene avvelenato, nel carcere di Voghera, con un caffè al cianuro, Michele Sindona, il quale muore due giorni dopo, senza avere ripreso conoscenza.
Cap. LVI
Un delitto contro la parola: l’omicidio di Peppino Impastato
Quello di Peppino Impastato, nato a Cinisi (Pa) in una famiglia di mafia, era un destino segnato: il marito di sua zia, Cesare Manzella, era un boss di prima grandezza e suo padre, Luigi, era amico del numero uno di Cosa nostra, Tano Badalamenti. Ma Peppino «il ribelle», militante di una sinistra che si componeva e si divideva, alimentando una galassia di sigle, partiti e movimenti, cambiò la sua sorte: Tano Badalamenti diventò il mandante del suo assassinio.
Peppino Impastato fu fatto a pezzi sui binari della ferrovia di Cinisi, nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Lo misero sulle rotaie quando era già stordito, adagiarono il corpo su una carica di tritolo e fecero brillare l’esplosivo. Poi, per 23 anni, provarono a seppellirne il ricordo sotto una montagna di falsi e calunnie per una ricostruzione di comodo che lo voleva alternativamente suicida o saltato per aria maneggiando l’esplosivo.
La notizia della sua morte giunse nel giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Nel cono d’ombra di una tragedia nazionale la fine di Peppino Impastato era una nota a margine in un’Italia squassata dal terrorismo.
Gli amici erano alla ferrovia a tentare di avvicinarsi alla scena del delitto. I carabinieri, coordinati dal maggiore, futuro generale, Antonio Subranni, li tenevano a distanza. Poi andarono a perquisir loro le case. Nell’appartamento della zia, Fara Bartolotta, dove Peppino Impastato viveva, trovarono anche un frammento di diario. Era del novembre del 1977. C’era l’amarezza di un attivista che non conosceva il limite tra privato e politico. Bastò quella lettera per la tesi del suicidio.
«Era tutto pianificato», raccontò all’Antimafia l’allora commissario della Digos, Alfonso Vella, arrivato a Cinisi quando i carabinieri stavano già smobilitando.
C’era da stabilire l’ora in cui Peppino Impastato era ancora vivo su quei binari. Sarebbe stato interessante sentire la casellante di turno fino alle 22 dell’8 maggio del 1978. Si chiamava Provvidenza Vitale. Nessuno la cercò. E c’era la «lettera d’addio» trovata da Carmelo Canale, aggregato a Cinisi, in quei giorni in una stazione che aveva una unità in sovrannumero. Il necroforo comunale però si ricordava di un brigadiere che gli disse di cercare una chiave tra i cespugli. Liborio, così veniva chiamato, di chiavi ne trovò tre ma non andavano bene. Il brigadiere gli disse di cercare ancora, poi quella chiave la trovò lui. Apriva Radio Aut. Era proprio quella che Impastato teneva sempre nella tasca dei pantaloni. Non era né annerita, né piegata dall’esplosione. Scherzi di un ordigno che risparmia anche gli occhiali della vittima e ne dilania il cranio.
L’esplosivo era esplosivo da cava. Non fu esaminato. E non furono rilevate impronte sulla macchina di Peppino Impastato. Contro ogni evidenza era suicidio o attentato. Tutto, fuorché mafia. Tutto contro gli indizi che invece gli amici di Peppino, con gli avvocati Turi Lombardo e Michelangelo Di Napoli, avevano raccolto. Trovarono, ad esempio, una pietra rossa insanguinata nel casotto di fianco ai binari della ferrovia. Fu lì che gli assassini colpirono Peppino.
«Era sangue mestruale», tagliarono corto i carabinieri. Era sangue zero negativo, gruppo raro, lo stesso di quello di Peppino accertò Ideale Del Carpio. E sangue dello stesso gruppo trovarono i periti Caruso e Procaccianti su una pietra di quel rudere. Ma la casa non c´è neppure nello scarno fascicolo fotografico rimasto agli atti.
Nei primi anni Sessanta, quando Peppino aveva da poco superato i dieci anni, studiava e andava bene a scuola: suo zio, Cesare Manzella, non era soltanto il boss di un paesino di ottomila abitanti, era anche uno dei big dell’intera Sicilia: nonostante il report negativo degli studi effettuati: troppo vento, monti pericolosamente vicini, terreno non favorevole, era tanto importante da riuscire a far costruire l’aeroporto sul territorio da lui dominato, assumendo così la gestione del traffico di droga con gli Stati Uniti. «Mio zio», racconta Giovanni Impastato, fratello di Giuseppe, ad Alessandro Ferrucci (Impastato, il fratello: “Accendeva una luce nella testa delle persone”, in Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2013), «era anche nella commissione mafiosa insieme a gente come Luciano Liggio» corleonese, una delle figure storiche della mafia. «Se conoscevo Liggio? Per noi era un parente, da latitante si nascondeva nella tenuta dei Manzella, spesso con Peppino lo trovavamo lì. Giocavamo con lui. Lo vivevamo come un uomo in fuga da gente cattiva, nient’altro. Per noi era una persona buona e giusta. Disponibile. Questi i nostri parametri di allora».
Parametri destinati a cambiare, a seguito della prima guerra di mafia, scoppiata nel 1962.
A scatenare quel conflitto interno a Cosa Nostra una truffa, a proposito di una partita di eroina: i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera, Cesare Manzella, Salvatore Greco, detto «Ciaschiteddu», e suo cugino, l’omonimo Salvatore Greco, detto «Totò il lungo», avevano finanziato una spedizione di eroina, affidata a Calcedonio Di Pisa, capo della cosca della Noce, incaricato di consegnare la droga ai corrieri americani; costui aveva, però, consegnato ai soci una somma inferiore a quella pattuita, adducendo di essere stato truffato dai corrieri americani; in una riunione tra Salvatore Greco, Salvatore La Barbera, Cesare Manzella, Rosario Mancino e Vincenzo D’Accardi, si escluse la responsabilità di Calcedonio Di Pisa per la sottrazione di parte dell’eroina e i La Barbera non avevano nascosto il loro malcontento per questa decisione che li aveva lasciati insoddisfatti.
Innumerevoli furono le vittime.
Il primo a cadere, il 26 dicembre 1962, Calcedonio Di Pisa, ucciso a Palermo; quindi, l’8 gennaio 1963, sempre a Palermo, fu ferito con colpi di pistola Raffaele Spina, suo amico e fiduciario; e il 10 gennaio fu la volta di Giusto Picone, un suo congiunto, perito in un attentato. Tutti questi delitti vennero tutti attribuiti dalla polizia ai fratelli La Barbera. Accadde, così, che il 17 gennaio Salvatore La Barbera scomparisse e se ne ritrovasse soltanto l’Alfa Romeo Giulietta incendiata. La scomparsa, in questo caso, venne attribuita ai cugini Greco e a Cesare Manzella. Pronta la vendetta: il 12 febbraio, un’autobomba distrusse la casa di Salvatore «Ciaschiteddu» Greco, a Ciaculli. La risposta giunse il 19 aprile: alcuni uomini fecero fuoco contro una pescheria a Palermo, in cui si trovavano Angelo La Barbera e i suoi gregari Stefano Giaconia e Vincenzo Sorce insieme ai proprietari; due uomini, tra cui il pescivendolo, rimasero uccisi e ci furono due feriti, uno dei quali era un semplice passante. Il 21 aprile, venne ucciso il mafioso Vincenzo D’Accardi e il 24 aprile venne assassinato Rosolino Gulizzi: i due omicidi furono probabilmente opera di La Barbera, che voleva punire due doppiogiochisti. Il 26 aprile, fu Cesare Manzella a rimanere vittima dell’esplosione della sua automobile e il delitto venne attribuito ai La Barbera. Quando il 24 maggio, Angelo La Barbera rimase ferito da colpi di pistola sparatigli da ignoti in viale Regina Giovanna a Milano e venne, quindi, arrestato mentre era ricoverato in un ospedale milanese a seguito dell’attentato, la polizia sospettò che gli autori dell’agguato fossero Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti ed altri mafiosi, i quali avevano abbandonato il gruppo di La Barbera per passare con quello di Salvatore Greco. Dopo l’arresto di Angelo La Barbera, i mafiosi Piero Garofalo e Girolamo Conigliaro, associati a Salvatore Greco, vennero attirati in un’imboscata e uccisi; la polizia attribuì gli omicidi a Pietro Torretta, capo della cosca dell’Uditore, e al suo sodale Michele Cavataio, i quali secondo le indagini avevano deciso di continuare il conflitto contro Greco e si servivano, allo scopo, di Tommaso Buscetta ed altri killer mafiosi. Il 22 giugno fu la volta di Bernardo Diana, vicecapo della cosca di Santa Maria di Gesù, al cui omicidio seguì quello di Emanuele Leonforte, esponente della cosca di Ficarazzi, alleato di Salvatore Greco, che avvenne il 27 giugno; secondo i verbali della polizia, i responsabili di questi delitti furono Pietro Torretta, Tommaso Buscetta e Michele Cavataio. Il 30 giugno a Villabate un’automobile imbottita di esplosivo, che era stata abbandonata davanti all’autorimessa del mafioso Giovanni Di Peri, esplose ed uccise Pietro Cannizzaro e Giuseppe Tesauro. Lo stesso giorno, l’esplosione di un’Alfa Romeo Giulietta abbandonata nei pressi della villa dei Greco a Ciaculli, uccise sette uomini delle forze dell’ordine; la polizia attribuì le due bombe a Pietro Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti ed altri mafiosi del loro gruppo.
Per quanto attiene alla storia di Cosa Nostra, il conflitto non restò senza conseguenze.
La notte del 2 luglio 1963, Villabate e Ciaculli vennero circondate dalla polizia: quaranta persone sospette furono arrestate e un’ingente quantità di armi venne sequestrata. Nei mesi successivi furono arrestate 2000 persone sospette di legami con Cosa Nostra: la «Commissione» venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite. I protagonisti della prima guerra di mafia vennero giudicati nel famoso «processo dei 117» svoltosi a Catanzaro nel 1968, ma solo alcuni mafiosi ebbero condanne pesanti: Pietro Torretta venne condannato a 27 anni di reclusione per omicidio; Angelo La Barbera ebbe 22 anni e sei mesi di reclusione; Salvatore Greco e Tommaso Buscetta, entrambi giudicati in contumacia, furono condannati a dieci anni di reclusione ciascuno. Il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, avendo aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente. Così, nel periodo successivo al processo, i boss decisero di ricostruire la «Commissione» e Michele Cavataio cercò di parteciparvi; gli altri boss però iniziarono a sospettare che Cavataio fosse l’unico responsabile dell’uccisione di Calcedonio Di Pisa e degli omicidi avvenuti dopo l’arresto di Angelo La Barbera, compresa la strage di Ciaculli, e per questo ne fu decisa l’eliminazione, che avvenne il 10 dicembre 1969 nella cosiddetta «strage di viale Lazio».
La Weltanschauung dell’allora quindicenne Peppino Impastato subì un radicale mutamento, come racconta ancora ad Alessandro Ferrucci, il fratello Giovanni, «con l’autobomba contro lo zio, la prima della storia, voluta dal clan La Barbera di Palermo. Da quel momento mio fratello si rende conto cos’è Cosa Nostra. Si informa. E tutto cambia».
Iniziò, da quel giorno il progressivo affrancarsi di Peppino Impastato dai valori familiari: inizia dapprima a sussurrare le proprie opinioni; passa, quindi, a gridarle in strada, condividerle con chiunque; a fondare un giornale locale.
Parlava dai palchi improvvisati sui quali rappresentava il suo impegno. Si faceva ascoltare dai microfoni di Radio Aut. Mostrava cosa stavano facendo del suo paese, con l’aeroporto in ampliamento, l’America dei cugini d’oltreoceano sempre più vicina, la droga a fiumi e la speculazione dei signori del cemento alle porte. Faceva nomi e cognomi. Di mafiosi e di politici. Che andavano a braccetto e si facevano fotografare insieme. Parlava Peppino. Parlava tanto in una Cinisi muta, sorda e cieca.
Nel 1978 si candidò nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali e, nel corso della campagna elettorale, la mattina del 9 maggio, lo stesso giorno che a Roma veniva trovato il cadavere di Aldo Moro a bordo di una Renault, assassinato dalle Brigate rosse, vennero pietosamente raccolti trenta chili dei miseri resti, sparsi su 300 metri, di un povero corpo fatto a pezzi sui binari della ferrovia a Cinisi. E la morte di Moro cancellava o almeno relegava in secondo piano quella di Peppino Impastato.
Forze dell’ordine, magistratura e stampa parlarono di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima. In un fonogramma il procuratore capo Gaetano Martorana scrisse: «Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 0,30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata TrapaniPalermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore».
Nei giorni che seguirono ci fu solo una perquisizione. E la fecero a casa di quel povero morto sui binari, una perquisizione che durò a lungo «al fine di rinvenire armi e munizioni o materiale esplodente illegalmente detenuto». Non trovarono nulla. Solo due fogli in mezzo a un libro che qualcuno passò al giornale locale. I pensieri più intimi di un sognatore ribelle furono presto divulgati: «Medito sulla necessità di abbandonare la politica e la vita... oggi ho provato un profondo senso di schifo... ». La lettera era di quasi un anno prima, ma nessuno lo disse. Quello era un testamento, la lettera era diventata la «prova» che cercavano: il ragazzo si era suicidato.
I compagni di Peppino Impastato vennero interrogati come complici dell’attentatore, vennero perquisite le case della madre e della zia di Impastato, dei suoi compagni e non quelle dei mafiosi e le cave della zona, notoriamente gestite da mafiosi, nonostante che una relazione di servizio redatta da un brigadiere dei carabinieri dicesse che l’esplosivo usato era esplosivo da mina impiegato nelle cave.
Peppino Impastato fu sepolto come suicida. E lo «suicidarono» tutti insieme: i mafiosi che lo avevano trascinato sui binari, i carabinieri che fecero finta di non vedere, i magistrati che non ordinarono accertamenti investigativi. Nessuno interrogò mai un mafioso, nessuno fece sopralluoghi nelle cave dei boss per cercare esplosivi, nessuno esaminò quelle macchie di sangue trovate dal necroforo comunale in un casolare. Il caso era chiuso. E il nome di Gaetano Badalamenti, l’uomo più potente in quell’angolo di Sicilia, non affiorò mai nemmeno su una vaga «informativa».
Esattamente 22 giorni dopo l’omicidio, fu presentato dai carabinieri il primo rapporto ufficiale alla magistratura, c’era scritto: «Anche se si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia». Insomma, la decisione che Cosa Nostra «era assolutamente estranea» alla morte di quel giornalista che dai microfoni di Radio Aut denunciava gli imbrogli e prendeva in giro il grande boss chiamandolo «Tano Seduto» era stata presa a tavolino.
L’indagine cancellò ogni verità sulla fine di Peppino: don Tano a Cinisi era un re, aveva stalle piene di vacche e forzieri pieni di soldi, la droga a far da volano: trafficava con gli States, controllava l’aeroporto di Punta Raisi, il Boeing che da Palermo si alzava ogni settimana verso New York l’avevano battezzato in suo onore «Il Padrino». Tutti sapevano chi era e cosa faceva Tano Badalamenti, tutti tranne alcuni carabinieri. In una terra dove si sopravviveva nel silenzio e con il silenzio «Tano Seduto» era «sputtanato» ogni giorno da quel ragazzo figlio di uno che stava vicino alla «famiglia», un militante della sinistra che parlava solo di rivoluzione e di legge, un ficcanaso che non aveva voluto capire gli avvertimenti e i «consigli» che gli avevano più volte sussurrato. Così don Tano ordinò di far fuori Peppino Impastato.
Ha raccontato ancora Giovanni Impastato ad Alessandro Ferrucci: «Non ho mai avuto il coraggio, il carattere, la forza di mio fratello. Avevo anche cinque anni meno di lui. Ma ricordo ancora adesso le lacerazioni dentro casa tra Peppino e mio padre, le urla, le botte. A volte ho rimproverato mio fratello per le modalità della sua scelta. Avrei preferito minore clamore, maggiore mediazione. Invece no. Così quando è morto mio padre, anche lui legato alla mafia, lì per lì ho provato una sorta di liberazione: non c’era più nessuno a impormi certi valori. Ma dopo ho capito cosa significava quel funerale… ». Ed ha rivelato: «Mio padre era consapevole dei pericoli su Peppino. Mesi prima era stata recapitata una lettera anonima (appena ritrovata durante la ristrutturazione di casa Impastato) nella quale si annunciava l’omicidio del figlio. Così fece un viaggio negli Stati Uniti per far visita a dei nostri parenti. Ultima chance per ottenere protezione. Tentativo vano. Al suo ritorno venne investito da un’auto». Ufficialmente un incidente. «In realtà fatto fuori per poi arrivare a Peppino: mio fratello non poteva essere toccato finché lui era in vita». Da quel momento è solo un countdown verso l’ineluttabile. «Ricordo una sera in particolare, quando dissi a Peppino di lasciar perdere. Lui mi rispose: “Non posso, altrimenti tutti diranno che mi comportavo così solo perché c’era nostro padre a proteggerci”. Poco dopo toccò a Giuseppe».
La fine di Peppino, morto a 30 anni, il 9 maggio del 1978, 5 giorni prima della sua elezione a consigliere comunale di Cinisi nelle liste di Democrazia proletaria, impresse una decisa sterzata al corso della vita di chi gli sopravvisse. Di sua madre, Felicia Bartolotta e di suo fratello Giovanni, come di sua cognata Felicetta: ci sono voluti 23 anni perché Peppino Impastato diventasse «con bollo di giustizia» un morto di mafia. E quell’omicidio un delitto contro la parola. L’assassinio di un giornalista postumo. Perché Peppino fu iscritto all’albo professionale, quando finalmente Badalamenti, nel 1997, fu incriminato.
Nel maggio del 1984 l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che aveva avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emise una sentenza, firmata dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto.
Nel gennaio 1988 il Tribunale di Palermo inviò una comunicazione giudiziaria a Badalamenti.
Nel maggio del 1992 il Tribunale di Palermo decise l’archiviazione del «caso Impastato», ribadendo la matrice mafiosa del delitto ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.
Nel maggio del 1994 il Centro Impastato presentò un’istanza per la riapertura dell’inchiesta, accompagnata da una petizione popolare, chiedendo che venisse interrogato sul delitto Impastato il nuovo collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, affiliato alla mafia di Cinisi.
Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il Centro Impastato presentarono un esposto in cui chiedevano di indagare su episodi non chiariti, riguardanti in particolare il comportamento dei carabinieri subito dopo il delitto.
Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Salvatore Palazzolo, che indicava in Badalamenti il mandante dell’omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo, l’inchiesta venne formalmente riaperta.
Nel novembre del 1997 venne emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto.
Il 10 marzo 1999 si svolse l’udienza preliminare del processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti veniva stralciata. I familiari, il Centro Impastato, Rifondazione comunista, il Comune di Cinisi e l’Ordine dei giornalisti chiesero di costituirsi parte civile e la loro richiesta fu accolta.
Il 23 novembre 1999 Gaetano Badalamenti rinunciò alla udienza preliminare e chiese il giudizio immediato.
Nell’udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo chiese che si procedesse con il rito abbreviato, mentre il processo contro Gaetano Badalamenti si sarebbe svolto con il rito normale e in videoconferenza.
Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vennero respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione comunista e dell’Ordine dei giornalisti.
Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si costituì un Comitato sul caso Impastato e il 6 Dicembre 2000 fu approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini.
Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise riconobbe Vito Palazzolo colpevole e lo condannò a 30 anni di reclusione.
L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti fu condannato all’ergastolo. Badalamenti e Palazzolo sono successivamente deceduti.
Il 7 dicembre 2004 è morta Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato.
Cap. LVII
L’omicidio di Mario Francese
Quando viene ucciso, la sera del 26 gennaio 1979 in via Emilia a Palermo, Mario Francese, cronista di punta del Giornale di Sicilia, ha appena posteggiato l’auto e sta per raggiungere il portone dello palazzo in cui abita, dopo una giornata di lavoro: un uomo si accosta, gli spara con freddezza, lascia il suo cadavere sull’asfalto.
Il killer si chiama Leoluca Bagarella, uomo d’onore di Corleone e cognato di Totò Riina. I due saranno condannati per l’assassinio del giornalista, insieme a Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco e Bernardo Provenzano.
La colpa del cronista assassinato è d’aver anticipato i disegni criminali dei corleonesi, la loro scalata a Cosa Nostra palermitana, la leadership incontrastata di Riina e Provenzano all’interno della «famiglia», negli «anni di fuoco» della mafia palermitana, quelli della «guerra di mafia» e dell’attacco alle istituzioni. E che il movente del delitto sia da rinvenire nello «straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni ’70», lo stabiliranno i giudici all’esito di un processo, nel quale si saranno scandagliate la fitta attività giornalistica prodotta da Mario Francese e le sue inchieste sugli affari mafiosi, in particolare quelli collegati alla costruzione della diga di Garcia, e sulle fitte relazioni tra gli ambienti mafiosi e il mondo dell’economia e degli appalti pubblici nella Sicilia occidentale.
Un giornalismo d’inchiesta, il suo, ma capace di guardare anche oltre: non solo cronache giudiziarie, attente e scomode, da quelle relative alla strage di Ciaculli, a quelle sul processo ai corleonesi del 1969 a Bari e sull’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe
Russo, ma anche alcuni inediti, tali da rivelarne subito il raro talento: è stato l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Antonietta Bagarella, e a raccontare quello che sta accadendo dentro Cosa Nostra, dove qualcuno mira a prendere il sopravvento.
Con l’omicidio di Mario Francese si apre, del resto, la stagione della mattanza, organizzata dai corleonesi di Totò Riina, per eliminare i nemici interni e quelli esterni. Nella loro strategia influisce probabilmente il tentativo di fare di Cosa Nostra qualcosa di simile alla sua leggenda: una superorganizzazione con un supercapo. Se, insomma, nella realtà storica del secolo precedente, la mafia era stata un insieme di organizzazioni territoriali e affaristiche, non coincidenti le une con le altre, i cui affiliati avevano possibilità di accedere a certi affari, ma per farlo dovevano possedere il know-how, i capitali, le relazioni giuste, alla fine degli anni Settanta, i corleonesi pensano, invece, che sia ormai giunto il momento di creare un’unica organizzazione, che controlli tutto.
L’obiettivo, perseguito con determinazione, ma anche con dispendio di furia omicida, magari controproducente, ma irrazionale soltanto in apparenza, è quello di una distribuzione più egualitaria degli ingenti introiti del narcotraffico siculo-americano, ripetendo grossomodo il meccanismo classico delle monarchie assolute, che promettono ai sudditi la difesa dall’arbitrio dei singoli feudatari.
La fazione corleonese si propone, infatti, di distruggere il notabilato di Cosa Nostra, che gode di più consolidate relazioni con il gruppo siculo-americano, sorta di «terza mafia», attraverso cui la consorteria esternalizza il rischio connesso al narcotraffico. Il che avverrà così a Palermo come in provincia, ma anche nel Trapanese, zona di antica vocazione narcotrafficante: significativo, in questa prospettiva, l’attacco alla mafia di Castellammare del Golfo, di cui è nota l’importanza storica nelle relazioni transoceaniche.
La portata della strategia corleonese, che, pure, Mario Francese ha intuito, non verrà compresa, invece, da due boss di lunga esperienza e tradizione mafiosa come Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, uccisi a distanza di due settimane l’uno dall’altro, nella primavera del 1981, allorché i loro stessi uomini e il grosso degli affiliati delle loro famiglie non li seguono ormai più.
Come accade in tutte le guerre, da un certo punto in poi, sull’onda della convinzione che la violenza in ogni caso funzioni e che, dunque, tanto valga utilizzarla in tutti gli ambiti, il raziocinio dell’operazione «golpista» si andrà progressivamente perdendo e a prendere la mano, nello scatenarsi delle logiche più belluine, saranno i macellai più efferati e sanguinari, così che la mattanza di quegli anni sembrerà sempre meno una guerra di mafia, combattuta secondo lo schema classico dell’azione e della risposta, con caduti e vittime da una parte e dall’altra, quanto piuttosto una sorta di strage continua di soggetti incapaci di reagire.
Il 1982, quando il quotidiano L’Ora di Palermo spara in prima pagina solo il numero dei cadaveri, è annus terribilis, con i suoi cento e più morti nella sola Palermo. Nell’immediato, i tempi della reazione dello Stato appaiono inadeguati, poiché più lenti dei ritmi imposti alla mattanza dilagante dei corleonesi, ma è comunque realistica la prospettiva a breve di un riarmo delle istituzioni di cui sono sintomatici, per un verso, gli importanti stimoli provenienti dagli Stati Uniti agli investigatori italiani, come nel caso di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, che ricostruisce la rete del narcotraffico; e, per l’altro, la consapevolezza, esatta dalla lotta al terrorismo, della necessità avvertita da magistrati e investigatori di lavorare in pool altamente specializzati, di nuove leggi contro l’associazionismo mafioso, di nuovi istituti premiali tesi ad incoraggiare le rotture interne nel fronte nemico.
Non sarà, dunque un caso se, parallelamente al golpe interno a Cosa Nostra, cadranno sotto il piombo corleonese molti servitori dello Stato, da Boris Giuliano, ucciso nel 1979, a Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato nel 1982, tutti accomunati dal praticare o sostenere questi nuovi metodi di contrasto alla criminalità mafiosa.
Cap. LVIII
L’omicidio di Carmine Pecorelli
Carmine «Mino» Pecorelli, con la sua agenzia giornalistica Op, acronimo di «Osservatorio politico internazionale», operò a Roma nel periodo più convulso e tempestoso della storia della prima Repubblica: dal 1968 al 1979.
Furono quelli anni calamitosi, nei quali, per contrastare la crescita democratica delle forze progressiste, si dispiegò la strategia della tensione e del terrore che, dalla strage di piazza Fontana, a Milano il 12 dicembre 1969, arrivò fino alla strage di via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978, allorché culminò nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro, il cui cadavere venne fatto rinvenire, sempre a Roma, in via Caetani, il 9 maggio del 1978.
Pecorelli aveva piena consapevolezza dell’enorme potere d’influenza dell’informazione sulla pubblica opinione e del fatto che in questo potere «il posto preminente spetta alle agenzie di stampa». Sempre a tal proposito, del resto, poco prima d’essere ucciso, il giornalista avrebbe scritto: «Le agenzie di stampa sono il grande rubinetto dal quale sgorga il greggio. Insieme ne sono anche il filtro. Da esse i giornali attingono la materia prima detta “notizia”, da fornire al lettore-consumatore sotto forma di informazione, già depurata e raffinata dalle scorie. Comandare il rubinetto, cioè determinare e orientare il flusso del prodotto greggio, quindi ritardare, filtrare o negare le notizie, significa ridurre e censurare, entro limiti più o meno vasti, il diritto dell’informazione». Nel medesimo scritto, per altro, precisò che «La scelta delle notizie erogate, o l’eliminazione di quelle censurate, è sempre legata a considerazioni di carattere politico e, in senso più esteso, di carattere economico. Per questo le agenzie come i giornali, hanno un colore, sono di destra, di sinistra o di centro, a seconda di chi paga, degli interessi da difendere e di quelli da abbattere». L’agenzia Op si collocava politicamente a destra, come anche coloro che se ne avvalevano per diffondere notizie «riservate». Si trattava, però, di un’agenzia affatto speciale, poiché riceveva notizie dall’interno dei gangli più delicati dei servizi segreti.
Questo non deve stupire: era stata una decisione dell’ammiraglio Eugenio Henke, capo del Sid (Servizio informazioni e difesa) quella di finanziarne la nascita, nel 1968; e del suo successore, il generale Vito Miceli, quella di corrispondere all’agenzia stessa periodici contributi finanziari; il generale Miceli, se possibile, aveva fatto addirittura di più, giungendo ad interporre i suoni « buoni uffici» per la temporanea sostituzione di Pecorelli, fisicamente impedito per un certo periodo, facendo nominare direttore dell’agenzia Op Nicola Falde, ex ufficiale del Sid, già proposto da Licio Gelli, Venerabile maestro della Loggia massonica Propaganda 2, a dirigere il settore informativo della sua loggia «coperta».
è, dunque, di solare evidenza perché Pecorelli fosse in grado d’accedere a molte informazioni inerenti i «poteri occulti» e il loro concreto operare: provenivano dai Servizi segreti le informazioni riservate la cui propalazione era volta a condizionare gli uomini del potere, come pure dai Servizi provenivano i documenti usati per innescare le più importanti campagne scandalistiche e di denuncia, come quelle contro il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, lo scandalo dei petroli, il commercio delle armi.
Capace d’imprimere alle sue campagne un’impronta particolare, avvalendosi spesso di una prosa sibillina, ambigua, allusiva, per inviare segnali e messaggi, talvolta comprensibili solo ai destinatari, Mino Pecorelli era, comunque, ben consapevole di come all’interno dei Servizi agisse un «potere parallelo» a quello ufficiale, una sorta di superpotere al servizio di un’«entità superiore».
A questo «potere parallelo», Pecorelli era egli stesso collegato: i suoi maggiori referenti furono sempre il capo del Sid Vito Miceli e il direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato.
Eminenze grigie dell’intelligence italiana durante la strategia della tensione, i due, che vantavano la fiducia di particolari ambienti dell’intelligence americana e intrattenevano speciali rapporti con l’Ambasciata statunitense a Roma, avrebbero continuato ad «assistere» Mino Pecorelli anche dopo la cessazione dei loro nevralgici incarichi ufficiali.
Cap. LIX
Loschi retroscena dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Enrico Cuccia, nel 1979, ha 72 anni e, ab immemorabili, è un’icona e un simbolo di Milano: nato in Sicilia, intellettuale, protagonista della rinascita industriale dell’Italia dopo il fascismo, si dice sappia tutto delle debolezze e della fragilità del sistema finanziario italiano ed è nota la sua avversione nei confronti del capitalismo di rapina.
Nel suo ufficio, in via dei Filodrammatici, a due passi da piazza della Scala, nella sede di Mediobanca, unica vera banca d’affari e luogo di compensazione della finanza laica, Cuccia promuove incontri, realizza fusioni, salvataggi da crisi e compromessi tra famiglie industriali. Da un anno è sotto pressione: telefonate nel cuore della notte, in cui voci gutturali minacciano di uccidergli i figli; volantinaggi e affissioni di manifesti per Milano; l’incendio del portone di casa.
Il mandante è Michele Sindona, bancarottiere in fuga riparato negli Stati Uniti, che lo considera la causa dei suoi guai. Di quell’uomo, affiliato alla Loggia Massonica P2, insediato nel consiglio d’amministrazione della Cisalpina Overseas Nassau Bank, insieme a Roberto Calvi ed a Monsignor Paul Marcinkus, con le amicizie «giuste» negli Stati Uniti, dall’avvocato Richard Nixon al banchiere David M. Kennedy, presidente della Continental Illinois Bank, al quale ha ceduto il 22% della sua Banca Privata Finanziaria, al boss mafioso italoamericano, Joe Doto, noto all’FBI come «Joe Adonis», che gli ha affidato le sue più riservate e spericolate operazioni finanziarie, alla famiglia mafiosa newyorkese di Don Vito Genovese, per conto della quale si occupa di creare i canali per il riciclaggio dei proventi illeciti di varia natura, Cuccia sa che si deve avere paura: il cognato, PierSandro Magnoni, si è spinto a minacciarlo direttamente e senza filtri. Eppure, quando gli avvocati di Sindona lo cercano, per proporgli un incontro, accetta: sarà a New York il 10 aprile 1979, a patto che il summit non si svolga nel territorio del bancarottiere, all’hotel Pierre, ma al Regency, in zona neutra.
Presenti l’immancabile Magnoni e l’avvocato Rodolfo Guzzi, Enrico Cuccia e Michele Sindona parlano per due ore: il primo accusa il secondo di aver voluto il crack delle sue banche italiane e di non dargli la possibilità di risollevarsi, d’essere insomma il suo nemico; «Non ci creda, sono solo pettegolezzi. Non ho nulla di personale, contro di lei », liquida la questione Cuccia. «Due cose abbiamo in comune, noi due», ammonisce Sindona fissandolo negli occhi, « lo sprezzo del pericolo, come dimostra la sua decisione d’accettare questo viaggio a New York, e un vivo amore per la famiglia». Ricambiando lo sguardo, Cuccia replica: «Devo mettere in relazione il mio affetto per la famiglia col riprovevole messaggio che ho ricevuto da Magnoni?». «No» è la risposta del banchiere della mafia «I suoi figli non subiranno danni» e aggiunge: «Per oggi abbiamo finito, ma la vorrei rivedere a quattr’occhi. Va bene qui da lei alla stessa ora?» Cuccia acconsente e nei suoi appunti ci restituisce il monologo allucinante di Michele Sindona, nell’incontro a quattr’occhi: «Le premetto che sto per fare un discorso molto duro. Ho un figlio che ogni notte si sveglia di soprassalto urlando che stanno uccidendo suo padre; un altro ha deciso di fare politica con un orientamento che dovrebbe consentirgli iniziative a favore di suo padre, mia figlia è in uno stato di depressione gravissimo e si è ridotta a pesare 40 chili. Lei deve sapere, dottore Cuccia, che quando avvenne il crack, i miei figli decisero di ucciderla. Sono riuscito a fermarli (…). Allora mi sono preoccupato di attuare una serie di prese di contatto con le comunità italiane negli Stati Uniti e mi sono fatto accompagnare dai miei figli, in modo che sapessero la verità delle sue malefatte contro di me. Sa qual è stata la conclusione di questi incontri? Che lei è stato dichiarato un “miserabile”, e sa cosa questo significa? è il termine che la mafia usa per chi condanna a morte (…). Ma io ho detto loro che lei è più utile da vivo che da morto. Ho fatto sospendere qualsiasi iniziativa nei suoi confronti. Ma mi sono assunto la responsabilità morale, e voglio che lei lo sappia, di fare “scomparire” Ambrosoli, senza lasciare alcuna traccia ».
Cuccia non avvertirà mai Giorgio Ambrosoli, 47 anni, avvocato milanese nominato nel 1974 liquidatore della Banca Privata, che nella suite del Regency è stata pronunciata la sua condanna a morte.
La sentenza viene eseguita l’11 luglio 1979, intorno alla mezzanotte, in via Morozzo della Rocca n. 1, da William Joseph Aricò, un killer, che, una volta arrestato, confesserà di essere stato assoldato da Sindona. Il 14 luglio, nella chiesa di San Vittore a Milano non è presente alcuna autorità di Governo: lo Stato che Ambrosoli ha servito non trova nemmeno la dignità d’essere presente al suo funerale.
Arriva, però, da Roma, il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, che scorterà il feretro, con i familiari e diversi magistrati milanesi.
Cap. LX
L’omicidio di Valerio Verbano
Valerio Verbano, aderente ai «collettivi autonomi», venne ucciso, il 22 febbraio 1980, davanti ai genitori, legati e imbavagliati, nella sua abitazione, nel quartiere Monte Sacro, a Roma.
In una città dove, all’epoca, il «rosso» non si avventurava in taluni quartieri, se non a proprio rischio, e viceversa, la vittima aveva svolto dapprima un’attività di documentazione molto importante sugli sfratti nei quartieri popolari, a fini di rappresentazione politica; aveva svolto altresì, attività di «controinformazione», catalogando, schedando e fotografando l’ambiente eversivo della destra romana e redigendo un vero e proprio fascicolo, poi chiamato «Dossier Nar», con nomi, foto, luoghi di riunione, amicizie politiche e presunti legami dei neofascisti con apparati dello Stato.
Qualche mese prima dell’omicidio, aveva ricevuto per questo una serie di telefonate minatorie. Temporibus illis, sarebbe stato, dunque, necessario un minuzioso lavoro teso a ricostruire, per intero e senza indulgenze, la parabola della destra armata, attiva specialmente a Roma, nel periodo a cavaliere tra la metà degli anni Settenta e i primi anni Ottanta.
Modo e tempo per intrecciare fra loro i mille fili che avrebbero consentito di tessere quella tela, condizione indispensabile per fare luce sull’efferato omicidio del giovanissimo studente del liceo Archimede di Roma, non vennero accordati a Mario Amato, magistrato della Procura capitolina, prima lasciato solo con 600 fascicoli sull’eversione di destra, quindi barbaramente assassinato, il 23 giugno 1980, mentre attendeva l’autobus, che lo avrebbe dovuto condurre in ufficio.
Dopo di che, il nulla e le tenebre: le indagini giudiziarie, non approdate a nulla, sono anche affette da gravi errori, come, ad esempio, la mancata conservazione del passamontagna e dello zucchetto, che gli assassini lasciarono sulla scena del crimine, avendoli probabilmente persi nella fase concitata dell’agguato. Ma perché meravigliarsene? La Procura della Repubblica di Roma, all’epoca, non s’era forse meritato il nickname di «Porto delle nebbie»? E Cristiano Fioravanti, già appartenente ai Nar, non dichiarò, forse, «… noi non ci dovevamo preoccupare perché i processi erano sempre assegnati a magistrati ben conosciuti dal padre (di Alessandro Alibrandi, n.d.r.) e sempre Alessandro ci diceva che sarebbero andati bene»?
Suscita, piuttosto, qualche perplessità il fatto che né le dichiarazioni dei «pentiti» dei vari gruppi armati della destra eversiva né le dichiarazioni processuali o la memorialistica dei «personaggi famosi» consentono di far luce sull’assassinio di Valerio Verbano, quasi che questo fosse stato pensato e realizzato in un angolo oscuro, non appartenente al loro mondo.
Poiché, comunque, nessuna verità giudiziaria è stata trovata finora, questo omicidio merita d’essere annoverato a buon diritto fra i tanti «misteri» d’Italia. Ma i misteri, a lungo andare, risultano costruzioni collettive, complicate spesso a bella posta, frutto di reiterate omissioni e sistematici depistaggi.
Una costruzione per l’immaginario, fatta per nascondere facendo finta di indagare. Gli indizi non mancano: ci sono individui, armi, identikit, relazioni stabili, formule retoriche che ritornano e, lo scorso febbraio, la Procura della Repubblica di Roma ha ottenuto la riapertura delle le indagini.
Tutto sembra ricondurre ad un ben preciso milieu: la pistola calibro 7.65 abbandonata sulla scena del crimine dagli assassini è identica, per tipologia, a quella che aveva ucciso a Milano, due anni prima, Fausto e Iaio; il silenziatore, di fabbricazione artigianale, riconduce il delitto alla destra romana operante nei quartieri Trieste, Balduina, Talenti, Vigna Clara, Prenestino; e allo stesso ambiente riconducono anche le rivendicazioni del delitto: il giorno stesso dell’omicidio, alle 21, ne arrivava una a nome dei «Nuclei Armati Rivoluzionari, avanguardia di fuoco NAR»; quindi veniva recapitato un volantino, verso le 12 del giorno dopo, sempre a nome «NAR Commando Thor, Balder e Tir», specifica che rappresentò un unicum, lasciata poi cadere, in cui non si parla esplicitamente dell’omicidio, ma in modo allusivo si fa riferimento al «martello di Thor che aveva colpito a Monte Sacro».
Certamente gli assassini non sono da ricercare tra i capi dei Nar, i vari Giusva Fioravanti, Gilberto Cavallini, Pasquale Belsito, responsabili magari di altre azioni, ma non di questa, quanto, più tosto, tra gli appartenenti a un sottogruppo, che come una meteora nacque, colpì e sparì, rivendicata solo questa azione, come «Commando Thor, Balder e Tir».
Contro costoro, che s’attardavano a sparare ai «compagnetti» solo per acquisire prestigio e ruolo fra i «camerati», s’appuntò la critica di chi ormai pensava e praticava attacchi contro «obiettivi più alti», quali poliziotti, magistrati, ecc., aspirando a combattere «il regime» di cui invece «i camerati della vecchia guardia» erano stati complici più o meno consapevoli nella stagione delle stragi di Stato.
Pur avendo riconosciuto d’essere l’autore del volantino «Nar Chiarimento», Giuseppe Valerio Fioravanti, tuttavia, ha sempre negato di sapere alcunché dell’omicidio Verbano. Perché?
Cap. LXI
L’assassinio di Mario Amato
Il magistrato Mario Amato, sostituto procuratore della Repubblica a Roma, fu ucciso, il 23 giugno 1982, mentre, di buon mattino, era in attesa, in viale Jonio, dell’autobus che avrebbe dovuto portarlo in ufficio, a Piazzale Clodio. Un testimone oculare dichiarerà agli inquirenti: «Intorno alle 7.55 ho visto il dottor Amato che scendeva per via Monte Rocchetta e svoltava per viale Jonio. Ho avuto la sensazione che un uomo vestito di beige lo stesse seguendo». Quell’uomo, alto circa un metro e settantacinque, viso scoperto, capelli bruni e abiti da travet, era apparso sulla scena del crimine alle spalle del magistrato e, con fredda determinazione, aveva estratto una calibro 38 ed esploso un solo colpo alla nuca della vittima.
Quello di Mario Amato fu l’ultimo omicidio di un magistrato compiuto dal terrorismo politico italiano: erano trascorsi novantasette giorni dall’assassinio di Nicola Giacumbi, novantotto da quello di Girolamo Minervini, cento da quello di Guido Galli.
Sarà Valerio Fioravanti, nel 1990, al microfono di Sergio Zavoli nel programma La notte della Repubblica, a raccontare il delitto Amato: «Non fu un’azione particolarmente difficile. Avevamo preso le nostre misure perché lui di solito andava in ufficio in automobile, quel giorno andò addirittura alla fermata dell’autobus, per cui fu più semplice di quello che s’immaginasse».
A 24 ore dall’assassinio giunse la telefonata di rivendicazione: «Siamo i Nar, abbiamo ucciso noi il giudice Amato. Troverete un volantino nella cabina telefonica di via Carlo Felice». Si trattava del celebre documento «Nar Chiarimento», summa dello spontaneismo armato nero. Recitava: «Abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore dottor Amato, per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri la pagheranno».
Gli autori e gli ideatori del fatto sono stati individuati e condannati. Alcuni di essi, nel confessare l’agguato, hanno ricostruito l’ambiente in cui era maturato e le sue ragioni. Dal 7 gennaio 1978, giorno in cui giovani militanti del Movimento sociale italiano vennero uccisi davanti alla sezione di via Acca Larentia, la violenza dei gruppi di estrema destra era aumentata e gli attentati si erano susseguiti. Mario Amato aveva ritenuto di valutare congiuntamente episodi apparentemente slegati fra loro e di cercare un filo conduttore, convincendosi che i gruppi eversivi di destra – malgrado la diversità delle sigle usate per rivendicare attentati e altre azioni violente – obbedivano a un’unica regia. Egli era consapevole di essere diventato, per questo, un «obiettivo privilegiato», tanto più che fatti criminosi di poco precedenti all’attentato ai suoi danni, come l’omicidio degli agenti di Polizia Maurizio Arnesano e Francesco Evangelista, e le dichiarazioni allora rese da un arrestato, lo avevano convinto del livello di assoluta pericolosità e della strategia eversiva perseguita dai Nar.
Mario Amato, peraltro, aveva ereditato le indagini già assegnate a Vittorio Occorsio, assassinato, nel 1976, da Ordine Nuovo. Per questo aveva subito fatto i conti con tutti i personaggi di spicco dell’Italia torbida di quei tempi: i «fratelli» della Loggia Massonica P2 e Michele Sindona. Ma aveva anche scoperto il clamoroso «protocollo 7125, n° 21950 » del 27 agosto 1976: un incartamento dei Servizi di Sicurezza, che rivelava la riorganizzazione di Ordine Nuovo, messo al bando nel 1973. Aveva arrestato, inoltre, due volte Paolo Signorelli, per una serie di attentati, ma costui sarebbe sempre stato scarcerato, subito dopo l’interrogatorio.
Il procuratore capo, Giovanni De Matteo non solo non gli aveva fornito la minima collaborazione, anzi tanto più lo aveva contrastato quanto maggiori erano i risultati conseguiti: era giunto addirittura a rifiutargli la controfirma del provvedimento restrittivo a carico di Alessandro Alibrandi, il quale armato di pistola aveva opposto resistenza alle forze dell’ordine.
Nella primavera del 1980, aveva raccolto le rivelazioni del falsario Marco Mario Massimi, su una riunione tenutasi, il 9 dicembre 1979, a casa di Paolo Signorelli, presente fra gli altri il criminologo Aldo Semerari, alla quale era seguita l’eliminazione, ad opera dei Nar, di Antonio Leandri, scambiato per la vittima designata: l’avvocato Giorgio Arcangeli, difensore di Albert Bergamelli, subentrato nell’ufficio all’avvocato Gian Antonio Minghelli. Aveva finito, così, per collegare Paolo Signorelli e Aldo Semerari, e si era convinto della fondatezza del sospetto che l’estrema destra avesse collegamenti e ramificazioni dappertutto, anche nell’ordine giudiziario.
Per la prima volta aveva avuto paura: stilò, per questo, un rapporto finito nell’ufficio di Giovanni De Matteo, il quale, come avrebbe dichiarato in seguito, sotto giuramento, lo trattenne una settimana intera, senza neppure leggerlo. Intanto, però, il contenuto del colloquio col falsario in carcere, che pure doveva rimanere segreto, si era diffuso rapidamente. Marco Mario Massimi se n’era accorto subito e aveva ritrattato tutto.
Il 13 giugno 1980, non gli era restato, dunque, che presentare le sue doglianze al Consiglio Superiore della Magistratura. Senza fare i nomi di Semerari o Signorelli, aveva rivelato l’esistenza di un «incartamento Massimi», contenente rivelazioni clamorose. Aveva denunciato la negligenza di Giovanni De Matteo e avvertito dell’imminenza di un attacco terroristico di proporzioni enormi. Aveva denunciato i pericoli del suo lavoro e chiesto un’auto blindata, che gli fu negata. Non era servito neppure che avesse fatto presente di essere stato pedinato, nelle ultime settimane, da due giovani, su di una moto di grossa cilindrata.
Fu assassinato esattamente 10 giorni dopo aver esposto le sue lamentele.
Cap. LXII
L’omicidio di Aldo Semerari
Una folla di malfattori d’ogni risma, terroristi, mafiosi, spioni, militari felloni, boiardi di Stato, grandi elemosinieri, faccendieri, robber barons, affaristi, profittatori, portaborse, guardaspalle, prestanome, ma anche di politici e prelati, popola l’universo dei misteri d’Italia.
In questo panorama, un posto particolare compete ad Aldo Semerari. Psichiatra forense, massone ed iscritto alla Loggia P2 e da sempre agente dei servizi d’informazione militari. A conoscenza dei retroscena più scabrosi del regime, e tra questi il delitto Moro. Propugnatore di teoriche antisemite e visceralmente anticomunista, coltivava stretti rapporti con i più accesi ambienti neofascisti e si proponeva di cementare il neofascismo di «Costruiamo l’Azione», del «M.R.P.» e di «Ordine Nuovo», con le organizzazioni delinquentesche non soltanto romane, in un unico aggregato antistatuale, finalisticamente orientato alla realizzazione di attentati dinamitardi, sequestri di persona, traffici d’armi. Fungeva da garanzia per malavitosi, fascisti di borgata, Banda della Magliana, camorristi e mafiosi, che spesso gli apparati di sicurezza usavano come braccio armato.
Attraverso la propria attività professionale, presso la clinica Villa Mafalda – gestita dal Servizio di sicurezza militare, tramite l’avvocato Renato Era, agente del Sismi –, otteneva informazioni dai cittadini libici, probabilmente dissidenti, che quel governo inviava lì per «cure». Nel giugno-luglio 1980, fece un viaggio in Libia, con il patrocinio del capo della polizia di quel paese, e si incontrò con Muammar Gheddafi. Successivamente fece anche un viaggio negli Usa, dove ebbe contatti con un suo collega, il professor Franco Ferracuti, collaboratore del Sisde in Italia e agente della Cia.
Il 28 agosto 1980, finì in carcere, insieme a Paolo Signorelli, professore di filosofia di spiccate simpatie nazifasciste, Sergio Calore ed altri, con l’accusa di aver organizzato la Strage di Bologna. L’accusa era supportata da un rapporto del Sisde e dell’Ucigos. Nell’aprile del 1981, venne rimesso in libertà: probabilmente, non era implicato direttamente nella strage, ma la scarcerazione avvenne, comunque, al momento opportuno, poiché, nel carcere, aveva cominciato a dare preoccupanti segni di cedimento psicologico ed aveva anche minacciato più volte di vuotare il sacco se i Servizi non lo avessero aiutato ad uscire di galera.
Il 1° aprile 1982, dopo essere stato sequestrato dal clan Ammaturo, il suo cadavere venne ritrovato, abbandonato a bordo di un’autovettura, a Ottaviano, sotto la casa di Raffaele Cutolo.
Il suo fu un omicidio particolarmente laborioso: condotto nel macello clandestino di Ponticelli, venne prima garrottato, quindi decapitato e il cadavere appeso per i piedi, al fine di farlo completamente dissanguare. Spezzato in due, il corpo venne sistemato, finalmente, nel bagagliaio e la testa, su un vassoio, nell’abitacolo.
La segretaria, Maria Fiorella Carraro, alla notizia della morte del criminologo parrebbe essersi sparata in bocca con una 357 magnum. è stato avanzato il sospetto che, invece, la donna fosse stata suicidata. Il 17 marzo 1982, si erano scatenate polemiche, dopo che il giornale l’Unità aveva rivelato un inquietante retroscena per la liberazione di Ciro Cirillo, assessore ai Lavori pubblici della Regione Campania.
In un articolo a firma di Marina Maresca, il quotidiano comunista aveva rivelato che per la liberazione del politico napoletano si erano mossi sia potenti democristiani – addirittura un ministro e un sottosegretario –, sia i Servizi segreti, contattando Raffaele Cutolo, rinchiuso nel carcere di Ascoli Piceno.
In certi ambienti ci si era scandalizzati, affermando che quella rivelazione fosse un falso, ma, il 23 marzo, il ministro dell’Interno, l’onorevole Virginio Rognoni, in un movimentato dibattito alla Camera, ammetteva che era stato versato alle Brigate Rosse un riscatto per la liberazione dell’ostaggio, che si sarebbe saputo ammontare ad un miliardo e quattrocentocinquanta milioni di vecchie lire.
Si sarebbe poi scoperto che proprio il criminologo nazifascista era stato l’ispiratore dello scoop giornalistico.
Cap. LXIII
Il suicidio di Maria Fiorella Carraro
Il 1° aprile 1982, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere decapitato del professor Aldo Semerari, sotto la casa di Raffele Cutolo a Ottaviano, Maria Fiorella Carraro, 41 anni, assistente e segretaria dello psichiatra, a cui in passato era stata sentimentalmente legata, viene ritrovata nel suo appartamento romano di via Damiano Chiesa 47, dove viveva sola, distesa trasversalmente sul letto, il corpo avvolto in un accappatoio verde, le mani incrociate sul seno, la pistola scivolata sul ventre e il volto devastato da un proiettile di grosso calibro.
Secondo il medico legale, Fiorella Carraro si è sparata in bocca: il proiettile le ha attraversato il cervello. Secondo gli investigatori, la posizione del corpo confermerebbe l’ipotesi del suicidio, come la più probabile.
Nell’appartamento dove la donna viveva da sola non si rinvengono né lettere né messaggi. Gli investigatori, per altro, accertano che l’assistente del professor Semerari aveva da tempo dimestichezza con le armi: possedeva in casa due pistole regolarmente denunciate, la 357 Magnum con la quale si sarebbe tolta la vita e una Smith & Wesson, ed era una frequentatrice assidua del poligono di tiro. Suicidio? Suscita qualche perplessità il fatto che la dottoressa Carraro si sia sparata in bocca, se seduta o distesa sul letto non ha alcuna importanza, dopo di che avrebbe appoggiato la pistola sul ventre e avrebbe incrociato le braccia sul seno. In più, avrebbe deciso di morire, ma almeno senza i fastidi della cervicale, perché un’ora prima di spararsi ha ricevuto la fisioterapista.
Inutile dire che, comunque, la morte della dottoressa Carraro, verrà archiviata come suicidio. Interrogato il 3 luglio 1996 dalla corte d’assise a Perugia, nel processo a Giulio Andreotti accusato dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, Alessandro D’Ortenzi detto Zanzarone dichiara: «I mandanti dell’omicidio Pecorelli sono due boss camorristi: uno è morto, mentre l’altro si è pentito cinque anni fa, ora è un collaboratore di giustizia e con le sue testimonianze ha permesso l’arresto di 300 persone». E spiega: «Il clan camorrista che fece fuori Pecorelli era legato a Semerari, ma decise l’eliminazione del criminologo perché fu proprio lui a garantire per Pecorelli che poi si rivelò inaffidabile per i boss. Semerari aveva le copie integrali degli interrogatori di Aldo Moro. Semerari poi li consegnò alla sua assistente, la dottoressa Fiorella Carraro (notizia che spiegherebbe il furto dopo il “suicidio” nel suo appartamento al Mallia, n.d.r.) con la raccomandazione di consegnarli a me se gli fosse successo qualcosa. Dopo la morte di Semerari ed il presunto suicidio della Carraro i verbali sparirono». A Semerari, precisò poi Zanzarone, i verbali integrali di Moro li aveva consegnati il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che, con ogni probabilità, ne aveva data altra copia a Pecorelli.
Il direttore di OP, il criminologo e il generale furono uccisi, e la dottoressa Carraro si sarebbe suicidata?
Sergio Flamigni, a tal riguardo, ha commentato: «Il 25 marzo del 1982, lo stesso giorno in cui fu rapito, il criminologo Semerari si era rivolto al suo amico Renato Era, agente del Sismi, dicendogli di sentirsi in pericolo. Quest’ultimo telefonò al suo referente al servizio segreto militare, colonnello Demetrio Cogliandro, il quale a sua volta avverti il generale Giuseppe Santovito, estromesso dal Sismi ma ancora attivo nei servizi segreti paralleli, delle preoccupazioni di Semerari. Santovito si accertò che la questione non fosse nota ad altri e garantì che se ne sarebbe occupato personalmente: lo stesso giorno Semerari fu rapito e quattro giorni dopo il suo corpo, decapitato, fu rinvenuto nei pressi dell’abitazione del boss della camorra, Raffaele Cutolo. Tutto ben architettato per far apparire l’omicidio di Semerari un regolamento di conti della Camorra. Ma l’implicazione dei servizi e le dichiarazioni del pentito (sic!) D’Ortenzi, secondo il quale anche Semerari era in possesso dei verbali dell’interrogatorio di Moro nel carcere Br, disegnano uno scenario molto simile a quello dell’omicidio Pecorelli: l’implicazione dei servizi segreti ed il memoriale da far sparire per evitarne la pubblicazione».
Alla luce di questi fatti, si può essere veramente sicuri che la dottoressa Fiorella Carraro si sia suicidata?
Cap. LXIV
Figure e Figuri intorno a Villa Mafalda
Deponendo, il 22 maggio 1981, dinnanzi al giudice istruttore di Bologna, Matteo Lecs, coordinatore sanitario degli istituti di pena di Firenze e medico militare iscritto alla P2, racconta: «Nell’ottobre scorso, seconda o terza decade, tornavamo sulla stessa macchina il Falchi (il dottor Romano Falchi, direttore sanitario dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, n.d.r.) ed io, in compagnia di un vicebrigadiere degli agenti di custodia, dal primo congresso di medicina penitenziaria di Trani. Durante il viaggio si conversò di vari argomenti di carattere professionale, e fra l’altro si commentò la proposta di abolire i manicomi giudiziari. A tale proposito venne fuori il nome di Semerari come di persona che frequentava i manicomi giudiziari (…). Il Falchi mi disse, con riferimento alla destabilizzazione, che il Semerari aveva effettuato un viaggio negli Stati Uniti e in Libia: circa l’epoca e la durata di tali viaggi non fece date precise, ma dal contesto del discorso era manifesto che si riferiva per entrambi (prima quello in Libia, poi negli Usa) a tempi recenti, egli fece cenno all’estate, per cui io compresi che si trattava del periodo giugno-luglio dell’anno scorso (1980, n.d.r.). Il Falchi mi spiegò che le missioni erano in un certo senso omogenee, in quanto con la missione in Libia si poteva sfruttare l’antisemitismo di Gheddafi, mentre con la missione in Usa si poteva sfruttare l’anticomunismo di certi ambienti. Tali antagonismi convergevano nell’ambito del disegno di destabilizzazione verso un unico fine. Ricordo con precisione che il Falchi, parlando del viaggio in Libia, precisò che l’incontro con Gheddafi fu per il tramite del capo della polizia libica».
Molto probabilmente rimarrà un mistero quale fosse lo scopo dei viaggi di Aldo Semerari e del suo incontro con Gheddafi, ma di estremo interesse sono gli scenari opachi sullo sfondo di eventi tanto singolari.
Il 1980 è l’anno in cui la dissidenza libica in Europa e, particolarmente, in Italia subisce un attacco frontale ad opera del regime di Muammar Gheddafi: costui, nel corso di una cerimonia tenuta il 27 aprile presso l’Accademia navale di Tripoli, lancia un ultimatum che fissa nell’11 giugno 1980 il termine ultimo per il rientro in patria dei fuorusciti. E proprio sino a quella data si verificano, in Italia, sette attentati, nei quali perdono la vita cinque dissidenti libici.
Autori di quegli omicidi sono sicari dei servizi speciali di quel paese, incaricati di convincere i dissidenti a rimpatriare o, in caso di rifiuto, di procedere alla loro eliminazione fisica. Il ruolo giocato dal Sismi, rispetto a questi efferati crimini contro la dissidenza libica, suscita gravi perplessità. Agli atti del nostro Servizio militare, vi è traccia delle informazioni fornite, su richiesta di Salem Moussa, agente dei servizi libici in Italia, circa la presenza e la localizzazione di fuorusciti libici riparati sul nostro territorio.
Non meno inquietante la contestualità dell’uccisione, a Milano, l’11 giugno 1980, di Azzedine Lahderi, «fonte» del Raggruppamento Centri di Roma, nome di copertura «Damiano», ultimo della serie di dissidenti uccisi, e la scarcerazione di Salem Said, elemento dei servizi libici arrestato a Roma poiché gravemente indiziato del tentativo di omicidio di un fuoriuscito, caldeggiata dall’Ambasciata di Libia e per la quale s’interessa fattivamente il Sismi, al punto che, una volta liberato, Said Salem scriverà al generale Giuseppe Santovito, promettendo di fare del suo meglio «con i fratelli in Libia e, per primo, con il maggiore Abdel Salam Jalloud, per riportare la situazione alla normalità e per risolvere tutti i problemi che vi interessano».
In ogni caso, dopo la sua scarcerazione, Said Salem viene accompagnato da personale del Raggruppamento Centri di Roma alla clinica Villa Mafalda, dove, tuttavia, il suo nome non sarà registrato. Proprio a Villa Mafalda, del resto, s’incrociano i destini del colonnello Demetrio Cogliandro, dell’avvocato Renato Era e del professor Aldo Semerari. Il primo, ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, dal 1963 ha prestato servizio militare, prima al Sifar, quindi al Sid e finalmente al Sismi, rivestendovi incarichi di particolare rilevanza: capo della Segreteria dell’Ufficio «D» dal 1966 al 1971 e Capo del Raggruppamento Centri CS di Roma, competente, fra l’altro, anche sull’attività di controspionaggio in direzione della Libia, dunque della dissidenza libica residente in Italia e dei terroristi libici dei servizi speciali; dal novembre 1974 al giugno 1982, intrattiene rapporti di consuetudine con la clinica, tanto da disporvi il ricovero di Said Salem senza che lo stesso vi venga registrato.
Il secondo, sedicente ufficiale dei Carabinieri, sedicente avvocato, collaboratore da sempre di tutti i Servizi di sicurezza a partire dall’Ovra, già in contatto con l’ammiraglio Ferdinando Casardi ed il colonnello Cogliandro, cavaliere dell’Ordine di Malta, ex amministratore delegato dell’Itavia, società proprietaria dell’aereo di linea Douglas DC-9, marche I-TIGIL, squarciatosi in volo senza preavviso e scomparso nel mare di Ustica, e all’epoca amministratore di Villa Mafalda, racconterà: «Non ho mai smesso di avere rapporti (dal 1946) col servizio di sicurezza militare, che venivano assicurati attraverso il mio collegamento col generale Demetrio Cogliandro, appartenuto prima al Sifar, poi al Sid e infine al Sismi, fino alla data del suo prepensionamento avvenuto intorno al 1983. Fornivo informazioni sui libici, approfittando della loro degenza presso la clinica Villa Mafalda, inviati dall’ambasciata di quel paese». Il terzo, già segnalato all’inviato personale di Gheddafi, Abdel Salam Jalloud, da Claudio Mutti, nel corso di un convegno tenutosi nel marzo del 1974 presso l’hotel Hilton di Roma, a cui avevano preso parte anche palestinesi e rappresentanti dell’eversione di destra italiani, a dire dell’avvocato Era, «… faceva parte da anni del corpo sanitario di Villa Mafalda».
In più occasioni, d’altra parte, dopo la morte del professor Semerari, il colonnello Cogliandro racconterà ai magistrati, i quali a più riprese ed in tempi diversi lo interrogheranno, di come l’avvocato Era lo abbia chiamato al telefono, il giorno prima del sequestro di Semerari, per informarlo dei timori nutriti dal criminologo, che il giorno dopo avrebbe dovuto incontrarsi, a Napoli, con taluni camorristi.
Una volta, per altro, aggiungerà anche di aver parlato di tale telefonata col generale Santovito, il quale, però, nel 1982 aveva già da tempo lasciato, almeno formalmente, il servizio.
Cap. LXV
Il sequestro di Ciro Cirillo
L’offensiva brigatista in Campania era al suo apice quando, il 27 aprile 1981, a Torre del Greco venne rapito l’assessore regionale democristiano all’Urbanistica, Ciro Cirillo, leader della corrente dorotea vicino ad Antonio Gava: l’autista Mario Cancello e il brigadiere di polizia Luigi Carbone che lo scortava vennero uccisi; il segretario dell’assessore, Ciro Fiorillo, venne invece gambizzato.
Ciro Cirillo venne liberato dopo tre mesi: lo trovarono, nella zona orientale di Napoli, due pattuglie della Polizia Stradale, ma all’improvviso giunse un’auto con a bordo il vicequestore Biagio Giliberti, che si fece consegnare l’uomo politico e lo condusse subito nella casa di Torre del Greco.
Paolo Cirino Pomicino, napoletano ed andreottiano di peso, escluse «assolutamente» che per la liberazione si fosse ricorsi alla mediazione della camorra, ma significativamente aggiunse: «Certo, quando accadono queste cose, i servizi segreti finiscono per avere agganci con ambienti malavitosi nel tentativo di salvare la vita all’ostaggio. Non devo ripeter che quando gli americani sbarcarono in Sicilia si avvalsero della mafia per scacciare i nazifascisti. Dire, però, che la camorra sia stata mediatrice tra la famiglia Cirillo e le Br mi sembra alquanto azzardato».
La realtà è ben diversa.
Già nell’immediatezza del sequestro, il Sisde aveva avviato i contatti con Raffaele Cutolo, fondatore e capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata, che pur se detenuto nel carcere di Ascoli Piceno, controllava ancora Napoli e dintorni. Il boss, prima d’impegnarsi a far liberare Cirillo, aveva preteso garanzie. Giorgio Criscuolo, funzionario del Sisde, si presentò in compagnia di Giuliano Granata, sindaco democristiano di Giugliano, e nei giorni successivi, Cutolo ebbe colloqui anche con i funzionari del servizio civile Adalberto Titta e Adalberto Belmonte, oltre che con i suoi luogotenenti in libertà, Enzo «’o Nirone» Casillo e Corrado Iacolare, muniti di falsi tesserini del Sisde.
Mentre erano in corso gli incontri preliminari, essendo necessario parlare con i camorristi rinchiusi a Palmi, per avvicinare i detenuti «politici» in grado di far arrivare segnali alle Br, il Sisde venne soppiantato dal Sismi: il generale Abelardo Mei, numero due del servizio militare, l’uomo che rappresentava la lobby dei grandi costruttori, disse di aver trovato un canale assolutamente sicuro. Gli operativi del Sismi, da quel momento furono il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte.
Sia all’interno che fuori del penitenziario, iniziò ben presto un intenso viavai di politici, poliziotti, comparse di vario genere, che andavano a omaggiare don Raffaele chiedendogli d’interporre i suoi «buoni uffici» per la liberazione di Cirillo.
Nei colloqui s’adoperarono oltre al ricordato Giuliano Granata, l’avvocato Francesco Gangemi e l’imprenditore Adolfo Greco. Flaminio Piccoli, leader della corrente dorotea, promosse un incontro ad Acerra, con l’aiuto di Francesco Pazienza, presenti gli immancabili Casillo e Iacolare, l’imprenditore Alvaro Giardili, l’assessore democristiano al Comune di Acerra Bruno Esposito e il capozona cutoliano Nicola Nuzzo.
Il contatto giusto fu il brigatista Luigi Bosso, detenuto a Palmi: costui fece arrivare all’esterno un preciso messaggio: «la DC è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo». E Sante Notarnicola – già membro della banda Cavallero, divenuto un agitatore contro il sistema carcerario arrivando a dichiararsi «prigioniero politico», in cima all’elenco dei detenuti politici da liberare stilato dalle Br quando, durante il sequestro Moro, chiesero allo Stato la liberazione dei prigionieri rivoluzionari in cambio del rilascio del Presidente della DC – scrisse a Cutolo: «La via intrapresa è possibile, state sicuro. Abbiamo trovato la necessaria disponibilità al dialogo ed al confronto».
L’organizzazione cutoliana, a quel punto, si mosse compatta: Casillo e Iacolare incontrarono Bosso e Notarnicola; Pasquale D’Amico parlò, invece, con Roberto Ognibene e con Alberto Franceschini, nel carcere di Nuoro.
La trattativa ebbe successo: l’assessore fu rilasciato previo versamento di un riscatto ai terroristi, frutto di una colletta fra imprenditori amici, promossa dall’avvocato Raffaele Russo, poi segretario della DC e sottosegretario di Stato.
Le riunioni si erano tenute a casa di Antonio Gava.
L’ingresso nella vicenda di «personaggi d’elevato livello rappresentativo» come Flaminio Piccoli e Antonio Gava, per i quali – è scritto nella sentenza della prima sezione della Corte d’appello di Napoli, che definì il secondo grado del processo scaturito dall’istruttoria del giudice Carlo Alemi –, «può affermarsi (…) che erano a conoscenza della trattativa, che da essa non si dissociarono, che non fecero nessun passo per impedirla, e che quantomeno le avallarono», conduce ad emersione come in occasione del sequestro Cirillo «non sia stata seguita la linea ufficiale della fermezza, analogamente a come il partito si era in maniera compatta determinato e comportato per il sequestro Moro».
Cap. LXVI
Intorno al crac del Banco Ambrosiano
Grande finanza, massoneria, politica internazionale, perfino la malavita organizzata. Nella storia del crac del Banco Ambrosiano, ci sono tutti gli ingredienti di un thriller. Non tutti gli aspetti di questa pagina della storia recente d’Italia sono stati chiariti e la morte di roberto calvi era uno di questi, almeno fino a che non s’è accertato quello che tutti sospettavano: non di suicidio si trattò, ma di omicidio. Per capire le ragioni di quell’omicidio occorrerebbe penetrare le angustie di un mondo senza etica in cui il denaro crea vortici di passione e disperazione, dai quali si può anche non uscire vivi.
Questi i retroscena della torbida affaire: Angelo Rizzoli, rampollo dell’omonima dinastia editoriale, alla fine degli anni Settanta, riceve dallo Ior parte della somma necessaria per coprire il finanziamento della scalata al Corriere della Sera. è Calvi a condurre in porto l’operazione. Alla fine del 1980, per l’accumularsi dell’esposizione passiva del gruppo, Angelo Rizzoli cerca inutilmente di ottenere un finanziamento dall’estero, tramite Licio Gelli e Umberto Ortolani. Si rivolge, quindi, nuovamente a Calvi, verso cui è già notevolmente esposto. è necessario far figurare perciò un aumento di capitale: al Banco Ambrosiano, costituitosi formalmente in una finanziaria, la Centrale, viene ceduta una quota superiore al 40% del pacchetto azionario Rcs. Nel maggio 1981, Calvi, risultato frattanto iscritto nelle liste della Loggia P2, viene arrestato per esportazione di capitali all’estero. Ciò ne mina, almeno temporaneamente, l’operatività. Ovvio che qualcuno, nei mesi seguenti, approfittando delle difficoltà sia dell’editore sia del banchiere, tenti di avvicinarsi alla proprietà di Rcs, facendo leva su Bruno Tassan Din. Esigui gli spazi di manovra consentiti dai vincoli reciproci ai detentori delle quote azionarie Rizzoli: per esercitare un controllo reale sul gruppo è necessario si acquisti l’intero pacchetto azionario, dall’esterno. Roberto Calvi diventa ben presto un personaggio: gli si cominciano ad attribuire millanterie, movimenti non accertati, contatti i più svariati ed incredibili, disegni inquietanti.
Il «banchiere dagli occhi di ghiaccio» altro non è, però, che «il tipico caso del garzone che acquista il negozio», partito com’è, negli anni Cinquanta, da semplice impiegato della stessa banca. Coloro che lo hanno conosciuto, concordano nel descriverlo. Un tecnico ben preparato per dirigere una banca, ma privo delle stigmate culturali e di carattere del grande banchiere. Arrogante e vittimista. Affascinato dal mistero e preda d’ogni mistificatore di mezza tacca. Furbissimo e pure incapace di distinguere un amico da un ricattatore. Scaltro e duro, ma anche impaurito come un bambino. Un «toro da combattimento» e, tuttavia, così ingenuo da farsi infilzare dal primo balordo di passaggio. Davvero un uomo con due cervelli: uno lucido, l’altro vaneggiante.
è nel carcere di Lodi che Calvi comincia a morire: ha deciso di non stare più al gioco del potere e del denaro: a tutti dichiara che a quel gioco non vuole più giocare. «O mi aiutate o parlo», dice spesso, in quei giorni, senza comprendere che ognuna di quelle promesse minacciose lo indebolisce, rendendo più tiepidi i suoi amici e più pericolosi i suoi avversari, e lo spinge verso il baratro. Attorno al quale, s’agitano, in una tumultuosa e camaleontica danse macabre, politicanti grossi e piccoli, esperti in malefatte finanziarie, inventori di trucchi atipici, filibustieri d’ogni risma e colore, usurai, contrabbandieri, mafiosi, agenti segreti veri e soi disants, pistoleri di borgata e prostitute di lusso, massoni scoperti e coperti, in sonno e all’orecchio, astri del giornalismo abilissimi nel lustrare le scarpe altrui con l’aria di chi non guarda nessuno in faccia, pensatori in quarantena, prelati assorbiti più dagli affari che dal loro santo ministero, accomunati tutti dal disprezzo delle regole, dal crescente disinteresse per i valori collettivi, da un rabbioso privilegiare l’affermazione individuale e di gruppo, al punto da considerare le norme un impaccio e da trattare chi le difenda un nemico da sconfiggere o da corrompere.
Cap. LXVII
Fumo di Satana nella Chiesa
Francesco Pazienza, il quale parla per diretta conoscenza di fatti e persone, in uno dei suoi tanti interrogatori, racconta di «uno scontro feroce, all’interno del Vaticano, tra due opposte fazioni: l’una denominata “Mafia di Faenza”, nella quale si iscrivevano, oltre al cardinale Casaroli, i Cardinali Samorè, Silvestrini e Pio Laghi; l’altra, facente capo per l’appunto al Marcinkus, alla quale appartenevano Mons. Virgilio Levi, vice direttore dell’Osservatore Romano, e Mons. Luigi Cheli, Nunzio pontificio presso l’ONU».
A dire del Pazienza, «La fazione capeggiata da Paul Marcinkus aveva grossa influenza su Papa Giovanni Paolo II: questi aveva dovuto, proprio all’inizio del suo pontificato, fronteggiare uno scandalo, esploso negli Stati Uniti, di cui era stato protagonista un ordine di Preti polacchi di Filadelfia, implicati in grosse truffe ai danni di banche, con risvolti piuttosto piccanti. Mons. Marcinkus si era opportunamente adoperato per mettere a tacere tale scandalo, officiando lo studio legale newyorkese “Finley Casey & Associated” e coprendo, in qualche modo, gli ammanchi.
L’ovvio beneficio che Marcinkus ne aveva tratto era di poter contare sull’appoggio incondizionato del Papa, il quale, a seguito dell’attentato patito, era però stato messo fuori gioco: non a caso gli attacchi allo Ior e al Banco Ambrosiano si fecero estremamente virulenti e fatalmente insidiosi proprio dopo l’attentato, basti pensare alla coincidenza temporale di questi e l’arresto di Calvi».
Flavio Carboni, il quale avendo avuto frequentazioni curiali parla anch’egli per scienza diretta, racconta che, all’interno del Vaticano, nei confronti del banchiere, vi erano «tre schieramenti»: da un lato quello degli «“ottusi”, coincidente con i1 Gruppo Ior, dei Mennini e dei Marcinkus, i quali temevano che mantenere i rapporti con Roberto Calvi dopo il suo arresto e la sua accertata appartenenza alla P2, potesse determinare loro irreversibile indebolimento»; dall’altro quello dei «“lungimiranti”, coincidente con la Segreteria di Stato e facente capo al Cardinale Casaroli»: costoro perseguivano il duplice obiettivo di «indebolire il Gruppo Ior, lobby potentissima, svincolata dalla Segreteria di Stato e che aveva come diretto referente il Papa» e di «indebolire la posizione dello stesso Pontefice, la cui popolarità era in costante ed irrefrenabile aumento, ma che sarebbe stata minata dal crollo del Gruppo Ior»; quello, infine, degli «“emarginati”, cioè di coloro che essendo al di fuori della reale gestione del potere, avevano interesse a non minare l’immagine del Vaticano con uno scandalo inutile dal loro punto di vista». Sebbene «portatori di interessi opposti», conclude il Carboni, «gli esponenti del primo e del secondo schieramento», paradossalmente, «assunsero nei confronti di Roberto Calvi lo stesso atteggiamento di disinteresse alla sua sorte».
Le mappe rispettivamente disegnate dal Pazienza e dal Carboni sono sovrapponibili; non vi è motivo di dubitare della verità dei loro racconti e le loro analisi sono da molti condivise, ma prima di mettere la mano sul fuoco occorrerebbe poter procedere a rigorose verifiche, unica garanzia di un accertamento inoppugnabile, poiché, per dirla con Giordano Bruno, «…è iniquo pensare in forza di una sottomissione ad altri, è da mercenari, da servi e contrario alla dignità della umana libertà assoggettarsi e sottomettersi, è cosa stupidissima credere per consuetudine, irrazionale aderire ad un’opinione in forza della moltitudine di quelli che la professano».
A rileggere, però, quei brandelli d’interrogatori, non si può fare a meno di riandare, con la mente, all’angoscia di Paolo VI, allorché evocò il Diavolo.
Questo personaggio era passato di moda; i teologi evoluti alzavano le spalle a sentirlo nominare: non ci credevano più; l’avevano relegato tra gli incubi e le superstizioni di secoli che la nostra presunzione ci fa credere oscuri; così il Diavolo era riuscito in quello che Baudelaire chiama «la sua astuzia più bella»: far credere alla gente che non esiste. Paolo VI, però, all’improvviso, dopo aver già enunciato di avvertire la sensazione che «da qualche fessura (fosse) entrato il fumo di Satana nel regno di Dio», un giorno, ricordò solennemente che il Diavolo c’è e che esso «… non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa» Se Mefistofele, nel Faust di Goethe, si presenta, tuttavia, con una frase lapidaria, molto suggestiva: «Ich bin der Geist, der stets verneint», «io sono lo spirito che nega sempre», Paolo VI lo presentò come «perfido incantatore», il quale «sa insinuarsi per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica, o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni altrettanto nocive, quanto in apparenza conformi alle nostre strutture fisiche o psichiche o alle nostre istintive, profonde deviazioni».
Chissà se si potrà mai sapere quali fossero le fessure e, soprattutto, chi le avesse provocate, da cui il Santo Padre aveva la sensazione che «il fumo di Satana» stesse entrando «nel regno di Dio»? O forse anche questo è destinato a rimanere per sempre un mistero?
Cap. LXVIII
All’origine dell’affaire Orlandi
All’inizio sembrò la scappatella di un’adolescente, allontanatasi volontariamente da casa. Ben presto, però, la scomparsa di Emanuela Orlandi diventò uno dei più oscuri misteri della storia italiana, coinvolgente lo Stato Vaticano, lo IOR, la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano e i servizi segreti di diversi Paesi.
Due, e soltanto due, sono comunque le certezze sulla sparizione di Emanuela Orlandi: la prima è che della sua fine l’opinione pubblica non ha saputo più nulla; la seconda è che chi la rapì non fornì mai una qualsiasi prova attendibile di avere nella propria disponibilità l’ostaggio e della sua esistenza in vita.
La voce incisa sull’audiocassetta con lamenti incomprensibili che si concludevano con la frase finale «Lasciatemi dormire... perché mi fate tutto questo?», non s’è ritenuta attribuibile a Emanuela.
Nei primi due anni dalla scomparsa, peraltro, diversi soggetti rimasti anonimi ad esclusione di uno che fu individuato nel 1985 e risultò essere un mitomane, Ilario Mario Ponzi, marittimo di Ancona, spedirono per posta o fecero ritrovare in centro a Roma lettere e perfino audio cassette con incise comunicazioni rivolte alla Santa Sede, al Governo italiano, al Presidente della Repubblica e più in generale all’opinione pubblica italiana.
Non era mai accaduto, nelle pur tumultuose vicende criminali italiane, che per un sequestro di persona fossero compilate così tante inutili lettere di rivendicazione, di richieste, di precisazioni, di controdeduzioni, di distinguo e perfino di minacce incrociate tra diversi autori delle missive a cui si aggiunsero non meno di una trentina di telefonate, a un numero di soggetti equivalente.
I sedicenti rapitori chiamarono più volte le maggiori agenzie stampa nazionali, telefonarono a casa degli Orlandi, a casa di compagne di scuola di Emanuela, raggiunsero perfino parroci romani, telefonarono direttamente in Vaticano e certamente anche agli avvocati della famiglia. Come se non bastasse, allo zio di Emanuela, per telefono, fecero ascoltare una registrazione montata a ripetizione di una breve frase di pochi secondi, forse pronunciata dalla stessa Emanuela. Forse, perché non essendo stata intercettata la comunicazione, nessun accertamento d’autenticità della voce è stato possibile.
C’è ancora di più: i presunti sequestratori o chi per essi si premurarono d’allegare alle loro lettere fotocopie di documenti scolastici della ragazzina: libretto di frequentazione della scuola di musica, spartiti, copie fotostatiche di appunti che aveva con sé il giorno che scomparve.
Due missive furono battute a macchina e firmate con una biro «Emanuela», ma le perizie dimostrarono che le sottoscrizioni erano false.
Ad uno degli innumerevoli messaggi fu allegata la fotocopia della ricevuta di versamento della rata scolastica per l’iscrizione alla scuola di musica Ludovico da Victoria, che la quindicenne aveva pagato il mese precedente ed era rimasta nel suo borsone di cuoio, quello che portava con sé il 22 giugno 1983. Alcune comunicazioni furono spedite per posta dagli Stati Uniti, indirizzate al corrispondente della CBS a Roma: l’autore, firmandosi a nome di un misconosciuto «gruppo Phoenix», arrivò a minacciare di uccidere quelli che riteneva i rapitori; annunciò d’avere sequestrato altre ragazze negli Stati Uniti; fece anche balenare l’idea che agisse per conto di Cosa Nostra americana. Altre due lettere pervennero dalla Germania, scritte da sedicenti «terroristi turchi». Una dalla Svizzera.
Un dedalo inestricabile di falsità, mezze verità e clamorosi depistaggi, nessuno mai dimostrò nella maniera più ovvia d’essere l’autore del sequestro e l’esistenza in vita dell’ostaggio: sarebbe bastata una foto polaroid dell’ostaggio, o una registrazione comprensibile della sua voce, o anche una sua lettera manoscritta per compararne le calligrafie. Niente. Mai niente. Dunque, delle due l’una: o la prova principe per imbastire qualsiasi tipo di trattativa non poté essere fornita, per essere Emanuela non più in vita; o non la si volle rendere pubblica, essendosi preferito produrla, piuttosto, solo ai veri destinatari del ricatto. Tertium non datur.
In ogni caso, quali erano i veri obiettivi di quella che potremmo definire l’operazione Orlandi?
Anche a questo proposito, sia pure negativa, una certezza la si ha: la famiglia della ragazza era modesta e, comunque, non in grado di pagare un riscatto.
Ma era effettivamente ad un riscatto in denaro che puntavano i rapitori, o almeno coloro che tali si dichiaravano? O non si trattò, piuttosto, di una più raffinata e articolata operazione ricattatoria? E se di questo si trattò, chi fu ad ordire la trama oscura di un sequestro su cui gli investigatori si affannano da quasi trent’anni, senza mai giungere a dare un’appagante risposta alle istanze di verità, che salgono da un’opinione pubblica frastornata, poiché bombardata dal magmatico accavallarsi di notizie, che talvolta colano da fonte incerta, spesso contraddittorie, comunque mai verificabili?
Concentrare il fuoco dell’attenzione sui «fatti» è indispensabile per diradare le cortine fumogene sollevate attorno alla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Della fine di Emanuela Orlandi l’opinione pubblica non saprà più nulla; né gli autori del rapimento forniranno mai una qualsiasi prova attendibile dell’esistenza in vita della sequestrata: l’audiocassetta con lamenti incomprensibili che si concludono con la frase «Lasciatemi dormire... perché mi fate tutto questo?», non è attribuibile a Emanuela e del resto c’è chi sostiene trattarsi di una registrazione estrapolata dalla colonna sonora di un filmetto pornografico.
Eppure, la terribile storia dei sequestri di persona in Italia dimostra chiaramente come la grande fabbrica dei rapimenti, che negli anni Ottanta lavora a pieno regime anche a Roma, sia capace di tenere in prigionia gli ostaggi per mesi; anche per anni, come nel caso del sequestro di Cesare Casella. Prima viene il riscatto e per ottenere il pagamento occorre fornire la prova d’esistenza in vita dell’ostaggio, ammazzare il quale compromette tutto.
Racconta Saverio Morabito, collaboratore di giustizia già appartenente alla ’Ndrangheta, a proposito di Augusto Rancilio, rapito a Milano e portato in Calabria, ucciso dai sequestratori: «Saputa la disgrazia del Rancilio, ho avvisato il Michel (Michel Amaldini, boss della ‘Ndrangheta, n.d.r.) di non continuare più la trattativa perché non era il caso. Gli ho spiegato che la cosa era andata a finire male e non si faceva più niente».
Nel sequestro Grazioli, ascrivibile alla Banda della Magliana, si fotografa il cadavere del duca con un quotidiano sulle ginocchia, per far credere sia ancora vivo.
La banda di Laudavino De Santis, detto Lallo lo zoppo, conserva la salma di un rapito in un capiente surgelatore, per alcuni mesi, scongelandola, all’occorrenza, per fornire la prova d’esistenza in vita dell’ostaggio.
Nel caso di Emanuela Orlandi, delle due l’una: o la prova d’esistenza in vita, indispensabile ad imbastire qualsiasi tipo di trattativa, non viene fornita perché Emanuela è già morta; o viene fornita, ma solo ai reali destinatari, agli effettivi obbiettivi dell’operazione.
Vera la prima ipotesi, Emanuela è stata uccisa poco dopo il sequestro e, dunque, il rapitore si ritrova in mano soltanto i suoi effetti personali e solo quelli utilizza. Vera, invece, la seconda ipotesi, due i livelli di gestione del rapimento: uno pubblico, con le richieste e il tentativo di avvalorarle mediante prove indirette su Emanuela; l’altro segreto, con le vere richieste e le vere trattative.
Seppure suggestiva, la tesi di Emanuela Orlandi viva, che conduce la propria esistenza all’estero, sotto falso nome, magari madre di uno o due figli, appare purtroppo priva di ragionevole fondamento: l’esistenza in vita di Emanuela, esclusa la folle ipotesi che sia prigioniera dei sequestratori dal 1983, implicherebbe o la complicità della famiglia Orlandi, in un inganno clamoroso ai danni dell’opinione pubblica mondiale, perché pur conoscendo la verità continuerebbe, tuttavia, a tacere da 30 anni; o la disumana insensibilità di Emanuela, che non dà notizie di sé, neppure ai genitori, tanto da lasciar morire nell’angoscia il padre, Ercole Orlandi, rimasto sempre all’oscuro della sorte della figlia. Sostenere la tesi che sia viva presuppone, in ogni caso, tali e tante complicità sia esterne sia interne alla famiglia Orlandi, da non poter aver retto per 30 anni.
Molte testimonianze, e delle amiche e degli insegnanti, non consentono di disegnare un profilo psicologico d’un’Emanuela Orlandi, adolescente di quindici anni sconvolta dal rancore. Molto più ragionevole, dunque, è ritenere che non di classico sequestro di persona a fini patrimoniali si sia trattato, ma d’omicidio con occultamento del cadavere.
Il concreto pericolo di una mobilitazione in forze di tutte le strutture investigative dello Stato, in conseguenza del clamore mediatico suscitato dal frenetico susseguirsi di farneticanti messaggi rivendicanti il rapimento di Emanuela Orlandi, scomparsa la sera del 22 giugno 1983, è messo in conto da chi, disponendo soltanto degli effetti personali della ragazza, intende realizzare, comunque, un piano di pressioni e ricatti ai danni del Vaticano.
La ragazza è già morta, quando, il 6 luglio 1983, un presunto sequestratore telefona all’Ansa di Roma, per annunciare che sarà fatto trovare di lì a poco un comunicato.
Già durante l’Angelus di domenica 3 luglio, trasmesso in diretta mondiale dalla radio Vaticana, trascorsi ormai dieci giorni dalla scomparsa, Papa Wojtyla ha lanciato, peraltro, un appello: «La famiglia Orlandi è nell’afflizione per la figlia Emanuela di 15 anni che, da mercoledì 22 giugno, non ha fatto ritorno a casa. Condivido le ansie e l’angosciosa trepidazione dei genitori, non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso. Elevo al Signore la mia preghiera perché Emanuela possa presto ritornare incolume ad abbracciare i suoi cari che l’attendono con strazio indicibile».
Questo passaggio appare tutt’altro che estemporaneo: al Segretario di Stato, il prudentissimo cardinale Casaroli, mente acuminata e raffinatissima, non sarà di certo sfuggita l’inopportunità di quell’appello, idoneo a moltiplicare la difficoltà di eventuali trattative, per effetto della micidiale pressione congiunta sia del mondo dell’informazione sia degli apparati investigativi; e tali sue preoccupazioni le avrà condivise col Pontefice, che, tuttavia, decide di rivolgersi lo stesso ai rapitori. è, dunque, molto probabile che qualcuno abbia già preso contatto con il Vaticano e preteso che sia proprio Wojtyla in persona a dare un segnale.
Alcuni organi d’informazione vicini alla Santa Sede spiegheranno che a giustificare sia quell’appello sia i sette successivi è unicamente il sincero dolore del Santo Padre, nel sapere la famiglia Orlandi prostrata sotto il peso dell’angoscia.
In ogni caso, l’esternazione della sua humana pietas in diretta mondiale fa capire l’importanza accordata nei Sacri Palazzi al destino della ragazza, divenuta di colpo una formidabile arma di pressione nelle mani di chi aveva solidissimi motivi per ricattare la Santa Sede. Monsignor Giovanni Salerno, all’epoca dei fatti consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici, il 3 dicembre 1993 dichiarerà agli investiganti di avere informato l’assessore alla Segreteria di Stato, monsignor Giovan Battista Re, del «ricatto al Papa» innescato dal sequestro di Emanuela, per sentirsi rispondere da costui di lasciar perdere.
Due mesi prima del suo interrogatorio, del resto, la polizia italiana intercetta una telefonata tra un mai identificato prelato della Segreteria di Stato e il vice ispettore generale della Vigilanza Vaticana, in cui il primo ordina al secondo di tacere su tutto e specialmente sul fatto che la Santa Sede ha esperito indagini sul sequestro.
La discesa in campo di Wojtyla, dunque, fa assumere all’affaire Orlandi la rilevanza straordinaria che ha ancora oggi: Giovanni Paolo II la considera più importante di tutti i contemporanei sequestri e omicidi di religiosi, da quello di Padre Philip, missionario salesiano ucciso in India nel 1983, ai tremendi eccidi di cristiani in Sudan, sempre di quell’anno.
Esprime dubbi sull’effettivo significato degli appelli del Pontefice anche Severino Santiapichi, presidente della Corte d’Assise nel secondo processo ad Alì Agca del 1985-86: «La scomparsa di Emanuela Orlandi non c’entra nulla con il caso montato successivamente. Sarebbe stato inutile prenderla per liberare l’attentatore del Papa. Questo fu terrorismo mediatico, infatti la presenza di questi rapitori non fu altro che mediatica. Fu virtuale, non reale. Se avessero rapito un vescovo o un cardinale, l’impatto sarebbe stato molto più diretto e inoltre con un cardinale sarebbe stato molto più facile. A Roma ce ne sono tanti (…). La mia impressione è che qualcuno abbia sfruttato la scomparsa di Emanuela per un fine che prescindeva dalla sorte della ragazzina e magari addirittura senza sapere nulla di lei. La mia opinione è che qualcuno si è servito della vicenda Orlandi come cassa di risonanza non per liberare l’attentatore turco, ma per un ricatto basato su altro».
La sequenza dei fatti gli dà ragione: il 22 giugno 1983 Emanuela scompare; il 3 luglio, il Papa rivolge un appello generico affinché sia liberata; il 6 luglio, giunge all’Ansa il primo messaggio dei presunti rapitori, ma già da subito manca la prova che la ragazza sia viva, e mancherà in tutte le altre comunicazioni.
Ovvio che qualcuno, venuto in possesso del contenuto della borsa della giovane, tenti con esso d’influenzare le azioni di Wojtyla e che, diabolico paradosso, sia lo stesso Wojtyla, con quell’improvvido appello, a lasciarlo intendere.«Stammi bene a sentire: noi abbiamo Emanuela Orlandi, la studentessa di musica. La libereremo soltanto quando sarà scarcerato Mehmet Alì Agca, l’attentatore del Papa».
«A quale organizzazione appartieni e quali elementi mi dai per comprovare che la ragazza è nelle vostre mani?»
«Non importa a quale gruppo appartengo. Ti posso dire soltanto che giorni fa abbiamo avuto un contatto con la segreteria vaticana. Un messaggio, insomma, che il Vaticano ha nascosto. Nel messaggio si chiedeva l’intervento del Pontefice presso il Governo italiano affinché desse disposizioni per la scarcerazione di Mehmet Alì Agca, che deve avvenire entro 20 giorni.»
«E cosa succederà se entro venti giorni non avviene quanto chiedete?»
«Io non lo so, sono soltanto colui che è stato incaricato di telefonare. Andate in piazza del Parlamento e in un cestino dei rifiuti troverete la prova che la ragazza è nelle nostre mani».
Questa è la trascrizione del contenuto della prima telefonata di rivendicazione del rapimento Orlandi, divulgata dall’Ansa la sera del 6 luglio 1983 e che lascia perplessi gli investigatori: è inverosimile che gli asseriti rapitori, che pretendono addirittura la liberazione dell’attentatore del Papa per il rilascio dell’ostaggio, neppure si qualifichino. è ancora l’Ansa, sempre il 6 luglio, a rendere noto che vi sono già state tre telefonate alla famiglia Orlandi: il primo luglio, il 3 luglio, poco dopo l’appello del Papa, e il 5 luglio, senza che mai gli interlocutori si siano definiti terroristi, essendosi piuttosto limitati a dire «abbiamo Emanuela».
Delle tre chiamate la più interessante è stata l’ultima, nella quale si fa ascoltare la registrazione di una giovane voce femminile, che ripete ossessivamente la stessa frase: «Ho frequentato il secondo anno del convitto nazionale Vittorio Emanuele II», la scuola superiore alla quale Emanuela è effettivamente iscritta.
Si accerterà trattarsi di un montaggio audio, realizzato con apparecchiature particolarmente sofisticate. Ma perché ricorrere a strumenti professionali, quando basterebbe far parlare Emanuela al microfono di un banalissimo registratore amatoriale? Molto probabilmente perché Emanuela è già morta.
Nella tarda mattinata del 5 luglio 1983, uno sconosciuto simulando il tono di voce di uno straniero, ragion per cui verrà soprannominato «l’americano», telefona e, innanzi tutto, spiega a Mario Meneguzzi, zio di Emanuela, d’avere appena chiamato la Santa Sede, quindi indica tali Mario e Pierluigi come «emissari dell’organizzazione». I nomi di costoro non tornano nuovi all’uomo, avendo entrambi già telefonato a casa Orlandi: Pierluigi, lo ha fatto una prima volta sabato 25 giugno, per raccontare d’aver saputo dalla sua fidanzata di un incontro casuale di costei con Emanuela, presentatasi però come «Barbarella», in piazza Campo dei Fiori, e quindi per invitarli a non preoccuparsi: la ragazza, ha detto, cerca di raggranellare qualche soldo vendendo per strada profumi Avon e tornerà presto a casa; ha telefonato poi, una seconda volta, domenica 26 giugno: si è ricordato che Barbarella-Emanuela dovrà suonare il flauto al matrimonio della sorella. Sempre più convinto che l’interlocutore sappia qualcosa della misteriosa scomparsa della nipote, Mario Meneguzzi gli ha proposto un incontro in Vaticano e, a fronte della perplessità di Pierluigi, che per tutta risposta gli ha chiesto se stia per caso parlando con un prete, ha spiegato che la sua famiglia vive proprio lì, nello Stato Pontificio. Lunedì 27 giugno, peraltro, è giunta a casa Orlandi anche la chiamata di un altro sconosciuto, che ha detto d’essere «Mario». In questa telefonata, di cui esiste la registrazione, Mario, il cui accento è spiccatamente romanesco, chiarisce che, sebbene conosca Pierluigi, egli non c’entra, tuttavia, con la scomparsa di Emanuela; aggiunge, altresì, che il suo amico è un bravo ragazzo e lavora per la ditta di profumi Avon, insieme a due ragazze, una delle quali, di nome Barbarella, tornerà a casa a settembre, per il matrimonio della sorella. Pierluigi e Mario, che non si faranno mai più vivi con alcuno, nelle loro telefonate hanno dato mostra di conoscere fatti e circostanze non ancora divulgate e note, dunque, in quel momento, soltanto a chi abbia avuto a che fare con la scomparsa di Emanuela.
Lo stupore di Pierluigi nell’apprendere che l’adolescente abitava in Vaticano prova, peraltro, che in precedenza lo ignorasse e, quindi, quanto sia inverosimile l’ipotesi di un sequestro di persona pianificato e organizzato con cura: se Emanuela fosse stata pedinata, i sequestratori avrebbero scoperto subito il suo domicilio. è invece soltanto dopo la sua scomparsa che lo apprendono dallo zio Mario Meneguzzi, ed è proprio da quel momento che le povere cose contenute nella borsa della ragazza scomparsa diventano una merce dal valore inestimabile. Naturalmente per chi sappia come usarla.Dal racconto di un ex agente si apprende che il Servizio segreto interno non s’interessa immediatamente della scomparsa di Emanuela Orlandi: l’allarme rosso, con l’avvia d’indagini in tutte le direzioni e l’impegno di decine di agenti, scatta solo quando il Papa, all’Angelus in San Pietro, rivolge un appello ai rapitori.
E a qualche risultato quelle indagini approdano: si accerta, innanzitutto, che Emanuela è stata avvicinata, davanti al Senato, il 22 giugno 1983 verso le 15 e 30, da uno sconosciuto: un uomo adulto, sui trent’anni, alto più o meno uno e settantacinque, corporatura normale leggermente robusta, capelli castani mossi e una modesta stempiatura.
Che non si sia trattato del primo incontro fra loro lo conferma il vigile urbano che li ha visti parlare quel pomeriggio: i due, che apparivano in confidenza, certamente si conoscevano. Si accerta, altresì, che l’auto, guidata dallo sconosciuto, era una Bmw Touring, di colore «verde tundra»: un modello vecchio per il 1983, essendone cessata la produzione nel 1974, ma non ancora fuori commercio, poco venduto in Italia e dalle caratteristiche inconfondibili.
Racconta ancora, in proposito, l’ex agente del Sisde: «A un certo punto, all’incirca dopo dodici, tredici giorni dalla scomparsa di Emanuela, la mia attenzione si concentrò su un episodio particolarissimo. Scoprii che un’auto di quel modello e di quel colore era stata consegnata per essere riparata all’officina della Bmw di zona Vescovio, a Roma. Mi colpì che, in deroga alle normali procedure, che obbligano chi porta un’auto a riparare a consegnare ai meccanici il libretto di circolazione del mezzo, in quel caso la prassi non era stata seguita: un meccanico mi raccontò in camera caritatis che era arrivata una giovane donna molto carina, bionda, sui trent’anni, fisico atletico, e aveva chiesto fosse aggiustata con urgenza: quella macchina, che aveva il vetro della portiera anteriore destra rotto, non era sua, ma di un suo amico che gliel’aveva prestata, e lei doveva rendergliela subito. “Io – mi disse il meccanico – le credetti, non pensai neanche per un attimo fosse una macchina rubata e così il lavoro lo feci immediatamente perché era anche molto semplice. A parte la mancanza di documenti del veicolo, mi lasciò perplesso il fatto che quel vetro non era andato in frantumi per un colpo dall’esterno verso l’interno, come avrebbe fatto un ladro sfondandolo per rubare qualcosa nell’abitacolo o magari portar via la macchina, ma era stato rotto dall’interno verso l’esterno, come capita qualche volta negli incidenti laterali, quando il passeggero sbatte la testa contro il vetro della portiera. Poiché, tuttavia, non c’erano ammaccature alla carrozzeria, non era questo il caso. E poi, la Bmw monta cristalli molto resistenti, per rompere i quali da dentro l’abitacolo occorre parecchia energia”».
Il racconto del meccanico insospettisce molto l’ex agente segreto, dato il breve tempo trascorso dalla scomparsa di Emanuela. Ad ogni modo, poiché la donna ha lasciato un numero di telefono, risultato appartenere a un residence romano, il Mallia, l’agente del Sisde si reca là il giorno successivo e cerca di parlarle.
è questo, però, secondo il suo racconto, ciò che accade: «La donna scese nella hall e davanti a tutti i presenti inveì contro di me dicendo che lei non aveva alcuna intenzione di rispondere ad alcuna domanda su quella macchina. Così me ne andai e tornai in sede, ma come arrivai, non più di tre quarti d’ora dopo, fui convocato dal mio dirigente, che mi fece una lavata di capo che non vi dico e m’intimò di non interessarmi più della questione Orlandi. Ci rimasi molto male, ma soprattutto ero esterrefatto. Come aveva fatto quella tizia, in così poco tempo, meno di un’ora, a individuarmi come agente Sisde e prendere contatto col Servizio? L’unico modo doveva essere stato tramite la targa dell’auto con la quale mi ero allontanato dal Mallia dopo la scenata e che avevo parcheggiato di fronte all’ingresso del residence oltre le vetrate della reception. Ma, ammesso pure che quella donna avesse qualche amico in questura per ottenere un controllo immediato della targa, si sarebbe potuti risalire soltanto a un’anonima società di copertura del Sisde alla quale erano intestati molti dei nostri mezzi. Quindi, chi fece la ricerca sulla targa doveva sapere che quella società era nostra, del Sisde di Roma».
Queste dichiarazioni, pur non costituendo, in sé, una prova dei fatti riferiti, sollecitano talune curiosità e stimolano approfondite verifiche, sulla base di dati oggettivi, ossia di argomenti che, come diceva Aristotele, non si possono subornare, a differenza dei testimoni. Verifiche induttive indispensabili, se si vuole evitare il prematuro abbandono del terreno della logica, per spiccare, invece, uno spericolato salto intuitivo, nel vano tentativo di colmare i vuoti di conoscenza, col rischio, tutt’altro che teorico, d’infittire, anziché dissiparli, i misteri sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Emanuela Orlandi viene adescata in centro a Roma di fronte al palazzo del Senato in corso Rinascimento, il pomeriggio del 22 giugno 1983, e, attorno alle 19 dello stesso giorno, scompare.
Corso Rinascimento è, in quei giorni, una delle strade più controllate della capitale, perché i sicari delle organizzazioni armate clandestine neofasciste e comuniste non si fanno scrupoli a sparare a uomini politici: Gino Giugni, il «padre» dello Statuto dei lavoratori, è stato gambizzato il 3 maggio, neppure due mesi prima della scomparsa di Emanuela.
Il 23 marzo 1983, tre mesi prima della scomparsa di Emanuela, il senatore missino Giorgio Pisanò, membro della Commissione P2, ha tenuto una conferenza stampa a Roma per mettere al corrente i giornalisti degli sviluppi di quella che ha definito una sua « personale inchiesta in Svizzera sull’affaire Carboni-Calvi». Nell’occasione, ha fatto ascoltare un nastro recante l’incisione dell’interrogatorio reso da Flavio Carboni, nell’agosto del 1982, al giudice Bernasconi di Lugano, da cui si apprende di conti correnti accesi dal Carboni stesso in varie banche elvetiche; di alcune operazioni finanziarie da lui svolte con il Calvi e appoggiate all’UBS di Ginevra; di un’ingente somma di denaro, 24 milioni di dollari in contanti, equivalenti, all’epoca a circa 50 miliardi di lire, da lui stesso prestata al Calvi e restituita solo in parte dal banchiere. Stando a quella deposizione, il rapporto di Carboni con il presidente del Banco Ambrosiano sarebbe iniziato nel 1981, con un prestito di un miliardo e duecento milioni ottenuti dal Banco Ambrosiano e subito consegnati a due «uomini d’affari», Francesco Pazienza e Maurizio Mazzotta.
Oltre a precisare: «Chi compì materialmente la consegna fu il mio assistente, Emilio Pellicani», Flavio Carboni, nell’interrogatorio svizzero propalato dal senatore Pisanò, parlava altresì di un prestito di 6 miliardi a lui erogato dal Banco Ambrosiano e di come i 24 milioni di dollari da lui prestati al Calvi non fossero suoi, ma di altri.
La conferenza stampa si è conclusa con un interrogativo, apparso pleonastico ai giornalisti presenti: avendo le indagini della magistratura elvetica condotto ad emersione ingenti versamenti di denaro del Carboni a favore di Ernesto Diotallevi e Fausto Annibaldi, che fossero costoro i reali creditori di Roberto Calvi?
Un mese e mezzo prima della scomparsa di Emanuela, il 29 aprile 1983, il nome di Fausto Annibaldi si è riaffacciato per la seconda volta nella cronaca giudiziaria, a causa dei mandati di cattura emessi dai giudici istruttori milanesi Antonio Pizzi e Renato Bricchetti, nell’ambito dell’inchiesta sul crack del Banco Ambrosiano, uno dei quali lo riguarda personalmente.
Flavio Carboni, Emilio Pellicani, Gennaro Cassella, Francesco Pazienza e Maurizio Mazzotta, gli altri destinatari. Tutti accusati di bancarotta fraudolenta, per il mutuo accordato dall’Ambrosiano alla Prato Verde, al fine di realizzare un villaggio turistico in Costa Smeralda, solo in piccolissima parte impiegato da Carboni, Cassella e Pellicani per avviare i cantieri edili, mentre finito per il resto nella disponibilità di Pazienza, Mazzotta e Annibaldi. Tre soltanto i provvedimenti restrittivi eseguiti: quelli di Carboni e Pellicani, già in carcere, e quello di Cassella, amministratore dell’immobiliare Prato Verde. Latitanti, invece, Pazienza, Mazzotta e Annibaldi, quantunque inseguiti da mandato di cattura internazionale.
La latitanza di Fausto Annibaldi si protrarrà a lungo: l’8 gennaio 1986 si presenterà al palazzo di giustizia di Milano, accompagnato dall’avvocato Giandomenico Pisapia, per mettersi a disposizione dei giudici Bricchetti e Pizzi, che già da due anni e mezzo avrebbero voluto interrogarlo. Con l’arresto, si preciserà l’accusa a suo carico, destinata a reggere sino alla fine del processo per la bancarotta dell’Ambrosiano.
Il Mario che dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi telefonò a casa della famiglia della ragazza, parrebbe, all’esito di una consulenza fonica, essere stato Giuseppe De Tomasi detto Sergione, già appartenente alla banda della Magliana.
Secondo i «bene informati», per gli inquirenti, che da alcuni anni si occupano nuovamente dell’affaire Orlandi, «il sequestro (…) sarebbe stato organizzato e gestito da Enrico De Pedis», a cui Sergione era legato, «con suoi uomini di fiducia non tutti appartenenti alla banda che insanguinò Roma tra gli anni settanta o ottanta» (http://www.youtube.com/watch?v=J5Teeu70JPo).
Sempre secondo i «bene informati», sarebbero «tre le persone iscritte» nel registro degli indagati della Procura di Roma: «Sergio Virtù, 49 anni, Angelo Cassani, 49 anni, detto “Ciletto” e Gianfranco Cerboni, 47 anni, detto “Giggetto”» (Ivi).
A costoro, gli inquirenti sarebbero arrivati grazie alla testimonianza di Sabrina Minardi, la «superteste» dell’inchiesta, ex moglie di un noto calciatore, capitano della Lazio, la quale intratteneva, nel 1984, un’amichevole relazione proprio con Enrico De Pedis, detto Renatino, illo tempore latitante e uomo di vertice, assieme a Maurizio Abbatino, della banda della Magliana: pedinandola, i poliziotti della questura di Roma, riuscirono ad arrestare entrambi.
L’agnizione di Enrico De Pedis, nella vicenda Orlandi, offre uno spiraglio per penetrare il mistero della successiva sepoltura di costui nei sotterranei della basilica di Sant’Apollinare, in piazza delle Cinque Lune.
è noto, infatti, che taluni malavitosi capitolini, contigui sia a Cosa Nostra sia alla banda della Magliana, sarebbero stati pesantemente danneggiati sul piano economico dalla morte per impiccagione a Londra di Roberto Calvi: il credito da loro vantato nei suoi confronti, ammontante ad almeno 4 milioni di dollari, rischiava di restare insoluto, dopo la presa di distanze dello Ior dai debiti da lui accumulati. Resa pubblica una settimana prima della scomparsa di Emanuela, la fin de non recevoire della banca vaticana imposta da Marcinkus aveva prodotto reazioni indignate nel mondo finanziario, soprattutto a livello internazionale: gli istituti creditori erano corsi ai ripari mettendo insieme un’armata di avvocati che, alla fine, avrebbe risolto la questione, ottenendo 241 milioni di dollari di risarcimento dallo Ior. Ma i «finanziatori privati», con Calvi morto e il vecchio Ambrosiano dichiarato insolvente, come avrebbero fatto a pareggiare i conti? Di qui il «sequestro mediatico»: recuperare, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, quel denaro altrimenti irrimediabilmente perduto.
In maniera ambigua e calunniatoria, un sedicente appartenente all’organizzazione Turkesh, magari a conoscenza della liaison dangereuse fra Renatino e la moglie del bomber laziale, lo lasciò intendere, inviando, il 17 ottobre 1983, una missiva anonima all’Ansa di Milano: «Nella lettera, ritenuta inattendibile dagli investigatori, si dice che Emanuela sarebbe stata uccisa da un tale di nome Aliz, ma che il suo corpo forse non verrà più ritrovato. Nell’ultima parte della lettera l’autore fa cenno (…) al calciatore della Lazio Spinozzi, che avrebbe conosciuto sia Emanuela che Aliz e che saprebbe molto della vicenda. Sull’ultima facciata della lettera sono stati disegnati alcuni simboli geometrici (tre triangoli incrociati e un terzo più grande sbarrato) con
la scritta Turchia libera! e “quaranta esercizi per flauto”. In un angolo della stessa ultima facciata della lettera è stato disegnato un piccolo riquadro con la parola “Sergio” seguita dalla parola “morte” e da un’altra illeggibile che potrebbe essere il cognome». L’autore delle missive firmate Turkesh venne individuato nel 1985: era un mitomane, si chiamava Mario Ilario Ponzi.
Nella vicenda Orlandi agirono sia disturbati di mente sia menti raffinatissime, e distinguere gli uni dalle altre è ancora oggi impresa impossibile. Resta però, che qualcuno, a freddo e senza una ragione plausibile, a quattro mesi dalla scomparsa della ragazza, chiamò in causa la Lazio, calunniando l’incolpevole Arcadio Spinozzi, con un messaggio che lasciava intendere ulteriori ricatti: intorno al capitano della Lazio, ruotavano figure pericolosissime compromesse con la banda della Magliana. Gli inquirenti dell’epoca ritennero «inattendibile» la lettera anonima di Turkesh, sebbene fornisse una traccia per risalire ai responsabili del sequestro mediatico di Emanuela.
E quando nella primavera del 1984, cioè pochi mesi dopo, grazie al pedinamento della moglie di capitan Giordano, venne arrestato Enrico De Pedis, quella strana missiva, in cui si dava notizia dell’uccisione di Emanuela, non fu presa, ancora una volta, in alcuna considerazione.
Cap. LXIX
Crudele è la logica della Storia: ma quella è
La logica governa il mondo. (…) Un’applicazione di questa implacabile logica è Il Principe. Machiavelli biasima i principi che per fraude o per forza tolgono la libertà a’popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L’interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l’onore, la vita, la sostanza de’cittadini. Dee mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli, «non ingannato da loro, ma ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl’ingegni. Nè tema d’essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.
(Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, cap. XV)
Quale più degno epilogo della spigolatura attraverso cui si è costruito questo libricciuolo, se non alcune noterelle su un autentico caso editoriale, vale a dire Il Principe di Niccolò Machiavelli, composto or son cinque secoli, fra il luglio e il dicembre 1513, con ogni probabilità, l’opera della letteratura italiana, insieme alla Divina Commedia dantesca e al Pinocchio di Collodi, più conosciuta al mondo. Un’opera che, ancor prima di essere data alle stampe, ha conosciuto contraffazioni e rimaneggiamenti e che nei decenni e secoli a seguire ha sollecitato o determinato repliche polemiche, rifacimenti satirici, plagi veri e propri, adattamenti anonimi, appropriazioni più o meno indebite, riscritture più o meno integrali, edizioni censurate o manipolate, false versioni e apocrifi, apologie, ma soprattutto condanne e reprimende d’ogni sorta, per ragioni insieme religiose e politiche; sino a giungere, finalmente, ai giorni nostri, che hanno visto Il Principe trasformarsi da testo di dottrina politica e da documento storico imprescindibile per immergersi nei segreti dell’epoca rinascimentale, in breviario, potenzialmente ad uso delle masse, sul modo di conquistare e conservare potere, prestigio e influenza anche fuori dall’ambito strettamente politico-statuale (Cfr. A. Campi, Introduzione a Il Principe di Niccolò Machiavelli ed il suo tempo, 15132013, Treccani, 2013, p. 3 ss.). Un’opera unica, nel panorama dei testi che hanno segnato in profondità la riflessione politico-sociale nell’età cosiddetta moderna, quali, giusto per fare qualche esempio, il Leviatano di Thomas Hobbes, la Scienza Nuova di Giambattista Vico, il Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau, la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, il Capitale di Carl Marx; e questo, sia per il carattere quasi proverbiale che hanno assunto certi passi o brani tra i più noti del testo, anche se nessuno vi ha mai trovato scritto che «il fine giustifica i mezzi», sia per l’obliqua fama che ha finito per riverberare sullo stesso Autore.
Senza dubbio, ciò che colpisce, nel caso del Principe, è soprattutto la varietà di interpretazioni che ne sono state date. In quelle poche pagine, infatti, a seconda delle epoche e della sensibilità, ma anche dei pregiudizi di chi lo leggeva, si è visto in effetti di tutto: archeologia del potere, condotta con tale precisione e libertà di giudizio da poter offrire argomenti e suggerimenti pratici sia ai potenziali tiranni sia ai difensori della libertà e del governo popolare; testo fondante della moderna scienza della politica, nel quale si spiega come si possano, attraverso l’uso della ragione e attingendo agli insegnamenti della Storia, governare i conflitti e fondare ordinamenti stabili; dissertazione disincantata sulla natura umana, sulle passioni e i sentimenti elementari che in ogni epoca orientano le azioni individuali e collettive; composizione letteraria nel segno dell’empietà, della critica ai precetti della religione cristiana e del rifiuto di qualunque norma morale; apologia della forza e dell’inganno, che esprime il cinismo dell’epoca in cui l’opera fu scritta; manifesto politico, che ha avuto la forza di anticipare le aspirazioni degli Italiani all’unità nazionale e statuale.
In ogni caso, il «piccolo libro» di Machiavelli «ha gittato nell’ombra le altre sue opere», come già rilevò Francesco De Sanctis, nella sua Storia della Letteratura Italiana (vol. II, Cav Antonio Morano Editore, Napoli 1871, cap. XV), ed «è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale», così che, per secoli, è stato considerato il manuale di tutte le nefandezze, di tutte le astuzie, di tutte le crudeltà di cui s’intesse la politica, intesa come espressione non del diritto, ma della forza, non dell’etica, ma della sua sistematica violazione; il codice, insomma, dei tiranni, che gli uomini liberi non possono non odiare. Giudicato, peraltro, da questo libro l’Autore, un uomo che aveva avuto un volto, che era stato parte attiva e importante della politica fiorentina dal 1497 al 1512, e che, post res perditas, aveva scritto, insieme ad altre cose, il libro del Principe, egli fu presto vittima di una leggenda che lo trasformò in una maschera, lo assunse a Idealtypus dell’uomo malvagio, maestro di trame e di inganni.
Giudicato, da subito, alla stregua di vero e proprio manuale del contrario di una filosofia cristiana della politica e dello Stato, la condanna del Principe arrivò puntuale e totale: le opere di Machiavelli, già nel 1559, furono poste all’Indice dei libri proibiti; egli stesso, nel 1615, fu bruciato in effige, a Ingolstadt, in Baviera, come «uomo subdolo e astuto, ottimo artefice di pensieri diabolici, collaboratore del demonio»; i gesuiti combatterono una vera crociata antimachiavelliana e non fu diversa l’accoglienza prevenuta e ostile delle Chiese protestanti; per tacere di Tommaso Campanella, pur così poco ortodosso, e che, tuttavia, nell’Atheismus triumphatus (1630), pamphlet molto polemico contro l’Autore del Principe e in difesa della religione, la cui prima stesura, in italiano, dal significativo titolo Riconoscimento filosofico della vera universale religione contro l’anticristianesimo e il machiavellismo, data 1605, lo chiama ateo e immorale.
Visto il lavoro svolto dalla chiesa cattolica per accusare di ateismo messer Niccolò, non stupisce che l’Autore del Principe fosse ben presto divenuto l’old Nick della commedia elisabettiana e che la sua figura venisse accostata in modo naturale a Satana, come, ad esempio, in Machiavel and the Devil (1613), di Robert Daborne (citata in Edward Stockton Meyer, Machiavelli and the Elizabethan Drama, 1897, p. 129).
Neppure stupisce, d’altra parte, che i protestanti inglesi fossero andati addirittura oltre, associandone la figura a quella di un altro spauracchio: Ignazio di Loyola. Sono lampanti, infatti, i paralleli riguardo i metodi per ottenere il dominio tra Machiavelli e la Compagnia di Gesù, differenti soltanto per la denominazione del fine ultimo: la potenza della nazione per Machiavelli, la gloria di Dio per i gesuiti. Anche in questo caso gli esempi di deformazione dell’immagine del fiorentino abbondano. Il più gustoso è la satira di John Donne, Ignatius his Conclave (1611), in cui il Sommo immagina di sognare gli appartamenti di Lucifero, dove, nel più interno di essi, siedono costui e i suoi eletti; Loyola, che ne è il braccio destro, fa in modo che solo i gesuiti riescano a passare l’esame di nefandezza necessario per esservi ammessi: dopo che Copernico e Paracelso vengono bocciati si presenta Machiavelli; questi tenta, dapprincipio, di attaccare Loyola, ma vedendo che Lucifero approva ogni parola di Ignazio cambia strategia e prende ad adularlo per incorrere nel suo favore e per instillare in Lucifero il dubbio che Loyola stia diventando troppo potente; si prende, dunque, il merito di aver insegnato ai gesuiti l’arte di equivocare e di esser sempre stato a favore della spargimento di sangue e dell’uccisione dei regnanti; Lucifero, molto colpito dalle parole di Machaivelli, vorrebbe farlo entrare anche per contrapporlo a Loyola come contravveleno, ma Loyola, più furbo del diavolo, capisce le sue
intenzioni e si lancia in un discorso di cinquanta pagine, nelle quali dimostra che Machiavelli sempre si oppose al papato, visto dai protestanti come il regno dell’anticristo, e come, pur insegnando a mentire e tradire, lo fece in modo tanto malaccorto da essere scoperto e avversato da tutti; al contrario i gesuiti con la dottrina della riserva mentale si erano intrufolati in ogni dove senza destar sospetti; Machiavelli, insomma, non aveva inventato niente di nuovo, dato che le sue idee si trovano già in Platone e nei padri della Chiesa; sotto la furia di questo attacco, il povero Machiavelli sparisce.
La tesi di Gennaro Sasso, allorché sostiene non essere stato senza ragione che Niccolò Machiavelli fosse assai più noto che conosciuto, non essendo dato di vedere a che scopo ci si sarebbe dovuti interessare alla ricostruzione della vita di uno che era presto stato trasformato nella maschera tragica e grottesca di un figlio del demonio, venuto al mondo per riempire le menti di sogni delittuosi e per demolire dalle fondamenta la Chiesa di Cristo (Presentazione al citato volume collettaneo Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo 1513 – 2013), può, dunque, essere condivisa. A patto, tuttavia, di non ascrivere la leggenda nera che ne oscurò l’immagine soltanto all’interdizione del suo nome messa in atto per secoli dalla Chiesa cattolica. Ulteriore ragione, tutt’altro che trascurabile, del perché, a misura che la fama di Niccolò Machiavelli si spandeva per il mondo, e le edizioni delle sue opere si moltiplicavano, il suo pensiero subisse le più gravi deformazioni e la conoscenza stessa della sua vita decadeva ai più bassi livelli, ce la offrono le incisive notazioni di Francesco De Sanctis, nell’incipit del capitolo XV della sua Storia della Letteratura Italiana:
Niccolò Machiavelli, ne’ suoi tratti apparenti, è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de’ Medici. Era un piacevolone, che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de’ beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra’ tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma caduti i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve assai di sostenere la tortura, poi che tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò su’ fati dell’antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d’Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l’Italia non potesse mantenere la sua indipendenza, se non fosse unita tutta o gran parte sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l’impresa. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo di ozio e di miseria. All’ultimo, poco e male adoperato da’ Medici, finì la vita tristamente, lasciando non altra eredità a’ figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: «Tanto nomini nullum par elogium».
Da buon fiorentino, Niccolò Machiavelli pensava, insomma, anche alla libertà repubblicana, così radicata nelle città dell’Italia comunale, e in specie a Firenze, tanto da vagheggiare il suo Principe, soprattutto per un’azione volta a sottrarre l’Italia al destino di soggezione agli stranieri a cui la condannavano le sue divisioni. E non c’è chi non veda come né l’idea repubblicana né quella italiana potessero avere fortuna nell’Italia dell’assolutismo e del predominio spagnolo.
Sia pure nel modo più paradossale, Machiavelli continuò, non di meno, a essere meditato in quella Italia: magari solo per condannarle aspramente, le sue tesi continuarono a essere esposte e discusse, senza, peraltro, che mancasse qualche eccezione. è il caso, ad esempio, di Traiano Boccalini, intellettuale spregiudicato e nemico del dogmatismo tipico della Controriforma, il quale, oltre a difendere Tacito in quanto maestro dei meccanismi di potere, diede del Principe di Machiavelli un’interpretazione repubblicana: lo scrittore fiorentino, a suo avviso avrebbe voluto denunciare al popolo, seppur in modo indiretto, e dunque smascherare i metodi politici, considerati crudeli e immorali, usati dai principi italiani. Un’interpretazione, questa, che giunse fino ai Sepolcri di Ugo Foscolo, che avrebbe definito Machiavelli: quel grande che, temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue».
La rivendicazione alla storia della biografia di Niccolò Machiavelli avvenne, comunque, non prima che tre secoli fossero trascorsi dalla sua morte, per merito di storici che, quando l’Italia, fra il 1860 e il 1870 era divenuta uno Stato unitario, s’impegnarono nel narrare la sua vita e nell’illustrare il suo pensiero con spirito di obiettività, ponendolo in relazione ai tempi nei quali visse, come Gaspar Amico (La Vita di Niccolò Machiavelli, commentari storico-critici sulla vita pubblica e privata, sui tempi e sugli scritti del segretario fiorentino, corredati di documenti editi ed inediti, per Gaspar Amico, G. Civelli, 1875); Francesco Nitti (Machiavelli nella vita e nelle dottrine studiato da Francesco Nitti: Con l’ajuto di documenti e carteggi inediti, Detken & Rocholi, 1876); Pasquale Villari (Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3 volumi, U. Hoepli, 1877-1882) e Oreste Tommasini (La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, E. Loescher, 1893). Moltissime, però, anche in questo periodo, furono le eccezioni: per la coscienza cattolica del Paese, Machiavelli restava un personaggio pericoloso, un nemico della religione cristiana, un teorico del «paganesimo politico»: salvo che, anche in questo campo, presso i migliori, la grandezza del suo pensiero s’imponeva, dando luogo a situazioni singolari.
Per limitarsi a citare un documento di alta letteratura, nei Promessi sposi, don Ferrante, esperto conoscitore qual era della «Ragion di Stato» e dei suoi teorici seicenteschi, definiva Machiavelli «mariuolo sì, ma profondo». Alessandro Manzoni, che conosceva bene il pensatore fiorentino, delle cui pagine si era servito quando aveva scritto, in margine all’Adelchi, il Discorso sulla storia dei Longobardi in Italia, era troppo intelligente per non apprezzarne la profondità, pertanto non è un caso che il suo personaggio giudichi messer Niccolò «profondo», là dove egli stesso reputava Giovanni Botero «galantuomo» bensì, ma «acuto». è questo, piuttosto, il segno che anche in lui Machiavelli suscitava inquietudini. Insomma, pur riconoscendone l’ingegno, nella Morale cattolica aveva, nel suo nome, criticato coloro che fondano la moralità sull’utile.
Nel secolo del patrio Risorgimento, nel tentativo d’impedire che s’imponesse in primo piano e turbasse il quadro quella che Francesco De Sanctis aveva chiamata la sua «brutta esteriorità», e cioè le crude sentenze che s’incontrano nei suoi scritti, si tentò di accreditare Niccolò Machiavelli come il profeta dell’unità nazionale, il precursore degli uomini del Risorgimento e del loro pensiero. Mediante un simile espediente, si evitava il contatto con l’inquietante quadro dei suoi pensieri e si consentì alla sua statua di essere collocata e mantenuta nel Pantheon dei grandi Italiani. Niccolò Machiavelli, infatti, non fu né il profeta dell’unità d’Italia quale si realizzò alla fine del XIX secolo; né fu, nella sua realtà storica, un precursore degli uomini del Risorgimento.
A tal riguardo, ancora una volta, ci conforta Francesco De Sanctis, il quale, dopo aver rilevato che «L’Italia nell’utopia dantesca è il “giardino dell’impero”», mentre «nell’utopia del Machiavelli è la “patria”, nazione autonoma e indipendente», sottolinea:
La «patria» del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sé l’individuo, e in nome di Dio gl’inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formole volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la «patria», ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l’individuo assorbito nell’essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de’ cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell’uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L’uomo non era un essere autonomo, e di fine a se stesso: era l’istrumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull’arbitrio di un solo. Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi «repubblica». E dicevasi «principato», dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l’individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi, l’onnipotenza dello Stato.
L’impressione che si ha oggi è che l’onda dei pregiudizi verso Niccolò Machiavelli e verso il suo Principe sia ritornata a farsi impetuosa, perché le cose nel nostro Paese hanno da tempo preso un indirizzo che giustifica chi lo dipinge come abitato non da cittadini virtuosi, ma da sudditi della doppiezza e dell’astuzia. E non sembra possa escludersi che, al riguardo, sia all’opera qualcosa di più profondo, che certamente concerne Machiavelli, ma, allo stesso tempo, coinvolge il rapporto che, da anni, gli Italiani non intrattengono con la loro storia. Un rapporto reso da sempre problematico dall’essere l’Italia «un’unità letteraria pensata all’interno di realtà politiche particolari, che con quella non potevano coincidere adeguando a essa, assunta perciò come un’idea, non più letteraria ma politica, la propria particolarità» (Gennaro Sasso, Op. cit.).
è questo un rapporto restato problematico anche dopo il conseguimento dell’unità nazionale a causa della persistenza di caratteri che erano insieme ancora particolari, per un verso, e astrattamente universali, come, per l’appunto, la Chiesa cattolica e la sua dottrina, per un altro. Problematicità accentuatasi a tal punto in questi nostri anni di decadenza politica e morale da aver perduto la sua natura stessa di rapporto, quasi che gli Italiani non abbiano più un passato al quale rivolgere domande per ottenere risposte e dare a se stessi un orientamento.
Indice dei nomi
A
Abbatino Maurizio
Acciarito Pietro
Adami Pietro Antonio
Adelchi
Agca Alì
Alasia Walter
Albanese Gioacchino
Albano Giuseppe
Albertario don Davide
Alberti Gerlando
Aleandri Paolo
Alemi Carlo
Aliz
Alfano Angelino
Alibrandi Alessandro
Allegra Antonino
Almerighi Mario
Altieri Alberigo
Alvisi (relazione)
Amaldini Michel
Amato Mario
Ambrosoli Giorgio
Ammaturo Umberto (clan) Andreotti Giulio
Anelli Luigi
Anfuso Filippo
Aniasi Aldo
Annibaldi Fausto
Antonelli Giacomo
AntonovOvssenko Volodymir Oleksandrovyc
Arafat Yasser
Arcangeli Giorgio
Arène Emmanuel
Aricò William Joseph
Ariosto Ludovico
Arnesano Maurizio
Arpinati Leandro
Astengo Carlo
AZumaher Abd El Osama
B
Badalamenti Gaetano
Badoglio Pietro
Baffi Paolo
Bagarella Antonietta
Bagarella Leoluca
Baihaut Charles
Bakunin Michail
Balbo Italo
Baldassarri Gianluca
Baldesi Massimo
Baldesi Renzo
Balduino Domenico
Balzerani Barbara
Bandiera (fratelli)
Barrese Orazio
Bartolotta Fara
Bartolotta Felicia
Bastogi Pietro
Batacchi Cesare
Battaini Sigfrido
Battisti Cesare
Baudelaire Charles
Bava Beccaris Fiorenzo
Bei Francesco
Bellavista Girolamo
Belmonte Adalberto
Belmonte Giuseppe
Belof Max
Belsito Pasquale
Bencivenga Roberto
Bentivegna Rosario
Berardi Rosario
Bergamelli Albert
Berlinguer Enrico
Berlusconi Silvio
Bernasconi Giorgio
Berneri Camillo
Berni Francesco
Bersani Pierluigi
Bertani Agostino
Bertuzzi Irnerio
Berzin Ivan Antonovic
Biagi Enzo
Biancheri Giuseppe
Birindelli Massimo
Bisaglia Antonio
Bixio Nino
Blair Tony
Bo Giorgio
Bobbio Norberto
Boccaccio Giovanni
Boccalini Traiano
Boccardo Gerolamo
Bocchini Arturo
Boldrini Marcello
Bombacci Nicola
Bompressi Ovidio
Bonaccorsi Arconovaldo
Bonanno Joseph
Bondi Giulia
Bonmartini Francesco
Bonomi Ivanoe
Bontade Stefano
Booth Luce Clare
Borghese Junio Valerio
Borgnini Giuseppe
Borkenau Franz
Bosco Giacinto
Bosso Luigi
Botero Giovanni
Botticelli Mario
Bovone Domenico
Brecht Bertolt
Bresci Gaetano
Bricchetti Renato
Broue Pierre
Bruno Giordano
Brusca (i)
Brusco Carlo
Bulgari Giovanni
Buscetta Tommaso
C
Caballero Largo Francisco
Cadorna Luigi
Cagliostro (Balsamo Alessandro)
Cairoli Benedetto
Calabresi Luigi
Calderone Antonino
Calia Vincenzo
Calore Sergio
Calvi Guido
Calvi Roberto
Cambareri Giuseppe
Cambray Digny Luigi Guglielmo
Campanella Tommaso
Campesino el (Gonzales Valentino)
Campi Alessandro
Campinoti Andrea
Canale Carmelo
Cancello Mario
Cannizzaro Pietro
Cantelli Gerolamo
Capello Luigi
Caponnetto Antonino
Carabelli Conversi Lucilla
Carbone Bruno
Carbone Luigi
Carboni Flavio
Carboni Giacomo
Carcano Paolo
Carducci Giosué
Carnet Sadi
Carollo Giusepp
Carraro Maria Fiorella
Carrillo Santiago
Caruso Giuseppe
Caruso (perito legale)
Caruso Carmelo
Caruso Pietro
Casalegno Carlo
Casardi Ferdinando
Casaroli Agostino
Casarrubea Giuseppe
Casati Stampa (marchesi)
Casella Cesare
Caserio Sante
Casillo Enzo (’o Nirone)
Casini Pier Ferdinando
Cassani Angelo (Ciletto)
Cassella Gennaro
Castro Fidel
Cattaneo Carlo
Cavallaro Roberto
Cavallero (banda)
Cavallini Gilberto
Cavallo Luigi
Cavallotti Felice
Cavataio Michele
Cavour Camillo Benso conte di
Cazzaniga Vincenzo
Cazzullo Aldo
Ceccarelli Aristide
Cefis Eugenio
Celeste (i)
Celeste Salvatore
Cerboni Gianfranco (Giggetto)
Cereghino Mario J
Cervi Alcide
Cesare Giulio
Cesarini Sforza Marco
Cheli Luigi
Chiacchierini Claudio
Chichiarelli Antonio Giuseppe
Chinnici Rocco
Cialdini Enrico
Ciancimino Vito
Ciano Galeazzo
Cicciotti Ettore
Cigna (Dc)
Ciotta Giuseppe
Cirillo Ciro
Ciuni Candido
Ciuni (vedova)
Civelli G
Clemenceau Georges
Clinton Bill
Codovilla Victorio
Cogliandro Demetrio
Colajanni Napoleone
Collodi Carlo
Comboni Costantino
Concato Leone
Concutelli Pierluigi
Conigliaro Girolamo
Conti Davide
Contreras Carlos
Copernico Niccolò
Coppola Frank
Cordero Franco
Correnti Cesare
Cortellessa Ippolito
Corvisieri Silverio
Cossiga Francesco
Costa Andrea
Costa (industriale)
Costantini Savio
Cottafavi Luigi
Cotugno Antonio
Craxi Bettino
Criscuolo Giorgio
Crispi Francesco
Crispi Lina
Croce Benedetto
Croce Fulvio
Cuccia Enrico
Cuciniello Vincenzo
Cuomo Mario
Curatola Pasquale
Curcio Renato
Cutolo Raffaele
D
Daborne Robert
D’Accardi Vincenzo
D’Agostino Emanuele
D’Alessandro Luigi
D’Alessandro Vincenzo
Dalla Chiesa Carlo Alberto
D’Amato Federico Umberto
D’Amico Pasquale
Danesi Alfredo
D’Angelo Giuseppe
D’Annunzio Gabriele
D’Azeglio Massimo
De Angeli Ernesto
De Cinti Giancarlo
De Condorcet Nicolas
De Felice Fabio
De Freycinet Charles
De Gasperi Alcide
De Gregorio Concita
Delahante Gustave
Delahaye Jules
Del Carpio Ideale
De Lesseps Ferdinand
D’Elia Gianni
Delle Chiaie Stefano
De Lorenzo Giovanni
De Marinis Enrico
De Martino Francesco
De Matteo Giovanni
De Mauro Mauro
De’ Medici Lorenzo
De Molinari Gustave
De Pasquale Pancrazio
De Pedis Enrico
Depretis Agostino
De Reinach Jacques
Déroulède Paul
De Sanctis Francesco
De Santis Laudavino
De Tomasi Giuseppe
De Viti De Marco Antonio
De Zerbi Rocco
Diana Bernardo
Diaz José
Di Cagno Vito Antonio
Di Carlo Francesco
Di Cristina Giuseppe
Di Maria Gregorio (casa)
Dimitrov Georgi
Di Napoli Michelangelo
Diotallevi Ernesto
Di Pasquale (Avv)
Di Peri Giovanni
Di Pisa Calcedonio
Di Rudinì Antonio Starabba
Di Stefano Paolo
Di Stefano Michelangelo
Di Vittorio Giuseppe
Don Giovannino
Donatelli Carmine
Donne John
D’Ortenzi Alessandro (Zanzarone)
Dosi Giuseppe
Doto Joe (Joe Adonis)
Dotti Roberto
D’Ovidio Giancarlo
Draghi Mario
Duggan Christopher J
Dugué de La Faconnerie
Dumini Amerigo
E
Eiffel Gustave
Emanuele Santo
Era Renato
Eschilo
Esposito Antonio
Esposito Bruno
Eula Lorenzo
Evangelista Francesco
F
Fachinelli Elvio
Falchi Romano
Falcone Giovanni
Falde Nicola
Fanfani Amintore
Fanti Valentino
Faranda Adriana
Farinacci Roberto
Farini Luigi Carlo
Farini Domenico
Fasanella Giovanni
Fausto e Iaio (Tinelli Fausto)
Fedeli Nazareno
Federzoni Luigi
Felicetta (Impastato)
Feltrinelli Giangiacomo
Ferdinando II
Ferracuti Franco
Ferrara Marcella
Ferrara Maurizio
Ferrari Aggradi Mario
Ferrari Giuseppe
Ferreri Salvatore
Ferrero Guglielmo
Ferri Mauro
Ferrucci Alessandro
Filippani Ronconi Pio
Filippello Matteo
Filliol Jean
Fioravanti Valerio
Fiorillo Ciro
Firrao Donato
Flamigni Sergio
Floquet Charles
Folli Stefano
Fontana Giuseppe
Forlani Arnaldo
Fortis Leone
Foscolo Ugo
Fouché Joseph
Fouquier Henry
Franceschini Alberto
Francesco II
Francese Mario
Franco Francisco
Frattini Davide
Frezzi Romeo
Fumagalli Carlo
G
Gaikins Jacob
Gaj Taché Stefano
Galantara Gabriele
Galante Carmine
Galli Giorgio
Galli Guido
Gallo Franco
Ganci Raffaele
Gangemi Francesco
Ganz Menachem
Garassini Lorenzo
Garibaldi Giuseppe
Garofalo Piero
Garrone Riccardo
Garufi Pancrazio
Gaspar Amico
Gatto Vincenzo
Gava Antonio
Gavazzi Ludovico
Gelli Licio
Genovese Vito
Geroe
Gheddafi Muammar
Giacalone Diego
Giaconia Stefano
Giacumbi Nicola
Giambarresi Calogero
Giannettini Guido
Giannuli Aldo
Gianturco Emanuele
Giardili Alvaro
Gibson Violetta
Giliberti Biagio
Giolitti Enrichetta
Giolitti Gina
Giolitti Giovanni
Giordano Bruno
Giovanni Paolo II (Wojtyla)
Giovannino (don)
Giovannone Stefano
Giugni Gino
Giuliano Boris
Giuliano Salvatore
Giuseppucci Franco
Giussani don Luigi
Giustiniani Pier Candiano
Glori Cesaremaria
Goethe Johann Wolfgang
Gomez Paulino
Gonella Guido
Gonzàles Pena
Gorkin Juliàn
Gorrieri Ermanno
Gotor Miguel
Granata Giuliano
Grandi Dino
Gramsci Antonio
Graziani Rodolfo
Grazioli Lante della Rovere Massimiliano
Greco Adolfo
Greco Michele
Greco Salvatore (Ciaschiteddu)
Greco Salvatore (Totò il lungo)
Grieco Ruggero
Grévy Albert
Grillo Beppe
Grimaldi Bernardino
Gronchi Giovanni
Guastini Enrico
Guerrini Olindo
Guida Marcello
Gulizzi Rosolino
Gunnella Aristide
Guzzi Rodolfo
H
Habbash George
Haussman Georges Eugène
Henderson (col usa)
Henke Eugenio
Hennequin (console)
Henry Émile
Hernàndez Jesùs
Herz Cornelius
Hitler Adolf
Hobbes Thomas
Hobsbawm Eric J
Hood Robin
Hugh Thomas
Humbert (famiglia)
I
Iacolare Corrado
Iaio e Fausto
Impastato Giovanni
Impastato Luigi
Impastato Peppino
Imposimato Ferdinando
Incandela Angelo
Iannucci Lorenzo (Fausto e Iaio)
Inzerillo Salvatore
Iotti Nilde
Ippolito Felice
Istria Serra Maria
J
Jakubiez Férnand
Jalloud Abdel Salam
K
Kamenev Lev
Kappler Herbert
Kennedy David M
Kennedy John F
King (colonnello)
Kissinger Henry
Kleber Emil
Koch banda
Koch Pietro
Koltzov Mikhail
Kropotkin Petr Alekseevic
KrumHeller Arnold
L
La Barbera Angelo
La Barbera Salvatore
Labriola Antonio
Labriola Arturo
Labruna Antonio
Laghi Pio
Lahderi Azzedine
Lama Luciano
La Malfa Ugo
La Marmora Alfonso
Lanti Michele
Lanza Giovanni
Laschi Rodolfo
Lazzaroni Cesare
Leandri Antonio
Lecs Matteo
Lemmi Adriano
Lenz Reinhold
Leone Giovanni
Leonforte Emanuele
Leosini Franca
Leto Guido
Letta Enrico
Levra Umberto
Liborio (necroforo)
Li Causi Girolamo
Liebknecht Karl
Liggio Luciano
Lima Salvo
Limiti Stefania
Litta (duchessa)
Lobbia Cristiano
Lo Cicero Ferdinando
Lo Grasso Gaetano
Lollobrigida Maria Teresa
Lombardi Riccardo
Lombardo Turi
Lombroso Cesare
Longhi Silvio
Longo Luigi
Loubet èmile
Loyola Ignazio
Luca Ugo
Lucetti Gino
Luciani Alcide
Luciano Lucky
Luxemberg Rosa
Luzzati Luigi
M
Macbeth
Macchiarella Pietro
Macchiavelli Niccolò
Macmillan Harold
Macola Ferruccio
Madonia Francesco
Maestrello Silvano
Magistro
Magnard Francis
Magnoni Pier Sandro
Malatesta Errico
Malenotti Maleno
Maletti Gianadelio
Manca Bachisio
Mancini Pasquale Stanislao
Mancino Antonio
Mancino Michele
Mancino Rosario
Mangia Rocco
Mantegazza Paolo
Mantica Fabio
Manzella Cesare
Manzoni Alessandro
Mao Tsetung
Marazzita Nino
Marchesano Giuseppe
Marcinkus Paul
Marcora Giovanni
Marcora Giuseppe
Maresca Marina
Margherita di Savoia
Maria di Woyzech
Marino Leonardo
Mario (e Pierluigi)
Mariotti (industriale)
Marotta Giuseppe
Martirano Dino
Martorana Gaetano
Marty André
Martynov Leonid
Marx Carl
Martucci Pierpaolo
Masini Angelo
Massimi Marco Mario
Matarazzo Giovanna
Mattarella Bernardo
Mattarella Piersanti
Mattei Enrico
Matteotti Giacomo
Mattioli Raffaele
Mazzei Luigi
Mazzini Giuseppe
Mazzola Ugo
Mazzotta Maurizio
McHale William
Medina Luis
Mei Abelardo
Menabrea Luigi
Meneguzzi Mario
Merlino Francesco Saverio
Merzagora Cesare
Mesina Graziano
Messana Ettore
Metternich von Clemens
Micalizio Giacomo
Miceli Vito
Milano Agesilao
Milosevic Slobodan
Minardi Sabrina
Minervini Girolamo
Minghelli Gian Antonio
Minghetti Marco
Mino Enrico
Miraglia Accursio
Mola Aldo
Mondo Lorenzo
Monicelli Mario
Montanelli Indro
Montesi Wilma
Monti Mario
Montmasson Rosalia
Morabito Saverio
Morano Antonio
Mordini Antonino
Moretti Mario
Mori Cesare
Moro Aldo
Moro Eleonora
Morselli Enrico
Morucci Valerio
Moussa Salem
Murri Augusto
Murri Teodolinda
Murri Tullio
Mussolini Benito
Musumeci Pietro
Mutti Claudio
N
Naldi Pio
Napoleone III
Napoli Franco
Napolitano Giorgio
Nardi Gianni
Natoli Salvatore
Navale Roberto
Negri Giovanni
Negrin Juan
Nenni Pietro
Neri Bartolomeo
Neri Matteo
Nievo Ippolito
Nievo Stanislao
Nin Andrés
Nino Nanco
Nitti Francesco
Niutta Ugo
Nixon Richard
Noske Gustav
Noseda (magistrato)
Notarbartolo Emanuele
Notarnicola Sante
Novelli Diego
Nuzzo Nicola
O
Oberdan Guglielmo
Occhetto Achille
Occorsio Vittorio
Oddi Silvio
Ofelia
Ognibene Roberto
Omero
Orlandi Emanuela
Orlandi Ercole
Orlandi (famiglia)
Orlov A
Orr Lois
Orsi Giuseppe
Orsini Felice
Orsolini Pietro
Ortolani Amedeo
Ortolani Roberto
Ortolani Umberto
Osmani Guelfo
Osteria Luca
Ostini Marzio
Ottaviani Alfredo
P
Paganuzzi Giovanni Battista
Palatucci Giovanni
Palazzolo Salvatore
Palazzolo Vito
Palizzolo Raffaele
Pallante Antonio
Pannella Marco
Pansa Giampaolo
Pantaleoni Maffeo
Pantò Giuseppe
Paolo III
Paolo VI
Paracelso
Pariglia (generale)
Parri Ferruccio
Pascoli Giovanni
Pasolini Pier Paolo
Passannante Giovanni
Pastore Giulio
Pavolini Alessandro
Pazienza Francesco
Peci Patrizio
Peci Roberto
Pecorelli Carmine
Pellegrino Giovanni
Pellicani Emilio
Pelloux Luigi
Pelosi Giuseppe
Pelosi Nancy
Perfetti Francesco
Perondi Ettore
Pertini Sandro
Peruzy (questore)
Pes Peppino
Pétain Philippe
Petito (carcerato)
Philip Padre
Piccioni Attilio
Piccoli Flaminio
Picone Giusto
Pierluigi (Mario e)
Pietrostefani Giorgio
Pifano Daniele
Pinelli Giuseppe
Pio IX
Pironti Michele
Pisacane Carlo
Pisanò Giorgio
Pisapia Giandomenico
Pisciotta Gaspare
Pivato Stefano
Pizzi Antonio
Platone
Podrecca Guido
Pol Pot
Poletti Charles
Pollio Alberto
Pomarici Ferdinando
Pomicino Cirino Paolo
Ponza di Sanmartino Gustavo
Ponzi Ilario Mario
Pope Generoso
Preston Paul
Preti Luigi
Priebke Erich
Prieto Indalecio
Priore Rosario
Procaccianti (perito legale)
Prodi Romano
Proudhon PierreJoseph
Proust Antonin
Provenzano Bernardo
Pulci Luigi
Q
Quartierd’Alcantara Francisco
R
Rajk Làszlò
Rancilio Augusto
Ranelletti Oreste
Rattazzi Umberto
Rauti Pino
Rega Lopez
Re Giovan Battista
Renault Léon
Riboldi Ezio
Riboli Emanuele
Ricasoli Bettino
Riina Totò
RioloMatranga (i)
Rizzoli Angelo
Roatta Mario
Robotti Paolo
Rocca Renzo
Rocco Alfredo
Roche Jules
Rognoni Virginio
Romano (i)
Romano Santi
Romussi Carlo
Roncaglia Aurelio
Ronchi Mario
Rosenberg Marcel
Rosi Francesco
Rossano Pietro
Rosselli Carlo
Rosselli Nello
Rossi David
Rothschild (i)
Rousseau Jean Jacques
Rouvier Maurice
Ruffo Guglielmo
Russo Giuseppe
Russo Raffaele
S
Sacchetiello Agostino
Sacchetti Franco
Sacchi Ettore
Said Salem
Salamone Francesco
Salerno Giovanni
Salvarezza Umberto
Salvini Lino
Salvemini Gaetano
Salvemini de Castillon Frédéric
Salvotti Albino
Sammarco Giuseppe
Samorè Antonio
Sansa Adriano
Santafiora (duchessa)
Santiapichi Severino
Santino Umberto
Santovito Giuseppe
Saracco Giuseppe
Saragat Giuseppe
Sasso Gennaro
Savi Ercole
Sbardellotto Pellegrino Angelo
Scaglione Pietro
Scalfari Eugenio
Scaroni Paolo
Scelba Mario
Schiavone (banda)
Schucht Tania
Schirru Michele
Sciascia Leonardo
Secchia Pietro
Secchi Carlo
Segni Antonio
Selis Nicolino
Sella Quintino
Semerari Aldo
Senzani Giovanni
Serravalle Paolo
Sharif Bassam Abu
Sidney Sonnino Costantino
Signorelli Paolo
Silvestrini Achille
Simioni Corrado
Sindona Michele
Siri Giuseppe
Slànsky Rudolf
Smith Adam
Sofri Adriano
Sogno Edgardo
Sorce Vincenzo
Spataro Giuseppe
Spiazzi Amos
Spina Raffaele
Spinelli Barbara
Spinozzi Arcadio
Spriano Paolo
Stajano Corrado
Stalin Iosif
Stassova Elena
Stecchetti Lorenzo
Steimetz Giorgio
Stella Gian Antonio
Stendhal
Stepanov Pavel
Stockton Meyer Edward
Straullu Antonio
Sturzo Luigi
Suardo Giacomo
Subranni Antonio
Sutherland Edwin
T
Tacito Publio Cornelio
Tambroni Fernando
Tamponi Giannello
Tanlongo Bernardo
Tassan Din Bruno
Témime Emile
Tempera Gino
Terracini Umberto
Terrana (i)
Tesauro Giuseppe
Thévenet François
Tinelli Fausto (Fausto e Iaio)
Titta Adalberto
Togliatti Palmiro
Tognazzi Ugo
Tommasini Oreste
Torretta Pietro
Tortora (banda)
Totaro (banda)
Tresca Carlo
Treves Claudio
Tricoli Giuseppe
Tritoni Giuseppe
Troia (i)
Trotzki Lev
Turani Giuseppe
Turatello Francis
Turati Augusto
Turati Filippo
Turone Sergio
U
Umberto I
Umberto II
V
Vaillant Auguste
Valdoni Pietro
Valletta Vittorio
Valpreda Pietro
Valsecchi Athos
Varisco Antonio
Varone Antonio
Varone Francesco
Vassalli Sebastiano
Vella Alfonso
Verbano Valerio
Verdiani Ciro
Verzotto Graziano
Vico Giambattista
Vidali Vittorio
Viezzer Antonio
Vigni Antonio
Villa Tommaso
Villari Pasquale
Viola Basilio
Virtù Sergio
Visco Ignazio
Vitale Provvidenza
Vittorio Emanuele II
Vittorio Emanuele III
W
Wahid Zuaitar Adel
Z
Zamboni Anteo
Zanardelli Giuseppe
Zaniboni Tito Zapatero José Luis R Zavoli Sergio
Zini Luigi
Zinoviev Grigorij
Zito (gli)
Zucca Padre
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