Una volta, diversi anni fa, io e alcuni amici ci iscrivemmo a un corso di cucina tenuto da una matrona armena e dalla sua anziana domestica. Dato che loro non parlavano inglese e noi non parlavamo armeno, la comunicazione non fu facile. Lei insegnava facendo ricorso alla dimostrazione pratica: la osservavamo (e cercavamo diligentemente di quantificare le ricette) mentre preparava una serie di piatti meravigliosi a base di agnello e melanzane. Ma le nostre ricette erano imperfette e, per quanto ci impegnassimo, non eravamo in grado di raggiungere gli stessi risultati. «Cos’era» mi chiesi «che conferiva quel tocco particolare alla sua cucina?» La domanda sembrava destinata a restare senza risposta fino a quando un giorno, mentre ero intento a seguire con particolare attenzione quello che si stava svolgendo in cucina, vidi la nostra maestra che, con grande dignità e deliberazione, preparava un piatto e lo porgeva alla domestica. Quest’ultima, senza dire una parola, si avviò verso la cucina per metterlo nel forno dopo averlo cosparso di varie manciate di spezie assortite e condimenti. Sono convinto che fossero proprio quelle “aggiunte” surrettizie a fare tutta la differenza.
Quel corso di cucina mi viene spesso in mente quando penso alla psicoterapia, e soprattutto agli ingredienti essenziali di una terapia riuscita. Testi specialistici, saggi pubblicati su riviste e conferenze ritraggono la terapia come qualcosa di preciso e sistematico, con fasi accuratamente delineate, interventi tecnici strategici, uno sviluppo metodico e la soluzione del transfert, nonché l’analisi delle relazioni oggettuali e un programma accurato e razionale di interpretazioni rivelatorie. Ma sono assolutamente convinto che, quando nessuno lo sta a guardare, il terapeuta ci butti dentro le sue aggiunte, i segreti della sua cucina.
In cosa consistono, dunque, queste aggiunte elusive e ufficiose? Vivono al di fuori della teoria formale, non se ne scrive, non sono insegnate in maniera esplicita. Spesso i terapeuti non ne sono consapevoli, eppure sanno di non essere in grado di spiegare perché molti pazienti migliorino. Gli ingredienti essenziali sono difficili da descrivere, persino più difficili da definire. In effetti è forse possibile definire e insegnare qualità come la compassione, la “presenza”, l’attenzione, la connessione, il toccare il paziente a un livello profondo, o ancora la saggezza, forse la qualità più elusiva di tutte?
Uno dei primi casi documentati della psicoterapia moderna illustra chiaramente come i terapeuti abbiano disatteso in maniera selettiva tutte queste piccole aggiunte1. (A questo proposito le descrizioni successive della terapia sono meno utili perché, riguardo alla conduzione appropriata della terapia, la psichiatria divenne così dottrinaria che le manovre “ufficiose” furono sistematicamente omesse dai casi riportati.) Nel 1892 Sigmund Freud trattò con successo Elisabeth von R., una giovane donna che soffriva di difficoltà deambulatorie psicogenetiche. Freud spiegò il proprio successo terapeutico unicamente con la tecnica dell’abreazione, vale a dire la riemersione di desideri e pensieri traumatici. Tuttavia, studiando gli appunti di Freud si è colpiti dall’ampio numero di attività terapeutiche utilizzate. Per esempio, incoraggiò Elisabeth a recarsi alla tomba della sorella e a visitare un giovanotto che lei trovava attraente. Cercò di interessarsi «amichevolmente di situazioni presenti»2 relative alla giovane, interagendo con la famiglia a favore della paziente: ebbe colloqui con la madre della paziente e la «supplicò» di mantenere aperti i canali di comunicazione con la paziente permettendole di confidarsi periodicamente con lei. Dopo aver saputo dalla madre che Elisabeth non aveva alcuna possibilità di sposare il marito della sorella morta, Freud comunicò tale informazione alla paziente. La aiutò ad affrontare i complessi problemi finanziari della famiglia. In altre occasioni la spinse a fronteggiare con calma il fatto che il futuro, per chiunque, è inevitabilmente incerto. A più riprese la consolò, rassicurandola del fatto che non era responsabile dei sentimenti indesiderati che provava, ed evidenziò che il suo grado di senso di colpa e rimorso per quei sentimenti fosse la prova evidente di un carattere fortemente pervaso di moralità. Infine, a terapia conclusa, Freud venne a sapere che Elisabeth seguiva lezioni di ballo private e si procurò un invito in modo da poterla guardare «mentre vorticava in una danza vivace». Ci si può solo chiedere che cosa abbia aiutato Elisabeth. Le piccole aggiunte di Freud, di questo non ho dubbi, furono degli interventi efficaci: escluderli dalla teoria significa rischiare un grave errore.
Lo scopo di questo libro è proporre e chiarire un approccio alla psicoterapia, vale a dire una struttura teoretica e una serie di tecniche che emergono da tale struttura, che possa fornire un quadro di riferimento per molte di queste aggiunte. L’etichetta per questo approccio, quella di «psicoterapia esistenziale», sfugge a una definizione succinta, in quanto gli elementi a sostegno dell’orientamento esistenziale non sono empirici, bensì profondamente intuitivi. Comincerò con l’offrire una definizione formale e poi, per tutto il resto del libro, cercherò di chiarire questa definizione: la psicoterapia esistenziale è un approccio dinamico alla terapia che si focalizza sulle preoccupazioni radicate nell’esistenza dell’individuo.
Sono convinto che la maggior parte dei terapeuti esperti, indipendentemente dall’appartenenza a una qualche scuola ideologica, utilizzi molti insight esistenziali, che intendo descrivere in seguito. La maggior parte dei terapeuti si rende conto, per esempio, che l’apprensione per la propria finitezza può spesso catalizzare un mutamento radicale e forte della prospettiva, che è la relazione che cura, che i pazienti sono tormentati dalla scelta, che un terapeuta deve catalizzare la “volontà” di agire del paziente e che la maggior parte dei pazienti è assillata dalla mancanza di senso nella propria vita.
Ma l’approccio esistenziale è più di un sottile accento o di una prospettiva implicita che i terapeuti utilizzano involontariamente. Da parecchi anni ormai, quando tengo lezioni per psicoterapeuti su vari argomenti, chiedo sempre: «Chi di voi si considera orientato esistenzialmente?» Una parte considerevole del pubblico, di solito più del 50 per cento, risponde affermativamente. Ma questi stessi terapeuti trovano difficile rispondere quando viene loro chiesto: «Che cos’è un approccio esistenziale?» Il linguaggio usato dai terapeuti per descrivere un qualsiasi approccio terapeutico non ha mai brillato per vivacità o chiarezza ma, tra tutti i vocabolari della terapia, nessuno può rivaleggiare in vaghezza e confusione con quello dell’approccio esistenziale. I terapeuti associano tale approccio a termini intrinsecamente imprecisi e a prima vista estranei, per esempio “autenticità”, “incontro”, “responsabilità”, “scelta”, “umanistico”, “attualizzazione di sé”, “centratura”, “sartriano”, e “heideggeriano”. Molti professionisti lo considerano da tempo un orientamento confuso, debole, irrazionale e romantico che, invece di essere un vero approccio, fornisce una licenza per l’improvvisazione a dei terapeuti privi di disciplina e poco strutturati. Spero di riuscire a dimostrare che tali conclusioni sono arbitrarie e che l’approccio esistenziale è un paradigma psicoterapeutico valido, efficace, razionale, coerente e sistematico quanto gli altri approcci.
La psicoterapia esistenziale è una forma di psicoterapia dinamica. Il termine “dinamico” è usato spesso nell’ambito della salute mentale come per esempio in “psicodinamica”. Per comprendere uno dei tratti fondamentali dell’approccio esistenziale è necessario essere chiari sul significato di terapia dinamica. L’aggettivo “dinamico” (che deriva dal greco e significa “avere forza” o “avere potenza”) ha un’accezione generale e una specialistica. Nel suo significato generale evoca energia e movimento (un giocatore di calcio o un politico “dinamico”; “dinamo”; “dinamite”), che però non corrisponde al senso specialistico: quale terapeuta vorrebbe non essere dinamico, bensì lento, apatico, stagnante, inerte? No, il termine ha un uso tecnico specifico che implica il concetto di forza. Il principale contributo di Freud alla comprensione dell’essere umano è il suo modello dinamico del funzionamento della mente: un modello che postula l’esistenza di forze in conflitto all’interno dell’individuo e che pensiero, emozione e comportamento, tanto adattivi quanto psicopatologici, siano il risultato del conflitto tra queste forze. Inoltre, ed è forse la cosa più importante, queste forze esistono a livelli variabili di consapevolezza: alcune, infatti, sono del tutto inconsce.
La psicodinamica di un individuo include così le varie forze consce e inconsce, e i motivi e le paure che operano al suo interno. Le psicoterapie dinamiche sono terapie basate, quindi, su questo modello interpretativo.
Fin qui ci siamo. La terapia esistenziale, così come la descriverò, rientra con agio nella categoria delle terapie dinamiche. E se chiedessimo quali sono le forze (e le paure e i motivi) in conflitto? Qual è il contenuto di questa lotta interna conscia o inconscia? È a questo punto che la terapia esistenziale dinamica si separa dalle altre terapie dinamiche. La terapia esistenziale è basata su una concezione radicalmente diversa delle forze, dei motivi e delle paure specifiche che interagiscono nell’individuo.
Non è mai facile identificare la natura precisa dei conflitti interiori più profondi. Il clinico che si trova a lavorare con un paziente travagliato ha raramente l’occasione di esaminare i conflitti primari in forma pura. Il paziente, invece, nutre un insieme enormemente complesso di preoccupazioni: le preoccupazioni primarie sono sepolte nel profondo, incrostate da strati e strati di repressione, negazione, rimozione e simbolizzazione. L’investigatore clinico deve affrontare un quadro composto di tanti fili così ingarbugliati che sbrogliarli è spesso arduo. Per identificare i conflitti primari si devono utilizzare molte vie d’accesso: la riflessione profonda, i sogni, gli incubi, i lampi di esperienza profonda o di insight, gli enunciati psicotici e l’analisi dei bambini. A tempo debito esplorerò tali vie, ma adesso può essere d’aiuto una presentazione schematica e stilizzata. Un rapido esame di tre visioni contrastanti del conflitto prototipico intrapsichico dell’individuo – freudiano, neofreudiano ed esistenziale – illustra per contrappunto l’approccio esistenziale della psicodinamica.
Secondo Freud il bambino è governato da forze istintuali innate che, come una foglia di felce, gradualmente si dispiegano attraverso il ciclo di sviluppo psicosessuale. Ci sono conflitti su diversi fronti: tra gli istinti duali (la contrapposizione tra le pulsioni dell’io e della libido e, in un secondo tempo, tra Eros e Thanatos), ma anche tra gli istinti e le richieste dell’ambiente e, in seguito, tra gli istinti e le richieste dell’ambiente interiorizzato, vale a dire il Super-io. Al bambino si impone di negoziare tra la pressione interna che spinge a una gratifica immediata e il principio di realtà che esige di rimandare la gratificazione. L’individuo guidato dall’istinto è così in guerra con un mondo che impedisce la soddisfazione di appetiti sessuali e aggressivi innati.
I neofreudiani, in particolare Harry Stack Sullivan, Karen Horney ed Erich Fromm, presentano un’altra visione del conflitto interiore dell’individuo. Il bambino, invece di essere messo in moto dall’istinto e preprogrammato, è un essere che, a eccezione di certe qualità neutrali innate quali il temperamento e i livelli di attività, è formato dall’ambiente culturale e interpersonale. Il bisogno di base del bambino è la sicurezza – accettazione interpersonale e approvazione – e la qualità dell’interazione con gli adulti che hanno un significato nel procurare sicurezza determina la struttura del carattere del bambino. Il bambino, anche se non è governato dall’istinto, possiede comunque grande energia innata, curiosità, innocenza del corpo, un potenziale innato di crescita e un desiderio di possesso esclusivo degli adulti amati. Questi attributi non sono sempre in accordo con le richieste degli adulti per lui significativi che lo circondano, e il conflitto di fondo è tra queste naturali inclinazioni di crescita e il bisogno di sicurezza e approvazione. Se un bambino ha la sfortuna di avere dei genitori così presi dai propri conflitti nevrotici da non poter procurare sicurezza e incoraggiare una crescita autonoma, allora ne deriverà un conflitto grave. In una simile lotta la crescita è sempre compromessa a vantaggio della sicurezza.
La posizione esistenziale mette l’accento su di un tipo diverso di conflitto di base. Non si tratta del conflitto relativo al perseguimento istintuale represso o a uno scontro con adulti significativi interiorizzati, ma a un conflitto che proviene dal confronto dell’individuo con i dati fondamentali dell’esistenza. E con “dati fondamentali dell’esistenza” intendo le preoccupazioni ultime, proprietà intrinseche che sono una parte, e una parte ineludibile, dell’esistenza dell’essere umano nel mondo.
Come si fa a scoprire la natura di questi dati fondamentali? In un certo senso questo non è un compito difficile. Il metodo è quello di una profonda riflessione personale. Le condizioni sono semplici: solitudine, silenzio, tempo e libertà dalle distrazioni della vita di ogni giorno con le quali ciascuno di noi colma il proprio mondo esperienziale. Se riusciamo a spazzare via o a rinchiudere tra due parentesi il mondo quotidiano, se riflettiamo profondamente sulla nostra “situazione” nel mondo, sulla nostra esistenza, sui nostri confini, sulle nostre possibilità, se arriviamo al terreno che sottende tutti gli altri, ci troviamo di fronte i dati fondamentali dell’esistenza, le strutture profonde, le preoccupazioni ultime. Questo processo è spesso catalizzato da determinate esperienze pressanti. Questi confini, o situazioni limite, includono esperienze quali il confronto con la propria morte, con le decisioni importanti irreversibili, o con il crollo di un qualche schema fondamentale che procurava senso alla propria esistenza.
Questo libro tratta quattro preoccupazioni ultime: la morte, la libertà, l’isolamento e l’assenza di senso. Il confronto dell’individuo con ciascuna di queste esperienze costituisce il contenuto del conflitto dinamico esistenziale.
La morte. La preoccupazione ultima più ovvia e più facilmente comprensibile è la morte. Adesso esistiamo, ma un giorno cesseremo di esistere. La morte verrà, e non c’è modo di sfuggirle. È una verità terribile e noi le rispondiamo con un terrore mortale. «Tutto» secondo le parole di Spinoza «si sforza di insistere nel proprio essere»3. E un conflitto esistenziale di base è la tensione tra la consapevolezza dell’inevitabilità della morte e il desiderio di continuare a esistere.
La libertà. Una preoccupazione ultima di gran lunga meno comprensibile è la libertà. Di regola pensiamo alla libertà come a un concetto inequivocabilmente positivo. Nel corso della storia documentata l’essere umano non ha forse agognato e lottato per la libertà? Tuttavia la libertà vista da questa prospettiva è legata al terrore. Nella sua accezione esistenziale, rinvia all’assenza di una struttura esterna. L’essere umano non entra in (o esce da) un universo strutturato, con un suo disegno intrinseco. L’individuo è infatti interamente responsabile – ovvero è l’autore – del suo mondo, del suo disegno di vita, delle sue scelte e delle sue azioni. In questo senso la libertà ha un’implicazione terrificante, poiché significa che sotto di noi non c’è una base stabile, non c’è nulla, c’è un vuoto, un abisso. Una dinamica esistenziale chiave, allora, è lo scontro tra il nostro conflitto con l’assenza di una base stabile su cui poggiarci e il desiderio di una base stabile.
L’isolamento esistenziale. Una terza preoccupazione esistenziale è l’isolamento; non l’isolamento interpersonale con la sua relativa solitudine o l’isolamento intrapersonale (isolamento da parti di sé), bensì un isolamento fondamentale – un isolamento tanto dalle creature quanto dal mondo – che sottende le altre forme di isolamento. Non importa quanto uno possa essere vicino agli altri, rimane comunque sempre uno spazio vuoto, finale, che non può essere colmato; ciascuno di noi entra nell’esistenza da solo e da solo deve separarsene. Il conflitto esistenziale è così la tensione tra la nostra consapevolezza del nostro isolamento assoluto e il desiderio di contatto, di protezione, il desiderio di essere parte di un insieme più ampio.
L’assenza di senso. Una quarta preoccupazione ultima è l’assenza di senso. Se dobbiamo morire, se siamo noi a costituire il nostro mondo, se ciascuno alla fine è solo in un universo indifferente, allora che significato ha la vita? Perché viviamo? Come dovremmo vivere? Se per noi non c’è un disegno preordinato, allora ciascuno di noi deve elaborare il proprio senso della vita. Tuttavia, è possibile che un significato di propria creazione sia abbastanza solido da far sopportare la vita? Questo conflitto dinamico-esistenziale si genera dal dilemma di una creatura alla ricerca di senso, gettata in un universo che senso non ha.
La psicodinamica esistenziale si riferisce dunque a questi quattro dati fondamentali, a queste preoccupazioni ultime, alle paure e ai motivi consci e inconsci generati da ciascuno di essi. L’approccio esistenziale dinamico si rifà alla struttura dinamica di base delineata da Freud, ma ne altera radicalmente il contenuto. La vecchia formula:
PULSIONE → ANGOSCIA → MECCANISMO DI DIFESA*
è sostituita da
CONSAPEVOLEZZA → ANGOSCIA → MECCANISMO DI DIFESA* DI UNA PREOCCUPAZIONE ULTIMA
Entrambe le formule presumono che l’angoscia sia il combustibile della psicopatologia; che le operazioni psichiche, alcune consce e altre inconsce, si evolvano per fronteggiare l’angoscia; che queste operazioni psichiche (meccanismi di difesa) costituiscano la psicopatologia; e che, anche se producono sicurezza, invariabilmente limitano la crescita e l’esperienza. Una differenza considerevole tra questi due approcci dinamici è che la sequenza di Freud comincia con una “pulsione”, laddove una struttura esistenziale comincia con consapevolezza e paura. Come ben sapeva Otto Rank6, il terapeuta ha un’influenza di gran lunga superiore se considera l’individuo in primo luogo come un essere impaurito e sofferente, piuttosto che come qualcuno guidato dall’istinto. Queste quattro preoccupazioni ultime – la morte, la libertà, l’isolamento e l’assenza di senso – costituiscono il corpus della psicodinamica esistenziale. Rivestono un ruolo di straordinaria importanza a ogni livello dell’organizzazione psichica individuale e hanno enorme rilevanza per il lavoro clinico. Offrono anche un principio organizzativo centrale: le quattro sezioni di questo libro si focalizzano su ciascuna preoccupazione ultima ed esplorano le implicazioni filosofiche, psicopatologiche e terapeutiche di ciascuna di esse.
Un’altra differenza importante tra la dinamica esistenziale e le dinamiche freudiane e neo-freudiane coinvolge la definizione di “profondità”. Per Freud l’esplorazione era sempre sinonimo di scavo. Con l’intenzionalità e la pazienza di un archeologo, rimuoveva i numerosi strati della psiche fino a quando non raggiungeva il sostrato roccioso, un livello di conflitti fondamentali che erano il residuo psicologico degli eventi precoci della vita dell’individuo. Il conflitto più profondo identificava il conflitto più antico. La psicodinamica di Freud si basa quindi su un’idea evolutiva, e i conflitti fondamentali o primari devono essere intesi cronologicamente. Di conseguenza, per esempio, le prime calamità psicosessuali, ovvero la separazione e la castrazione, sono considerate le fonti più antiche dell’angoscia.
La dinamica esistenziale non è invece legata a un modello evolutivo. Non c’è la ragione stringente di presumere che “fondamentale” (cioè importante, basico) e “primo” (nel senso di più antico) siano concetti identici. Esplorare profondamente da una prospettiva esistenziale non significa esplorare il passato, ma spazzare via le preoccupazioni quotidiane e pensare alla propria situazione esistenziale. Significa pensare fuori dal tempo, pensare alla relazione tra i propri piedi e il terreno sotto di sé, tra la propria coscienza e lo spazio che la circonda; significa non pensare al modo in cui si è diventati quello che si è, ma al fatto che si è. Il passato, ovvero il proprio ricordo del passato, è importante nella misura in cui è parte dell’esistenza corrente di un individuo e ha contribuito al modo corrente in cui quest’individuo affronta le proprie preoccupazioni ultime; ma non è, come dimostrerò in seguito, l’area più fertile per l’esplorazione terapeutica. Il futuro-che-diventa-presente è il tempo principale utilizzato dalla terapia esistenziale.
Questa distinzione non significa che non si possano esplorare fattori esistenziali all’interno di una struttura evolutiva (per l’esplorazione dell’evoluzione del concetto di morte nel bambino si veda il capitolo 3). Ma le questioni evolutive non sono pertinenti quando un individuo chiede: «In questo momento, ai livelli più profondi del mio essere, quali sono le fonti più fondamentali di terrore?» Le primissime esperienze, per quanto indiscutibilmente importanti nella vita, non offrono una risposta a questa domanda fondamentale. In effetti il residuo della prima parte della vita crea un’interferenza biologica che serve a oscurare la risposta. La risposta alla richiesta è transpersonale, trascende la vita personale di qualsiasi individuo. È una risposta che si applica a qualsiasi persona, fa parte della “situazione” dell’essere umano nel mondo.
Questa distinzione tra un modello evolutivo, dinamico e analitico e quello immediato, astorico, esistenziale possiede un interesse più che teoretico: come dimostrerò nei capitoli seguenti, possiede profonde implicazioni soprattutto per la pratica clinica del terapeuta.
A un clinico gran parte del mio materiale sulle preoccupazioni ultime potrebbe apparire strano e tuttavia, in modo bizzarro, familiare. Potrebbe apparire strano in quanto l’approccio esistenziale trascende le categorie comuni e raggruppa le osservazioni cliniche in modo narrativo. Inoltre, gran parte del vocabolario è differente: anche se evito il gergo del filosofo di professione e uso termini d’uso comune per descrivere i concetti esistenziali, il clinico troverà il linguaggio alieno all’ambito della psicologia. Quale lessico della psicoterapia contiene termini quali “scelta”, “responsabilità”, “libertà”, “isolamento esistenziale”, “mortalità”, “scopo della vita”, “volontà”?
Tuttavia il clinico potrebbe trovarci molto di familiare. Credo che un clinico esperto spesso operi implicitamente all’interno di una struttura esistenziale: “dentro” di sé comprende le preoccupazioni del paziente, e risponde di conseguenza. Tale risposta è quello a cui prima alludevo parlando delle cruciali aggiunte che risolvono una terapia. Uno degli obiettivi principali di questo libro è quello di spostare il punto focale del terapeuta, spingerlo a occuparsi con attenzione di quelle preoccupazioni vitali e delle transazioni terapeutiche che si verificano alla periferia della terapia formale e metterle nel luogo a cui appartengono, vale a dire al centro dell’arena terapeutica.
Un’altra nota familiare è che le maggiori preoccupazioni ultime sono state oggetto di riflessione e osservazione fin dall’inizio dell’esistenza del pensiero scritto, e la loro supremazia è stata riconosciuta da un flusso ininterrotto di filosofi, teologi e poeti. Questo può infastidire il nostro senso d’orgoglio per la modernità, il nostro senso di appartenere a un’eterna spirale di progresso; ma da un’altra prospettiva possiamo sentirci rassicurati dall’idea di percorrere una via già percorsa da altri, che risale indietro nel tempo ed è stata tracciata dai più grandi pensatori dell’umanità.
Queste fonti esistenziali di terrore sono familiari anche perché costituiscono l’esperienza del terapeuta in quanto essere umano; non sono in alcun modo la provincia esclusiva dell’individuo con problemi psicologici: torno a ripetere e a sottolineare che sono parte della condizione umana. Ci si potrebbe chiedere: «Com’è possibile che una teoria della psicopatologia* si basi su fattori che sono sperimentati da ogni individuo?» La risposta, naturalmente, è che ogni persona sperimenta la tensione della condizione umana in modi altamente individualizzati. Da questo punto di vista il modello esistenziale non differisce in modo significativo da qualsiasi altra teoria. Ogni individuo passa attraverso certe fasi evolutive, ognuna con le rispettive ansie. Ogni individuo passa attraverso il conflitto edipico, l’emersione inquietante di sentimenti aggressivi e sessuali, l’ansia di castrazione (per lo meno per i maschi), il dolore dell’individuazione e della separazione, e molte altre gravi sfide evolutive. L’unico modello di psicopatologia che non si basa su fattori sperimentati universalmente è quello causato da un trauma acuto. Tuttavia, le nevrosi traumatiche sono rare. La stragrande maggioranza dei pazienti soffre per una tensione che in gradi differenti è parte dell’esperienza di ogni persona.
In effetti, solo l’universalità della sofferenza umana può contribuire all’osservazione comune che la condizione dell’essere un paziente è ubiquitaria. André Malraux una volta chiese a un prete di parrocchia che aveva raccolto confessioni per cinquant’anni che cosa avesse imparato del genere umano. Il prete rispose: «Innanzi tutto, che la gente è molto più infelice di quanto si pensi […] e poi il fatto fondamentale è che non esiste quella che si definisce una persona adulta»7. Spesso sono solo le circostanze esterne che danno come risultato che una persona piuttosto che un’altra sia etichettata come paziente: per esempio, le risorse finanziarie, la possibilità di accedere a uno psicoterapeuta, attitudini personali e culturali nei confronti della terapia, o scelte professionali: la maggior parte degli psicoterapeuti diventa tale dopo essere stata paziente. L’universalità della tensione è una delle ragioni principali che gli studiosi trovano così difficile da definire quando tentano di descrivere la normalità: la differenza tra normalità e patologia è quantitativa, non qualitativa.
Questo modello sembra analogo a uno schema medico secondo il quale le malattie infettive non sono il semplice risultato di un agente batterico o virale che invade un corpo privo di difese. La malattia è, piuttosto, uno squilibrio tra l’agente patogeno e la resistenza di chi lo ospita. In altre parole, l’agente patogeno è in ogni momento presente nel corpo, proprio come le tensioni, inseparabili dal vivere, si presentano a ciascun individuo. Se un individuo sviluppa una malattia clinica, ciò dipende dalla resistenza del corpo (da fattori quali il sistema immunitario, la nutrizione, e la stanchezza) all’agente: quando la resistenza è abbassata, la malattia si sviluppa, anche se la tossicità e il vigore dell’agente patogeno rimangono immutati. In tal modo tutti gli esseri umani sono in preda a un dilemma, ma alcuni non sono in grado di affrontarlo: la psicopatologia non dipende semplicemente dalla presenza o dall’assenza della tensione, ma dall’interazione tra la tensione ubiquitaria e i meccanismi di difesa dell’individuo.
Sostenere che le preoccupazioni esistenziali ultime non si manifestino nella terapia è un’affermazione alimentata unicamente dalla disattenzione selettiva del terapeuta: un ascoltatore che sia sintonizzato sul canale giusto trova, invece, materiale esplicito e abbondante. Un terapeuta può scegliere, naturalmente, di non occuparsi delle preoccupazioni esistenziali ultime proprio perché si tratta di esperienze universali, e di conseguenza nulla di costruttivo può venire dall’esplorarle. In effetti nel corso del lavoro clinico ho notato spesso che, quando le preoccupazioni esistenziali sono toccate, il terapeuta e il paziente ne traggono una forte energia per un breve periodo di tempo. Ma quasi subito la discussione diventa frammentaria, e il paziente e il terapeuta sembrano affermare tacitamente: «Beh, è la vita, non è vero? Spostiamoci su qualcosa di nevrotico, qualcosa su cui in qualche modo si possa agire!»
Altri terapeuti schivano le preoccupazioni esistenziali non solo perché queste preoccupazioni sono universali, ma perché sono troppo terribili da affrontare. Dopo tutto i pazienti nevrotici (e anche i terapeuti) hanno già abbastanza di cui preoccuparsi senza aggiungere delle questioni così allegre quali la morte e l’assenza di senso. Questi terapeuti credono che sia meglio ignorare le questioni esistenziali, dato che ci sono solo due modi per avere a che fare con gli eventi esistenziali brutali della vita – verità ansiogena o negazione – ed entrambi sono molesti. Miguel de Cervantes diede voce al problema quando il suo immortale Don affermò: «Cosa vorresti, una saggia follia o una folle sanità mentale?»
Una posizione terapeutica esistenziale, come cerco di dimostrare nei capitoli successivi, respinge questo dilemma. La saggezza non conduce alla follia, né la negazione alla sanità mentale: lo scontro con i dati fondamentali dell’esistenza è doloroso ma a conti fatti curativo. Un buon lavoro terapeutico è sempre abbinato alla prova della realtà e alla ricerca dell’ispirazione personale: quando il terapeuta decide che certi aspetti della realtà e della verità devono essere respinti si muove su un terreno infido. L’osservazione di Thomas Hardy – «se c’è una via verso il Meglio, essa esige che si guardi bene il Peggio»8 – è una buona cornice per l’approccio terapeutico che intendo descrivere.
La psicoterapia esistenziale assomiglia molto a un trovatello senza dimora. Non “appartiene” davvero a nulla. Non ha un luogo d’origine, non ha una scuola formale, non ha istituzioni e non è generalmente bene accolta dalle migliori élite accademiche. Non ha circoli sociali formali, non ha riviste potenti (i timidi tentativi iniziali le sono stati sottratti già nei primi anni), non ha una famiglia stabile, non ha un pater familias. Ha invece una genealogia, qualche cugino sparso qua e là e anche qualche amico di famiglia, alcuni nel Vecchio Mondo, altri negli Stati Uniti.
«L’esistenzialismo non è facilmente definibile». Così inizia la discussione della filosofia esistenziale o esistenzialista nelle principali enciclopedie di filosofia9. La maggior parte degli altri lavori di riferimento comincia in modo simile e sottolinea il fatto che due filosofi etichettati come “esistenziali” possono essere in disaccordo su ogni elemento essenziale (a eccezione della condivisa avversione verso questa categorizzazione). La maggior parte dei testi filosofici risolve il problema della definizione elencando un numero di temi collegati all’esistenza (per esempio l’essere, la scelta, la libertà, la morte, l’isolamento e l’assurdità) e proclamando che un filosofo esistenziale è colui il cui lavoro è dedicato a esplorarli (questa, naturalmente, è la strategia che adotto per identificare il campo della psicoterapia esistenziale).
In filosofia esistono una “tradizione” esistenziale e una “scuola” esistenziale formale. Ovviamente la tradizione esistenziale è senza tempo. Quale grande pensatore a un certo punto del suo lavoro e della sua vita non si è dedicato alle questioni della vita e della morte? La scuola formale della filosofia esistenziale ha, di contro, degli inizi chiaramente tracciati. Alcuni li fanno risalire a una domenica pomeriggio del 1834, quando un giovane danese sedette in un caffè fumando un sigaro e si mise a riflettere sul fatto che si stava avviando a diventare vecchio senza aver dato alcun contributo al mondo. Pensò ai suoi numerosi amici di successo:
[…] Dappertutto invece dove tu volgi lo sguardo, nella letteratura come nella vita, vedi i nomi e le figure degli uomini celebri, gli uomini preclari e applauditi; quelli che si fanno avanti e parlano salutati dalle acclamazioni, i numerosi benefattori dell’epoca che sanno essere utili all’umanità col rendere la vita sempre più facile, alcuni con le ferrovie, altri con gli omnibus e i battelli a vapore, altri col telegrafo, altri con concezioni facili e brevi comunicazioni di tutto quel ch’è utile sapere; e infine i veri benefattori dell’epoca i quali, in virtù del pensiero sistematico, rendono la vita dello spirito sempre più facile eppure sempre più importante10.
Il suo sigaro si consumò. Il giovane danese, Søren Kierkegaard, ne accese un altro e continuò a riflettere. All’improvviso nella sua mente balenò questo pensiero:
Tu devi fare qualcosa, ma poiché sarebbe impossibile per le tue forze limitate rendere qua cosa più facile di quel che non sia stato già fatto, tu devi col medesimo entusiasmo di umana simpatia di quegli altri famosi, assumerti il compito di renderlo più difficile11.
Ragionò che quando tutto si combina per rendere ogni cosa più semplice, allora si corre il rischio che la facilità sia eccessiva. Forse è necessario che qualcuno renda di nuovo tutto difficoltoso. Gli venne in mente che, forse, aveva scoperto il proprio destino: doveva andare in cerca delle difficoltà, come un nuovo Socrate12. Ma di quali difficoltà doveva andare in cerca? Non erano difficili da trovare, ma doveva considerare la propria situazione nell’esistenza, il proprio terrore, le proprie scelte, le possibilità e le limitazioni.
Kierkegaard dedicò quel che restava della sua breve vita all’esplorazione della propria situazione esistenziale, e durante gli anni Quaranta del XIX secolo pubblicò diversi trattati di grande importanza. Per molti anni il suo lavoro non fu tradotto ed esercitò quindi scarsa influenza fino a dopo la Prima guerra mondiale, quando trovò terreno fertile e fu ripreso da Martin Heidegger e Karl Jaspers.
La relazione tra la terapia esistenziale e la scuola di filosofia esistenziale è molto simile a quella tra la farmacoterapia clinica e la ricerca biochimica condotta in laboratorio. In questo volume faccio spesso ricorso a opere filosofiche per spiegare, corroborare o illustrare alcune delle questioni cliniche, ma non è mia intenzione (né fa parte dell’ambito della mia ricerca) discutere in modo esauriente il pensiero di un qualsiasi filosofo o i principi fondamentali della filosofia esistenziale. Questo è un libro per clinici, ed è mia intenzione che sia clinicamente utile. Le mie incursioni nella filosofia sono brevi e pragmatiche: mi limito a quegli ambiti che offrono un vantaggio per il lavoro clinico. Non posso rimproverare il filosofo di professione che mi voglia paragonare a un razziatore vichingo che si porta via le pietre preziose lasciandosi alle spalle le altrettanto preziose montature.
Dato che la formazione della grande maggioranza degli psicoterapeuti include poca o nessuna conoscenza filosofica, non do per scontata alcuna esperienza filosofica nei miei lettori. Quando faccio ricorso a testi filosofici, tento di farlo in modo diretto, senza utilizzare il gergo filosofico: un compito non facile, dato che i filosofi esistenzialisti superano persino i teorici psicoanalitici nell’uso di un linguaggio oscuro e contorto. Il testo filosofico principale in questo ambito, Essere e tempo di Heidegger, merita da solo la palma di campione indiscusso dell’ermetismo linguistico.
Non ho mai capito la ragione di questo linguaggio impenetrabile e altisonante. I concetti esistenziali di base non sono complessi, non hanno bisogno di essere decodificati e analizzati meticolosamente, né di essere rivelati. Tutti, in qualche periodo della propria vita, passano attraverso momenti di malinconia che hanno a che fare con le preoccupazioni esistenziali. Quello che è richiesto non è una spiegazione formale: il compito del filosofo, nonché del terapeuta, è di togliere gli elementi di repressione e riabituare l’individuo e il paziente a qualcosa che hanno sempre conosciuto. Questa è precisamente la ragione per cui molti dei principali pensatori esistenzialisti (per esempio, tra gli altri, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Miguel de Unamuno, Martin Buber) preferiscono l’esposizione letteraria all’argomentazione filosofica formale. Il filosofo e il terapeuta devono incoraggiare l’individuo a guardare dentro di sé e a occuparsi della propria situazione esistenziale.
Un certo numero di psichiatri europei si oppose ai fondamenti di base dell’approccio psicoanalitico freudiano. Questi rifiutarono il modello proposto da Freud del funzionamento psichico nonché gli sforzi di comprendere l’essere umano tramite uno schema di conservazione dell’energia preso a prestito dalle scienze fisiche, e suggerirono che tale approccio si risolveva in una visione inadeguata dell’essere umano. Se si applica un unico schema per spiegare tutti gli individui, affermavano, si ignora l’esperienza unica di quella persona particolare. Si opposero al suo riduzionismo (ovvero a riportare tutto il comportamento umano a poche pulsioni di base), al suo materialismo (ovvero a spiegare quel che è più alto nei termini di quello che è più basso) e al suo determinismo (ovvero la convinzione che tutto il funzionamento mentale sia causato da fattori identificabili già esistenti).
Questi analisti esistenziali concordavano su un fondamentale elemento procedurale: l’analista deve trattare il paziente da un punto di vista fenomenologico, deve cioè entrare nel mondo esperienziale e ascoltare i fenomeni di quel mondo senza le presupposizioni che possono distorcerne la comprensione. Come sostenuto da Ludwig Binswanger, uno dei più noti analisti esistenziali, «non c’è uno spazio e un tempo soltanto, ma tanti spazi e tanti tempi quanti sono i soggetti»13.
Lasciando da parte le loro reazioni contro il modello meccanicistico e deterministico della mente proposto da Freud e la loro assunzione di un approccio fenomenologico nella terapia, gli analisti esistenziali hanno poco in comune e non sono mai stati considerati una scuola ideologica coesa. Questi pensatori, tra i quali figurano Ludwig Binswanger, Medard Boss, Eugène Minkowski, V.E. von Gebsattel, Roland Kuhn, G. Caruso, F.T. Buytendijk, G. Bally e Viktor Frankl, erano quasi completamente sconosciuti nella comunità psicoterapeutica americana fino a quando, nel 1958, il volume Existence di Rollo May fu pubblicato negli Stati Uniti14.
Tuttavia è sorprendente che ancora oggi tali figure esercitino un’influenza così ridotta sulla pratica psicoterapeutica americana. Sono poco più che dei volti sconosciuti di dagherrotipi sbiaditi in un album di foto di famiglia. Questa trascuratezza è in parte il risultato di una barriera linguistica: a eccezione di alcuni scritti di Binswanger, Boss e Frankl, questi filosofi sono stati raramente tradotti. Per lo più, tuttavia, è una conseguenza della natura astrusa dei loro scritti, immersi in una Weltanschauung filosofica continentale del tutto fuori sincronia rispetto alla tradizione pragmatica americana nella terapia. Così gli analisti esistenziali continentali restano dei cugini sparpagliati e per lo più perduti dell’approccio esistenziale nella terapia. Non faccio molto ricorso a loro in questo libro, con l’unica eccezione di Frankl, un eminente pensatore pragmatico la cui opera è stata ampiamente tradotta.
In Europa la tendenza analitica esistenziale nacque dal desiderio di applicare concetti filosofici a uno studio clinico della persona e dalla reazione al modello di uomo proposto da Freud. Negli Stati Uniti un movimento analogo cominciò a emergere verso la fine degli anni Cinquanta per poi rafforzarsi negli anni Sessanta e disperdersi in molteplici direzioni negli anni Settanta.
Negli anni Cinquanta la psicologia accademica era da tempo dominata da due principali scuole ideologiche. La prima, e quella che di gran lunga ebbe il predominio più duraturo, fu il behaviorismo positivista scientifico; la seconda fu la psicoanalisi freudiana. Una voce minore tentò di farsi sentire per la prima volta sul finire degli anni Trenta e negli anni Quaranta: apparteneva a psicologi anormali e sociali che faticavano a rimanere entro i bastioni della psicologia sperimentale. Quei teorici della personalità (per esempio Gordon Allport, Henry Murray e Gardner Murphy e, in seguito, George Kelly, Abraham Maslow, Carl Rogers e Rollo May) si sentirono gradualmente a disagio nei confronti dei limiti delle due scuole. Sentivano che entrambi gli approcci ideologici alla persona escludevano alcune delle qualità più importanti che rendono umano l’essere umano, per esempio la scelta, i valori, l’amore, la creatività, la consapevolezza di sé, il potenziale umano. Nella prima metà degli anni Cinquanta istituirono formalmente una nuova scuola ideologica, che etichettarono con la definizione di «psicologia umanistica». La psicologia umanistica, alla quale a volte ci si riferisce come «Terza Forza» (dopo, appunto, il behaviorismo e la psicologia analitica), divenne una solida organizzazione con un numero di soci crescente e un’assemblea annuale frequentata da migliaia di professionisti. Nel 1961 l’associazione americana di psicologia umanistica fondò il Journal of Humanistic Psychology, che nel suo comitato editoriale incluse figure quali Carl Rogers, Rollo May, Lewis Mumford, Kurt Goldstein, Charlotte Bühler, Abraham Maslow, Aldous Huxley e James Bugental.
Al suo debutto, l’organizzazione nascente fece alcuni tentativi per definirsi formalmente. Nel 1962 dichiarò:
La psicologia umanistica si preoccupa per prima cosa di quelle capacità e potenzialità umane che hanno uno spazio limitato o non sistematico tanto nella teoria positivista o behaviorista quanto nella teoria psicoanalitica classica: per esempio l’amore, la creatività, il sé, la crescita, l’organismo, la gratificazione di base dei bisogni, l’attualizzazione di sé, i valori più elevati, l’essere, il divenire, la spontaneità, il gioco, l’umorismo, l’affetto, la naturalezza, il calore, la trascendenza dell’io, l’oggettività, l’autonomia, la responsabilità, il significato, la correttezza, l’esperienza trascendente, la salute psicologica e i concetti correlati15.
Nel 1963 il presidente dell’associazione, James Bugental, suggerì cinque postulati di base:
1. L’uomo, in quanto uomo, è più della somma delle sue parti (ovvero l’uomo non può essere capito da uno studio scientifico delle sue parti e funzioni).
2. L’uomo acquisisce il suo essere all’interno di un contesto umano (ovvero l’uomo non può essere capito dallo studio di sue parti e funzioni senza tener conto dell’esperienza interpersonale).
3. L’uomo è consapevole di se stesso (e non può essere capito da una psicologia che non riesce a riconoscere la consapevolezza di sé continua e a più livelli dell’uomo).
4. L’uomo è dotato della capacità di scelta (l’uomo non è un astante rispetto alla propria esistenza, egli crea la propria esperienza).
5. L’uomo è intenzionale* (l’uomo punta al futuro, ha uno scopo, dei valori e un significato)16.
Molti elementi di manifesto iniziale – in particolare l’antideterminismo, l’enfasi sulla libertà, la scelta, lo scopo, i valori, la responsabilità, la dedizione all’apprezzamento del mondo esperienziale unico di ciascun individuo – sono di grande importanza nel quadro esistenziale di questo libro. Ma l’ambito americano della psicologia umanistica non è affatto paragonabile alla tradizione esistenziale continentale. C’è una differenza fondamentale nell’accento. La tradizione esistenziale europea ha sempre enfatizzato le limitazioni umane e la dimensione tragica dell’esistenza, e le ragioni possono essere rintracciate nel fatto che gli europei hanno maggiore familiarità con il confinamento geografico ed etnico, con la guerra, la morte e l’esistenza incerta. Gli Stati Uniti (nonché la psicologia umanistica che hanno generato) erano immersi in uno Zeitgeist di espansività, ottimismo, orizzonti illimitati e pragmatismo. Di conseguenza, la forma di pensiero esistenziale importata è stata sistematicamente alterata. Ciascun fondamento di base possiede un forte accento tipico del Nuovo Mondo. La concentrazione dell’impostazione europea è sui limiti, sull’affrontare e sull’accettare l’angoscia dell’incertezza e del non essere. Gli psicologi umanisti, d’altro canto, parlano meno di limiti e di contingenza che di sviluppo del potenziale, meno di accettazione che di consapevolezza, meno di angoscia che di esperienze culminanti e di unità oceanica, meno di significato della vita che di realizzazione di sé, meno di separazione e isolamento di base che di rapporto io-tu e di incontro.
Negli anni Sessanta la controcultura e i relativi fenomeni sociali (il movimento per la libertà di espressione, i figli dei fiori, l’utilizzo di droghe, i potenzialisti umani, la rivoluzione sessuale) inghiottirono il movimento psicologico umanista e in breve le riunioni dell’associazione divennero una sorta di parco divertimenti. Il grande padiglione della psicologia umanista era se non altro generoso, e in breve incluse un numero incredibile di scuole che riuscivano a stento a comunicare l’una con l’altra in una sorta di esperanto esistenziale. La terapia della Gestalt, la terapia transpersonale, i gruppi d’incontro, la medicina olistica, la psicosintesi, il Sufi e molti, molti altri gruppi si buttarono nell’arena. Le nuove tendenze avevano orientamenti di valori dotati di implicazioni significative per la psicoterapia. C’era un’enfasi sull’edonismo («se dà una bella sensazione, fallo»), sull’antintellettualismo (che considera qualsiasi approccio cognitivo come qualcosa che «ti fotte il cervello»), sulla realizzazione individuale («fai le tue cose», «esperienze culminanti»), e sull’attualizzazione di sé (la fede nella perfettibilità umana è comune alla maggior parte degli psicologi umanisti con la notevole eccezione di Rollo May, più profondamente radicato nella tradizione psicologica esistenziale).
Queste tendenze proliferanti, in particolare le spinte all’antintellettualismo, produssero un divorzio tra la psicologia umanista e la comunità accademica. All’epoca gli psicologi umanisti titolari di incarichi accademici si sentirono a disagio per la compagnia che avevano scelto e, a poco a poco, si allontanarono dalle tendenze proliferanti. Fritz Perls, già di per sé ben lontano dall’essere un difensore della disciplina, espresse una grande preoccupazione riguardo a un approccio basato sulla «consapevolezza sensoriale istantanea»17, sulla ricerca di sensazioni e sul «tutto va bene», e alla fine le tre figure che avevano fornito alla psicologia umanista la guida intellettuale iniziale (May, Rogers e Maslow) espressero forti riserve riguardo a queste tendenze irrazionali e finirono per ridurre il loro sostegno attivo.
La psicoterapia esistenziale ha intrecciato una relazione piuttosto vaga con la psicologia umanista. Entrambe condividono molti elementi fondamentali, e molti psicologi umanisti hanno un orientamento esistenziale. Tra questi, Maslow, Perls, Bugental, Bühler e specialmente Rollo May sono spesso citati nel testo.
Rimane un gruppo di parenti che definisco «psicoanalisti umanisti» e che si erano separati molto presto dall’albero genealogico fin qui descritto. Anche se non si sono mai considerati un clan, spesso si sono richiamati l’un l’altro nelle loro riflessioni. I principali rappresentanti di questo gruppo (Otto Rank, Karen Horney, Erich Fromm e Helmut Kaiser) si erano tutti formati nel contesto della tradizione psicoanalitica freudiana europea prima di emigrare negli Stati Uniti e tutti, a eccezione di Rank, diedero il loro principale contributo mentre erano immersi nella comunità intellettuale americana. Ciascuno di loro respingeva il modello freudiano di comportamento umano e suggeriva dei correttivi importanti. Anche se il loro lavoro aveva una portata ben maggiore, tutti, per un certo periodo di tempo, si dedicarono ad alcuni aspetti della terapia esistenziale. Rank, i cui contributi sono stati brillantemente argomentati dal suo interprete Ernest Becker, enfatizzò l’importanza della volontà e dell’angoscia della morte; Horney si concentrò sul ruolo cruciale del futuro in quanto elemento in grado di influenzare il comportamento (l’individuo è motivato da uno scopo, da ideali e obiettivi piuttosto che essere formato e determinato da eventi passati); Fromm illuminò magistralmente il ruolo e la paura della libertà nel comportamento; Kaiser si è occupato della responsabilità e dell’isolamento.
In aggiunta a queste diramazioni di filosofi, psicologi umanisti e psicoanalisti orientati umanisticamente, l’albero genealogico della terapia esistenziale contiene un altro importante ramo, costituito dai grandi scrittori che, in modo non meno compiuto dei loro confratelli, hanno esplorato e spiegato le questioni esistenziali. In questo modo le voci di Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, Sartre, Camus e molti altri illustri maestri echeggiano di frequente all’interno di questo libro. La grande letteratura sopravvive, come sottolineato da Freud nella sua conferenza su Edipo re18, perché qualcosa salta fuori dal lettore per abbracciarne la verità. La verità dei personaggi letterari ci commuove perché è la nostra verità. Inoltre, le grandi opere della letteratura ci insegnano molto su noi stessi perché sono terribilmente oneste, oneste come dati clinici: ogni grande romanziere, per quanto la sua personalità si declini nei numerosi personaggi, è altamente autorivelatorio. Thornton Wilder una volta scrisse: «Se la regina Elisabetta o Federico il Grande o Ernest Hemingway dovessero leggere le loro biografie, esclamerebbero: “Ah, il mio segreto è ancora al sicuro!” Ma se Nataša Rostova dovesse leggere Guerra e pace esclamerebbe, coprendosi il volto con le mani: “Come ha fatto a saperlo? Come ha fatto?”»19
Consideriamo la carriera tipica di un accademico (e non parlo solo su un piano teorico, ma basandomi sui miei vent’anni di carriera universitaria): il giovane lettore o assistente viene reclutato perché mostra attitudine e motivazione per la ricerca empirica, e in seguito viene ricompensato e promosso per aver eseguito la ricerca in modo accurato e metodico. La decisione cruciale dell’assegnazione di un titolo accademico è presa sulla base della quantità di ricerca empirica pubblicata su riviste scientifiche di riferimento. Ad altri fattori, quali le capacità pedagogiche e i libri non empirici, i capitoli di libri e i saggi, viene concessa una considerazione decisamente inferiore.
Per uno studioso è straordinariamente difficile costruirsi una carriera accademica basata su investigazioni empiriche di questioni esistenziali. I fondamenti di base della terapia esistenziale sono tali che i metodi di ricerca empirica sono spesso inapplicabili o inappropriati. Per esempio, il metodo di ricerca empirica richiede che l’investigatore studi un organismo complesso scomponendolo nelle sue varie parti, affinché ciascuna di esse sia abbastanza semplice da permettere un’investigazione empirica. Tuttavia, questo principio fondamentale nega un principio esistenziale di base, come bene illustrato dal seguente aneddoto raccontato da Frankl.
Due vicini erano coinvolti in un’aspra disputa. Uno affermava che il gatto dell’altro aveva mangiato il suo burro e, di conseguenza, esigeva un risarcimento. Non riuscendo a risolvere il problema, i due si erano recati dal saggio del villaggio portandosi dietro il gatto accusato, per avere un giudizio. Il saggio aveva chiesto all’accusatore: «Quanto burro ha mangiato il gatto?» La risposta era stata: «Dieci libbre». Il saggio aveva messo il gatto su una bilancia e, portento dei portenti, il gatto pesava esattamente dieci libbre. «Mirabile dictu!» affermò. «Ecco qui il burro. Ma dov’è il gatto?» aggiunse20.
Dov’è il gatto? Tutte le parti prese nel loro complesso non ricostruiscono la creatura. Un credo umanista fondamentale è che l’uomo è più grande della somma delle sue parti. Non importa con quanta accuratezza uno comprenda le parti composite della mente – per esempio il conscio e l’inconscio, il Super-io, l’Io e l’Es – perché in ogni caso non riesce ad afferrare l’organizzazione vitale centrale. Inoltre l’approccio empirico non aiuta mai a capire il significato di questa struttura psichica per la persona che la possiede. Il significato non può mai essere ottenuto da uno studio delle parti che lo compongono, perché il significato non è mai causato: è creato da una persona che è posta al di sopra di tutte le sue parti.
Ma nell’approccio esistenziale c’è un problema ancora più fondamentale per la ricerca empirica. Rollo May alludeva a tale problema quando definiva l’esistenzialismo come «il tentativo di comprendere l’uomo tagliando fuori la frattura tra soggetto e oggetto che ha assillato il pensiero e la scienza occidentali fin dal Rinascimento»21. Diamo un’occhiata più da vicino alla frattura tra soggetto e oggetto. La posizione esistenziale sfida la visione cartesiana tradizionale di un mondo pieno di oggetti e di soggetti che li percepiscono. Ovviamente questa è la premessa di base del metodo scientifico: ci sono oggetti che sono un insieme finito di proprietà comprensibili tramite un’investigazione oggettiva. La posizione esistenziale taglia fuori la frattura tra soggetto e oggetto e considera la persona non come un soggetto che può, in determinate circostanze, percepire la realtà esterna, ma come una coscienza che partecipa alla costruzione della realtà. Per enfatizzare questo punto Heidegger parlava sempre dell’essere umano in quanto Dasein. Da (lì) si riferisce al fatto che la persona è un oggetto costituito (un “io empirico”), ma al tempo stesso costituisce il mondo (un “io trascendente”). Dasein è al tempo stesso quello che dà significato e quello che è conosciuto. Ogni Dasein costituisce dunque il suo proprio mondo. Studiare tutti gli esseri con uno strumento standard come se abitassero lo stesso mondo oggettivo, significa introdurre un errore monumentale nelle proprie osservazioni.
È importante tenere a mente che le limitazioni della ricerca della psicoterapia empirica non sono confinate a un orientamento esistenziale nella terapia; è solo che nell’approccio esistenziale sono più esplicite. Nella misura in cui la terapia è un’esperienza umana profonda e personale, lo studio empirico della psicoterapia di qualsiasi scuola ideologica conterrà errori e sarà di valore limitato. È risaputo che la ricerca psicoterapeutica ha avuto, almeno nei suoi primi trent’anni di storia, un impatto minimo sulla pratica della terapia. In effetti, come notato tristemente da Carl Rogers, padre fondatore della ricerca psicoterapeutica empirica, nemmeno i ricercatori di psicoterapia prendono le scoperte della loro ricerca abbastanza sul serio da alterare il loro approccio alla psicoterapia22.
È anche risaputo che la grande maggioranza dei clinici smette di fare ricerca empirica quando porta a termine la sua dissertazione o si guadagna una docenza. Se la ricerca empirica è un valido tentativo per cercare e trovare la verità, perché mai gli psicologi e gli psichiatri, dopo avere adempiuto alle richieste accademiche, mettono da parte una volta per tutte le loro tabelle di numeri aleatori? Sono convinto che, quando il clinico diventa più maturo, comincia a poco a poco a prendere coscienza dei problemi sconcertanti inerenti a uno studio empirico della psicoterapia.
Una mia esperienza personale può chiarire questo punto. Diversi anni fa insieme a due colleghi conducemmo un ampio progetto di ricerca sul processo e sull’esito dei gruppi d’incontro. Pubblicammo i risultati in un libro intitolato Encounter Groups23, subito considerato un punto di riferimento per la precisione nel lavoro clinico ma altrettanto violentemente attaccato da molti psicologi umanisti. Infatti un numero del già citato Journal of Humanistic Psychology fu dedicato a un attacco vigoroso a questo lavoro. I miei due colleghi risposero punto per punto alle critiche, ma io mi rifiutai di farlo. Da un lato ero completamente assorbito dalla stesura del libro che state leggendo, ma a un livello più profondo avevo dei dubbi riguardo il significato della nostra ricerca, non per i motivi che avevano suscitato quell’attacco pubblico, ma per qualcos’altro: non riuscivo a credere che la vera esperienza dei partecipanti fosse adeguatamente descritta dal nostro approccio statistico altamente tecnico e computerizzato. Una conclusione di fondamentale importanza per il nostro lavoro mi preoccupava in modo particolare: avevamo utilizzato una batteria molto ampia di strumenti psicologici per valutare quanto ciascun partecipante a un gruppo d’incontro fosse cambiato24. Le misurazioni dei risultati erano state prese da quattro prospettive diverse: 1) quella del partecipante stesso; 2) quella del leader del gruppo; 3) quella degli altri partecipanti al gruppo; 4) quella della rete sociale del partecipante. La correlazione tra le quattro prospettive era pari a zero! In altre parole, c’era una correlazione di ordine zero tra le varie fonti di informazioni su chi fosse cambiato e su quanto fosse cambiato.
Naturalmente esistono dei metodi statistici per leggere questa conclusione, ma rimane il fatto che la valutazione del risultato è altamente relativa e dipende moltissimo dalla fonte d’informazione. E il problema non è confinato solo a questo progetto: affligge qualsiasi studio dei risultati di una psicoterapia. Più metodi vengono usati per la valutazione, meno il ricercatore è certo del proprio risultato!
E i ricercatori come affrontano questo problema? Si può tentare di aumentare l’affidabilità ponendo meno domande e limitandosi a un’unica fonte di dati. Oppure ci si può tenere alla larga da criteri “soft” o soggettivi e misurare solo i criteri oggettivi, come la quantità di alcol consumata, il numero di volte in cui un coniuge interrompe l’altro in un dato periodo di tempo, il numero di bocconi di cibo ingeriti, la risposta galvanica della pelle, o la dimensione della tumescenza del pene mentre si guardano delle diapositive di giovani persone nude. Ma guai al ricercatore che cercherà di misurare fattori importanti quali la capacità di amare o di occuparsi di un’altra persona, la spontaneità, il senso dell’umorismo, il coraggio o l’impegno nella vita. Nella ricerca psicoterapeutica ci si trova ripetutamente davanti a un fatto elementare della vita: la precisione del risultato è direttamente proporzionale alla banalità delle variabili studiate. Che strano tipo di scienza!
Qual è l’alternativa? Il metodo adeguato per comprendere il mondo interiore di un altro individuo è quello “fenomenologico”, che consiste nel rivolgersi direttamente ai fenomeni stessi, incontrare l’altro senza supposizioni e strumenti “standardizzati”. Per quanto possibile si deve “mettere tra parentesi” la propria prospettiva sul mondo ed entrare nel mondo esperienziale dell’altro. Un simile approccio alla conoscenza di un’altra persona è decisamente praticabile in psicoterapia: ogni bravo terapeuta cerca di stabilire in questa maniera un legame con il paziente. È questo che si intende con empatia, presenza, ascolto genuino, accettazione senza giudizio, o con un atteggiamento di «disciplinata ingenuità»25, per usare una felice espressione di May. I terapeuti esistenziali hanno sempre sostenuto un approccio che tenti di capire il mondo privato del paziente invece di focalizzarsi su come il paziente ha deviato dalle “norme”. Ma questo approccio fenomenologico, che per definizione non è empirico, solleva problemi sorprendenti e ancora irrisolti per il ricercatore che tenta di raggiungere degli standard scientifici elevati nel proprio lavoro.
A dispetto di queste riserve, la formazione professionale mi ha costretto a considerare la ricerca esistente per ciascuna delle quattro preoccupazioni ultime, vale a dire la morte, la libertà, l’isolamento e l’assenza di senso. E, naturalmente, una ricerca accurata può gettare luce su diverse e importanti aree di indagine: per esempio, ci può dire con che frequenza i pazienti si preoccupano esplicitamente di questioni esistenziali o con che frequenza i terapeuti percepiscono queste preoccupazioni.
Per molti temi esistenziali che non sono stati studiati dai ricercatori ho esaminato ricerche in aree a essi vicine che potevano in qualche modo basarsi su quella questione. (Si veda il capitolo 6 per la discussione di una ricerca sul locus of control, rilevante per le aree della responsabilità e della volontà.)
Altri argomenti, per ragioni già discusse, non permettono una ricerca empirica. Di conseguenza i ricercatori hanno selezionato alcuni aspetti del problema che sono più adatti a essere studiati. Per esempio, come avremo modo di vedere, esistono molte scale di misurazione dell’angoscia della morte che studiano il fenomeno del terrore, ma in un modo così superficiale e normato da offrire ben pochi elementi chiarificatori. Mi viene in mente la storia di un uomo che di notte cercava la chiave che aveva perso sotto un lampione, dove la luce era migliore, e non nel vicolo buio dove era caduta. Cito questo tipo di ricerche con le dovute riserve.
Ci sono infine altri ambiti in cui la conoscenza deve rimanere intuitiva. Verità certe dell’esistenza sono così chiare e sicure che l’argomento logico o la corroborazione della ricerca empirica sembrano del tutto superflue. Si dice che il neuropsicologo Karl Lashley commentò: «Se insegni a un cane terrier a suonare il violino, non hai bisogno di un quartetto d’archi per dimostrarlo». Ho scritto questo libro cercando di utilizzare uno stile sufficientemente chiaro e privo di lessico specialistico per renderlo comprensibile al lettore non addetto ai lavori. Tuttavia, il pubblico principale per il quale è inteso è quello degli studenti e degli psicoterapeuti praticanti. È importante notare che, anche se non presumo che il lettore abbia una formazione filosofica, do però per scontata una qualche formazione clinica. Quest’opera non intende essere un testo di psicoterapia completo, tuttavia mi aspetto che il lettore abbia familiarità con sistemi esplicativi clinici convenzionali. Il mio compito, per come lo intendo, è di descrivere un approccio psicoterapico coerente basato su preoccupazioni esistenziali, un approccio che conferisca un ruolo esplicito alle procedure che la maggior parte dei terapeuti utilizza implicitamente.
Non ho la pretesa di descrivere la teoria della psicopatologia e della psicoterapia. Presento invece un paradigma, un costrutto psicologico, che offre ai clinici un sistema di spiegazione, vale a dire un sistema che permette loro di trovare un senso in un’ampia gamma di dati clinici e di formulare una strategia sistematica di psicoterapia. È un paradigma che ha un potere esplicativo considerevole, è parsimonioso (si basa su dei presupposti di base relativamente ridotti) ed è accessibile (i presupposti si basano su esperienze che possono essere percepite intuitivamente da ciascun individuo introspettivo). Inoltre è un paradigma basato su presupposti umanistici, in armonia con la natura profondamente umana dell’impresa terapeutica.
Ma è un paradigma, non il paradigma: è utile per alcuni pazienti, non per tutti; è utilizzabile da alcuni terapeuti, non da tutti. L’orientamento esistenziale è un approccio clinico tra altri approcci. Rimodella i dati clinici ma, come altri paradigmi, non ha un’egemonia esclusiva e non è in grado di spiegare tutto il comportamento. L’essere umano ha una complessità e una possibilità troppo grandi per permettere che ciò possa essere fatto.
L’esistenza è inesorabilmente libera e, quindi, incerta. Le istituzioni culturali e i costrutti psicologici spesso oscurano questo stato di cose, ma lo scontro con la situazione esistenziale di una persona fa rammentare che i paradigmi sono autocreati, sono barriere sottilissime contro il dolore dell’incertezza. Il terapeuta maturo deve essere in grado, nel suo approccio teoretico esistenziale come in qualsiasi altro approccio, di tollerare questa fondamentale incertezza.
* Dove l’angoscia è un segnale di pericolo, ovvero se alle pulsioni istintuali viene lasciato libero sfogo, l’organismo è messo in pericolo, dato che l’io sarà sopraffatto e una punizione di rappresaglia (castrazione-abbandono) è inevitabile; e i meccanismi di difesa limitano la gratificazione diretta della pulsione ma ne permettono un’espressione indiretta, in una forma dislocata e sublimata o simbolica.
* Dove l’angoscia è generata dalla paura della morte, dall’assenza di fondamento, dall’isolamento e dalla mancanza di senso, e i meccanismi di difesa sono di due tipi: 1) meccanismi di difesa convenzionali, che sono stati descritti accuratamente da Sigmund Freud, Anna Freud4 e Harry Stack Sullivan5, e che difendono generalmente l’individuo dall’angoscia indipendentemente dalla sua fonte; e 2) difese specifiche, che saranno discusse brevemente e che si manifestano per svolgere la funzione specifica dell’affrontare ciascuna delle paure esistenziali primarie.
* Qui, come altrove nel testo, faccio riferimento a disturbi psicologici di base e non alle psicosi più serie con un’origine fondamentale biochimica.
* Da distinguersi dall’uso filosofico dell’intenzionalità, che si riferisce al fenomeno secondo il quale la coscienza è sempre diretta verso un oggetto; ovvero la coscienza e sempre cosciente di qualcosa.