6. La responsabilità

La responsabilità ha molte connotazioni. Assegniamo la qualifica di “responsabile” a una persona della quale ci si può fidare. La responsabilità implica anche la capacità di rispondere di qualcosa, in ambito legale, finanziario o morale. Nel campo mentale la responsabilità si riferisce alla capacità del paziente di mantenere una condotta razionale e all’impegno morale del terapeuta verso il paziente. Sebbene nessuna di queste connotazioni sia interamente irrilevante per la nostra discussione, in queste pagine io uso il concetto di responsabilità in senso specifico, lo stesso senso usato da Jean-Paul Sartre quando scrisse che essere responsabile significa essere «l’autore incontestato di un evento o di una cosa»1. La responsabilità significa riconoscere la paternità di un comportamento o di un avvenimento. Essere consapevoli della responsabilità significa essere consapevoli del creare il proprio sé, il proprio destino, le proprie situazioni difficili nella vita, i propri sentimenti e, se dovesse essere il caso, la propria sofferenza. Per il paziente che non accetta tale responsabilità, che persiste nel rimproverare gli altri (si tratti di altri individui o di altre forze), della propria disforia, non esiste nessuna possibile terapia.

La responsabilità come
preoccupazione esistenziale

Come può la responsabilità essere esistenziale? Va da sé che la morte è una questione esistenziale: la mortalità e la finitezza sono fatti oggettivi dell’esistenza. Ma quando si parla di responsabilità o di volontà (si veda il capitolo 7), allora il referente esistenziale non è immediatamente evidente.

A livello più profondo la responsabilità è sinonimo di esistenza. La cosa mi divenne chiara molti anni fa grazie a una semplice esperienza così potente da imprimersi con forza nella mia mente. Stavo nuotando con la maschera nelle acque calde, soleggiate e trasparenti di una laguna tropicale e sperimentavo, come spesso mi capita quando sono nell’acqua, un profondo senso di piacere e intimità. Mi sentivo a casa. Il calore dell’acqua, la bellezza del fondale corallino, i pesciolini argentei, i pesci corallo dai colori brillanti, il regale pesce angelo, i carnosi anemoni di mare, il piacere estetico di scivolare e fendere le acque: tutto questo, assieme, creava una sorta di Campi Elisi sottomarini. E poi, per una ragione, che non ho ancora capito, ebbi un improvviso e radicale cambiamento di prospettiva. All’improvviso mi resi conto che nessuno dei miei compagni acquei condivideva la mia intensa esperienza. Il pesce angelo non sapeva di essere magnifico, i pesciolini di luccicare, il pesce corallo di brillare. Né, del resto, i ricci di mare neri o i detriti sul fondale (che cercavo di non vedere) sapevano di essere così sgradevoli. L’essere a casa, l’intimità, l’ora ridente, la bellezza, il fascino, il benessere: nulla di tutto ciò esisteva realmente. Avevo creato io l’intera esperienza! Allo stesso modo avrei potuto nuotare in acque inquinate da petrolio, piene di contenitori di plastica vuoti, e scegliere di considerarli bellissimi o disgustosi. Al livello più profondo la scelta e la creazione erano mie. Secondo l’espressione di Husserl il mio noema era esploso, e io ero diventato consapevole della mia funzione costitutiva. Era come se avessi sbirciato attraverso una lacerazione nel sipario della realtà quotidiana, osservando una realtà più fondamentale e profondamente disturbante.

Nel suo romanzo La nausea, in uno dei grandi passi della letteratura moderna, Sartre descrisse questo momento di illuminazione, la scoperta della responsabilità.

La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse e, con esse, il significato delle cose, modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo d’illuminazione.

Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire “esistere”. Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro «il mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano» ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un «gabbiano esistente» […] E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza si era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine – nude, d’una spaventosa e oscena nudità. […] Quella radice, al contrario, esisteva, e in modo che io non potevo spiegarla. Nodosa, inerte, senza nome, essa mi affascinava, mi riempiva gli occhi, mi riportava continuamente alla sua propria esistenza. Avevo un bel ripetermi: «È una radice» – non attaccava più2.

Il protagonista si confrontava con le brute «masse mostruose», con la «materia stessa delle cose», roba che non ha forma né significato fino a quando non è lui a fornirglielo. Venire a conoscenza della sua vera “situazione” gli piomberà addosso quando scoprirà la propria responsabilità nei confronti del mondo. Il mondo ha acquisito significato solo attraverso il modo in cui è stato costituito dall’essere umano, che Sartre ha denominato il «per sé». Non c’è significato nel mondo al di fuori o indipendentemente da questo per sé.

I filosofi occidentali e orientali si sono posti il problema della responsabilità dell’uomo per quel che riguarda la natura della realtà. Al centro della rivoluzione filosofica kantiana c’era il postulato secondo il quale è la coscienza umana, la natura delle strutture mentali dell’essere umano, a fornire la forma esterna della realtà. Secondo Kant lo spazio stesso «non è qualcosa di oggettivo e reale ma qualcosa di soggettivo e ideale; è, come era, uno schema che scaturisce da una legge costante della natura della mente per coordinare tutto quello che è percepito dai sensi»3.

Quali furono le implicazioni di questa visione del mondo per la psicologia dell’individuo? Fu poi Heidegger, seguito da Sartre, a esplorare il significato della responsabilità per l’essere individuale. Heidegger si riferiva all’individuo come a un Dasein (non come un “io” o un “uno” o un “ego” o un “essere umano”) per una ragione specifica: desiderava sempre enfatizzare la natura duale dell’esistenza umana. L’io è due in uno: un io empirico (oggettivo, un oggetto nel mondo) e un io trascendentale che costituisce (è responsabile di) se stesso e del mondo. La responsabilità considerata in questa maniera è inestricabilmente legata alla libertà. Il concetto di responsabilità non ha significato se l’individuo non è libero di costituire il mondo in uno qualsiasi dei numerosi modi possibili. L’universo è contingente: tutto quello che è avrebbe potuto essere creato in modo differente. La concezione della libertà di Sartre ha una portata considerevole: l’essere umano non è solo libero ma è condannato alla libertà. Inoltre la libertà si estende oltre l’essere responsabile del mondo (di permeare il mondo di senso). Siamo interamente responsabili della nostra vita: non solo delle nostre azioni, ma anche della nostra incapacità di agire.

Mentre scrivo ci sono carestie di massa in altre parti del mondo. Io, naturalmente, protesto: so poco di quello che accade laggiù, e sento che posso fare poco per cambiare il tragico stato delle cose. Sartre evidenzierebbe il fatto che io scelgo di tenermi disinformato, e che decido nello stesso istante di scrivere queste parole invece di impegnarmi in quella tragica situazione4. Potrei organizzare una manifestazione per raccogliere fondi, o pubblicizzare la situazione attraverso i miei contatti editoriali, ma scelgo di ignorarla. Mi prendo la responsabilità di quello che faccio e di quello che scelgo di ignorare. La posizione di Sartre al riguardo non è morale: non dice che dovrei star facendo qualcosa di diverso, ma dice che quello che faccio è una mia responsabilità. Entrambi i livelli di responsabilità, vale a dire l’attribuzione di significato e la responsabilità per la propria condotta, hanno enormi implicazioni per la psicoterapia.

Costituire (essere responsabile di) se stessi e il proprio mondo ed essere consapevoli della propria responsabilità sono intuizioni profondamente terrificanti, delle quali considereremo le implicazioni. Nulla nel mondo ha significato eccetto che in virtù del senso che gli attribuiamo. Non ci sono regole, non ci sono sistemi etici, valori; non c’è alcun referente esterno; non c’è un grande piano dell’universo. Nella visione di Sartre l’individuo soltanto è il creatore (questo è il senso della sua affermazione che «l’uomo è l’essere il cui progetto è essere dio»)5.

Sperimentare l’esistenza in questa maniera è una sensazione vertiginosa. Nulla è come sembra. La terra su cui si poggiano i piedi sembra spalancarsi. In effetti «essere privi di un fondamento» è un’espressione comunemente usata per descrivere un’esperienza soggettiva di presa di coscienza della responsabilità. Molti filosofi esistenzialisti hanno descritto l’angoscia dell’assenza di un fondamento come “angoscia originaria”, l’angoscia più fondamentale, un’angoscia che arriva più in profondità persino dell’angoscia associata alla morte. Infatti molti considerano l’angoscia della morte come un simbolo di quest’angoscia inerente all’essere senza fondamento. I filosofi spesso operano una distinzione tra la mia morte e la morte, o la morte di un altro. Quello che è davvero terrificante della mia morte è che implica la dissoluzione del mio mondo. Con la mia morte muore colui che dà significato e che è spettatore del mondo, e ci si trova a confrontarsi davvero con il nulla6.

Le preoccupazioni del nulla e dell’autocreazione hanno un’altra implicazione profonda e inquietante: la solitudine, una solitudine esistenziale che va ben al di là della normale solitudine sociale (si veda il capitolo 8); è la solitudine dell’essere separati non solo dalla gente ma anche dal mondo come normalmente lo si sperimenta. «La responsabilità per il “per sé” è soverchiante, dato che è grazie al “per sé” che capita di avere un mondo»7.

Rispondiamo all’angoscia dell’essere privi di fondamento come quando ci troviamo a fronteggiare l’angoscia, e cioè cercando un sollievo. Ci sono molti modi per proteggerci. In primo luogo, a differenza dell’angoscia della morte, l’angoscia per l’assenza di fondamento non è evidente nell’esperienza quotidiana. Non è facilmente intuita dall’adulto e probabilmente non è sperimentata affatto dal bambino. Alcuni individui, come Roquentin ne La nausea, in diverse occasioni della vita ne hanno una rapida percezione, che in generale rimane lontana dalla consapevolezza. Si evitano le situazioni (per esempio il prendere decisioni, l’isolamento, l’azione autonoma) che, se considerate a fondo, renderebbero una persona consapevole della propria assenza di fondamento. Così si privilegia la struttura, l’autorità, i grandi progetti, la magia, qualcosa che sia più grande di noi. Persino avere un tiranno, come ci ricorda Fromm in Fuga dalla libertà, è meglio che non avere un leader8. Capita così che i bambini siano turbati dalla libertà e chiedano che vengano posti dei limiti; i pazienti psicotici presentano lo stesso bisogno di struttura e di limiti. La stessa dinamica sottostà allo sviluppo del transfert nel corso della psicoterapia. Altre difese contro l’angoscia per l’assenza del fondamento includono quelle comunemente usate contro la piena consapevolezza della mia morte, perché la negazione della morte è un alleato della negazione dell’assenza di fondamento.

Forse la difesa più potente di tutte consiste semplicemente nella realtà come essa è sperimentata, ovvero nell’apparenza delle cose. Considerarci come costitutori originari significa essere in contraddizione con la realtà per come ordinariamente la sperimentiamo. Le nostre percezioni sensoriali ci dicono che il mondo è là fuori, e che noi ci entriamo e lo lasciamo. Tuttavia, come suggeriscono Heidegger e Sartre, le apparenze sono a servizio della negazione: noi costituiamo il mondo in modo tale che esso appaia indipendente dal nostro atto costitutivo. Costituire il mondo come un mondo empirico significa costituirlo come qualcosa di indipendente da noi stessi.

Essere catturati da uno qualsiasi degli artifici che ci permettono di fuggire dalla nostra libertà significa vivere in maniera «inautentica», come direbbe Heidegger o in «malafede», secondo la definizione di Sartre. Il progetto di quest’ultimo era liberare gli individui dalla malafede e aiutarli ad assumere la propria responsabilità. Questo è anche il progetto dello psicoterapeuta; in molte parti di questo capitolo esplorerò le ramificazioni cliniche dell’evitamento della responsabilità e le tecniche a disposizione del terapeuta per facilitare il processo di assunzione della responsabilità.

Evitare la responsabilità:
manifestazioni cliniche

Persino l’analisi meno storica e più superficiale del campo della psicoterapia rivela cambiamenti radicali nelle modalità utilizzate dai terapeuti per offrire aiuto ai loro pazienti. La proliferazione incontrollata di nuove terapie concorrenti sembra sfidare tutti gli schemi coerenti e, di conseguenza, in certi movimenti mina la fiducia dell’opinione pubblica nei confronti della disciplina. Ma un’analisi attenta di queste nuove terapie, come pure dei nuovi sviluppi delle terapie tradizionali, rivela che hanno un sorprendente tratto comune: l’enfasi sull’assunzione della responsabilità personale.

Non è un caso che sia così, che gli approcci moderni si focalizzino con forza sulla responsabilità. Le terapie riflettono e vengono formate dalla patologia che devono trattare. La Vienna della fine del XIX secolo, incubatrice e culla della psicologia freudiana, aveva tutte le caratteristiche della cultura tardo vittoriana: la repressione delle pulsioni (specialmente di quella sessuale), regole e modi di comportamento pesantemente strutturati e chiaramente definiti, sfere separate per uomini e donne, un’enfasi sul potere della volontà e sulla forza morale, e un ottimismo inebriante che sgorgava dal positivismo scientifico e dalla promessa di spiegare tutti gli aspetti dell’ordine naturale, compreso il comportamento umano. Freud si era reso ben conto che una soppressione così rigida delle inclinazioni naturali andava a detrimento della psiche; l’energia libidinale che non poteva emergere apertamente in superficie, generava difese restrittive e mezzi indiretti d’espressione. Le difese, unite alla modalità obliqua dell’espressione libidinale, costituivano il quadro clinico della psiconevrosi classica.

Ma cosa enfatizzerebbe Freud se si trovasse a esaminare la cultura americana contemporanea? Alle pulsioni naturali viene data una considerevole e libera espressione: la permissività sessuale comincia nella prima adolescenza. Una generazione di giovani adulti è stata nutrita e allevata secondo un regime compulsivamente permissivo. La struttura, il rituale, i limiti di ogni tipo vengono implacabilmente smantellati. Negli ordini religiosi le suore cattoliche si oppongono al papa, i preti rifiutano di rispettare il celibato, le donne e i gay dividono la chiesa episcopale chiedendo di poter ricevere gli ordini, le donne rabbino conducono il culto in molte sinagoghe. Gli studenti si rivolgono ai professori chiamandoli per nome. Dove sono le parolacce proibite, i titoli professionali, i manuali di buone maniere, le regole di abbigliamento? Un mio amico, un critico d’arte, ha illustrato la nuova cultura con un episodio di cui era stato protagonista durante la sua prima visita nella California meridionale. Si era fermato a un fast food e gli era stato dato un hamburger con un piccolo contenitore per il ketchup. Altrove questi contenitori hanno una linea tratteggiata e l’indicazione «aprire qui»: il contenitore californiano non aveva linee tratteggiate di sorta, ma la semplice scritta «aprire dove vi pare»9.

Il quadro della psicopatologia si è trasformato di conseguenza. Le sindromi psiconevrotiche classiche sono diventate una rarità. Anni fa un individuo con un quadro clinico di vera psiconevrosi era un tesoro conteso tanto dai giovani clinici quanto dal personale più anziano. Il paziente attuale ha più a che fare con la libertà che con le pulsioni represse. Non è più incalzato dall’interno da quello che ha da fare, o tirato dall’esterno da quello che deve o dovrebbe fare, oggi il paziente deve affrontare il problema della scelta, cioè quello che vuole fare. Con frequenza crescente i pazienti cercano la terapia sulla base di malesseri vaghi e poco definiti. In effetti, termino spesso la mia prima seduta consultiva senza avere un quadro chiaro del problema del paziente: considero che il paziente non riesca a definire il problema in quanto problema. Il paziente si lamenta «della mancanza di qualcosa» nella sua vita, dell’essere tagliato fuori dai sentimenti, di un vuoto, di una mancanza di gioia di vivere, e della sensazione di andare alla deriva. La parola “cura” è stata bandita dal vocabolario della terapia: il terapeuta parla invece di “crescita” o “progresso”. Dato che gli obiettivi sono indistinti, il punto finale della terapia è altrettanto confuso, e gli anni di terapia spesso si susseguono senza scopo, uno dopo l’altro.

L’atrofia delle istituzioni sociali (e psicologiche) che procurano struttura alla nostra vita ci serve per confrontarci con la nostra libertà. Se non ci sono regole, non ci sono grandi disegni, nulla che dobbiamo fare, e allora siamo liberi di fare quello che scegliamo. La nostra natura di base non è mutata: si potrebbe dire che, con l’eliminazione di tutte le manovre che tendevano a nascondere la libertà, con lo smantellamento di una struttura esterna imposta, oggi siamo più che mai vicini all’esperienza dei fatti esistenziali della vita. Ma siamo impreparati: è troppo da sopportare, l’angoscia vuole essere alleviata e, tanto a livello individuale quanto sociale, ci impegniamo in una frenetica ricerca per proteggerci dalla libertà.

Consideriamo quindi le difese psichiche specifiche che proteggono l’individuo dalla presa di coscienza della propria responsabilità. Nessun terapeuta trascorre una giornata di lavoro clinico senza incontrare esempi di difese atte a evitare la responsabilità. Affronterò alcune delle più comuni: la compulsione, il dislocamento della responsabilità su di un’altra persona, la negazione della responsabilità (la vittima innocente o la perdita del controllo), l’evitare un comportamento autonomo e la patologia decisionale.

La compulsione

Una delle difese dinamiche più comuni contro la presa di coscienza della responsabilità è costituita dalla creazione di un mondo psichico nel quale uno non sperimenta la libertà ma esiste sotto l’influsso di una qualche forza irresistibile aliena a sé (“non-me”): si tratta della compulsione.

Un’illustrazione clinica ci è fornita da Bernard, un venditore venticinquenne i cui problemi principali erano centrati sul senso di colpa e sul sentirsi spinto a fare le cose. La compulsione si manifestava nel comportamento sessuale, nel lavoro e persino nel tempo libero. Era l’uomo che (nell’esempio riportato nell’introduzione alla seconda parte) aveva tirato un respiro di sollievo quando non era riuscito a organizzare un incontro sessuale (aveva deliberatamente telefonato troppo tardi): «Adesso posso leggere e farmi una bella dormita, che era quello che volevo fare fin dall’inizio». In queste parole degne di nota – «che è quello che volevo fare fin dall’inizio» – sta il punto cruciale del problema di Bernard. L’ovvia domanda è: «Perché Bernard, se questo è davvero quello che vuole, non l’ha semplicemente fatto fin dall’inizio?»

Bernard fornì diverse risposte a questa domanda: «Non sapevo che fosse quello che volevo realmente fino al momento in cui ho sentito un’ondata di sollievo quando l’ultima donna mi ha detto di no». Un’altra volta affermò che, in effetti, non era consapevole che ci fosse una scelta possibile: «Farsi una donna, è quella l’unica cosa». La pulsione era così trascinante che per lui era impensabile non portarsi a letto una donna disponibile, anche se era perfettamente chiaro che la breve euforia sessuale veniva pesantemente superata dalla disforia associata: angoscia anticipatoria, sentimenti di insoddisfazione di sé perché pensare al sesso riduceva la sua efficacia nel lavoro, senso di colpa e paura che la moglie scoprisse la sua promiscuità sessuale, disprezzo nei propri confronti per via della consapevolezza di agire in malafede usando le donne come si usa una macchina.

Bernand evitava il problema della responsabilità e della scelta usando una compulsione che obliterava la scelta: la sua esperienza soggettiva equivaleva a cercare di aggrapparsi disperatamente a un cavallo selvaggio imbizzarrito. Aveva intrapreso una terapia per trovare un sollievo da questa disforia, ma non vedeva assolutamente che a un certo livello era lui il responsabile della creazione di quella disforia, della sua compulsione: in breve, di aver creato ogni singolo aspetto di quella particolare situazione.

La dislocazione della responsabilità

Molti individui evitano la responsabilità personale dislocandola su un’altra persona. Questa manovra è eccezionalmente comune nel processo psicoterapeutico. Uno dei temi principali affrontati nel mio lavoro con Bernard era stato il suo sforzo di passare il peso della responsabilità da se stesso a me. Non pensava al suo problema tra una seduta e l’altra: si limitava invece ad ammucchiare materiale e scaricarmelo in grembo. (A questa osservazione replicava astutamente che se avesse elaborato il materiale in anticipo, le sedute avrebbero perso la loro spontaneità.) Era raro che producesse sogni, perché non riusciva a imporsi di annotarli durante i brevi risvegli nel corso della notte, e al mattino li aveva dimenticati. Le rare volte che annotava un sogno, non dava mai un’occhiata a quello che aveva scritto prima della seduta, così che spesso non era in grado di decifrare la propria grafia.

Durante una pausa estiva, mentre ero via in vacanza, aveva cercato di «far passare il tempo» in attesa del mio ritorno e la notte prima della ripresa della terapia aveva sognato di essere a una partita di football e di vedersi «appollaiato sulle mie spalle», mentre riceveva un passaggio da touchdown. Il comportamento durante quella prima seduta fu una messa in scena simbolica del sogno: mi sommerse di resoconti dettagliati delle angosce estive che aveva provato, del senso di colpa, del comportamento sessuale e della propria deprecazione. Per quattro settimane si era abbandonato alla compulsione e all’angoscia, aspettando il mio ritorno perché gli mostrassi come opporvisi. Anche se aveva usato spesso esercizi di brainstorming nel suo lavoro, sembrò turbato quando gli suggerii un esercizio semplice (riflettere su se stesso per venti minuti e poi scrivere le proprie osservazioni). Dopo pochi (fruttuosi) tentativi, «non riuscì più a trovare il tempo» per fare l’esercizio. Dopo una seduta nella quale insistetti nel sottolineare come lui scaricasse i suoi problemi su di me, fece questo sogno:

Un uomo X (un individuo che assomigliava a Bernard, ovviamente un doppio) mi chiama per un appuntamento. Dice che ho conosciuto sua madre e che adesso lui, di persona, mi vuole incontrare. Sento di non volerlo vedere. Poi penso che siccome ha delle relazioni pubbliche forse potrebbe essermi utile. Ma poi non riusciamo a trovare un orario per l’incontro; i nostri impegni sono incompatibili. Gli dico: «Forse dovremmo programmare un incontro per parlare dei suoi impegni!» Mi sono svegliato ridendo.

Bernard percorreva ottanta chilometri per venire alle sedute e nemmeno una volta aveva sentito il peso del lungo viaggio. Tuttavia, come il sogno illustra chiaramente, non poteva e non voleva trovare il tempo per una seduta con se stesso. Ovviamente per Bernard, come per qualsiasi paziente che non lavora in assenza del terapeuta, non è una questione di tempo o convenienza. Quello che è in gioco è l’affrontare la propria responsabilità personale nella propria vita e il proprio processo di cambiamento. E sempre in agguato, al di là della presa di coscienza della propria responsabilità, c’è il terrore dell’assenza di fondamento.

L’assunzione della responsabilità è una precondizione del cambiamento terapeutico. Fino a quando uno crede che la propria situazione e disforia siano prodotte da qualcun altro o da una qualche forza esterna, allora qual è il senso di impegnarsi in un cambiamento personale? Le persone mostrano un’ingegnosità senza pari nel trovare modi per evitare la presa di coscienza della responsabilità. Un paziente, per esempio, si lamentava di gravi problemi sessuali di lunga data nel suo matrimonio. Credo che se avesse fronteggiato la propria responsabilità nella situazione avrebbe avuto uno spaventoso confronto con la libertà e scoperto di essersi chiuso in una prigione che si era creato da solo. Infatti era libero, se il sesso era così importante, di lasciare la moglie, trovare un’altra donna, o di prendere in considerazione l’idea di lasciare la moglie (il solo pensiero della separazione era sufficiente a gettarlo nel parossismo dell’angoscia). Era libero di cambiare qualsiasi aspetto della sua vita sessuale: e anche quel fatto era importantissimo, perché significava che avrebbe dovuto assumersi la responsabilità dell’eterno soffocamento delle sue componenti sensuali e anche di molti altri aspetti della sua vita affettiva. Di conseguenza evitava con determinazione di affrontare la responsabilità e attribuiva i problemi sessuali a una serie di fattori al di fuori di sé: ovvero alla mancanza di interesse sessuale della moglie e al suo non essere incline al cambiamento; alle molle del letto che cigolavano (in modo così rumoroso che i bambini avrebbero sentito i rumori del coito e, per una serie di ragioni assurde, il letto non poteva essere sostituito); al suo invecchiare (aveva quarantacinque anni) e all’innato deficit di libido; ai problemi irrisolti con la madre (che, com’è spesso vero per le spiegazioni genetiche, serviva più da scusa per evitare la responsabilità che da catalizzatore per il cambiamento).

Altre modalità di dislocazione della responsabilità possono essere comunemente viste nella pratica clinica. I pazienti paranoidi dislocano la responsabilità su altri individui e altre forze. Rinnegano e attribuiscono agli altri i loro stessi sentimenti e desideri e spiegano invariabilmente la propria disforia e i fallimenti come il risultato di un’influenza esterna. Con i pazienti paranoidi il compito terapeutico principale, e spesso impossibile, consiste nell’aiutarli ad accettare di essere gli autori dei propri sentimenti proiettati.

Evitare la responsabilità è anche il principale ostacolo nella psicoterapia del paziente con una malattia psicofisiologica. In questi pazienti l’assunzione della propria responsabilità è doppiamente rimossa: sperimentano uno stress somatico più che psicologico; e persino quando riconoscono il sostrato psicologico del loro malessere somatico, in modo peculiare impiegano le difese dell’esternalizzazione, attribuendo la disforia psicologica ai «problemi dei nervi» o a condizioni di lavoro o ambientali avverse.

La negazione della responsabilità: la vittima innocente

È spesso possibile incontrare un tipo particolare di evasione dalla responsabilità in individui (generalmente considerati personalità isteriche) che negano la responsabilità considerandosi vittime innocenti di avvenimenti che loro stessi hanno (involontariamente) messo in movimento.

Per esempio Clarissa, una psicoterapeuta di quarant’anni, era entrata in un gruppo di terapia per lavorare sulle sue difficoltà a sviluppare relazioni intime. Aveva problemi particolarmente seri nel relazionarsi agli uomini che, a cominciare dal padre brutale e punitivo, la respingevano e la punivano. Durante la nostra seduta di ammissione mi raccontò che diversi mesi prima aveva concluso una prolungata psicoanalisi e che adesso sentiva che i suoi problemi sarebbero stati meglio affrontati in un contesto di gruppo. Dopo diversi mesi informò il gruppo che era rientrata in analisi brevemente dopo l’inizio del gruppo, ma non aveva considerato la cosa di sufficiente rilievo da riportarla al gruppo stesso. A quel punto, però, il suo analista, che disapprovava con forza la terapia di gruppo, aveva interpretato la sua partecipazione al gruppo di terapia come un acting-out, una messa in atto negativa.

Un paziente non può lavorare in un gruppo di terapia se il terapeuta individuale si oppone e ne mina il lavoro. Su suggerimento di Clarissa cercai di comunicare con l’analista, che tuttavia decise di mantenere la posizione psicoanalitica di totale confidenzialità e, con una certa arroganza, si rifiutò persino di parlare con me dell’argomento. Mi sentii tradito da Clarissa, irritato con il suo analista e disorientato dalla piega che gli eventi avevano preso. Al contempo Clarissa si sentiva perplessa dinanzi agli eventi confusi che si stavano verificando. I membri del gruppo la consideravano «una che faceva la finta tonta». Nello sforzo di aiutarla a vedere il proprio ruolo in quegli eventi, divennero incredibilmente energici, quasi punitivi, nei loro commenti. Ancora una volta Clarissa si sentì vittimizzata, soprattutto dagli uomini, e «per via di circostante al di là del suo controllo» fu costretta a lasciare il gruppo.

Quest’episodio era una versione in miniatura del problema di fondo di Clarissa: evitare la responsabilità, della quale si liberava recitando la parte della vittima innocente. Anche se non era ancora pronta a vederlo, l’episodio era la chiave delle sue difficoltà nello stabilire relazioni intime. Due uomini importanti della sua vita, il suo analista e il terapeuta del gruppo, si erano sentiti manipolati e, per quel che mi riguarda, ero infastidito dal suo comportamento. Gli altri membri del gruppo si sentivano anche loro usati. Non si era relazionata con loro in buona fede; sentivano invece di essere stati semplici pedine in un dramma che lei stava mettendo in scena con i suoi terapeuti.

Clarissa era entrata in terapia per via di problemi nello sviluppo di relazioni intime. La sua responsabilità in queste difficoltà era chiarissima: lei non era mai con una persona. Quando era accanto ai membri del gruppo, lei era con me. Quando era con me, era con il suo analista e, senza dubbio, quando era accanto a lui era con il proprio padre. La dinamica di Clarissa in quanto vittima innocente era particolarmente ovvia perché lei stessa era una psicoterapeuta esperta, aveva condotto gruppi di terapia e conosceva l’importanza della comunicazione tra terapeuta individuale e terapeuta di gruppo.

La negazione della responsabilità: la perdita del controllo

Un’altra modalità di sottrarsi alla responsabilità è quella di essere temporaneamente “fuori di testa”. Alcuni pazienti entrano in uno stato irrazionale temporaneo nel corso del quale possono agire in modo irresponsabile perché non si prendono la responsabilità, nemmeno nei propri confronti, del proprio comportamento. Questo era il problema per il quale, in uno degli esempi riportati all’inizio della seconda parte, il terapeuta, interrogato dalla paziente che affermava che il suo comportamento non era deliberato, le aveva detto: «E di chi è quell’inconscio?» È importante notare che un esame accurato di pazienti del genere rivelerà al terapeuta che il comportamento da “perdita del controllo” non è affatto caotico: è deliberato e offre al paziente dei guadagni secondari (“profitti”) e gli permette di evitare la propria responsabilità.

Una paziente che era stata brutalizzata e poi respinta da un amante sadico e insensibile, perse il controllo e, andando fuori di testa, cambiò radicalmente l’equilibrio del controllo della relazione. Lo seguì per settimane, entrò ripetutamente nel suo appartamento e lo danneggiò, fece delle scenate gridando e lanciando piatti quando lui cenava al ristorante con amici. Il suo comportamento folle e imprevedibile lo distrusse completamente: l’uomo entrò nel panico, cercò la protezione della polizia e alla fine ricorse a cure psichiatriche d’emergenza. A questo punto, raggiunto il proprio scopo lei, mirabile dictu, recuperò il controllo e da allora si comportò in maniera del tutto razionale. In forme mutate, tale dinamica non è affatto rara. Molti individui sono tiranneggiati dalla potenziale irrazionalità di un partner.

Perdere il controllo offre un altro beneficio secondario: il sostegno amorevole. Alcuni pazienti desiderano così ardentemente essere accuditi, nutriti, seguiti nei modi più intimi dal loro terapeuta che, per ottenere questi scopi, perdono il controllo persino al punto di arrivare a una profonda regressione che rende necessaria l’ospedalizzazione.

L’evitare un comportamento autonomo

I terapeuti sono spesso perplessi al cospetto di pazienti che sanno bene quello che possono fare per aiutarsi a stare meglio ma inesplicabilmente si rifiutano di compiere quel passo. Paul, un paziente depresso e sul punto di cambiare lavoro, era andato a New York per dei colloqui. Si sentiva disperatamente solo: i colloqui occuparono soltanto sei ore di un soggiorno di tre giorni, e il resto del tempo fu trascorso in un’attesa frenetica e solitaria. Dato che molti anni prima aveva vissuto a New York, Paul aveva molti amici in città e la loro presenza lo avrebbe senza dubbio rincuorato. Trascorse due notti solitarie guardando il telefono desiderando che lo chiamassero, ma era impossibile, dato che non avevano modo di sapere che si trovava in città. Tuttavia, non riuscì a tirare su la cornetta per chiamarli.

Perché? Analizzammo la cosa a lungo, cominciando con spiegazioni quali «niente energia», «troppo umiliato per chiedere compagnia», «penseranno che li chiamo solo quando ho bisogno di loro». Gradualmente capimmo che quel comportamento era un riflesso della sua mancanza di volontà di riconoscere che il benessere e il conforto erano nelle sue mani, e che nessun aiuto sarebbe giunto a meno che lui non agisse per favorire quell’aiuto. A un certo punto commentai che era spaventoso essere il proprio padre: quella frase si riverberò potentemente in Paul e durante il seguito della terapia ci fece spesso riferimento. Per lui il paradosso era (come nel capitolo 4 per Sam, che dopo essere stato lasciato dalla moglie non usciva a cercare amici per paura di perdere una telefonata) che per alterare la propria solitudine sociale doveva affrontare una più profonda solitudine esistenziale. In questi esempi vediamo confluire due strutture di riferimento: l’assunzione della responsabilità dà come risultato una rinuncia alla propria fede nell’esistenza di un salvatore ultimo, e cioè un compito eccessivamente difficile per un individuo che ha costruito la propria Weltanschauung attorno a questa fede. Queste due strutture di riferimento che agiscono in concerto costituiscono la dinamica di base della dipendenza e procurano al terapeuta un sistema esplicativo coerente e potente per comprendere il carattere patologicamente dipendente.

I disordini del desiderio e della decisione

Nel capitolo successivo discuterò in profondità la relazione tra l’assunzione di responsabilità e la volontà (il desiderio e la decisione), e vorrei solo soffermarmi su questo punto per notare che quando uno desidera e decide in piena consapevolezza, si trova a confrontarsi con la responsabilità. La tesi di questo capitolo è che ognuno crea se stesso, la tesi del prossimo è che il desiderio e la decisione sono i mattoni della creazione. Come detto spesso da Sartre, la vita di un individuo è costituita dalle sue scelte. Un individuo si vuole nell’essere quello che è. Se si è terrorizzati dall’autocostituzione (e dall’assenza di fondamento inerente a tale consapevolezza), allora si può evitare la volontà smorzando, per esempio, il proprio desiderare o sentire, abdicando la scelta, o delegando la propria scelta ad altri individui, istituzioni o eventi esterni. Più avanti prenderò in considerazione questi meccanismi e, in particolare, la negazione del volere (si veda il capitolo 7).

L’assunzione della responsabilità
e la psicoterapia

Per aiutare il paziente ad assumersi la propria responsabilità, il primo passo del terapeuta non è seguire una tecnica ma adottare un atteggiamento sul quale far poggiare l’intervento tecnico successivo. Il terapeuta deve costantemente operare all’interno del quadro di riferimento secondo il quale è stato il paziente a creare il proprio disagio. Non sono il caso, la sfortuna o i cattivi geni a fare sì che un paziente sia solo, isolato, cronicamente abusato o insonne. Il terapeuta deve determinare che ruolo un particolare paziente ha nel proprio dilemma, e trovare i modi di comunicare al paziente questa intuizione. Finché non ci si rende conto di aver creato la propria disforia, può non esserci motivazione al cambiamento. Se si continua a credere che il disagio sia causato da altri, dalla sfortuna, da un lavoro insoddisfacente – in breve, da qualcosa al di fuori di se stessi – perché investire energia nel cambiamento personale? Di fronte a un simile sistema di credenze, la strategia ovvia non è terapeutica ma attivista: cambiare il proprio ambiente.

La solerzia nell’accettare la responsabilità varia in modo considerevole da paziente a paziente. Per alcuni è straordinariamente difficile e costituisce la gran parte del compito terapeutico. Una volta assunta la propria responsabilità, il cambiamento terapeutico si verifica quasi automaticamente. Ce ne sono altri che riconoscono la responsabilità più rapidamente ma si tirano indietro in altre fasi del trattamento. In generale la presa di coscienza della responsabilità non procede in modo uniforme su un fronte unificato: gli individui possono accettare la responsabilità per alcune questioni e negarla per altre.

L’identificazione e la chiarificazione

Il primo compito del terapeuta è essere attento alla questione, identificare le istanze e i metodi dell’evitamento della responsabilità e renderli noti al paziente. I terapeuti, a seconda delle preferenze stilistiche, usano un’ampia varietà di tecniche per focalizzare l’attenzione del paziente sulla responsabilità. Si prendano parecchi degli esempi presentati all’inizio della seconda parte: un terapeuta che ribatte alle scuse di un paziente per il suo comportamento («Non era deliberato, l’ho fatto inconsciamente») con la domanda «E a chi appartiene quell’inconscio?» sta incoraggiando la presa di coscienza della responsabilità. Come pure il terapeuta che chiede al paziente di «prendere possesso» di quello che gli accade (non dire «mi infastidisce», ma «permetto che mi infastidisca»). Il campanellino del “non posso” è una strategia ideata per accrescere il risveglio della responsabilità. Fino a quando uno crede nel “non posso”, rimane inconsapevole del proprio contributo attivo alla propria situazione. Alla paziente a cui viene insegnato a dire «Non voglio cambiare, mamma, fino a quando non mi tratterai in modo diverso da quando avevo dieci anni» viene in effetti chiesto di riflettere sul suo rifiuto (piuttosto che sulla sua incapacità) di cambiare. Inoltre si trova davanti all’assurdità della sua situazione e del sacrificio tragico e futile di una vita sull’altare del rancore.

Vera Gatch e Maurice Temerlin, dopo avere studiato delle registrazioni audio di sedute di psicoterapia, riportarono un certo numero di interventi confrontativi (a volte appena percettibili) atti a promuovere la presa di coscienza della responsabilità:

Quando un uomo si lamentava in modo amareggiato e passivo che la moglie non voleva avere rapporti sessuali con lui, il terapeuta chiariva la scelta implicita con l’osservazione: «Deve piacerle perché è così; è sposato con lei da molti anni». Una casalinga si lamentava: «Non riesco a gestire mio figlio, tutto quello che fa è starsene seduto davanti alla televisione». Il terapeuta spiegava la scelta implicita dicendo: «E lei è troppo piccola e indifesa per spegnerla». Un uomo impulsivo e ossessionale gridava: «Mi fermi, temo che mi ucciderò». Il terapeuta commentò: «Io dovrei fermarla? Se lei vuole davvero uccidersi, morire davvero, nessuno la può fermare, eccetto lei stesso». Interagendo con un uomo passivo, dipendente orale che sentiva che la vita non aveva nulla in serbo per lui perché soffriva per l’amore non corrisposto di una donna più grande, un terapeuta si mise a cantare: «Povero l’agnellino che ha perso il suo cammino»10.

Il principio generale è evidente: ogni volta che il paziente si lamenta della situazione della propria vita, il terapeuta indaga come il paziente abbia creato quella situazione.

È spesso utile che il terapeuta tenga a mente le lamentele iniziali del paziente e, durante la terapia, contrapponga tali lamentele agli atteggiamenti e al comportamento di quest’ultimo all’interno della terapia. Per esempio, si consideri un paziente che era entrato in terapia a causa di sentimenti di isolamento e solitudine. Durante la terapia discuteva del proprio senso di superiorità, nonché del disprezzo e disdegno verso gli altri. La sua resistenza al cambiare questi atteggiamenti era significativa, poiché erano egosintonici e mantenuti con determinazione. Il terapeuta aiutò il paziente a comprendere la propria responsabilità per quella condizione di disagio commentando, ogni volta che il paziente parlava del suo disprezzo per gli altri: «E lei è solo».

Un paziente che risente delle limitazioni nella propria esistenza deve essere aiutato a comprendere come abbia contribuito alla situazione: per esempio, scegliendo di restare sposato, avere due lavori, tenere tre cani, mantenere un giardino formale, e così via. In generale la vita di una persona diventa così strutturata che uno comincia a considerarla come un dato di fatto e come una struttura concreta che deve essere abitata, invece che come una rete tessuta da lui stesso che potrebbe essere tessuta di nuovo in un infinito numero di modi. Questo è il motivo per cui sono certo che Otto Will disse al suo paziente ossessivo e costretto: «Perché non cambia nome e si trasferisce in California?» Aveva messo il paziente forzatamente a confronto con la sua libertà, con il fatto che era realmente libero di cambiare la struttura della sua vita, di costituirla in un modo completamente diverso.

Naturalmente c’è una replica pronta: «Ci sono molte cose che non possono essere cambiate». Ci si deve guadagnare da vivere, si deve essere un padre o una madre per i propri figli, si devono rispettare gli obblighi morali. Bisogna accettare le proprie limitazioni: un paraplegico non ha la libertà di camminare; un povero non ha la possibilità di andare in pensione; una vedova anziana può avere scarse possibilità di sposarsi; e così via. Quest’obiezione, un’obiezione fondamentale al concetto di libertà umana, può sorgere in qualsiasi fase della terapia ed è così importante che la considererò nel dettaglio più avanti (si veda il paragrafo «I limiti della responsabilità» alle pagine 326-335).

Anche se c’è un posto per queste tecniche che danno un nome e aiutano a evidenziare la responsabilità, c’è un limite alla loro efficacia. I campanelli del “non posso” o gli slogan tipo «Farsi carico della propria vita» o «Diventare padrone dei propri sentimenti» lasciano spesso a bocca aperta, ma molti pazienti hanno bisogno di qualcosa di più dell’esortazione, e i terapeuti devono utilizzare metodi con un impatto più profondo. I metodi più potenti disponibili per i terapeuti implicano l’analisi del comportamento corrente (il qui-e-ora) del paziente all’interno della terapia e la dimostrazione che il paziente ricrea a livello di microcosmo, all’interno della situazione terapeutica, la stessa situazione affrontata nella vita. Infatti, come dirò in seguito, la psicoterapia può essere strutturata in modo specifico allo scopo di illuminare la presa di coscienza da parte del paziente della propria responsabilità.

La responsabilità e il qui-e-ora

Il terapeuta che tenta di analizzare la narrazione di un paziente con lo sforzo di dimostrare la responsabilità di quest’ultimo nei confronti di una determinata situazione della sua vita spesso finisce con il ritrovarsi nelle sabbie mobili. Il paziente dice sotto voce*: «Va tutto alla perfezione: se ne sta comodamente seduto nel suo studio e mi dice che mi ci sono ficcata dentro da sola, ma non sa davvero che bullo sadico sia mio marito» (o «che capo impossibile abbia», o «come la mia compulsione sia davvero incontrollabile», o «come siano davvero le cose nel mondo degli affari», o qualsiasi altra variazione sul tema degli ostacoli insormontabili). Non ci sono limiti a questa resistenza perché, come sa bene ogni terapeuta esperto, il paziente non è un osservatore oggettivo della condizione complessa della propria vita. Il paziente può fare ricorso a meccanismi di difesa eternizzanti o distorcere in mille altri modi i dati, affinché si adattino alla sua percezione del mondo. In questo modo è solo in rare occasioni che il terapeuta può aiutare il paziente ad assumersi la propria responsabilità lavorando unicamente con dati di seconda mano.

L’effetto è notevolmente amplificato se il terapeuta lavora con il materiale di prima mano che si manifesta nel qui-e-ora del trattamento. Focalizzandosi sulle esperienze emerse nella situazione terapeutica, esperienze alle quali ha preso parte, il terapeuta può aiutare il paziente a esaminare la propria responsabilità per il comportamento nascente, e cioè prima che venga incrostato e oscurato dai meccanismi della difesa. L’impatto terapeutico aumenta se il terapeuta seleziona un episodio o un aspetto del comportamento ricco di somiglianze con il problema che il paziente ha portato con sé all’inizio della terapia.

Una paziente, Doris, offre un esempio clinico lampante. Era entrata in terapia a causa di una grave forma di angoscia centrata principalmente sulla relazione con gli uomini. Il suo problema maggiore, per come lo descriveva, era dato dal fatto che entrava in relazione con uomini abusivi dai quali non era poi in grado di separarsi. Il padre la maltrattava, e così il primo marito, il secondo marito e una lunga serie di datori di lavoro. Il resoconto delle sue difficoltà era convincente e mi portava a empatizzare con lei per la sfortuna di essere costantemente gettata nelle grinfie di bastardi tirannici. Faceva parte di un gruppo di terapia da diversi mesi quando ebbe un grave attacco d’angoscia. Incapace di partecipare all’incontro successivo del gruppo, una mattina mi telefonò per un appuntamento individuale urgente. Con considerevole difficoltà modificai il programma della mia giornata e accettai di incontrarla alle tre di quel pomeriggio. Alle tre meno venti telefonò lasciando un messaggio per annullare l’appuntamento. Qualche giorno più tardi, durante l’incontro del gruppo, le chiesi cosa era successo. Rispose che si era sentita un po’ meglio e, siccome la mia regola era che avrei incontrato un membro del gruppo per un’unica seduta individuale nel corso della terapia, aveva deciso di conservare quell’ora per un momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno.

Non avevo mai stabilito una regola del genere! Non mi rifiuterei mai di incontrare un paziente in caso d’emergenza. Né alcun membro del gruppo mi aveva mai sentito fare un’affermazione del genere. Ma Doris era convinta che l’avessi detto. Scelse di ricordare altri episodi della nostra relazione in un modo altamente selettivo. Per esempio, rammentava con sorprendente chiarezza un unico commento impaziente che le avevo rivolto mesi prima (riguardo alle sue tendenze monopolistiche) e lo ripeteva di frequente. Aveva tuttavia dimenticato le molte affermazioni positive di sostegno che le avevo rivolto nei mesi successivi.

L’interazione tra Doris e me nel microcosmo del qui-e-ora era rappresentativa della sua relazione con gli uomini e metteva in evidenza il suo ruolo (la sua responsabilità) nella sua situazione esistenziale. Distorceva la percezione che aveva di me allo stesso modo in cui distorceva la percezione degli altri uomini: ci percepiva tutti autoritari e insensibili. Ma c’era dell’altro da imparare: ero irritato con lei per aver cancellato l’appuntamento all’ultimo momento, dopo gli sforzi che avevo fatto per trovare del tempo. Ero irritato anche per la sua insistenza, nonostante gli altri sette membri del gruppo non fossero d’accordo con lei, che avessi pronunciato quella regola sulla seduta individuale. Con un certo sforzo contenni l’irritazione e mantenni l’obiettività terapeutica, ma immaginavo quanto fosse difficile relazionarsi con Doris in una situazione non terapeutica.

In sostanza, quindi, Doris aveva certe convinzioni riguardo agli uomini e a come si comportavano con lei. Queste aspettative distorcevano la sua percezione e la distorsione percettiva faceva sì che lei si comportasse in modi che sollecitavano proprio il comportamento che lei temeva. Questa manovra, “la profezia che si autoavvera”, è comune: l’individuo si aspetta che un certo avvenimento si verifichi, poi si comporta in modo tale da far sì che la profezia si avveri, e alla fine relega nell’inconscio la consapevolezza della responsabilità del proprio comportamento.

Questo episodio fu cruciale nella terapia di Doris perché ebbe delle implicazioni considerevoli per il suo problema di fondo. Se avesse capito e accettato la propria responsabilità per il modo in cui si relazionava a me, allora sarebbe bastato un semplice passo, una minima generalizzazione, per diventare consapevole della propria responsabilità nelle relazioni con gli altri uomini. Credo che il terapeuta debba afferrare simili episodi e attaccarsi a essi con tenacia. Lo etichettai esplicitamente e ne sottolineai l’importanza: «Doris, credo che quello che è ora successo tra lei e me sia estremamente importante perché ci dà un indizio importante su alcuni dei problemi che esistono tra lei e gli uomini nella sua vita». Se il paziente non è ancora pronto ad accettare l’interpretazione, bisognerà ripeterla in seguito, con ulteriori prove a sostegno o una più solida relazione terapeuta-paziente.

La consapevolezza dei propri sentimenti costituisce lo strumento più importante del terapeuta per identificare il contributo del paziente alla propria situazione esistenziale. Per esempio, una donna depressa di quarantotto anni si lamentava amaramente del modo in cui i figli si comportavano con lei. Respingevano le sue opinioni, la trattavano in modo sprezzante e, quando era in gioco una qualche questione importante, si rivolgevano al padre. Mi sintonizzai sui miei sentimenti nei suoi confronti e divenni consapevole che nella sua voce c’era una componente lamentosa che mi portava a non prenderla seriamente e a trattarla come una bambina. Condividere questa mia sensazione con la paziente le fu di enorme utilità: la aiutò a prendere coscienza del proprio comportamento infantile. L’analisi del qui-e-ora (il suo piagnucolio) fu di estrema importanza per capire le ragioni del comportamento dei figli. Non facevano che seguire le sue istruzioni: la trattavano come lei chiedeva di essere trattata (lo chiedeva in modo non verbale con il piagnucolio e le scuse basate su debolezza e depressione).

L’evitare la responsabilità non si esprime solo nella relazione paziente-terapeuta, ma anche nell’atteggiamento di base del paziente verso la terapia. Spesso con la silente complicità del terapeuta, i pazienti possono sistemarsi in modo comodo, passivo e permanente nella terapia aspettandosi che non capiti molto o che tutto venga dal terapeuta.

Un terapeuta che ha la sensazione di essere sovraccaricato dal paziente, convinto che nulla di utile si verificherà durante una seduta a meno che lui non la faccia accadere, ha permesso a quel paziente di far scivolare il peso della responsabilità dalle sue spalle a quelle del terapeuta. I terapeuti possono affrontare questo processo in diversi modi. La maggior parte sceglie di ragionarci sopra: il terapeuta può commentare di avere l’impressione che il paziente gli scarichi addosso ogni cosa, o di non sperimentare il paziente come qualcuno che stia collaborando attivamente alla terapia. Oppure può commentare di avere l’impressione di portarsi addosso l’intero carico della terapia. O può giungere alla conclusione che non ci sia modalità più potente per galvanizzare un paziente abulico che chiedergli: «Perché viene qui?»

Questi tipi di interventi possono produrre nei pazienti varie forme di resistenza, che si centrano tutte sul tema del «Non so cosa fare», «Se sapessi cosa fare, non avrei bisogno di essere qui», «È questo il motivo per cui vengo da lei» o «Mi dica che cosa devo fare». Il paziente simula impotenza: pur insistendo nel dire che non sa cosa fare, ha in effetti ricevuto molte linee guida esplicite e implicite da parte del terapeuta. Ma il paziente non rivela i suoi sentimenti, non riesce a ricordare i sogni (o è troppo stanco per prenderne nota, o dimentica di mettere carta e penna accanto al letto), preferisce discutere di questioni intellettuali o impegnare il terapeuta in discussioni infinite sul funzionamento della terapia. Il problema, come qualsiasi terapeuta esperto ben sa, non è che il paziente non sappia cosa fare. Ciascuno stratagemma riflette la stessa problematica: il paziente si rifiuta di accettare la responsabilità del cambiamento così come, al di fuori della seduta di terapia, si rifiuta di accettare la responsabilità di una situazione esistenziale complicata e scomoda.

Il caso di Ruth, una paziente di un gruppo, fornisce una chiara illustrazione di questo meccanismo. Evitava la responsabilità in ogni sfera della propria vita. Era disperatamente sola, non aveva amiche intime, e tutte le sue relazioni con gli uomini erano fallite perché il suo bisogno di dipendenza era troppo grande per i partner. Più di tre anni di terapia individuale si erano rivelati inefficaci. Il terapeuta individuale riferiva che Ruth sembrava un «pezzo di piombo» in terapia, non faceva altro che ruminare sterilmente i propri dilemmi con gli uomini, non aveva fantasie, non c’era materiale frutto del transfert e nemmeno un sogno in tre anni. In preda alla disperazione, il terapeuta l’aveva inviata a un gruppo. Ma nel gruppo Ruth aveva semplicemente riprodotto quell’atteggiamento di impotenza e passività. Dopo sei mesi non aveva fatto alcun lavoro nel gruppo, e nessun progresso.

Durante un incontro cruciale aveva lamentato il fatto di non essere stata aiutata dal gruppo, e annunciato che si stava chiedendo se quello fosse il gruppo giusto o la terapia giusta per lei.

Terapeuta: «Ruth, qui dentro lei fa quello che fa fuori dal gruppo. Aspetta che accada qualcosa. Come potrebbe esserle utile il gruppo se lei non lo usa?»

Ruth: «Non so cosa fare. Vengo qui tutte le settimane e non succede niente. Non sto ottenendo niente dalla terapia».

Terapeuta: «Certo che non ne ottiene niente. Come può succedere qualcosa se non fa in modo che succeda?»

Ruth: «Ho come un vuoto in questo momento. Non riesco a pensare a cosa dire».

Terapeuta: «Sembra importante che lei non sappia mai cosa dire o fare».

Ruth(piangendo): «Mi dica che cosa vuole che faccia. Non voglio essere così per tutta la vita. Questo fine settimana sono andata in campeggio – tutti gli altri campeggiatori erano al settimo cielo, tutto era in fiore e io sono stata male tutto il tempo».

Terapeuta: «Vuole che le dica che cosa fare anche se ha una idea chiara di come potrebbe lavorare meglio nel gruppo».

Ruth: «Se lo sapessi, lo farei».

Terapeuta: «Al contrario! Sembra che le faccia molta paura fare quello che può fare per lei stessa».

Ruth (singhiozzando): «Mi sta facendo irritare. Mi sento peggio, non meglio in questo gruppo. Non so cosa fare».

A questo punto il resto del gruppo era intervenuto. Un paziente entrò in risonanza con Ruth, dicendo che anche lui si trovava nella stessa situazione. Altri due espressero fastidio per quella sua eterna impotenza. Un altro commentò, con precisione, che c’erano state infinite discussioni nel gruppo su come i membri potevano partecipare in modo più efficace. (In effetti una lunga parte dell’incontro precedente era stato dedicato proprio alla questione.) Lei aveva innumerevoli opzioni, le aveva detto qualcun altro. Poteva parlare delle sue lacrime, della tristezza, di quanto si sentisse ferita, di quanto fosse eternamente bastardo il terapeuta, dei sentimenti nei confronti di un qualsiasi altro membro del gruppo. Lei sapeva, e tutti sapevano che sapeva, dell’esistenza di tutte queste opzioni. «Perché» si chiedeva il gruppo «aveva bisogno di mantenere il suo atteggiamento di impotenza e di pseudodemenza?»

Così galvanizzata, Ruth disse che durante le ultime tre settimane, mentre entrava a far parte del gruppo, aveva preso la decisione di discutere i propri sentimenti verso gli altri del gruppo, ma si era sempre tirata indietro. Quel giorno voleva parlare del perché non partecipava mai alle uscite per un caffè insieme dopo ogni seduta. Avrebbe voluto partecipare, ma non lo faceva perché era riluttante all’idea di avvicinarsi a Cynthia per paura che lei, che le sembrava in particolare condizione di bisogno, cominciasse a telefonarle nel mezzo della notte per chiedere aiuto. A seguito di una forte interazione con Cynthia, Ruth mostrò apertamente i suoi sentimenti verso altri due membri, e alla fine della seduta aveva fatto più lavoro che nei sei mesi precedenti. Quello che vale la pena di sottolineare in questo esempio è che il lamento di Ruth, «Mi dica che cosa devo fare», era un’affermazione atta a evitare la responsabilità. Quando la pressione su di lei era sufficiente, sapeva molto bene cosa fare. Ma non voleva saperlo! Voleva che l’aiuto e il cambiamento venissero da fuori. Aiutarsi, essere la propria madre, era qualcosa di spaventoso: la portava troppo vicina alla spaventosa consapevolezza di essere libera, responsabile e sola.

L’assunzione di responsabilità nella terapia di gruppo

Il concetto che la terapia sia un microcosmo sociale, vale a dire un luogo dove il paziente non solo recita ma mette in mostra le proprie psicopatologie nel qui-e-ora, riguarda tutti gli ambienti della terapia (individuale, di coppia, familiare e di gruppo). È particolarmente rilevante per la situazione del gruppo. In primo luogo, l’ampio numero di individui, da otto a dieci (incluso il o i terapeuti), offre l’opportunità che la maggior parte delle aree di conflitto del paziente venga innescata. Nello scenario individuale il paziente incontra spesso, nell’interazione con il terapeuta, problemi conflittuali legati all’autorità o problemi collegati ai genitori o ai surrogati genitoriali. Ma nello scenario di gruppo il paziente incontra così tante altre persone che attivano così tante questioni interpersonali diverse (rivalità tra fratelli, eterosessualità, omosessualità, competizione tra pari, intimità, autorivelazione, generosità, il dare e il ricevere, e così via) che siamo giustificati a considerare la terapia di gruppo come un universo sociale in miniatura per ciascuno dei suoi partecipanti.

Il qui-e-ora di un piccolo gruppo interazionale di terapia offre condizioni particolarmente ottimali per il lavoro terapeutico sulla presa di coscienza della responsabilità. Uno degli aspetti più affascinanti della terapia di gruppo è che i membri nascono tutti simultaneamente: ciascuno comincia nel gruppo a uno stesso livello. Ciascuno, in un modo che è visibile agli altri membri e – se il terapeuta fa il suo lavoro – ovvio anche per se stesso, a poco a poco tira fuori e dà forma a un particolare spazio vitale nel gruppo. In questo modo si è responsabili della posizione interpersonale che ci si crea nel gruppo (e, per analogia, anche nella vita) e per la sequenza di avvenimenti che si verificheranno. Il gruppo ha molti occhi. I partecipanti non sono tenuti ad accettare la descrizione fatta da un altro membro di come questi sia vittimizzato da persone o avvenimenti esterni. Se il gruppo funziona al livello del qui-e-ora (ovvero se la concentrazione primaria è sullo sperimentare e analizzare le relazioni tra i partecipanti), allora i membri osserveranno come ciascuno crei la propria condizione di vittima, e alla fine condivideranno queste osservazioni con ciascuno dei membri, a turno.

Anche se noi terapeuti non pensiamo spesso in questo modo al processo di un gruppo, credo che le attività principali del gruppo, specialmente nella fase iniziale della terapia, siano dirette verso il far sì che ogni membro divenga consapevole della responsabilità personale. Perché incoraggiamo i membri a essere diretti e onesti nel gruppo (ovvero a essere se stessi)? Perché incoraggiamo il feedback? Perché incoraggiamo i membri a condividere le loro impressioni e sentimenti per gli altri membri? Credo che il terapeuta di gruppo – spesso senza essere necessariamente consapevole della cosa – tenti di scortare ciascun paziente attraverso la seguente sequenza:

1. I pazienti imparano come il loro comportamento è visto dagli altri. Attraverso il feedback e, in seguito, attraverso l’autosservazione, i pazienti imparano a vedersi attraverso gli occhi degli altri.

2. I pazienti imparano come il loro comportamento fa sentire gli altri.

3. I pazienti imparano come il loro comportamento crea le opinioni che gli altri hanno di loro. I membri imparano che, come risultato del loro comportamento, gli altri li valutano, provano ostilità nei loro confronti, li trovano sgradevoli, li rispettano, li evitano, li sfruttano, li temono, e così via.

4. I pazienti imparano come il loro comportamento influenza la loro opinione di sé. Lavorando sulle informazioni raccolte nei primi tre punti, i pazienti formulano delle autovalutazioni; danno giudizi sulla propria autostima e sulla capacità di essere amati e imparano come il loro comportamento porta a tali giudizi.

Ciascun punto comincia con il comportamento del paziente e tenta di dimostrarne le ripercussioni. Il punto finale di tale sequenza è che il membro di un gruppo apprende di essere il primo e unico responsabile di come gli altri lo vedono, lo trattano e lo considerano. Inoltre uno è anche responsabile del modo in cui considera se stesso. Che l’esperienza di gruppo di una persona sia un microcosmo della propria esperienza di vita è un fatto ovvio e convincente; e per la mia esperienza i pazienti non hanno difficoltà a generalizzare l’assunzione della responsabilità individuale dalle situazioni interne al gruppo a quelle della vita. Una volta raggiunto questo punto un paziente è entrato nell’anticamera del cambiamento; e il terapeuta allora ha il compito di facilitare il processo della volontà, come vedremo nel capitolo successivo.

La terapia di gruppo interazionale incrementa l’assunzione della responsabilità non solo rendendo i membri consapevoli del contributo personale alle situazioni insoddisfacenti delle loro vite, ma anche accentuando il ruolo di ciascun membro nella condotta del gruppo. Il principio che sta alla base è che, se i membri assumono la propria responsabilità per il funzionamento del gruppo, allora divengono consapevoli di avere la capacità (e l’obbligo) di assumersi la responsabilità in tutte le sfere dell’esistenza.

La terapia di gruppo efficace è quella nella quale i membri stessi sono gli agenti primari d’aiuto. Quando i pazienti ripensano a un’esperienza riuscita di terapia di gruppo, di rado attribuiscono il miglioramento direttamente al terapeuta: o a specifici commenti del terapeuta o alla loro relazione complessiva con il terapeuta. Invece i pazienti in genere citano alcuni aspetti delle loro relazioni con gli altri membri: il sostegno, o il conflitto, e la decisione, l’accettazione o, spesso, l’esperienza dell’essere stati utili agli altri. Il gruppo centrato su un conduttore non riesce a incoraggiare simili avvenimenti, e in esso capita spesso che tutta la speranza e l’aiuto siano visti come emanati dal conduttore. (Approcci centrati sul conduttore come i gruppi di terapia della Gestalt e i gruppi analitici transazionali non riescono, a parer mio, ad approfittare pienamente del potenziale terapeutico inerente al lavoro di gruppo.)

È importante che il conduttore del gruppo sia consapevole che il suo compito è creare un sistema sociale: un sistema nel quale il gruppo e i membri stessi siano gli agenti del cambiamento. Il conduttore deve avere un’acuta sensibilità per la posizione della responsabilità nel gruppo. Se con sgomento attende impaziente gli incontri della terapia di gruppo e alla conclusione di ciascuno è prosciugato ed esausto, allora è chiaro che qualcosa sta andando molto male nel tentativo di formare una cultura terapeutica ottimale. Se il conduttore ha la sensazione che tutto dipenda da lui, che se lui non lavora nel gruppo non accadrà nulla, che i membri siano spettatori venuti a vedere che cosa c’è in cartellone quella settimana, allora i membri del gruppo sono riusciti a trasferire il carico della responsabilità sulle spalle del terapeuta.

Come può il terapeuta contribuire a formare un gruppo che si assuma la responsabilità del proprio funzionamento? In primo luogo il conduttore deve avere la consapevolezza di essere in genere l’unica persona nel gruppo che, sulla base dell’esperienza passata, ha in mente una definizione relativamente chiara di cosa sia una seduta produttiva rispetto a una seduta che tale non è. Il conduttore deve aiutare i membri ad acquisire tale definizione e poi incoraggiarli ad agire di conseguenza. Ci sono parecchie tecniche disponibili. Il conduttore può, per esempio, ricorrere alla verifica del processo, intervenendo nell’incontro di tanto in tanto e chiedendo ai membri di valutare come è andato l’incontro per loro nei precedenti trenta minuti. Se l’incontro si è trascinato penosamente, il conduttore può chiedere loro di paragonarlo a una seduta precedente, dinamica, in modo che a poco a poco comincino a differenziare incontri in cui si lavora da incontri dove ciò non avviene. Se tutti sono d’accordo che l’incontro è stato fruttuoso e convincente, il conduttore incoraggia i membri a fissare nella loro mente quella seduta come lo standard al quale paragonare gli incontri successivi.

Se in risposta alla domanda del conduttore sulla valutazione dell’incontro da parte dei membri, uno di loro commenta di essere stato coinvolto solo per i primi quindici minuti ma di aver poi perso la sintonia nei successivi trenta, dopo che Joe o Mary hanno cominciato a parlare, il conduttore può, in svariati modi, chiedere perché quel particolare membro abbia permesso che l’incontro andasse in una maniera che per lui era insoddisfacente. Come avrebbe potuto ricanalizzare l’incontro? Il conduttore può intervistare tutto il gruppo e, incontrando un’insoddisfazione generale rispetto all’incontro, chiedere: «Sembra che tutti voi ne foste a conoscenza. Perché non avete fermato l’incontro per fargli cambiare direzione? Perché viene lasciato a me il compito di fare quello che chiunque qua dentro è in grado di fare?» Sono possibili molte variazioni della tecnica, naturalmente, a seconda delle preferenze stilistiche del terapeuta; quello che è importante è la strategia sottesa di incoraggiare i pazienti a prendersi la responsabilità delle loro vite attraverso il processo del prendersi la responsabilità della loro terapia.

I grandi gruppi di terapia. Lo stesso principio opera nei gruppi terapeutici più grandi. Il tentativo di aiutare il paziente ad assumere la responsabilità personale è stato un impulso importante nella creazione della comunità terapeutica. L’essere confinati in un ospedale psichiatrico è sempre stata un’esperienza che priva dell’autonomia: i pazienti sono privati del potere, della capacità decisionale, della libertà, dell’intimità e della dignità. Maxwell Jones concepiva la comunità terapeutica in modo che l’esperienza ospedaliera aumentasse l’autonomia del paziente invece di ridurla. Il reparto ospedaliero doveva essere ristrutturato in modo che i pazienti avessero un’ampia responsabilità rispetto al loro trattamento e al loro ambiente. Il cosiddetto “governo dei pazienti” si assumeva il diritto di decidere le regole del reparto, le autorizzazioni, le decisioni del personale e persino le dimissioni e i trattamenti medici.

Un sinonimo di assunzione di responsabilità è “gestione della vita”. Molti approcci terapeutici enfatizzano l’insegnamento delle abilità per gestire la vita. Le unità di pazienti ospedalizzati organizzano comunemente gruppi di gestione della vita o di “contratto” nei quali il “contratto” di ciascun paziente è esaminato, e varie aree contrattuali vengono discusse. Il gruppo può poi sistematicamente concentrarsi su quello che ciascuna persona può fare per prendere il controllo di questioni specifiche quali le finanze personali, la salute fisica o la vita sociale.

L’assunzione della responsabilità e lo stile del terapeuta

Attività e passività. La facilitazione dell’assunzione della propria responsabilità spesso pone il terapeuta di fronte a un dilemma. Un terapeuta troppo attivo subentra al paziente; un terapeuta passivo veicola un senso di impotenza. Il problema è particolarmente pronunciato nella tecnica psicoanalitica, quando la gamma limitata di comportamento dell’analista e la sua relativa inattività possono incoraggiare una dipendenza prolungata. Milton Mazer, un analista particolarmente interessato a questo problema, mise in guardia il terapeuta da un’eccessiva passività, che può scoraggiare l’assunzione della responsabilità del paziente:

[…] La passività dell’analista in presenza di un’espressione di impotenza del paziente conferma quello che questi sceglie di credere, vale a dire che egli non è responsabile delle proprie azioni e quindi può semplicemente seguire i propri impulsi. Senza avvertimenti e definizioni delle possibili conseguenze, non potrebbe con una qualche ragione concludere che non è in grado di aiutarsi, in particolare quando la conclusione gli permette di raggiungere lo scopo delle sue pulsioni?

Mazer avvertì anche che l’alternativa – l’eccessiva attività, sia in forma di guida che di posizionamento di limiti – può anche interferire con l’assunzione della responsabilità: «Non si consiglia che l’analista tenti di proibire l’atto contemplato, perché questo indicherebbe anche che il paziente non deve essere considerato responsabile e può essere tenuto a freno solo da una forza esterna, l’autorità dell’analista».

Come trovare una via di mezzo? Quale posizione facilitativa può essere assunta dal terapeuta? Mazer suggerisce che il terapeuta dovrebbe tentare di aiutare il paziente a riconoscere questo processo di scelta:

[…] Il lavoro dell’analista consiste nell’evidenziare che il paziente si trova in un processo decisionale tra l’impegnarsi e il non impegnarsi in un determinato atto, perché nel far ciò si delinea chiaramente la responsabilità del paziente per il proprio futuro. In tal modo al paziente è data l’opportunità di fare una scelta tra la necessità nevrotica e la libertà personale. Se è in grado di scegliere la libertà personale, opera una prima frattura all’interno della sua struttura nevrotica11.

In altre parole, il terapeuta si concentra sull’incremento della consapevolezza del paziente che (gli piaccia o meno) si trova di fronte alla scelta e non può sfuggire questa libertà.

Altri terapeuti hanno cercato modi più attivi per incoraggiare l’assunzione della responsabilità. Gli analisti transazionali, per esempio, pongono grande enfasi sul “contratto” terapeutico. Dedicano le sedute iniziali non a stabilire una diagnosi (non farebbe che accentuare la definizione della relazione terapeuta-paziente in termini di risanatore-persona che chiede di essere risanata), ma allo sviluppare un contratto. Il contratto deve essere emanato dall’individuo piuttosto che dai desideri di altri interiorizzati (stato dell’io “genitore”) in forma di “si deve” o “si dovrebbe”. Il contratto deve inoltre essere orientato verso l’azione: non «Voglio capire meglio me stesso» ma «Voglio perdere quindici chili» o «Voglio essere in grado di avere un’erezione con mia moglie almeno una volta alla settimana». Ponendosi degli obiettivi concreti e raggiungibili – obiettivi definiti dal paziente – e continuando a richiamare l’attenzione del paziente sulla relazione tra il lavoro nella terapia e questi obiettivi, i terapeuti transazionali sperano di aumentare il senso di responsabilità del paziente nei confronti del cambiamento individuale.

I suggerimenti attivi da parte del terapeuta, adeguatamente utilizzati, possono aumentare la responsabilità. Non intendo che il terapeuta debba subentrare al paziente, prendendo decisioni e, in breve, dicendogli come deve vivere: succede tuttavia che il terapeuta possa dare un suggerimento che sembra un’ovvia opzione comportamentale, ma che il paziente non ha mai considerato a causa delle sue prospettive limitate. Così la domanda «Perché no?» può essere di gran lunga più utile della domanda «Perché?». Non è nemmeno importante che il paziente segua il suggerimento: il messaggio più importante della procedura può essere precisamente che l’attenzione del paziente viene richiamata sul fatto di non avere mai preso in considerazione delle opzioni ovvie. La terapia può allora procedere e considerare la possibilità della scelta, il mito dell’assenza di una scelta, e i sentimenti evocati dal confronto con la libertà. La storia clinica che segue illustra questo punto.

George era un dentista di successo trentenne il cui problema principale era centrato sul tentativo di evitare la responsabilità. Era stato sposato una volta, ma il matrimonio era fallito in generale a causa del suo atteggiamento di dipendenza dalla moglie, e in particolare perché si «era trovato» implicato in una storia con un’altra donna. Da allora aveva sperimentato un considerevole tormento all’idea di un possibile secondo matrimonio. Poteva scegliere tra diverse donne, tutte interessate a lui, e faceva di tutto per indurre gli altri – gli amici, il terapeuta e le donne stesse – a prendere la decisione al posto suo.

Un episodio che gli chiarì le sue difficoltà nell’assumersi la propria responsabilità fu legato a una visita ai genitori, che incontrava più o meno una volta all’anno. Il padre era sempre stato considerato il “cattivo” della famiglia, e la relazione tra lui e George era stata altamente conflittuale e insoddisfacente per entrambi. Per oltre un decennio le loro liti avevano riguardato le automobili. Ogni volta che George tornava a casa, voleva usare una delle auto di famiglia, e il padre, un commerciante di auto, si opponeva, affermando che aveva bisogno lui dell’auto o che l’auto aveva problemi meccanici. George descriveva la madre come una donna potente che controllava ogni aspetto della vita familiare, con l’eccezione delle automobili, l’unica area che concedeva al dominio del marito.

George attendeva la visita imminente ai genitori con una considerevole trepidazione. Anticipava quello che sarebbe successo: avrebbe voluto usare la macchina; il padre avrebbe obiettato, affermando che i freni o le gomme erano in cattive condizioni, e poi lo avrebbe insultato chiedendogli perché non poteva essere un mensch e affittare una macchina. «Ma che famiglia è questa?» si chiedeva George. «Vado a trovarli una volta all’anno e non si prendono nemmeno la briga di venirmi a prendere all’aeroporto».

«Perché non affitta una macchina?» gli chiesi. «È un’idea così stravagante? Perché non l’ha mai presa in considerazione? Dopo tutto, guadagna quattro volte più di suo padre, non è sposato e non ha spese rilevanti. Che cosa significherebbero per lei pochi dollari in più?» George era sembrato stupito dal mio suggerimento. Per quanto fosse ovvio, era chiaro che non l’aveva mai preso seriamente in considerazione in precedenza. Ci pensò e il giorno dopo chiamò i genitori per dire quando sarebbe arrivato e che avrebbe affittato una macchina, ma la madre assicurò che la loro auto era a posto, che suo padre sarebbe venuto a prenderlo all’aeroporto, che non vedevano l’ora di incontrarlo e che non doveva nemmeno pensare di procurarsi un altro mezzo di trasporto.

All’aeroporto si verificò la scena inevitabile. Il padre lo accolse dicendo: «Perché non hai affittato una macchina? Guarda quel banco per affittare vetture. Per otto dollari e novantacinque avresti potuto noleggiare una macchina». Litigarono a voce alta, in modo imbarazzante. George si precipitò al banco dove noleggiavano le macchine, ne prese una, e con rabbia declinò l’offerta del padre di pagare per lui. Lui e il padre si recarono a casa su due vetture. Il padre si ritirò immediatamente in camera da letto e la mattina dopo uscì presto per andare a lavorare. Dato che George sarebbe rimasto un solo giorno, non ebbe modo di rivederlo.

Discutemmo lungamente di quest’episodio in terapia. George lo considerava un esempio prototipico della sua interazione familiare e una sorta di scusa per il suo stato attuale. «Se si considera quanto la cosa mi turba adesso, si immagini cosa deve essere stato crescere in una famiglia come quella». George riteneva che fosse un esempio chiaro del perché avesse tali dubbi riguardo alla sua virilità: si consideri il modello che suo padre costituiva, e si consideri come fosse impossibile parlare con lui.

Gli offrii una prospettiva completamente diversa. Che sforzo aveva fatto per parlare con il padre? Perché non considerava la sua posizione? La madre aveva offerto i servizi del padre senza consultarlo, come se fosse il maggiordomo di famiglia. Il padre si sentiva controllato, arrabbiato ed estromesso dall’unico dominio in suo potere, vale a dire l’uso della macchina. Ma che sforzi aveva fatto George per parlare con il padre? Non avrebbe potuto parlare anche con il padre al telefono? Che cosa gli aveva impedito di telefonare al padre e dire: «Papà, affitterò una macchina perché mi servirà il giorno dopo. Non arriverò fino alle dieci, ma per favore aspettami e non andare a letto, così potremo scambiare due parole». George sembrava esterrefatto. «Impossibile!» esclamò. «Perché?» chiesi. «Non posso parlare al telefono con mio padre. Lei non conosce la mia famiglia, tutto qui».

Ma George continuò a sentire senso di colpa nei confronti dei genitori e di quel vecchio ostinato dai capelli grigi, sopravvissuto a un campo di concentramento, che per trent’anni era andato a lavorare ogni giorno alle sei e mezza del mattino per mantenere quattro figli al college, fino alla laurea. «Gli scriva una lettera e gli dica semplicemente come si sente» suggerii. Ancora una volta George sembrò stupefatto dal suggerimento, e seccato dalla mia ingenuità. «Impossibile!» esclamò. «Perché?» chiesi. «Non scriviamo lettere. Non ho mai scritto una lettera a mio padre in tutta la mia vita» rispose. «Ma si lamenta del suo essere alienato da lui, del suo non essere in grado di comunicare con lui. Se vuole davvero comunicare con lui, allora faccia così. Gli scriva. Nessuno le impedisce di farlo. Non può fare a scaricabarile».

Questo semplice scambiò turbò George profondamente e quella sera, tremebondo e in lacrime, cominciò a scrivere una lettera al padre, una lettera che cominciava con «Caro papà» e non «Cari papà e mamma» o «Cari vecchi». Il destino volle che lo spirito della libertà e della responsabilità incalzasse anche il padre quella stessa notte, e prima che la lettera fosse terminata, il padre gli telefonò per scusarsi: era la prima volta che il padre gli telefonava. George gli disse della lettera che gli stava scrivendo, e fu così commosso che si mise a singhiozzare come un bambino. Basterà dire che le cose non furono mai più le stesse tra George e suo padre, e che un’analisi dell’immediata dichiarazione di “impossibilità” di telefonare al padre o di scrivergli una lettera spalancò nuove e ricche prospettive nella terapia.

Fritz Perls, la terapia della Gestalt e l’assunzione della responsabilità. Tra i sostenitori di uno stile attivo del terapeuta nell’approccio alla responsabilità, nessuno è stato più vigoroso e inventivo di Fritz Perls. Il suo approccio si basava sul fatto che l’evitare la responsabilità è un atteggiamento da riconoscere e scoraggiare.

Fino a quando si combatte un sintomo, questo diventa più forte. Se ti assumi la responsabilità per quello che stai facendo a te stesso, per come produci i sintomi, per come produci la tua malattia, per come produci la tua esistenza – in quello stesso momento entri in contatto con te stesso – la crescita comincia, l’integrazione ha inizio12.

Perls era estremamente sensibile all’uso (o al non uso) da parte del paziente della prima persona singolare e di qualsiasi slittamento dalla voce attiva a quella passiva:

Nel suo discorso, vediamo che dapprima il paziente tende a spersonalizzarsi e poi diventa il destinatario passivo delle vicissitudini di un mondo capriccioso. «Io ho fatto questo» diventa «È accaduto». Mi ritrovo a dover ripetutamente interrompere le persone, chiedendo loro di appropriarsi di loro stessi. Non possiamo lavorare con quello che capita da qualche altra parte e capita a qualcuno. E così chiedo loro di trovare una loro via che li porti da «È una giornata piena di impegni» a «Mi tengo impegnato», da «Sarà una lunga conversazione» a «Parlo un sacco». E così via13.

Dopo avere identificato le modalità dell’evitamento della responsabilità, Perls incitava il paziente a tradurre l’impotenza in reticenza e ad assumersi la responsabilità per ciascuno dei suoi gesti, sentimenti, pensieri. A volte Perls ricorreva a un esercizio strutturato chiamato «Io mi assumo la responsabilità»:

A ogni frase chiediamo al paziente di usare la frase «… e io me ne assumo la responsabilità». Per esempio: «Sono consapevole di muovere una gamba… e io me ne assumo la responsabilità», «Adesso non so che cosa dire… […] e mi assumo la responsabilità del non saperlo»14.

Perls chiedeva ai pazienti di assumersi la responsabilità per tutte le loro forze conflittuali interne. Se un paziente era nel bel mezzo di un dilemma straziante e, discutendone, sperimentava un nodo allo stomaco, Perls gli chiedeva di intraprendere una conversazione con questo nodo. «Faccia accomodare il nodo sull’altra sedia e gli parli. Reciterà la parte di se stesso e del nodo. Gli dia voce. Che cosa le dice?» In tal modo chiedeva al paziente di assumersi la responsabilità per entrambe le parti del conflitto, allo scopo di essere consapevole che nulla “accade” a qualcuno, che siamo noi gli autori di tutto, di ogni gesto, movimento, pensiero.

T.: «È consapevole di quello che stanno facendo i suoi occhi?»

P.: «Beh, adesso mi rendo conto che i miei occhi tendono a guardare altrove…»

T.: «Può assumersi la responsabilità per questo?»

P.: «… Che guardo altrove per evitare di guardarla».

T.: «Adesso può essere i suoi occhi? Scriva il dialogo tra di loro».

P.: «Io sono gli occhi di Mary. Trovo difficile guardare fisso con costanza. Continuo a spostarmi veloce da un punto all’altro»15.

Perls sentiva che noi scegliamo ciascuno dei nostri sintomi: i sentimenti “incompleti” o inespressi trovano il modo di emergere in espressioni autodistruttive, insoddisfacenti. (Perls tentava di aiutare i pazienti a completare la loro Gestalt, vale a dire le loro questioni incompiute, la consapevolezza bloccata, le responsabilità evitate.) Una descrizione di un incontro terapeutico illustra l’approccio alla responsabilità di Perls:

Due settimane fa ho vissuto una bellissima esperienza… non che sia stata una guarigione, ma per lo meno è stata un’apertura. Questa persona balbettava, e io gli ho chiesto di accentuare il suo difetto. Mentre balbettava, io gli ho chiesto che cosa sentisse nella gola, e lui mi ha detto: «Mi sento come se mi stessi strozzando». Allora gli ho offerto il braccio e gli ho detto: «Su, allora, strozza me». «Porca miseria, ti potrei anche ammazzare!» ha fatto lui. È veramente entrato in contatto con la rabbia che provava e questa frase l’ha detta ad alta voce, senza nessuna difficoltà. In questo modo gli ho fatto vedere che aveva una possibilità di scelta esistenziale, tra l’essere arrabbiato e il balbettare. Sapete quanto possa torturare gli altri uno che balbetta, tenendoli sempre sulle spine. Ogni volta che la rabbia non viene fuori, non defluisce liberamente, si trasforma in sadismo, manie di potere e altri strumenti di tortura16.

Questo approccio ai sintomi – chiedendo al paziente di riprodurre o accentuare un sintomo – è spesso una modalità efficace per facilitare la presa di coscienza della responsabilità: riproducendo deliberatamente il sintomo, in questo caso la balbuzie, l’individuo diventa consapevole che il sintomo è suo, di sua creazione. Anche se non è stata concettualizzata in termini di assunzione della responsabilità, diversi altri terapeuti sono simultaneamente giunti alla stessa tecnica. Viktor Frankl, per esempio, descrisse la tecnica di «intenzione paradossa»17, nella quale al paziente viene chiesto deliberatamente di accentuare il sintomo, di avere un attacco di angoscia, di gioco d’azzardo compulsivo, di paura di un attacco di cuore, o di bulimia. Don Jackson, Jay Haley, Milton Erickson e Paul Watzlawick scrissero di questo stesso approccio18.

Perls mise a punto un metodo unico di lavorare con i sogni, un metodo ingegnoso atto a facilitare l’assunzione di responsabilità dell’individuo riguardo ai propri processi mentali. Nel corso della maggior parte della storia, gli esseri umani hanno considerato i sogni come un fenomeno al di fuori della sfera della responsabilità personale. Questo punto di vista trova un riflesso in un modo di dire comune. Se una persona desidera disconoscere un atto o un pensiero, dice: «Non me lo sarei nemmeno sognato». Prima dell’avvento della psicologia dinamica freudiana i sogni erano in genere considerati come delle visitazioni divine o degli eventi casuali. Una teoria, per esempio, ipotizzava che le cellule della corteccia dormissero, e che mentre i metaboliti tossici della giornata venivano purificati, gruppi di cellule “si svegliassero” in forme del tutto casuali. Secondo questa teoria il sogno è costituito dalla produzione delle cellule mentre si risvegliano: la qualità assurda della maggior parte dei sogni è una funzione della sequenza fortuita secondo la quale le cellule sono stimolate; e un sogno intellegibile è formato in modo del tutto fortuito nella stessa maniera in cui un’orda di scimmie che pestano su delle macchine da scrivere potrebbero per caso comporre un paragrafo comprensibile.

Freud sostenne in modo convincente che i sogni non fossero né prodotto del caso né visitazioni esterne, ma componenti conflittuali e interagenti della personalità: gli impulsi dell’Es, il residuo diurno manifesto immagazzinato nell’inconscio, il censore del sogno (un operatore inconscio dell’io), l’io conscio (revisione secondaria). Anche se Freud aveva scoperto che l’individuo, o per lo meno l’interazione di queste parti dell’individuo era il solo autore del sogno, secondo Perls (e credo avesse ragione), la compartimentazione freudiana della psiche aveva dato come risultato lo smarrimento della responsabilità personale tra i vari componenti.

Perls, che definì il sogno «il messaggero esistenziale»19, aspirava a massimizzare l’apprezzamento dell’individuo per essere l’autore del sogno. Per prima cosa tentò di portare il sogno in vita cambiando il tempo verbale: chiese al paziente di ripetere il sogno usando il tempo presente e poi di rimettere in scena il sogno tramutandolo in una commedia nel quale il paziente diventava il regista, la scenografia e gli attori. Chiese anche di recitare le parti di tutti gli oggetti nel dramma tratto dal sogno. Per esempio, ebbi modo di osservare Perls mentre lavorava con un paziente che aveva sognato di guidare la sua macchina, che cominciava a scoppiettare e alla fine si fermava. Dietro istruzione di Perls, il paziente recitò le varie parti: il guidatore, la macchina, il serbatoio vuoto, le candele inerti, e così via. Con questa strategia sperava che il paziente cominciasse ad assemblare le parti sparse della sua personalità (vale a dire a completare la Gestalt individuale).

Secondo Perls l’assunzione della responsabilità significava che l’individuo doveva assumersi la responsabilità per tutti i propri sentimenti, inclusi quelli sgradevoli che sono spesso proiettati sugli altri.

Proprio come dicevo riguardo all’imbarazzo, non siamo disposti ad assumerci la responsabilità di criticare gli altri, e di conseguenza proiettiamo le nostre critiche sugli altri. Non vogliamo assumerci la responsabilità di discriminare, e di conseguenza la proiettiamo all’esterno, per poi vivere esigendo continuamente di essere accettati, o temendo di essere respinti. E una delle responsabilità maggiori – questo è un passaggio molto importante – consiste nell’assumerci la responsabilità delle nostre proiezioni, reidentificarci con le nostre proiezioni, e diventare quel che proiettiamo20.

Riappropriandosi di tutte le parti negate di sé, l’esperienza dell’individuo diventa più ricca: uno è a casa propria dentro di sé e dentro al proprio mondo.

È chiaro che assumersi la responsabilità della propria vita ed essere ricchi di esperienza e di capacità è la stessa identica cosa. E questo è proprio quello che spero di fare nel corso di questo breve seminario, cioè di farvi capire quanto ci sia da guadagnare nell’assumersi la responsabilità di ogni emozione, di ogni movimento che fate, di ogni pensiero che avete… e nel declinare ogni responsabilità nei confronti di chiunque altro21.

Non attribuire la responsabilità a chiunque altro è un elemento importante per lo psicoterapeuta. Perls era pienamente consapevole dello sforzo del paziente di manipolare gli altri, in special modo il terapeuta, affinché si occupassero di lui.

Il terapeuta ha tre compiti immediati: riconoscere come il paziente prova ad avere sostegno dagli altri invece di procurarselo da solo, evitare di essere risucchiato e prendersi cura del paziente e sapere cosa fare con il comportamento manipolativo del paziente22.

Non essere risucchiato non è cosa facile, e il terapeuta deve essere abituato a riconoscere e resistere ai vari e numerosi modi di persuasione del paziente:

Non sono in grado di esistere, in questa situazione, mentre lei lo è. Ho «bisogno» che lei mi indichi la strada, in modo da poter andare avanti con la mia vita. A volte la vita in questione è tutt’altro che una vita, non è che un’esistenza che include una successione di proposizioni sottoposte dal paziente a persone che amano gestire gli altri. Il terapeuta è semplicemente l’ultimo tentativo di una lunga serie. È l’ultima risorsa23.

Per resistere alla manipolazione, Perls assunse inoltre una posizione estrema. Cominciava i suoi seminari in questo modo:

Se volete impazzire, suicidarvi, migliorare, “sballare” o fare un’esperienza capace di trasformarvi la vita, questo dipende soltanto da voi. Io faccio la mia cosa, e voi fate la vostra. Chiunque non voglia assumersi questa responsabilità è pregato di non partecipare a questo seminario. Siete venuti qui perché avete liberamente deciso di farlo. Non so quanto possiate essere adulti, ma l’essenza del fatto di essere adulti consiste nell’essere in grado di assumere la responsabilità di se stessi… dei propri pensieri, delle proprie sensazioni e via dicendo24.

La posizione di Perls è straordinariamente severa e, soprattutto con pazienti seriamente disturbati, può richiedere degli adattamenti. Molti pazienti hanno bisogno di mesi di lavoro per essere nella condizione di assumersi la responsabilità, ed è spesso irrealistico fare della completa assunzione della responsabilità un prerequisito per la terapia. Molti terapeuti insistono che i pazienti altamente suicidari facciano un patto di “non suicidio” nel quale accettano di non suicidarsi per un periodo specifico di tempo. Usato in modo adeguato, un approccio del genere può diminuire in modo significativo il rischio di suicidio25.

Anche se le parole di Perls non lasciano dubbi su quanto fosse sensibile alla questione della responsabilità e cosciente del fatto che il terapeuta non dovesse accettare il carico della responsabilità del paziente, non fu mai in grado di risolvere (o, credo, di ammettere pienamente) il paradosso del proprio approccio alla terapia. Al paziente viene detto “Assumiti la tua responsabilità”. Ma qual è l’altra parte dell’esperienza del paziente? Un incontro con un vecchio saggio carismatico, dall’enorme potere, che in modo non verbale va dicendo: «E ti dirò precisamente come, quando e perché farlo». Lo stile personale attivo e l’aura di potere e onniscienza di Perls contraddicevano le sue parole. Ricevere due messaggi conflittuali simultanei, uno esplicito e uno implicito, significa ritrovarsi in una posizione di classica doppia costrizione. Lasciate che ora vi presenti un altro approccio terapeutico che cerca di evitare questa insidia.

Hellmuth Kaiser e l’assunzione della responsabilità. Tra i molti terapeuti che si sono confrontati con il dilemma dell’incremento dell’assunzione della responsabilità senza che al tempo stesso il paziente venga “preso in carico”, Hellmuth Kaiser si distinse per la coerenza e la pertinenza dei suoi contributi. Anche se sia Kaiser che Perls costruirono i loro approcci alla terapia attorno all’asse della responsabilità, lo stile e le strutture erano diametralmente opposte. Kaiser, scomparso nel 1961, era un terapeuta molto inventivo che, avendo scritto poco, non poté mai godere di un ampio riconoscimento. Negli Stati Uniti un volume delle sue opere fu pubblicato nel 1965 con il titolo Effective Psychotherapy26. Kaiser credeva che i pazienti avessero un conflitto universale, una «condizione della mente comune a tutti i nevrotici»27 che derivava dal fatto che «l’età adulta matura comporta un isolamento completo, fondamentale, eterno e insormontabile»28.

Kaiser raccontò la storia di un suo compagno d’università, Walter, che durante gli studi accettò di recitare in una produzione teatrale amatoriale e si appassionò al teatro. Aveva un talento evidente, e decise di abbandonare la facoltà di medicina per gettarsi anima e corpo nella carriera di attore. Ma quanto talento aveva? Sarebbe diventato un grande attore? Walter si tormentava per questa decisione e cercava costantemente consigli. Kaiser assisteva ai tormenti dell’amico e all’improvviso gli fu chiaro che Walter si stava aspettando l’impossibile. Non voleva semplicemente un consiglio. Voleva molto di più: voleva che qualcun altro si prendesse la responsabilità della sua decisione.

Nel periodo di tempo successivo G. (ovvero Kaiser) poté osservare come lentamente, passo dopo passo, Walter scoprì che nessun giudizio, nessun consiglio da parte di un’altra persona avrebbe potuto contribuire in alcun modo alla decisione che doveva prendere. Impietosito dalla lotta di Walter, era sempre pronto a discutere con l’amico tutti gli innumerevoli pro e contro che avrebbero potuto avere un peso per la decisione in questione. Tuttavia, quando avevano esaminato tutte le possibili conseguenze, valutato le possibilità, soppesato le indicazioni, passato al setaccio le informazioni e mancava ormai solo la conclusione finale, cadevano invariabilmente in un silenzio profondo e doloroso. Allora G. sentiva la domanda alla quale Walter non dava voce: «Dunque, tu che ne pensi?»29

Quello che Walter aveva di fronte, e dal quale si ritraeva, era un profondo paradosso umano: bramiamo l’autonomia, ma ci ritraiamo di fronte all’inevitabile conseguenza dell’autonomia, l’isolamento. Kaiser chiamava questo paradosso il «tallone d’Achille congenito dell’umanità» e diceva che ne avremmo sofferto enormemente se non lo avessimo coperto con una qualche “trucco di magia”, qualche artificio per negare l’isolamento. Quel “trucco di magia” è quello che Kaiser chiamava «sintomo universale», un meccanismo di difesa che nega l’isolamento mitigando i confini del proprio io e fondendoci con un’altra persona. In precedenza ho discusso della fusione come di una difesa contro l’angoscia della morte, nella descrizione della brama dell’uomo di un salvatore ultimo. Secondo Kaiser l’isolamento e (anche se non lo diceva esplicitamente) l’assenza di fondamento che sta sotto all’isolamento, costituiscono una motivazione potente degli sforzi di fondersi con un altro.

Quali avvenimenti ci spingono con forza a confrontarci con l’isolamento? Secondo Kaiser si tratta di quegli avvenimenti che rendono una persona consapevole di essere responsabile della propria vita, specialmente il confronto con una decisione che altera la vita o lo sviluppo di una convinzione che non sia sostenuta dall’autorità. In questi momenti ci dibattiamo, come Walter, per trovare altri che si assumano la responsabilità al posto nostro.

Kaiser era eccezionalmente sensibile agli sforzi del paziente per evitare l’isolamento della responsabilità trasferendo i poteri esecutivi al terapeuta. In che modo il terapeuta può sventare questi sforzi del paziente? Kaiser aveva meditato la questione e proposto alcuni approcci, ma alla fine aveva stabilito che il punto era così importante da dover essere sottoposto a modifiche all’interno della struttura stessa della terapia. Per scoraggiare il trasferimento della responsabilità, la terapia doveva essere completamente destrutturata, il terapeuta completamente non direttivo, il paziente completamente responsabile non solo del contenuto ma anche della procedura della terapia. Kaiser aveva dichiarato che «per il terapeuta non dovrebbero esserci regole». La sua descrizione di un’interazione terapeuta-paziente illustra bene questo punto:

P.: «Posso chiederle in cosa consisterà la terapia? Voglio dire, qual è la procedura?»

T.: «La procedura…? Non sono sicuro di capirla completamente ma, se è così, le direi: “Non esiste procedura!”»

P. : (Sorridendo educatamente) «Oh, certo, intendevo solo dire: “Che cosa vuole che faccia?”»

T.: «Quello è esattamente quello che pensavo intendesse con “procedura”».

P. : «Non capisco (20 secondi di silenzio). Voglio dire… certo, deve esserci qualcosa che si suppone io debba fare. Non è vero?»

T.: «Lei sembra certo che ci sia qualcosa che si suppone lei debba fare».

P. : «Beh, non è così?»

T.: «Per quel che mi riguarda, no».

P. : «Beh… Io… io… io non capisco».

T.: (sorridendo) «Penso che lei capisca quello che ho detto ma non ci possa davvero credere».

P. : «Ha ragione. Davvero non penso che lo intenda alla lettera».

T.: (Dopo una pausa di 10 secondi) «Lo intendo alla lettera».

P.: (Dopo un silenzio imbarazzato di 60 secondi, con un certo sforzo) «Va bene se dico qualcosa dei miei attacchi di angoscia?»

T.: «Le sembra impossibile credere che io intenda quello che ho detto».

P.: «Mi spiace… Non intendevo… ma, davvero, non sono affatto sicuro che io realmente… mi scusi, che cos’ha detto?»

T.: «Ho detto: “Le sembra impossibile credere che io intenda quello che ho detto”».

P.: (Scuotendo leggermente la testa come se fosse irritato) «No, voglio dire: va bene se io… (alza lo sguardo e, quando i suoi occhi incontrano quelli del terapeuta, si mette a ridere)»30.

Kaiser credeva che «qualsiasi cosa incrementi il senso di responsabilità del paziente per le proprie parole debba tendere a curarlo» e, come mostra questo esempio, si rifiutava persino di accettare la responsabilità di istruire il paziente su come operare nella terapia.

Ci sono ovvie limitazioni a simili tecniche estreme. Credo che Perls sbagliasse nel fornire troppa struttura ed energia al paziente, e che Kaiser sbagliasse nella direzione opposta. Nessun terapeuta può aiutare un paziente che, per via del disorientamento, della mancanza di struttura, o mancanza di fiducia, abbandona prematuramente la terapia. Dal fatto che comunque il terapeuta speri di aiutare il paziente ad assumersi la propria responsabilità, non consegue che il terapeuta debba esigere che il paziente lo faccia a ogni passo, persino fin dall’esordio della terapia. La situazione terapeutica di solito richiede flessibilità; spesso per tenere i pazienti in terapia, i terapeuti devono essere attivi e di supporto nelle sedute iniziali. In seguito, una volta che l’alleanza terapeutica si è ben saldata, il terapeuta può accentuare quelle condizioni terapeutiche che accrescono l’accettazione della responsabilità.

Altrove Kaiser sottolinea l’importanza della relazione terapeutica e della franchezza dello scambio comunicativo31, e senza dubbio nelle varie situazioni della terapia effettiva procedeva a eseguire i necessari adattamenti. Scrisse una commedia intrigante, Emergency32, che in effetti è un esempio eccellente di flessibilità terapeutica. Il protagonista dell’opera, lo psichiatra dottor Terwin, viene consultato dalla signora Porfiri, la moglie di uno psichiatra, che afferma che il marito soffre di gravi disturbi ma si rifiuta di cercare aiuto. Il dottor Terwin finge di essere un paziente e consulta il dottor Porfiri. A poco a poco, quasi impercettibilmente, dal suo ruolo di paziente comincia a trattare il terapeuta. Ovviamente il dottor Porfiri non era in grado di assumersi la propria responsabilità, nemmeno la responsabilità di richiedere una terapia: e il terapeuta non glielo chiede, ma fa invece quello che tutti i bravi terapeuti devono fare, e così modifica la terapia per adattarla al paziente.

La presa di coscienza della responsabilità
secondo il metodo americano,
ovvero come farsi carico della propria vita,
tirare le fila, prendersi cura di sé e farcela

La presa di coscienza della responsabilità ha da tempo preso piede negli Stati Uniti. Quello che una volta era il discorso, spesso oscuro, del filosofo professionista e poi il soggetto in voga nell’avanguardia da rive gauche, è diventato un argomento di consumo corrente sul suolo americano. Molti bestseller hanno come tema centrale proprio l’assunzione della responsabilità. Le vostre zone erronee, tanto per fare un esempio, contiene capitoli con questi titoli: «Il farsi carico di sé», «La scelta: la vostra massima libertà», «Non avete bisogno della loro approvazione», «Liberarsi dal passato», «Come rompere la barriera della convenzione», «Dichiarare la propria indipendenza»33. Il messaggio del libro è affermato chiaramente: «Comincia a esaminare la tua vita alla luce delle scelte che hai fatto o che non sei stato all’altezza di fare. Ciò ti addossa tutta la responsabilità di quello che sei e di ciò che provi»34. Libri del genere, per esempio Prendi la vita nelle tue mani35 e Self-Creation36 hanno anch’essi scalato rapidamente le classifiche dei bestseller negli Stati Uniti.

Il consumismo di massa richiede che un prodotto sia attraente, ben presentato e, soprattutto, che sia consumabile facilmente e rapidamente. Sfortunatamente tali richieste sono in genere incompatibili con lo sforzo e la riflessione necessari per esaminare e alterare la propria vita e la propria prospettiva del mondo. Si verifica quindi un “abbassamento di livello”: veniamo sottoposti a una serie di esortazioni, e i libri come Le vostre zone erronee ci indicano come «mettere fine al temporeggiamento»:

Mettiti a sedere e incomincia una cosa che hai rimandato. Incomincia una lettera o un libro. […] Il solo fatto di averla cominciata ti aiuterà a eliminare l’ansia che ti procurava quando era solo un progetto. […] Fissa il giorno e l’ora (diciamo, mercoledì, dalle 10 alle 10.15 di sera), e dedicati esclusivamente alla cosa che da tempo rimandi. […] Smetti di fumare… adesso! Mettiti a dieta… in questo momento! Piantala di sbronzarti… in questo istante. Chiudi questo libro e va’ a fare il primo degli esercizi fisici in programma. Così si affrontano i problemi: agendo adesso. Agisci! […] Decidi di non essere stanco fino a un minuto prima di andare a letto. Non concederti la scusa che sei stanco o ti senti poco bene per rinviare o sottrarti al disbrigo di una data cosa37.

O «liberarsi della dipendenza»:

Concediti cinque minuti, poi affronta una persona da cui dipendi. Prova quest’unico proiettile in canna: «No, non voglio farlo», e osserva come reagisce alla tua reazione. […] Smetti di dare ordini, smetti di prenderne38!

La responsabilità incontra l’interesse del pubblico, e i seminari professionali su questo tema si sono sviluppati in tutto il paese. Per esempio, un seminario chiamato «Farsi carico della propria vita» (e sottotitolato «La psicologia del benessere, il ruolo della responsabilità individuale») fu tenuto in vari luoghi tra il 1977 e il 1978: nel suo programma includeva i contributi di Rollo May sulla lotta esistenziale per la libertà personale e spirituale, Albert Ellis sull’approccio razional-emotivo alla responsabilità individuale per la crescita e il cambiamento nelle aree della sessualità e dell’intimità, e Arnold Lazarus sulla terapia multimodale, un approccio di autoguarigione descritto nel libro I Can If I Want To39. Altri argomenti del seminario includevano l’approccio comportamentale di gestione dello stress per aiutare pazienti con forti pulsioni (di Tipo A) a modificare i loro schemi comportamentali, lo stress e le reazioni fisiologiche, il superare la timidezza, gli approcci orientali (meditazione) all’autocontrollo, e il cambiare abitudini resistenti al cambiamento. Di particolare interesse è la grande diversità degli approcci clinici raggruppati in uno stesso programma. In passato non si sarebbe percepito il tema comune di questi vari approcci; attualmente sono raggruppati assieme sotto il tema della “responsabilità”.

EST

L’approccio consumistico di massa collegato all’assunzione della responsabilità raggiunge il suo apogeo con il sistema degli Empirically Supported Treatments (EST), i seminari più pubblicizzati e commercialmente di successo degli anni Settanta. Proprio a causa di questo successo e della preoccupazione per il concetto di responsabilità, EST merita di essere esaminato in modo particolarmente dettagliato.

Questo approccio di gruppo al cambiamento personale, magnificamente organizzato, rivolto alla produzione di massa e al conseguimento di enormi profitti, fu fondato da Werner Erhard e in pochissimi anni è passato da iniziativa di un singolo individuo a un’organizzazione di massa. Nel 1978 aveva raggiunto oltre centosettantamila diplomati, e nello stesso anno aveva incassato più di nove milioni di dollari, con un personale pagato di trecento persone e un personale volontario di settemila; nei suoi comitati consultivi includeva importanti dirigenti commerciali, avvocati, presidi universitari, l’ex direttore della facoltà di medicina dell’università della California, eminenti psichiatri, membri del governo e celebrità popolari. I seminari EST accolgono un ampio gruppo di individui (approssimativamente duecentocinquanta persone) che trascorrono due fine settimana ascoltando un conferenziere che li istruisce, interagisce con loro, li insulta, li sconvolge, e li guida attraverso un certo numero di esercizi strutturati. Anche se il pacchetto EST è un miscuglio di tecniche prese in prestito da tecnologie della crescita personale quali Scientology, Mind Dynamics, gruppi di incontro, terapia della Gestalt e meditazione Zen40, la sua spinta primaria è l’assunzione della responsabilità, come è illustrato chiaramente dalle affermazioni dei partecipanti e dei conduttori dei gruppi:

Il conduttore spiegava: «Ciascuno di noi è diverso perché ciascuno di noi fa scelte diverse. È l’incapacità di scegliere che ci tiene bloccati. Quando fate una scelta la vostra vita si muove in avanti. La scelta spesso si riduce a un semplice sì o no. Anche “non lo so” è una scelta, la scelta di evadere la responsabilità»41.

Una partecipante descrisse i suoi ricordi del seminario così:

«Quando sei responsabile» tuonava Stuard (il conduttore) «scopri che non ti è capitato per caso di essere disteso sui binari al passaggio del treno. Sei tu la testa di cazzo che si è messa lì da sola».

Il tema della personalità pervade ogni aspetto della formazione. In effetti, se dovessi riassumere in poche parole quello che ho avuto dal seminario, sarebbe che siamo tutti la causa della nostra esperienza e i responsabili per tutto quello che capita nella nostra esperienza42.

Il tema dell’assunzione della responsabilità è parte esplicita del catechismo EST. In questa interazione il conduttore EST discute, e discute in modo efficace, affermando che si è responsabili se si viene aggrediti:

«Siete tutti l’unica fonte della vostra esperienza e siete dunque TOTALMENTE RESPONSABILI PER TUTTO QUELLO CHE SPERIMENTATE. Quando lo capirete, dovrete rinunciare al 90 per cento delle sciocchezze che stanno gestendo le vostre vite. Sì, Hank?»

«Senta» dice il robusto Hank, con un’aria piuttosto irritata, «io capisco di essere responsabile per tutto quello che faccio. Ma quando vengo aggredito, non c’è modo che accetti la mia responsabilità per questo fatto».

«Chi è la fonte della sua esperienza, Hank?»

«In questo caso sarebbe l’aggressore».

«L’aggressore avrebbe la meglio sulla sua mente?»

«Sulla mia mente e sul mio portafoglio!»

(Risate)

«Si assume la sua responsabilità per essersi alzato stamattina?»

«Certo».

«Per essersi trovato in quella strada?»

«Sì».

«Per vedere un uomo con una pistola in mano?»

«Per vederlo?»

«Sì, per vedere l’aggressore».

«Se mi prendo la responsabilità per vedere l’aggressore?»

«Sì».

«Beh» dice Hank. «Lo vedrei sicuramente».

«Se in quel momento lei non avesse occhi, orecchie, naso o tatto, non sperimenterebbe l’aggressore, non è vero?»

«Okay, ho capito».

«Che è responsabile per essere in quella strada a quell’ora con dei soldi che potrebbero essere rubati?»

«Okay, ho capito».

«Che ha deciso di non rischiare la vita opponendosi a quell’uomo e che ha scelto di rinunciare al suo portafoglio?»

«Quando uno ti dice dammi i soldi e ha una pistola in mano, non c’è scelta».

«Ha scelto di essere in quel posto a quell’ora?»

«Già, ma non ho scelto che quel tipo si facesse vivo».

«Lo ha visto, non è vero?»

«Certo».

«Si prende la responsabilità per averlo visto, non è vero?»

«Per averlo visto, già».

«Allora capisca bene: OGNI COSA CHE SI SPERIMENTA NON ESISTE A MENO CHE VOI NON LA SPERIMENTIATE».

«OGNI COSA CHE UNA CREATURA VIVENTE SPERIMENTA È CREATA UNICAMENTE DALLA CREATURA VIVENTE CHE È L’UNICA FONTE DI QUELL’ESPERIENZA. SI SVEGLI, HANK!»43

La maggior parte dei diplomati EST, quando discute di quello che ha acquisito, enfatizza soprattutto l’assunzione della responsabilità. Uno di loro affermò che le persone:

[…] si rendevano conto di essere loro a creare le proprie emicranie, mal di schiena, asma, ulcere e altri malanni… La malattia non si limita semplicemente a capitarci. Era molto interessante osservare una persona dopo l’altra, che si alzava e ammetteva che lei e lei soltanto era responsabile dei propri malanni fisici. Una volta che queste persone avevano affrontato onestamente le esperienze delle loro vite, i loro malanni svanivano44.

Nell’interazione successiva un conduttore EST andò persino oltre e sostenne che un uomo era responsabile del cancro della moglie:

«Come diavolo posso essere responsabile del fatto che mia moglie abbia il cancro?»

«È responsabile d’aver creato l’esperienza del comportamento manifesto di sua moglie che lei ha scelto di definire, con l’avvallo di altri, una malattia chiamata cancro».

«Ma non ho causato il cancro».

«Senta, Fred, capisco che quello che sto dicendo sia difficile da far rientrare nel suo sistema di credenze e anche se capisco che adesso lei sia il più possibile aperto di vedute, per quarant’anni ha creduto che le cose accadessero là fuori e che lei, spettatore passivo, innocente, continuasse a essere travolto – da autobus, macchine, crolli della borsa, amici nevrotici, e cancro. Lo capisco. Tutti in questa stanza hanno vissuto con questo sistema di credenze. IO, INNOCENTE; LA REALTÀ LÀ FUORI, COLPEVOLE. MA QUEL SISTEMA DI CREDENZE NON FUNZIONA! È UNA DELLE RAGIONI PER CUI LA SUA VITA NON FUNZIONA. La realtà che conta è la sua esperienza, e lei è il solo creatore della sua esperienza»45.

L’ultima affermazione è sorprendentemente simile alle espressioni di Sartre a proposito della libertà e della responsabilità. Il nucleo di EST è proprio l’assunzione della responsabilità. Sembrerebbe allora che EST lavori con alcuni concetti importanti ma oscuri e li riformuli in un linguaggio che lascia a bocca aperta, un Sartre “pop”, accessibile, californiano. Se questa ingegnosa applicazione del pensiero filosofico funziona, allora i terapeuti professionisti possono avere davvero molto da imparare dalla metodologia EST.

Ma funziona? Sfortunatamente non abbiamo risposte definitive. Non è stata condotta nessuna ricerca controllata su EST, e anche se i testimonial diplomati di EST sono una legione, non ci si può basare su di loro per misurarne l’efficacia. Un coro entusiasta di testimonial simile a questo ha circondato qualsiasi nuova tecnica di crescita personale, dai gruppi T, ai gruppi d’incontro, ai gruppi naturisti, alle maratone terapeutiche, alla consapevolezza corporea Esalen, allo psicodramma, al Rolfing, all’analisi transazionale, alla Gestalt, a Lifespring, a Synanon. Tuttavia, la storia di così tanti di questi approcci (che potrebbe essere anche la storia di EST) include un periodo di intensa diffusione, poi un graduale appannamento e infine la sostituzione a opera della tecnica successiva. In effetti molti dei partecipanti a ciascuna di queste tecniche aveva già in precedenza frequentato e sperimentato qualche altro approccio. Che significa questa evoluzione? Solleva dubbi sul fatto che l’approccio abbia davvero un effetto sostanziale e durevole?

Studi successivi dimostrarono che una percentuale estremamente alta di diplomati EST aveva valutato la sua esperienza come altamente positiva e costruttiva. Tuttavia, si deve essere cauti nel valutare una ricerca che non include controlli adeguati; molta ricerca empirica tende a suggerire che non c’è valutazione del risultato più suscettibile di errore di un semplice controllo successivo, che in sostanza è una semplice compilazione di testimonianze. Per citare un solo aspetto della concezione della ricerca, si consideri il problema dell’autoselezione. Chi sceglie di andare ai seminari EST? È possibile che coloro che scelgono di frequentarli, di investire una grossa somma di denaro, di sopportare un fine settimana estenuante, abbiano intenzione di cambiare (o di dire che cambieranno) indipendentemente dal contenuto del programma?

La risposta è: «Sicuramente sì!» Ricerche sugli effetti placebo, sulle condizioni delle aspettative del soggetto e sull’atteggiamento psicologico dei volontari indicano con forza che il risultato dell’individuo è profondamente influenzato da fattori che esistono prima del seminario. Questa tendenza naturalmente rende difficile la ricerca: l’abitudine di reclutare dei volontari per una procedura di crescita personale (come un gruppo di incontro) e di confrontare i loro risultati con quelli di un numero equivalente di soggetti di controllo non volontari è notevolmente imperfetta. Infatti un gruppo o un laboratorio di crescita personale composto da individui pieni di zelo che si sono impegnati nell’esperienza, desiderosi di raggiungere una crescita personale e con alte aspettative (create in parte da un efficace battage precedente al gruppo) sarà sempre giudicato un successo dalla grande maggioranza dei partecipanti. Negarne i benefici significherebbe creare una dissonanza cognitiva significativa. Il battage successivo al gruppo e le testimonianze entusiaste sono onnipresenti. Solo un conduttore particolarmente incapace può fallire in circostanze del genere.

Se non esiste una prova affidabile dei risultati, su cosa ci possiamo basare? Ritengo che se esaminiamo le prove interne disponibili su EST, scopriremmo un’incongruenza seria e allarmante. Pur affermando l’obiettivo dell’assunzione della responsabilità, EST è al tempo stesso straordinariamente strutturato. Nei fine settimana EST ci sono numerose regole di base imposte con forza: niente alcol, droghe, tranquillanti, orologi. A nessuno è permesso andare in bagno se non nelle quattro apposite pause. Si devono sempre portare le targhette con i nomi. Le sedie non devono essere spostate. I ritardatari vengono puniti proibendo loro l’ingresso o umiliandoli pubblicamente46. Ai membri non è permesso mangiare se non durante le interruzioni per i pasti molto distanziate tra loro, e viene imposto di consegnare gli spuntini eventualmente nascosti nelle tasche.

Molti diplomati EST si offrono di fare da assistenti non pagati e, a giudicare dalla descrizione delle loro esperienze, sono particolarmente entusiasti di rinunciare alla loro autonomia e di crogiolarsi tra i raggi potenti dell’autorità. Si considerino questi commenti fatti da un volontario EST, uno psicologo clinico:

Il mio compito successivo consisteva nel sistemare le targhette con i nomi. Dovevano essere dieci in una fila verticale, senza toccarsi, in colonne perfettamente parallele. Adesso dovevo diventare consapevole della meticolosa attenzione al dettaglio di EST. Le istruzioni per ogni incarico erano esatte, deliberate con la precisione che ci si poteva aspettare di trovare in un eccellente manuale. Ci si aspettava che eseguissi il compito con la medesima precisione.

Dalle targhette con i nomi passai alle tovaglie… Ogni tovaglia doveva essere fissata agli angoli e quasi raggiungere, ma non toccare, il pavimento… Alzai lo sguardo sulla persona che supervisionava gli assistenti e che mi stava accanto. «Tocca il pavimento…»

Risistemai la tovaglia con maggiore attenzione. Gli angoli erano perfetti e la tovaglia cadeva precisamente alla lunghezza richiesta. Avevo completato il lavoro, che nei termini EST significa che l’avevo terminato senza lasciare nulla al di fuori dell’esperienza47.

Dove trovare libertà e responsabilità in mezzo a questa brama di struttura e conformità? La mia preoccupazione aumentò ancora di più quando, a un seminario, notai una squadra di assistenti EST, tutti vestiti come Werner Erhard (maglione blu, camicia bianca con il colletto sbottonato e pantaloni grigi) e con i capelli tagliati come Werner Erhard. E, come Werner Erhard, cominciavano le loro frasi con «e» e parlavano di EST in toni sommessi, quasi religiosi. Si considerino altre relazioni di volontari (che ho tratto con grande sforzo selettivo dai libri EST approvati da Werner Erhard e inviatimi da EST per informarmi sull’organizzazione):

Una giovane donna che si era offerta come volontaria per pulire la casa di San Francisco che Werner usava da ufficio mi disse di essere stata istruita dettagliatamente su come svolgere il lavoro: «Dovevo pulire sotto a ogni oggetto, come per esempio quelli che si trovavano sul tavolino da caffè, e poi rimetterlo esattamente dove l’avevo trovato, nemmeno mezzo centimetro fuori posto»48.

La persona incaricata di pulire i gabinetti nella sede centrale raccontò che c’era una, e una soltanto, maniera di fare il lavoro. Aveva ammesso di essere rimasta stupefatta dallo scoprire quanto pensiero e sforzo potessero essere impegnati per pulire i gabinetti alla maniera EST: completamente49.

Ci vennero date istruzioni di sorridere quando svolgevamo il ruolo di “accogliere” gli altri… (altre volte) dovevamo rimanere impassibili. Quando lo feci notare al mio supervisore, mi disse semplicemente: «Lo scopo del fare l’assistente è fornire assistenza. Fate quello che state facendo adesso. Fate dello humor durante l’ora dello humor»50.

Una psicologa descrisse il suo lavoro volontario:

Il momento culminante della settimana fu quando la persona incaricata della logistica, dopo che avevo tracciato i percorsi più brevi ed efficienti per raggiungere i bagni, mi disse: «Grazie, Adelaide. Ha fatto un lavoro eccellente scrivendo quelle istruzioni». Wow! Mi sentii esaltata per ore51.

Queste parole riflettono l’evidente piacere del perdere la propria libertà, la gioia di rinunciare alla propria autonomia e indossare i paraocchi di una bestia da soma.

Molte affermazioni di diplomati EST non riflettono un senso di potere personale ma un abdicare a se stessi al cospetto di un essere superiore. Il giudizio e il prendere decisioni vengono delegati; non c’è nulla di più importante del ricevere un sorriso della divina provvidenza. Un volontario EST affermò con ingenuità:

Werner può essere davvero veemente se un lavoro non è completato. Tremo, ma so che mi vuole bene. Sembra davvero una cosa così assurda? È così che stanno le cose, e così fai il tuo lavoro nel modo in Werner vuole che sia fatto52.

Erhard divenne una figura fuori dell’ordinario, i suoi difetti ritoccati, le sue carenze tramutate in virtù, i suoi talenti trasformati in qualità sovraumane. Una psicologa clinica ci fornì la sua impressione durante il primo incontro con Erhard:

All’epoca non avevo ancora incontrato Werner. Un amico mi aveva detto: «Ti fa sentire come se tu fossi il mondo intero, come se non esistesse nient’altro». Le luci si abbassarono alle otto in punto, e Werner emerse […] sembrando molto più giovane dei suoi quarant’anni, pelle e occhi incredibilmente chiari, vestito con un’impeccabile giacca beige, una camicia bianca sbottonata e pantaloni scuri. Il pubblico si alzò in piedi e applaudì. Werner era giunto a loro53.

Il pubblico si era accomodato ed era intensamente concentrato su quest’uomo magnetico e attraente (ma non bello), con il corpo di un giocatore di tennis e gli occhi di un profeta54.

«Occhi incredibilmente chiari». «Gli occhi di un profeta». «Werner era giunto a loro». Furono queste dichiarazioni, dichiarazioni che segnalano la fine del giudizio e della libertà personale, che indussero un altro diplomato EST, anch’egli uno psicologo clinico, a scrivere: «Più prendo coscienza dei battaglioni che avanzano con il passo dell’oca al centro dell’organizzazione EST, più grande è il valore che vedo nell’anarchia»55. Così la critica maggiore che può essere rivolta a EST non è che si tratti di un’organizzazione semplicistica (in questo ci può essere qualcosa di virtuoso), non che sia una produzione di massa (ogni grande sistema di pensiero ha bisogno di un divulgatore), ma che si tratti di qualcosa di fondamentalmente contraddittorio. L’autoritarismo non genererà autonomia personale ma, al contrario, soffocherà sempre la libertà. È un sofisma affermare, come è presumibile che EST faccia, che un prodotto della responsabilità personale possa emergere da una procedura dell’autoritarismo. Dopo tutto, qual è il prodotto e qual è la procedura? Il desiderio di sfuggire dalla libertà, come ci ha insegnato Fromm, è profondamente radicato. Faremmo qualsiasi cosa per evitare la responsabilità e abbracciare l’autorità persino, se necessario, se ci richiede di fingere di accettare la responsabilità. È possibile che la procedura autoritaria sia diventata il prodotto? Forse lo era fin dall’inizio, non lo sapremo mai!

Responsabilità e psicoterapia:
i risultati della ricerca

La connessione tra responsabilità e psicoterapia poggia su due proposizioni correlate: evitare la responsabilità non contribuisce alla salute mentale, e accettare la responsabilità in psicoterapia conduce al successo terapeutico. Esaminiamo i risultati della ricerca disponibili per determinare quali prove empiriche esistono a sostegno di queste due proposizioni.

In primo luogo è importante riconoscere che queste due proposizioni semplificano eccessivamente la questione. Si consideri la natura dei meccanismi di difesa, alcuni dei quali danno come risultato l’evitare la responsabilità (quali la vittima innocente, l’esternalizzazione, o la perdita del controllo) e sono maladattivi, mentre altri (come quelli con un considerevole sostegno sociale, per esempio il credere nella grazia o nella divina provvidenza) possono rivelarsi utili per qualcuno. Alcuni individui possono fronteggiare la responsabilità in modo troppo completo, troppo aperto, e senza le risorse interiori necessarie per affrontare l’angoscia che ne consegue. Una certa quantità di forza dell’io è necessaria se si deve fronteggiare la propria situazione esistenziale e l’angoscia a essa inerente.

L’evitare la responsabilità fa male alla salute mentale?

Non è facile provare che l’evitare la responsabilità faccia male alla salute mentale, dato che né la responsabilità, né la libertà o la volontà sono state esplicitamente studiate dai ricercatori. Una ricerca informatica non ha segnalato alcun tipo di studio empirico. Il termine “responsabilità” non si trova tra le categorie nosologiche formali, né il concetto dell’evitare o dell’accettare la responsabilità trova posto negli studi di psicoterapia. Di conseguenza mi sono accostato alla letteratura in modo obliquo, e ho cercato di scoprire se esistevano studi che avessero anche solo una possibile rilevanza per la responsabilità. Il costrutto più rilevante era il locus of control* (si veda il capitolo 4). Il locus of control esterno può essere considerato come una mancanza di accettazione della responsabilità. Se l’evitare la responsabilità fa “male” alla salute mentale, allora mi aspettavo che il locus of control esterno fosse correlato a un funzionamento personale anormale. Trovai una ricerca che dimostrava che gli esterni, se paragonati agli interni, avevano sentimenti di inadeguatezza più pronunciati56; più disturbi dell’umore57, erano più tesi, ansiosi, ostili e confusi58; raggiungevano un successo inferiore, erano meno attivi politicamente e più suggestionabili59; erano meno fantasiosi, più frustrati e più apprensivi60. I pazienti schizofrenici ottenevano con molta più probabilità un punteggio orientato verso l’esterno61. Era più probabile che i pazienti psichiatrici seriamente compromessi fossero esterni rispetto ai pazienti solo in parte compromessi62.

La depressione è il problema più studiato con il costrutto del locus of control, dato che la mancanza di speranza evidente e il fatalismo del paziente depresso suggeriscono, anche a un osservatore non addestrato, che questi pazienti hanno perso la convinzione di avere il potere di agire per conto proprio e, come risultato del crollo di una correzione percepita tra il comportamento e il risultato, sviluppano un senso profondo di impotenza e disperazione63.

Una teoria importante della depressione è quella dell’«impotenza acquisita», formulata da Martin Seligman, secondo la quale le varie componenti della depressione (affettive, cognitive e comportamentali) sono conseguenze dell’aver imparato presto nella vita che i risultati (ovvero i riconoscimenti e le punizioni) sono al di fuori del proprio controllo64. Una persona che impara che non c’è una relazione causale tra il proprio comportamento e il risultato non solo cessa di agire in una maniera efficace, ma comincia anche a manifestare sintomi depressivi. Tradotto in termini esistenziali, questo modello postula semplicemente che coloro che credono di non essere responsabili per quello che accade loro nel mondo possono pagare una penale molto alta. Anche se evitano di pagare il prezzo dell’angoscia esistenziale associata alla presa di coscienza della responsabilità, possono, secondo Seligman, sviluppare fatalismo e depressione.

Il modello di depressione da impotenza acquisita è radicato nella psicologia sperimentale e si basa su osservazioni che animali da laboratorio esposti a uno stress inevitabile diventano meno adattivi nell’evitare uno stress successivo che potrebbe essere evitato. Per esempio, i cani che subivano uno shock inevitabile, erano conseguentemente meno bravi a sfuggire a uno shock evitabile rispetto a cani che avevano subito in precedenza uno shock evitabile, o che non avevano subito alcuno shock65. Ci sono stati molti tentativi di realizzare degli studi di laboratorio di questo tipo con gli esseri umani. Per esempio, dei soggetti sono stati esposti a un rumore che non poteva essere evitato e a un controllo successivo avevano manifestato più difficoltà a sfuggire a un rumore evitabile una volta messi nell’equivalente umano di una shuttle box per animali66, o avevano offerto delle performance scadenti in certi test basati sulla risoluzione di problemi67.

Questi risultati dimostrano che se agli individui viene “insegnato” in laboratorio che il comportamento non può liberarli dalle situazioni, il comportamento successivo nell’affrontare le cose sarà compromesso. Inoltre David Klein e Martin Seligman rilevarono che gli individui depressi (che non avevano ricevuto un trattamento precedente basato sul rumore inevitabile) ottenevano dei risultati paragonabili a quelli di individui non depressi che avevano invece subito il rumore inevitabile68. Miller e Seligman fecero scoperte comparabili agli esperimenti basati sulla risoluzione di problemi69. In altri esperimenti si scoprì che i soggetti depressi (a differenza di quelli non depressi) hanno basse aspettative di successi futuri in compiti di laboratorio, e che queste aspettative non sono influenzate da alcun tipo di sostegno70*.

Il locus of control, uno strumento psicologico ampiamente usato e che concettualmente può essere paragonato all’accettare e all’evitare la responsabilità, offre alcune prove che l’evitare la responsabilità (locus of control esterno) sia associato ad alcune forme di psicopatologia, in particolare la depressione. Il paradigma dell’impotenza acquisita in laboratorio offre prove ulteriori.

Cosa ci dice la ricerca delle origini della posizione dell’individuo nei confronti del controllo o della responsabilità? Ci sono prove che gli antecedenti dell’internalità e dell’esternalità si trovino nell’originario ambiente familiare: un milieu coerente, caloroso, attento e reattivo è il precursore dello sviluppo di un locus of control interno, laddove un milieu incoerente, imprevedibile e relativamente poco consono (che più di frequente si trova nelle classi socioeconomiche più basse) genera un senso di impotenza personale e un locus of control esterno73. L’ordine in cui si è nati fa anch’esso la differenza: i primogeniti sono più probabilmente interni (forse perché vengono più di frequente posti in posizioni di responsabilità per le questioni domestiche e per la loro condotta, e sono spesso incaricati di occuparsi dei fratelli)74.

La psicoterapia incrementa la presa di coscienza
della responsabilità? È cosa utile?

Diversi progetti di ricerca hanno investigato la relazione tra il risultato terapeutico e lo slittamento del locus of control. John Gillis e Richard Jessor dimostrarono che i pazienti ospedalizzati che avevano goduto di un miglioramento erano passati dal locus of control esterno a uno interno75. Dua riportò che un programma di terapia comportamentale tra adolescenti delinquenti aveva creato un aumento di internalità76. Stephen Nowicki e Jarvis Barnes dimostrarono un aumento dell’internalità con l’utilizzo di una formazione nell’ambito dell’effectance in un campo estivo di adolescenti dii quartieri poveri77. Studi di membri di gruppi d’incontro esperienziali evidenziarono che l’esperienza di gruppo spostava i pazienti verso l’internalità78. Purtroppo si tratta di contributi esigui, non rigorosi e senza l’uso di gruppi di controllo, o con un controllo non continuativo che non teneva conto dell’effetto Hawthorne. Inoltre i risultati erano di correlazione e non dicevano se il paziente fosse migliorato a causa dello slittamento del locus of control o se avesse mutato il locus of control per via del miglioramento.

Un altro approccio della ricerca è consistito nello studio dei resoconti soggettivi dei pazienti che avevano completato la terapia. Quando fu chiesto di nominare degli aspetti della terapia che trovavano particolarmente utili, spesso i pazienti citarono la scoperta e l’assunzione della responsabilità personale. In uno studio di venti pazienti di terapia di gruppo, io e i miei colleghi somministrammo un test qualitativo (Q-sort)* in sessanta punti, che rifletteva i meccanismi del cambiamento nella terapia79. Questi sessanta punti erano stati elaborati sulla base di dodici categorie di “fattori curativi”, ciascuna costituita da cinque punti: 1) catarsi; 2) autocomprensione; 3) identificazione, ovvero con altri membri diversi dal terapeuta; 4) ricostruzione familiare; 5) istillazione della speranza; 6) universalità, ovvero l’imparare che altri avevano problemi simili; 7) coesione del gruppo, accettazione da parte degli altri; 8) altruismo, essere utili agli altri; 9) suggerimenti e consigli; 10) “input” di apprendimento interpersonale, l’apprendere come gli altri percepiscono una persona; 11) “output” di apprendimento interpersonale, il migliorare le capacità di relazioni interpersonale; 12) fattori esistenziali. La categoria “esistenziale” consisteva in questi cinque punti:

1. Riconoscere che a volte la vita è ingiusta e scorretta.

2. Riconoscere che alla fine non c’è scampo da un certo dolore della vita e dalla morte.

3. Riconoscere che, per quanto ci si avvicini agli altri, si deve comunque affrontare la vita da soli.

4. Fronteggiare le questioni di base della propria vita e morte, e così vivere la propria vita in modo più onesto e avere meno a che fare con le banalità.

5. Imparare che ci si deve far carico della responsabilità finale per come si vive la propria vita, indipendentemente dalla guida e dal sostegno che si riceve dagli altri.

In questo studio i terapeuti non erano orientati esistenzialmente, ma conducevano dei gruppi tradizionali basati sull’interazione, e la categoria del “fattore esistenziale” era stata inserita in un secondo momento. Quindi, quando i risultati furono tabulati, apprendemmo con grande sorpresa che molti pazienti avevano attribuito una considerevole importanza a questi punti “aggiunti” all’ultimo momento, che non facevano parte di un normale programma terapeutico. L’intera categoria dei fattori esistenziali si ritrovò inserita al sesto posto su dodici (attraverso la somma e della media dell’ordine raggiunto dai punti individuali). Il punto 5 dell’elenco aveva ottenuto una valutazione particolarmente elevata. Dei sessanta punti complessivi, era stato considerato il quinto più importante.

York ed Eisman ripeterono l’esperimento con diciotto pazienti tossicodipendenti e alcolisti che dovevano svolgere sei mesi di psicoterapia intensiva, sei giorni alla settimana (con grande enfasi posta sui metodi di gruppo) e quattordici genitori di tossicodipendenti, anch’essi coinvolti in un programma di trattamento intensivo. Anche in questo caso i ricercatori trovarono che il punto sulla responsabilità era scelto spesso (risultò il primo di sessanta punti in un gruppo e il secondo nell’altro)80.

Dreyer somministrò un “fattore curativo” a dei pazienti in ingresso in un ospedale psichiatrico, e poi di nuovo dopo otto giorni. Dimostrò che la maggior parte dei pazienti in entrata in un ospedale psichiatrico si aspettava che la modalità principale d’aiuto sarebbe consistita nei consigli o nei suggerimenti concreti forniti da altre persone per aiutarli a gestire i loro problemi principali. All’ottavo giorno di trattamento la maggioranza aveva modificato questa convinzione: invece di credere che l’aiuto sarebbe venuto da una fonte esterna, affermavano che sapevano di doversi assumere una maggiore responsabilità personale81.

In uno studio esteso sugli effetti dei gruppi femminili di crescita della consapevolezza, Morton Lieberman e altri relazionarono che «i colloqui con le partecipanti del gruppo rivelavano ripetutamente una preoccupazione tematica per il fatto che “io sola sono responsabile della mia felicità”»82.

Leonard Horowitz studiò tre colloqui registrati con quaranta pazienti. (Il primo video era stato girato prima dell’inizio della terapia, il secondo dopo otto mesi, il terzo dopo dodici mesi.) Fece un conto sistematico del numero di affermazioni fatte da un paziente che iniziavano con «Non posso…» o «Devo…» o con sinonimi («Non sono in grado…», «Sono costretto…», «Ho bisogno…» e così via), e segnalò che, con il progredire della terapia, si riscontrava un calo significativo di tali affermazioni, un minor senso di incapacità e una graduale assunzione della responsabilità personale83.

Questi dati suggeriscono tutti che il paziente di una psicoterapia riuscita diventa più consapevole della responsabilità personale per la propria vita. Sembra che uno dei risultati di una terapia efficace sia che non solo si impara a relazionarsi e a conoscere l’intimità (ovvero si impara quello che si può ottenere dal relazionarsi agli altri), ma si scoprono anche i limiti di tali relazioni (ovvero quello che non si può ottenere dagli altri, nella terapia come pure nella vita).

Lo stile del terapeuta: i risultati della ricerca. I pazienti, in special modo quelli che cercano di evitare la responsabilità, preferiscono i terapeuti attivi e direttivi che strutturano le sedute di terapia (proprio come, dopo tutto, si suppone debbano fare delle buone guide). Questa preferenza è stata studiata in tre progetti che usano il locus of control come loro strumento di base.

G.C. Helweg ha chiesto a dei pazienti psichiatrici e a degli studenti di college di visionare dei filmati di due terapeuti che conducevano un colloquio – Carl Rogers, con un approccio non direttivo, e Albert Ellis con un approccio estremamente attivo e direttivo – e poi di selezionare il terapeuta che ciascuno di loro avrebbe preferito. I soggetti che avevano un locus of control esterno (ovvero che evitavano la presa di coscienza della responsabilità) hanno preferito di gran lunga il terapeuta attivo e direttivo84.

R.A. Jacobsen ha chiesto a dei terapeuti di orientamento comportamentale e analitico di costruire i profili dei loro approcci terapeutici. Poi ha chiesto ai soggetti di selezionare il terapeuta che avrebbero preferito, e ha rilevato che gli individui con un locus of control esterno preferivano i terapeuti direttivi e comportamentali, mentre quelli con un locus of control interno preferivano terapeuti analitici non direttivi85. Utilizzando tecniche simili, K.G. Wilson scoprì che la variabile critica era la posizione del terapeuta (come veniva percepita dal paziente) nei confronti del controllo e della partecipazione. Gli interni avrebbero selezionato terapeuti che loro in quanto pazienti ritenevano capaci di concedere piena partecipazione e controllo nel processo terapeutico86.

Il problema con i pazienti con problemi di accettazione della responsabilità (ovvero con un locus of control esterno) è che la scelta di un terapeuta attivo e direttivo può essere controproducente: il controllo richiesto non è il controllo che si richiede per risolvere la situazione. Più il terapeuta è attivo ed energico (anche se palesemente al servizio dell’aiutare il paziente ad assumersi la responsabilità), più il paziente è infantilizzato.

Un progetto che io e i miei colleghi abbiamo svolto dimostra questo punto87. Abbiamo studiato diciotto gruppi d’incontro che si sono riuniti per trenta ore in un periodo di dieci settimane guidati da conduttori provenienti da un’ampia varietà di scuole ideologiche. Degli osservatori valutavano ogni aspetto del comportamento del conduttore: livello totale di attività, contenuto dei commenti, grado di funzione esecutiva (definizione di limiti, regole, norme, obiettivi; gestione del tempo; ritmo, interruzione degli interventi), e il numero di esercizi strutturati proposti al gruppo (ovvero gli esercizi di feedback, la sedia che scotta, lo psicodramma). Tutti i conduttori utilizzavano esercizi strutturati: alcuni li usavano molto, altri molto poco. Quando analizzammo la relazione tra il comportamento del conduttore e il risultato (autostima, meccanismi di adattamento, stile interpersonale, valutazione da parte dei pari, valori della vita, e così via), emersero alcune correlazioni interessanti:

1. Esisteva una relazione curvilineare tra la quantità di funzione esecutiva e il risultato. In altre parole, la regola del giusto mezzo prevaleva: troppo o troppo poco si correlavano a un risultato modesto. Troppa funzione esecutiva dava come risultato un gruppo autoritario altamente strutturato nel quale i membri non riuscivano a sviluppare un senso di autonomia. Poca funzione esecutiva, lo stile del laisser faire, dava come risultato un gruppo confuso e senza progressi.

2. Più gli esercizi usati dal conduttore erano strutturati, più i membri lo consideravano competente immediatamente al termine del gruppo, ma meno positivo era il risultato dei membri di quel gruppo (con una valutazione a sei mesi di distanza).

I risultati parlano da soli: se volete che i pazienti pensino che sapete che cosa state facendo, siate una guida attiva, energica, strutturante. Tuttavia, siate pronti ad accettare il fatto che una simile strategia intralcia la crescita del paziente e probabilmente è di impedimento all’assunzione della responsabilità.

I limiti della responsabilità

Il concetto di responsabilità è cruciale per la psicoterapia e, pragmaticamente, “funziona”: la sua accettazione mette l’individuo in grado di raggiungere l’autonomia e il proprio pieno potenziale.

Ma fino a che punto arriva questa verità? Molti terapeuti sono dei veri e propri avvocati della responsabilità, ma in segreto, nel profondo dei loro cuori e nei loro sistemi di credenze, sono dei deterministi ambientali. Ho trattato psicoterapeuti per molti anni, sia in terapia individuale che in terapia di gruppo per psicoterapeuti, e ho scoperto con quanta frequenza gli psicoterapeuti (e non escludo me stesso) mantengano un doppio standard: i pazienti costituiscono e sono responsabili dei loro mondi, mentre i terapeuti stessi vivono in un mondo strutturato, oggettivo e sensato, e fanno del loro meglio per adattarsi a quello che realmente è.

Sia i terapeuti sia i pazienti pagano lo scotto per i loro sistemi di credenze incoerenti. I terapeuti propugnano l’assunzione della responsabilità, ma il loro dubbio segreto trapela; non riescono a convincere i pazienti di qualcosa in cui loro stessi non credono. Sono inconsciamente solidali e, di conseguenza, finiscono spesso intrappolati nella resistenza del paziente. Per esempio, nel trattamento di una donna divorziata depressa alla disperata ricerca di un altro compagno, il terapeuta può cominciare a vacillare nei suoi tentativi di aiutare la paziente ad assumersi la responsabilità. La resistenza di lei tocca una corda sensibile nel terapeuta, che comincia a pensare: «La paziente sembra una persona interessante, attraente, la cultura è dura per una donna single di quarantotto anni, la scena dei single è poco invitante sotto molti punti di vista, ci sono pochi uomini etero attraenti a San Francisco. Il suo lavoro, del quale ha bisogno, non le offre opportunità di incontrare gente. Forse ha ragione; se solo Quello Giusto si facesse avanti, il 90 per cento dei suoi problemi evaporerebbe. Questa paziente è una vittima del destino». E così il terapeuta entra in collusione con la resistenza della paziente e in breve è ridotto al ruolo di chi suggerisce strategie per incontrare uomini: club per single, appuntamenti via internet, genitori senza partner, e così via (come se la paziente fosse incapace di considerare tali opzioni da sola).

Il terapeuta comincia davvero a conoscere la sua paziente quando Quello Giusto si fa avanti e in qualche modo il “vissero felici e contenti” non si verifica. Quello Giusto non è abbastanza intelligente, è troppo dipendente o troppo indipendente, troppo povero o troppo ricco, o troppo freddo. O lei non vuole rinunciare alla sua libertà o si aggrappa a lui con una tale disperazione che lui ne è spaventato e se la fila, o lei è così angosciata che la sua spontaneità si irrigidisce e lui la trova vuota e poco interessante. In effetti il terapeuta con il tempo troverà che non c’è fine al numero di modi che un individuo che vive conflitti con l’intimità è in grado di gestire per scardinare una relazione.

Ovviamente, in una relazione terapeutica o di qualsiasi altro tipo, i doppi standard non funzionano: il terapeuta deve esaminare le proprie credenze riguardo alla responsabilità e raggiungere una posizione coerente. La relazione tra l’ambiente e la libertà personale è straordinariamente complessa. Sono gli individui a tracciare i propri destini o, secondo i deterministi ambientali come Skinner, sono interamente determinati dalle contingenze ambientali? «Una persona non agisce sul mondo, il mondo agisce su di lei»88.

In generale in un dibattito tra un determinista e un sostenitore della libertà (uno che crede nella libertà della volontà), logica e realtà sembrano essere dalla parte del determinista; il sostenitore della libertà è “più morbido” e si rifà ad argomenti imponderabili, emotivi. Gli psicoterapeuti sono così di fronte a un dilemma. Per lavorare in modo efficace devono sostenere la libertà; tuttavia molti di loro, con un ampio retroterra culturale scientifico in psicologia sperimentale o sociale o in scienze biologiche o medicina, desiderano di poter considerare questo slancio di fede dalla prospettiva della libera scelta, anche se nel profondo credono che l’argomento determinista sia indiscutibile.

Esistono tuttavia argomentazioni significative a favore della responsabilità personale, alcune delle quali hanno il sostegno della ricerca empirica e possono offrire al terapeuta il modo di uscire da questo dilemma. In primo luogo si deve riconoscere che un determinismo ambientale assoluto è una posizione estrema che non può più pretendere il supporto esclusivo della ricerca empirica “dura”. Secondo Skinner, dato che siamo determinati dal nostro ambiente, ciascuno di noi può manipolare il comportamento manipolando l’ambiente. Ma questo punto di vista è internamente privo di logica. Chi è, dopo tutto, che manipola l’ambiente? Nemmeno il determinista più incallito può asserire che noi siamo determinati dal nostro ambiente per alterare il nostro ambiente; una simile posizione conduce ovviamente a una regressione infinita. Se noi manipoliamo il nostro ambiente, allora non siamo più determinati dall’ambiente stesso; al contrario, è l’ambiente a essere determinato. Binswanger, in un saggio del 1936 per commemorare l’ottantesimo compleanno di Freud, notava che la statura personale di Freud e i suoi contributi costituissero un esempio magnifico dei limiti della teoria deterministica:

Che noi siamo vissuti dalle potenze della vita è solo una parte della verità; l’altra è che noi la determiniamo come nostro destino. Solo comprendendo le due parti insieme si può abbracciare nel suo complesso il problema del senso come quello della follia. Chi, come Freud, ha foggiato il suo destino col martello – e di ciò testimonia già da sola l’opera d’arte che egli ha creato nell’elemento del linguaggio – può negarlo meno di tutti89.

Nel suo discorso di investitura presso l’American Psychological Association nel 1974, Albert Bandura fece riferimento a questo punto di vista chiamandolo «determinismo reciproco» e operò una distinzione tra ambienti potenziali e effettivi: anche se tutti gli individui possono avere lo stesso ambiente potenziale, ciascuno in effetti regola il proprio ambiente90.

Una volta un ricercatore ha studiato bambini normali e schizofrenici in una situazione che conteneva una varietà straordinaria di congegni affascinanti, tra i quali televisori, fonografi, flipper, trenini elettrici, organi elettrici. Per attivare questi giocattoli i bambini dovevano semplicemente inserire delle monete disponibili, ma solo quando la luce del congegno era accesa; le monete inserite quando la luce era spenta aumentavano il periodo durante il quale lo strumento non sarebbe stato in funzione. I bambini normali imparavano rapidamente come trarre vantaggio da quello che l’ambiente aveva da offrire e creavano delle situazioni insolitamente vantaggiose per loro stessi. Per contro, i bambini schizofrenici, che non riuscivano a gestire questa semplice abilità di controllo, sperimentavano lo stesso ambiente potenzialmente vantaggioso come un luogo sgradevole e deprivante91.

Esiste quindi una relazione reciproca tra il comportamento e l’ambiente: il comportamento di una persona può influenzare il suo ambiente. Bandura sottolineò: «Conosciamo tutti individui con problemi che, attraverso la loro odiosa condotta, prevedibilmente alimentano climi sociali negativi ovunque vadano. Altri sono invece egualmente abili nel tirar fuori il meglio da coloro con i quali interagiscono». L’ambiente che ciascun individuo si crea, a sua volta influenza il comportamento successivo. Ambiente e comportamento sono interdipendenti, e gli ambienti non sono qualcosa di stabilito ma, proprio come il comportamento, hanno delle cause. Secondo Bandura «nella regressione delle cause a priori, per ogni gallina scoperta da un ambientalista non direzionale, un teorico dell’apprendimento sociale sarà in grado di identificare un uovo a essa preesistente».

Un ampio campo di ricerca empirica sostiene il determinismo reciproco. Questo materiale è stato esaminato con competenza e non lo citerò, salvo notare che è considerevole e rigoroso e che proviene da aree quali l’interazione comunicazionale umana, il quadro delle aspettative, le relazioni reciproche tra le preferenze personali e i contenuti dei mass media, la cognizione e la percezione, le funzioni autoregolatrici del sistema del sé (ovvero un modello psicocibernetico del sé) e il feedback biologico.

Anche se molti di quelli che sostengono la libertà sono soddisfatti dell’inatteso supporto empirico offerto dalla teoria del determinismo reciproco, parecchi potrebbero affermare che tale teoria non si spinge abbastanza avanti. Potrebbero sostenere che un difetto fatale inquina i metodi sperimentali sociopsicologici e comportamentali: il difetto consiste nel fatto che la variabile dipendente è il comportamento. Nel discutere la relazione tra libertà e determinismo, Bandura cominciò con un argomento di per sé evidente (da un punto di vista comportamentale):

Quando in una grande città si decide quale film andare a vedere tra le molte alternative offerte, l’individuo ha pochi vincoli e le sue preferenze personali emergono come determinanti predominanti. Per contro, se le persone sono immerse in una profonda pozza d’acqua, il loro comportamento sarà notevolmente simile, per quanto esse stesse possano avere una natura cognitiva e comportamentale profondamente differente92.

L’espressione «notevolmente simile» crea problemi ai sostenitori della libertà. La questione sta nel comportamento. Come si è determinato che il comportamento debba essere il criterio per misurare la scelta o la libertà? Se si misurano i movimenti degli arti, l’attività corporea o gli indici psicologici, allora sicuramente è vero che la gamma fisica o le opzioni comportamentali dell’individuo, come di qualsiasi altra creatura, sono drasticamente limitate. Ma anche se immerso nell’acqua fino al collo, un essere umano ha la sua libertà: sceglie come percepire la situazione, che atteggiamento assumere, se essere coraggioso, stoico, fatalista, astuto o abbandonarsi al panico. Non c’è limite alla gamma delle opzioni psicologiche disponibili. Quasi duemila anni fa Epitteto disse:

Devo morire. Devo essere imprigionato. Devo patire l’esilio. Ma: devo morire gemendo? Devo piagnucolare a più non posso? Chi può impedirmi di andare in esilio con un sorriso? Il padrone minaccia di mettermi in catene: Che cosa dici? Incatenarmi? Le mie gambe incatenerai, ma la mia volontà, no, quella non può domarla nemmeno Zeus93.

Non si tratta di pura retorica. Per quanto l’immagine dell’uomo che sta annegando ed è comunque in possesso della sua libertà sia grottesca, il principio che le sta dietro ha un grande significato. L’atteggiamento di un individuo nei confronti della propria situazione è il vero punto cruciale dell’essere umano, e le conclusioni sulla natura umana basate unicamente sul comportamento misurabile sono distorsioni di quella natura. Non si può negare che l’ambiente, la genetica o il caso abbiano un ruolo nella vita di una persona. Le circostanze limitanti sono ovvie: Sartre parlava di «coefficiente di avversità»94. Tutti noi ci troviamo a fronteggiare difficoltà che influenzano le nostre vite. Per esempio, le contingenze possono impedirci di trovare un lavoro o un compagno – handicap fisici, istruzione inadeguata, salute malferma, e così via – ma questo non significa che noi non abbiamo alcuna responsabilità (o scelta) all’interno della situazione. Siamo responsabili di quello che facciamo dei nostri handicap, del nostro atteggiamento, dell’amarezza, della rabbia o della depressione che agiscono sinergicamente con l’originario coefficiente di avversità per far sì che l’handicap abbia la meglio sull’individuo. Nonostante l’alto valore di mercato attribuito alla bellezza fisica, per esempio, molte persone hanno uno stile e un fascino che trascendono tratti fisici poco attraenti. (Fu Abraham Lincoln, credo, a dire che dopo i quarant’anni si è responsabili della propria faccia.) Quando tutto il resto crolla, quando il coefficiente di avversità è formidabile, tuttavia si è ancora responsabili dell’atteggiamento nei confronti dell’avversità: se vivere una vita di amaro rimpianto o trovare un modo per trascendere l’handicap e dare forma a una vita piena di significato nonostante l’handicap stesso.

Una mia paziente, la cui probabilità di trovare un compagno desiderabile era seriamente messa a rischio da una grave deformità fisica, si tormentava “scegliendo” di credere che la vita senza una relazione amorosa e sessuale con un uomo fosse priva di valore. Si era preclusa molte opzioni, incluso il profondo piacere di un’amicizia intima con un’altra donna e di un’amicizia non a scopo sessuale con un uomo. La maggior parte del lavoro terapeutico con questa paziente consistette nello sfidare questo presupposto di base, vale a dire che o si era parte di una coppia, o non si era nulla (un’opinione che ha sempre avuto un forte sostegno sociale, specialmente per le donne). Alla fine giunse a rendersi conto che, anche se non aveva alcuna responsabilità per la propria deformità, era totalmente responsabile di un sistema di credenze che portava a una seria autosvalutazione.

Il riconoscimento e l’accettazione dei “dati di fatto” esterni (il coefficiente di avversità) non implicano una posizione passiva nei confronti del proprio ambiente esterno. In effetti i neomarxisti e i sostenitori della psichiatria radicale hanno spesso rivolto quest’accusa al movimento della salute mentale: ovvero che trascurava le circostanze materiali avverse dell’individuo, al quale imponeva di accettare senza far domande il proprio destino (imposto dal capitalismo) nella vita. Ma una piena accettazione della responsabilità implica non solo che uno permei il mondo di significato, ma anche che abbia la libertà e la responsabilità di cambiare il proprio ambiente esterno quando possibile. Il compito importante è identificare il proprio autentico coefficiente di avversità. Il compito finale della terapia a questo riguardo è aiutare i pazienti a ricostruire quello che non possono alterare.

La malattia fisica

La responsabilità personale va ben al di là della responsabilità per il proprio stato psicologico. Prove mediche consistenti dimostrano che i malanni fisici sono influenzati dalla condizione psicologica dell’individuo. Il campo dell’interdipendenza tra corpo e mente nella malattia fisica è così vasto che in queste pagine mi manca lo spazio per trattarlo e posso solo tracciarne uno schizzo e fare un breve resoconto degli sviluppi sulla responsabilità in relazione a una malattia particolare, il cancro.

Nel 1901 Freud lasciò intravedere il campo del collegamento tra stress e malattia nella Psicopatologia della vita quotidiana, suggerendo che le ferite accidentali non sono tali, rappresentano invece la manifestazione di un conflitto psichico. Descrisse l’individuo «portato agli incidenti» che soffre di un’insolita quantità di ferite accidentali95. Seguendo quanto detto da Freud, due generazioni di analisti svilupparono il campo della medicina psicosomatica, nella quale un certo numero di malattie mediche (per esempio artrosi, ulcere, asma, coliti ulcerose) si sono rivelate profondamente influenzate dallo stato psicologico del paziente. La tecnologia del feedback biologico, la meditazione, un’ampia gamma di meccanismi autoregolatori suscitarono un rinnovato interesse per il controllo e la responsabilità dell’individuo, nonché per aspetti della funzionalità corporea controllati dal sistema nervoso autonomo o vegetativo.

Il concetto di responsabilità personale viene ora applicato nel trattamento di malattie come il cancro, per quanto considerate ben al di là della portata del controllo individuale. Il cancro è sempre stato considerato il prototipo di malattie a causa esterna: colpisce senza avvisaglie, e il paziente può fare ben poco per influenzarne l’insorgere e il decorso. Ci sono stati tentativi ampiamente pubblicizzati di mutare quest’atteggiamento nei confronti del cancro: i pazienti vengono esortati a esaminare il loro ruolo nella malattia. L’oncologo Simonton ha capeggiato questo tentativo proponendo una terapia contro il cancro basata sulla psicologia96. Il suo fondamento logico è basato sulla teoria della malattia corrente, che suggerisce che l’individuo sia costantemente esposto a cellule cancerogene e che il corpo resista a queste cellule, a meno che la sua capacità di resistenza non sia abbassata da un qualche fattore, rendendo così una persona sensibile al cancro. C’è prova evidente che lo stress diminuisca la resistenza alla malattia, attaccando sia il sistema immunitario sia l’equilibrio ormonale. Se questa prova è confermata, secondo Simonton le forze psicologiche possono davvero essere schierate per influenzare il decorso della malattia.

Il trattamento di Simonton consiste in meditazioni visive quotidiane nel corso delle quali il paziente dapprima si concentra su una metafora visiva di come immagina appaia il cancro, e poi medita su alcune metafore visive delle difese corporee che sconfiggono il cancro. Una paziente, per esempio, visualizzò il cancro come un ammasso di hamburger crudi e le difese del corpo, i globuli bianchi, come un branco di cani selvatici che divoravano quegli hamburger. I pazienti vengono esortati a esaminare le proprie modalità nel trattare lo stress. A un paziente la cui malattia si andava diffondendo, per prima cosa Simonton chiese: «Che cos’ha fatto per tirarsi addosso tutto questo?»

Per quel che ne so, non esiste prova affidabile che questo approccio aumenti la sopravvivenza; e si deve essere scettici nei confronti di un sistema che promette così tanto ma trascura di fare una ricerca relativamente semplice che sosterrebbe (o confuterebbe) le sue affermazioni. Ciononostante questo tipo di approccio ci insegna qualcosa di importante sul ruolo della responsabilità nella gestione di una malattia grave, perché persino quei pazienti che usano la meditazione visiva senza trarne un beneficio fisico sono spesso aiutati psicologicamente, assumendo una posizione più attiva e responsabile nei confronti della malattia. Ciò è molto importante, perché l’impotenza e la profonda demoralizzazione sono spesso i principali problemi nel trattamento di un paziente malato di cancro. Forse più di qualsiasi altra malattia, il cancro favorisce un senso di impotenza: i pazienti sentono di non essere in grado di esercitare un controllo personale sulla propria condizione. I pazienti affetti da quasi ogni altra malattia (per esempio le patologie cardiache o il diabete) hanno molti modi per partecipare al trattamento: possono fare una dieta, seguire regimi medici, riposare, fare esercizio fisico, e così via; ma i pazienti con il cancro sentono che non possono fare altro che aspettare, aspettare fino a quando la cellula cancerosa successiva salterà fuori da qualche parte nel corpo. Questo senso di impotenza è spesso accentuato dagli atteggiamenti dei medici, che di frequente non coinvolgono i pazienti nelle decisioni sul corso della terapia. Molti medici sono riluttanti a condividere le informazioni con i pazienti e spesso li evitano e consultano la famiglia riguardo alle decisioni importanti che devono essere prese in relazione ai passi successivi della terapia.

Ma se il metodo Simonton è in effetti inconsistente e non aumenta il tempo di sopravvivenza, non si basa allora su una menzogna e non è forse destinato a collassare su se stesso? E quali metodi terapeutici sono disponibili per aiutare quei pazienti che non possono accettarne le premesse e il metodo? Credo che il concetto di assunzione della responsabilità offra una leva terapeutica per qualsiasi paziente malato di cancro, persino per quelli la cui malattia è in fase molto avanzata97. In primo luogo va notato che, indipendentemente dalle condizioni fisiche di una persona (ovvero dal coefficiente di avversità), si è sempre responsabili dell’atteggiamento che si assume nei confronti del proprio carico. Nel mio lavoro con i pazienti con tumore metastatico sono stato particolarmente colpito dalle notevoli differenze tra le persone nel loro atteggiamento verso la malattia. Alcuni individui si abbandonano alla disperazione e muoiono di una morte psicologica prematura e, come alcune ricerche suggeriscono98, anche di una morte fisica prematura. Altri, trascendono la propria malattia e usano la morte incombente come un catalizzatore per migliorare la propria qualità di vita (si veda il capitolo 5). La responsabilità per l’atteggiamento di una persona non significa necessariamente la responsabilità per i propri sentimenti (anche se Sartre non sarebbe d’accordo) ma per la posizione che si assume verso i propri sentimenti. Una storiella raccontata da Viktor Frankl illustra bene questo punto.

Durante la Prima guerra mondiale un medico ebreo dell’esercito se ne stava in trincea con un amico non ebreo, un colonnello aristocratico, ed ebbe inizio una violenta sparatoria. Il colonnello disse con fare scherzoso: «Hai paura, non è vero? Questa è solo un’altra prova della superiorità della razza ariana su quella semitica». «Certo che ho paura» rispose il dottore. «Ma chi è superiore? Se tu, mio caro colonnello, avessi la paura che ho io, te la saresti filata da un pezzo»99.

Il terapeuta che lavora con un paziente malato di cancro può offrire molto concentrandosi sulla mancanza di speranza e sull’impotenza di quest’ultimo. Nel nostro lavoro con pazienti malati di cancro inseriti in gruppi di sostegno, io e i miei colleghi100 sviluppammo diversi approcci atti a generare un senso di potere e controllo. Per esempio, i pazienti malati di cancro spesso si sentono impotenti e infantilizzati in relazione ai medici. Il mio gruppo si era concentrato con attenzione sulla questione, ed era riuscito a fare in modo che i pazienti si assumessero la responsabilità della relazione con i propri medici. Dopo che i pazienti avevano descritto la relazione con i medici, altri pazienti suggerirono dei metodi differenti: era stato fatto del role playing, durante il quale i pazienti misero in pratica nuovi metodi per affermare se stessi. I pazienti impararono a richiede tempo al medico e a chiedere informazioni (se lo desideravano); alcuni impararono a chiedere di vedere i referti e le radiografie; e alcuni, quando la cosa sembrava sensata, si presero la responsabilità finale e rifiutarono cure ulteriori.

Molti pazienti del gruppo di terapia svilupparono un senso di potenza attraverso l’azione sociale. Molti si erano fatti avanti per i loro diritti di pazienti malati di cancro e avevano partecipato a campagne per questioni politiche (come, per esempio, detrazioni fiscali per la ricostruzione mammaria). Per finire, in modi già descritti, il terapeuta di gruppo aveva aiutato i pazienti a riconquistare un senso di potenza incoraggiandoli ad assumersi la responsabilità dello svolgimento del loro stesso gruppo. Aumentando la consapevolezza di poter dar forma al gruppo in modo da adattarlo ai propri bisogni – e di certo è loro la responsabilità di dare forma al gruppo – il terapeuta può aumentare l’assunzione di responsabilità di ciascun individuo anche in altre sfere dell’esistenza.

La responsabilità
e il senso di colpa esistenziale

Nel tentativo di facilitare la presa di coscienza della responsabilità del paziente, il terapeuta scopre una presenza indesiderata sulla scena terapeutica. Questa presenza è il senso di colpa, l’ombra scura della responsabilità, che spesso sconfina nel processo della psicoterapia esistenziale.

Nella terapia basata sulla componente esistenziale, il senso di colpa assume un significato in qualche modo diverso dal suo significato nella terapia tradizionale, dove si riferisce a una condizione del sentimento collegata a una sensazione di “malefatta”, vale a dire una condizione pervasiva, profondamente sgradevole che è stata descritta come un senso di angoscia accompagnato da una sensazione di malvagità. (Secondo Freud, «senso d’inferiorità e senso di colpa sono in genere difficilmente separabili»101.) Una distinzione può essere fatta tra il senso di colpa nevrotico e il senso di colpa reale o, per usare la terminologia di Buber, tra «senso di colpa» e «sentimenti di senso di colpa»102.

Il senso di colpa nevrotico emana da trasgressioni immaginate (o trasgressioni minori alle quali si reagisce in modo sproporzionatamente potente) nei confronti di un altro individuo, nei confronti di tabù antichi e moderni, o nei confronti di tribunali genitoriali o sociali. Il senso di colpa reale proviene da una trasgressione effettiva contro qualcun altro. Sebbene l’esperienza disforica soggettiva sia simile, il significato e la gestione terapeutica di queste forme di senso di colpa sono molto diverse: il senso di colpa nevrotico deve essere accostato attraverso un lavoro sul senso di malvagità, sull’aggressività inconscia e sul desiderio di punizione, mentre il senso di colpa reale deve essere affrontato con una riparazione effettiva, o simbolicamente appropriata.

Una prospettiva esistenziale in psicoterapia aggiunge dimensioni importanti al concetto di senso di colpa. In primo luogo, la piena accettazione delle responsabilità per le proprie azioni amplia la portata del senso di colpa diminuendo le vie di fuga. L’individuo non può più fare confortevolmente affidamento su alibi quali «Non avevo l’intenzione», «È stato un incidente», «Non ho potuto farne a meno», «Ho seguito un impulso irresistibile». Così il vero senso di colpa e il suo ruolo nelle relazioni interpersonali di frequente entrano in un dialogo terapeutico esistenziale.

Ma il concetto esistenziale di senso di colpa aggiunge qualcosa di ancora più importante dell’ampliamento della portata dell’obbligo di rispondere di qualcosa. Per dirla nel modo più semplice: si è colpevoli non solo tramite trasgressioni contro un’altra persona o un qualche codice morale o sociale, ma si può essere colpevoli di trasgressione contro se stessi. Tra tutti i filosofi esistenzialisti, Kierkegaard e Heidegger svilupparono più ampiamente questo concetto. È interessante che Heidegger usò lo stesso termine (Schuldig) per riferirsi sia al senso di colpa sia alla responsabilità. Dopo aver discusso gli usi tradizionali dell’espressione “senso di colpa”, affermò: «Esser colpevole ha anche il significato di “è colpa mia se”, cioè di esser causa, esser autore di qualcosa o anche “esser occasione” di qualcosa»103.

Così che uno è colpevole allo stesso modo in cui è responsabile di sé e del proprio mondo. Il senso di colpa è una parte fondamentale del Dasein (ovvero l’essere determinato), «l’esser-colpevole non è il risultato di una colpevolezza, ma, al contrario, questa diviene possibile solo “sul fondamento” di un esser-colpevole originario»104. Heidegger continuava quindi a sviluppare il tema che «l’idea di “colpevole” porta con sé il carattere del non». Il Dasein si sta sempre costituendo e «l’Esserci è sempre indietro rispetto alle proprie possibilità»105. Il senso di colpa è così intimamente collegato alla possibilità o alla potenzialità. Quando si ode il “richiamo della coscienza” (il richiamo che riporta una persona a fronteggiare la propria “autentica” modalità di essere), si è sempre “colpevoli”, e colpevoli allo stesso modo in cui si è fallito di svolgere la nostra possibilità autentica.

Questo concetto straordinariamente importante è stato sviluppato più ampiamente (e in modo assai meno oscuro) da molti altri pensatori. I contributi di Paul Tillich sono particolarmente rilevanti per la psicoterapia. Ne Il coraggio di esistere, Tillich discusse l’angoscia dell’uomo davanti all’idea del non-essere e distingue tre fonti di angoscia, tre modalità principali con le quali il non-essere minaccia l’essere. Due di esse, vale a dire la minaccia all’esistenza oggettiva (la morte) e la minaccia all’esistenza spirituale (la mancanza di senso), verranno esaminate altrove. La terza è strettamente collegata a quello di cui stiamo parlando. Il non-essere minaccia l’essere minacciando la nostra autoaffermazione morale, e noi sperimentiamo il senso di colpa e l’angoscia dell’autocondanna. Le parole di Tillich sono estremamente chiare:

L’essere dell’uomo, quello ontico come quello spirituale, non gli viene soltanto dato, ma gli viene anche richiesto. Egli ne è responsabile; è obbligato – letteralmente – a rispondere, se gli viene fatta una domanda, che cosa ha fatto di sé. Chi gli fa la domanda è il suo giudice, cioè lui stesso, che è contemporaneamente il proprio antagonista. Questa situazione genera quell’angoscia che, in termini relativi, è l’angoscia della colpa; in termini assoluti, l’angoscia del ripudio di sé o condanna […] L’uomo, in quanto libertà finita, è libero fra le contingenze della sua finitezza. Ma fra questi limiti gli viene chiesto di fare di sé ciò che è tenuto a diventare, di compiere il suo destino. In ogni atto di autoaffermazione morale l’uomo contribuisce al compimento del suo destino, alla realizzazione della sua potenzialità106.

L’opinione di Tillich che all’uomo «viene chiesto di fare di sé ciò che è tenuto a diventare, di compiere il suo destino» deriva da Kierkegaard, che aveva descritto una forma di disperazione che emergeva dal rifiutare di essere se stessi. L’introspezione (la presa di coscienza del senso di colpa) mitiga la disperazione, mentre il non sapere che si è disperati è una forma di disperazione ancora più profonda107. La stessa cosa era sostenuta da Zusya, un rabbino chassidico che poco prima di morire disse: «Quando andrò in cielo non mi chiederanno: “Perché non sei stato Mosè?. Mi chiederanno invece: “Perché non sei stato Susya? Perché non sei diventato quello che solo tu potevi diventare?”»108. Otto Rank fu profondamente consapevole di tali questioni e scrisse che quando ci proteggiamo dal vivere in modo troppo intenso o troppo veloce, o dal vivere completamente la vita, ci sentiamo colpevoli a causa della vita non utilizzata, della vita non vissuta che è in noi109.

Rollo May suggeriva che il concetto di repressione potesse essere compreso dalla prospettiva della relazione del soggetto con il proprio potenziale, e che il concetto d’inconscio potesse essere allargato fino a includere il potenziale represso non realizzato dell’individuo:

Dobbiamo quindi porci le seguenti domande se vogliamo comprendere la repressione in una data persona: qual è la relazione di questa persona con le sue potenzialità? Tra le cose che fa, che cosa sceglie e che cosa è costretto a scegliere, per tenere lontano dalla propria consapevolezza qualcosa che sa e a un altro livello che sa di sapere? […] L’inconscio quindi non deve essere pensato come una riserva di pulsioni, pensieri e desideri che sono culturalmente inaccettabili. Lo definirei piuttosto come quelle potenzialità di sapere e sperimentare che l’individuo non può o non vuole attualizzare110.

Altrove May descrisse il senso di colpa (il senso di colpa esistenziale) come «un’emozione positiva e costruttiva… una percezione della differenza tra quello che una cosa è e quello che dovrebbe essere»111. Quindi il senso di colpa esistenziale (come pure l’angoscia) è compatibile e persino necessario per la salute mentale: «Quando la persona nega le proprie potenzialità e fallisce nel realizzarle, la sua condizione è il senso di colpa»112.

La concezione che ciascun essere umano sia un unico insieme di potenzialità che bramano di essere realizzate è antica. L’entelechia di Aristotele si riferiva appunto alla piena realizzazione della potenzialità. Il quarto peccato capitale, la pigrizia, o l’accidia, è stato interpretato da molti pensatori come «omettere di fare della propria vita tutto ciò che, come ben sappiamo, potremmo»113. È un concetto molto popolare nella psicologia moderna e compare negli scritti di quasi ogni terapeuta o teorico moderno umanista o esistenziale*. Anche se è stato definito in molti modi (“attualizzazione di sé”, “realizzazione di sé”, “sviluppo personale”, “sviluppo del potenziale”, “crescita”, “autonomia”, e così via), il concetto di fondo è semplice: ogni essere umano ha un suo insieme innato di capacità e potenziali e, inoltre, ha una conoscenza primordiale di queste potenzialità. Chi non riesce a vivere pienamente, sperimenta un sentimento profondo e potente al quale qui mi riferisco come “senso di colpa esistenziale”.

L’opera matura di Karen Horney, per esempio, si basava in gran parte sul concetto che, date delle condizioni favorevoli, l’essere umano svilupperà naturalmente il proprio potenziale intrinseco, così come una ghianda si svilupperà in una quercia123. Nella sua opera principale, Nevrosi e sviluppo della personalità, Horney sostiene che la psicopatologia si verifica quando le circostanze avverse inibiscono un bambino dal crescere verso la realizzazione delle proprie possibilità. Il bambino allora perde di vista il proprio sé potenziale e sviluppa un’altra immagine di sé: un sé idealizzato verso il quale dirige le proprie energie vitali. Anche se Horney non utilizzò il termine “senso di colpa”, era ben consapevole del prezzo pagato dall’individuo per non aver adempiuto al proprio destino. Parla di senso di alienazione, dell’essere separato da quello che si è realmente, che porta il soggetto a ignorare i propri sentimenti, desideri e pensieri genuini. Si avverte tuttavia l’esistenza di un sé potenziale e, a un livello inconscio, lo si confronta continuamente con quello “effettivo” (ovvero con il sé che effettivamente vive nel mondo). La discrepanza tra quello che si è e quello che si potrebbe essere genera un flusso potente di disprezzo nei propri confronti che l’individuo deve affrontare per tutto il corso della propria vita.

Ritengo che Abraham Maslow, molto influenzato da Horney, sia stato il primo a utilizzare il termine «autorealizzazione». Anche lui credeva che gli individui si attualizzassero naturalmente a meno che le circostanze del loro sviluppo fossero così avverse da dover lottare per la propria sicurezza piuttosto che per la loro crescita (ovvero dover adottare una motivazione carenziale invece di una motivazione di accrescimento).

Se questo nucleo essenziale della persona viene negato o represso, la persona si ammala, talora in modi evidenti, talvolta invece sottilmente; a volte subitamente, a volte dopo un certo intervallo.

Questa natura interiore (è) debole, delicata e sottile, e facilmente l’abitudine, la pressione culturale, gli atteggiamenti errati nei suoi riguardi la sopraffanno.

[…] Seppure negata, resiste sempre, sotterranea, e sempre preme per realizzarsi.

[…] ogni singola deviazione rispetto alla virtù positiva della specie, ogni crimine contro la propria stessa natura, ogni atto malvagio, viene registrato senza eccezione alcuna nell’inconscio, e fa sì che disprezziamo noi stessi124.

Ma come si fa a scoprire il proprio potenziale? Come lo si riconosce quando lo si incontra? Come si fa a sapere quando si è persa la propria strada? Heidegger, Tillich, Maslow e May risponderebbero all’unisono: «Attraverso il senso di colpa! Attraverso l’angoscia! Attraverso il richiamo della coscienza!» In generale tutti si trovavano d’accordo sul fatto che il senso di colpa esistenziale sia una forza positiva e costruttiva, una guida che richiama la persona a se stessa. Quando i pazienti dicevano a Horney che non sapevano quello che volevano, lei spesso rispondeva semplicemente: «Ha mai pensato di chiederselo?» Al centro del proprio essere ci si conosce. John Stuart Mill, descrivendo questa molteplicità del sé, parlava di un sé fondamentale e permanente che chiamava «io che dura»125. Nessuno lo disse meglio di sant’Agostino: «[…] dentro di me vi è Uno che è più me stesso del mio io più intimo»126.

Un episodio clinico illustra il ruolo del senso di colpa esistenziale come guida. Una paziente mi aveva consultato per via di una grave depressione e sentimenti di inutilità. Aveva cinquant’anni e da trentadue era sposata con un uomo poco equilibrato e malevolo. In molti momenti della sua vita aveva pensato di entrare in terapia ma aveva deciso di non farlo perché temeva che l’autoesame l’avrebbe portata alla rottura del proprio matrimonio e non riusciva a convincersi ad affrontare l’isolamento, il dolore, la disgrazia, le difficoltà economiche e il riconoscimento del fallimento. Alla fine si ritrovò così incapace di fare qualsiasi cosa che fu costretta a cercare aiuto. Tuttavia, pur presentandosi nel mio studio, si rifiutava di impegnarsi nella terapia, e facevamo pochi progressi. Un giorno ci fu un drammatico punto di svolta, mentre stava parlando dell’invecchiamento e della sua paura della morte. Le chiesi di immaginarsi prossima alla morte, di guardare indietro la propria vita e di descrivere i propri sentimenti. Senza esitazione rispose: «Rimpianto». «Rimpianto per cosa?» chiesi. La sua risposta fu: «Rimpianto per aver sprecato la mia vita, per non aver mai saputo che cosa avrei potuto essere». Il rimpianto (il suo termine per descrivere il senso di colpa esistenziale) fu la chiave della terapia. Da quel momento in avanti lo usammo come guida costante. Anche se davanti a lei c’erano mesi di duro lavoro, non ci fu mai un dubbio riguardo al risultato. Si esaminò davvero (e davvero mise fine al matrimonio) e fu in grado, alla conclusione della terapia, di sperimentare la propria vita con un senso di possibilità invece che di rimpianto.

La relazione tra senso di colpa, disprezzo nei propri confronti e realizzazione di sé è chiaramente illustrata dal trattamento di Bruce (si veda il capitolo 5). Fin dall’adolescenza era stato tormentato dalla sessualità, in particolare dal seno femminile. Per tutta la vita era stato sprezzante nei propri confronti. Dalla terapia Bruce voleva “sollievo”, sollievo dall’angoscia, dall’odio nei propri confronti e dal persistente senso di colpa che gli rodeva le viscere. È riduttivo dire che Bruce non si sperimentava come l’autore della propria vita. L’idea di avere una responsabilità personale per lui era come una lingua straniera: si sentiva così preda delle proprie pulsioni, così perpetuamente nel panico che, come Kafka, gli sembrava di essere «fortunato di poter stare seduto in un angolo e respirare»127.

Per molti mesi di terapia esaminammo il senso di colpa e l’odio verso se stesso. Perché era colpevole? Che trasgressioni aveva commesso? Confessava piccoli crimini banali e li faceva passare avanti e indietro, un’ora di terapia dopo l’altra: da bambino aveva rubato degli spiccioli al padre, aveva gonfiato delle cifre su delle richieste di indennizzo assicurativo, imbrogliato sulle tasse, rubato il giornale del mattino ai vicini e, soprattutto, era andato a letto con un sacco di donne. Investigammo ogni punto nel dettaglio e ogni volta arrivammo a determinare che l’autopunizione era superiore al crimine. Per esempio, quando parlava della propria promiscuità, si rendeva conto di non aver fatto del male a nessuno; trattava bene le donne, non usava inganni e teneva conto dei loro sentimenti. Esaminò ciascuna delle sue “offese” a livello razionale e si rese conto che era “innocente” e ingiustamente duro con se stesso. Tuttavia, il senso di colpa e l’odio nei propri confronti persistevano senza alcuna diminuzione.

Il primo bagliore di presa di coscienza della propria responsabilità si presentò quando stava discutendo della propria paura dell’assertività. Anche se la sua posizione professionale spesso gli richiedeva di farlo, non riusciva a rappresentare bene la sua compagnia nei dibattiti pubblici. Gli era particolarmente difficile esprimere dissenso o essere pubblicamente critico nei confronti di un’altra persona; nulla lo terrorizzava di più di un dibattito pubblico. «Che cosa potrebbe succedere in quella situazione?» gli chiesi. «Qual è la calamità finale?» Bruce non ebbe dubbi a rispondere. «Essere smascherato». Temeva che il suo avversario avrebbe con noncuranza letto ad alta voce l’elenco di tutti i vergognosi episodi sessuali della sua vita. Si identificava con l’incubo di Leopold Bloom descritto da Joyce nell’Ulisse, quando Bloom, messo sotto processo per i suoi desideri segreti, è umiliato quando la prova dei suoi numerosi peccatucci viene mostrata alla corte. Gli chiesi di quale avesse più timore: l’esposizione delle avventure sessuali passate o correnti? Rispose: «Il presente. Potevo gestire le faccende passate. Potevo dirmi, forse persino a voce alta: “Questo era allora, era così che ero un tempo”. Adesso sono cambiato. Sono una persona diversa».

A poco a poco Bruce cominciò a sentire le proprie parole, che in effetti stavano dicendo: «Il mio comportamento attuale, quello che sto facendo proprio adesso, è la fonte della mia paura dell’assertività ed è la fonte del disprezzo che provo nei miei confronti e anche del senso di colpa». Alla fine si rese conto di essere direttamente e interamente la fonte dell’odio nei propri confronti. Se voleva sentirsi meglio nei confronti di se stesso, o persino volersi bene, doveva smettere di fare cose delle quali si vergognava.

Ma una presa di coscienza ancora maggiore si sarebbe verificata di lì a poco. Dopo avere preso una posizione (si veda il capitolo 5) e avere scelto, per la prima volta, di rinunciare a una conquista sessuale, cominciò a migliorare. Nei mesi successivi passò attraverso una serie di cambiamenti (compreso il previsto periodo di impotenza), ma a poco a poco la sua compulsione si ritirò e il senso di possibilità di scegliere aumentò. Con il mutare del suo comportamento, anche l’immagine di sé cambiò drasticamente e Bruce sviluppò un’immensa fiducia in se stesso e una forma di amore. Verso la fine della terapia gradualmente scoprì due radici per il suo senso di colpa. Una era generata dal modo in cui aveva sminuito i suoi incontri con gli altri esseri (si veda il capitolo 8). La seconda fonte di senso di colpa era il crimine che aveva compiuto nei propri confronti. Per molta parte della sua vita le sue attenzioni ed energie erano state concentrate, in modo animale, sul sesso, sui seni, sui genitali, sulla copulazione, sulla seduzione e su varie ingegnose e stravaganti modifiche dell’atto sessuale. Fino al cambiamento avvenuto in terapia, Bruce aveva raramente lasciato libera la sua mente, raramente si era impegnato in riflessioni, raramente aveva letto (se non per impressionare le donne), raramente aveva ascoltato musica (se non come preludio per il sesso), raramente aveva avuto un vero incontro con un’altra persona. Bruce, che se la cavava abbastanza bene con le parole, diceva che aveva «vissuto come un animale costantemente in calore, strattonato da una parte all’altra da un pezzo di carne che gli ciondolava tra le gambe». «Supponiamo» aveva detto un giorno «di avere i mezzi per studiare da vicino la vita di una specie di insetti. Immaginiamo di trovare che gli insetti maschi siano folgorati da due rigonfiamenti sul torace delle femmine e dedichino tutti i loro giorni su questa terra al trovare modi per toccare questi rigonfiamenti. Che penseremmo? Beh, che modo strano di trascorrere la propria vita! Di sicuro nella vita c’è qualcosa di meglio che toccare dei rigonfiamenti. Tuttavia, io ero come quell’insetto». Non c’era da stupirsi che Bruce si sentisse colpevole. Il suo senso di colpa, come Tillich ben sapeva, proveniva dalla negazione e dalla limitazione della vita, dall’immolazione di sé e dal rifiuto di diventare la persona che avrebbe potuto essere.

Nessuno descrisse il senso di colpa esistenziale in modo più vivido e sorprendente di Franz Kafka. Il rifiuto di riconoscere e affrontare il proprio senso di colpa esistenziale è un tema ricorrente dell’opera di Kafka. Il processo comincia così: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». A Josef K. viene chiesto di confessare, ma dichiara: «Sono completamente innocente». L’intero romanzo è la descrizione degli sforzi di Josef K. di provare la propria innocenza al tribunale. Cerca aiuto presso ogni fonte concepibile, ma senza vantaggio perché non si trova davanti a un tribunale ufficiale ordinario. Come il lettore a poco a poco comprende, Josef K. si trova davanti a un tribunale interiore, che risiede nel suo profondo128. Julius Heuscher richiamava l’attenzione sulla contaminazione fisica del tribunale con del materiale istintuale primitivo. Per esempio, i banchi dei giudici sono coperti di libri pornografici: la corte è situata in un lurido abbaino di un edificio degradato129.

Quando Josef K. entra in una cattedrale, viene apostrofato da un prete che tenta di aiutarlo intimandogli di guardare dentro alla sua colpa. Josef K. risponde che è tutto un equivoco, e poi cerca di razionalizzare il suo pensiero: «È un errore. Com’è possibile che un essere umano sia colpevole. Qui siamo tutti esseri umani, l’uno come l’altro». Il prete proferisce: «Ma così usano parlare i colpevoli». E ancora una volta gli consiglia di guardare all’interno invece di tentare di dissolvere la propria colpa in una colpa collettiva. Quando Josef K. descrive il passo successivo («Cercherò di avere più aiuto»), il prete si arrabbia. «Tu cerchi troppo l’aiuto degli estranei». Alla fine il prete strepita dal pulpito: «Possibile che tu non veda a due passi da te?»

Allora Josef K. spera di ottenere dal prete un metodo per eludere la corte, «una modalità di vivere completamente al di fuori della giurisdizione della corte», intendendo una modalità di vivere al di fuori della giurisdizione della propria coscienza. C’è dunque un modo, chiede in effetti Josef K., grazie al quale si possa non dover mai fronteggiare il proprio senso di colpa esistenziale? Il prete replica che la speranza di fuga è un’illusione, e gli racconta una parabola «negli scritti che introducono la legge» che descrive «quella particolare illusione». Questa parabola è il feroce racconto dell’uomo e del guardiano della porta. Un uomo che viene dalla campagna chiede di essere ammesso al cospetto della legge. Un guardiano che se ne sta davanti a una delle innumerevoli porte lo saluta e annuncia che al momento non può essere ammesso. Quando l’uomo cerca di sbirciare attraverso l’ingresso, il guardiano lo avverte: «Se ti attira tanto, cerca di entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei custodi: ma sala dopo sala si trovano custodi uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io».

Il postulante decide che farà meglio ad aspettare fino a quando avrà il permesso per entrare. Aspetta per giorni, per settimane, per anni. Aspetta fuori da quella porta per tutta la vita. Invecchia; la vista gli si offusca; e mentre giace in punto di morte, pone un’ultima domanda al guardiano della porta, una domanda che non gli ha mai rivolto prima: «Tutti tendono alla Legge, com’è possibile che in tanti anni nessuno oltre a me abbia chiesto di entrare?» Il guardiano urla nell’orecchio dell’uomo, perché anche il suo udito si sta spegnendo: «Qui non poteva avere accesso nessun altro, perché quest’ingresso era destinato solo a te. Adesso vado a chiuderlo».

Josef K. non capisce la parabola; e, in effetti, proprio fino alla fine, quando muore «come un cane», continua a cercare aiuto all’esterno130. Kafka stesso, come annota nei suoi diari, in un primo momento non aveva capito la parabola131. In seguito, come sottolineato da Buber, Kafka espresse completamente il significato della parabola nei suoi taccuini: «Confessione, confessione incondizionata, porta che si spalanca d’un tratto, essa appare all’interno della casa del mondo, il cui torbido riflesso stagnava dietro le mura»132. L’uomo dalla campagna di Kafka era colpevole, non solo colpevole di vivere una vita non vissuta, di aspettare il permesso da un altro, di non afferrare la vita, o di non passare attraverso una porta fatta per lui soltanto, ma era colpevole anche di non aver confessato «incondizionatamente», atto che avrebbe portato allo «spalancarsi della porta».

Non ci viene detto molto della vita di Josef K. prima del richiamo del senso di colpa e quindi non possiamo delineare con precisione le ragioni della sua colpa esistenziale. Tuttavia, Heuscher, in un suo brillante contributo relativo a un suo caso clinico, ci procura uno pseudo Josef K., un paziente denominato signor T., i cui crimini contro se stesso sono subito evidenti:

Il signor T. mi aveva consultato perché non riusciva più a deglutire. Per settimane si era limitato a sorseggiare liquidi e di conseguenza aveva perso una ventina di chili. Prima di ammalarsi, trascorreva il suo tempo nello stabilimento dove svolgeva delle mansioni interessanti ma ben definite, o a casa, dove la moglie alcolizzata, intelligente ma cronicamente nevrotica e depressa, rendeva impossibile qualsiasi relazione sociale e qualsiasi divertimento. I rapporti intimi si erano interrotti da anni, presumibilmente su mutuo consenso, e a casa le attività si riducevano a leggere, guardare la televisione, fare conversazioni impersonali quando la moglie non era ubriaca, e alle visite occasionali da parte di un lontano parente. Anche se apprezzato per l’eccellente conversazione, non aveva amici intimi, che d’altronde non desiderava, né s’avventurava mai nel tentativo di sviluppare delle attività sociali nelle quali la moglie non fosse coinvolta. Bloccato in questo mondo rigido e ristretto, schivava con astuzia tutti i suggerimenti del terapeuta per sviluppare questo o quel potenziale, perseguire questa o quell’opzione133.

Anche se la sintomatologia del signor T. era migliorata, due anni di terapia non avevano fatto nulla per alterare lo stile generale della sua vita. Il signor T., come Josef K., non si ascoltava e in terapia evitava accuratamente un esame approfondito della propria vita. Tuttavia, insisteva e continuava la terapia, e il terapeuta considerava questa sua insistenza come un’indicazione della sensazione dormiente che per lui fosse possibile una vita più ricca.

Un giorno il signor T. arrivò con un sogno che lo aveva stupito per la chiarezza del suo significato. Anche se non aveva letto Kafka, il sogno aveva una strana somiglianza con Il processo che, come molte altre opere di Kafka, ha origine in un sogno. È troppo lungo per essere riportato integralmente, ma comincia così:

Ero stato arrestato dalla polizia, che mi aveva portato in un commissariato. Non mi volevano dire perché fossi stato arrestato, ma borbottavano qualcosa a proposito di un “reato minore” e mi chiedevano di dichiararmi colpevole. Al mio rifiuto, mi minacciarono di accusarmi di un reato grave. «Imputatemi per quello che volete!» ribattei, e mi accusarono davvero di un reato grave. Di conseguenza venni condannato e mi ritrovai in una fattoria carceraria, perché secondo uno dei poliziotti era un luogo per i “reati gravi non violenti”. Quando mi era stato chiesto di dichiararmi colpevole all’inizio ero in preda al panico, poi avevo provato rabbia e confusione. Non seppi mai di cosa fossi stato accusato, ma l’ufficiale che mi aveva arrestato aveva detto che era stupido rifiutarsi di dichiararsi colpevole, dato che una condanna per un reato minore non sarebbe stata superiore ai sei mesi, mentre una condanna per un reato grave comportava almeno cinque anni. Fui condannato a una pena da cinque a trent’anni134!

Il signor T. e Josef K. sono entrambi chiamati a comparire davanti al tribunale della colpa esistenziale, ed entrambi scelgono di evitare il confronto interpretando il senso di colpa secondo le modalità tradizionali. Proclamano entrambi la loro innocenza. Dopo tutto, nessuno di loro ha commesso un crimine. «Deve esserci stato un errore» ragionano, e ciascuno cerca di convincere le autorità esterne dell’errore della giustizia. Ma il senso di colpa esistenziale non è il risultato di un qualche atto criminale che l’individuo ha commesso. Piuttosto il contrario! Il senso di colpa esistenziale (che lo si chiami “autocondanna”, “rimpianto”, “rimorso”, e così via) nasce dall’omissione. Josef K. e il signor T. sono entrambi colpevoli per quello che non hanno fatto nelle loro vite.

Le esperienze di Josef K. e del signor T. sono ricche di implicazioni per lo psicoterapeuta. Il “senso di colpa” è uno stato soggettivo disforico sperimentato come “angoscia della cattiveria”. Tuttavia, ci sono significati diversi per questo senso di colpa soggettivo. Il terapeuta deve aiutare il paziente a distinguere tra colpa reale, nevrotica ed esistenziale. Il senso di colpa esistenziale è più di uno stato affettivo disforico, un sintomo che deve essere elaborato ed eliminato; il terapeuta dovrebbe considerarlo come un richiamo dall’interno che, se ascoltato, può funzionare da guida verso la realizzazione personale. Uno che, come Josef K. o il signor T., ha un senso di colpa esistenziale, ha commesso una trasgressione nei confronti del proprio destino. La vittima è il proprio sé potenziale. La redenzione è ottenuta lasciandosi cadere nella “vera” vocazione dell’essere umano che, come diceva Kierkegaard, «è la volontà di essere se stesso»135.

 

* In italiano nel testo.

* Il locus of control misura, a livello superficiale, se un individuo accetta la responsabilità personale per le sue esperienze di comportamento e di vita, o se crede che quello che gli accade non sia collegato al comportamento personale e sia quindi al di là del suo controllo personale. Si ritiene che gli individui che accettano la responsabilità abbiano un locus of control “interno”, e quelli che la respingono “esterno”.

* Esiste un interessante paradosso concettuale tra il modello di depressione intesa come impotenza e il modello cognitivo descritto da Aaron Beck71, che ipotizza che un paziente depresso sia caratterizzato da aspettative negative e da una potente tendenza ad assumersi una responsabilità personale per il risultato. In tal modo i pazienti depressi si rimproverano per avvenimenti chiaramente al di fuori del loro controllo (per esempio i pazienti depressi psicotici possono rimproverarsi per lo scoppio di una guerra o per una catastrofe naturale). Lynn Abramson e Harold Sackeim parlano di questo paradosso ancora irrisolto in un eccellente contributo72.

* Ai pazienti venivano presentati sessanta punti (ciascuno su di un foglio separato) chiedendo loro di suddividerli in sette categorie (dalla “più utile” alla “meno utile”).

* In particolare Buber114, Murphy115, Fromm116, Bühler117, Allport118, Rogers119, Jung120, Maslow121 e Horney122.