4. La morte e la psicopatologia

Nel campo della psicopatologia, i tipi di ritratto clinico con il quale i pazienti si presentano sono così numerosi che i clinici hanno bisogno di un qualche principio organizzatore per raggruppare i sintomi, i comportamenti e gli stili caratterologici in categorie significanti. Fino a un certo punto, se i clinici possono applicare un qualche paradigma strutturante della psicopatologia, sono sollevati dall’angoscia del trovarsi di fronte a una situazione indefinita. Sviluppano un senso di riconoscimento o di familiarità e un senso di competenza che, a loro volta, generano un senso di sicurezza e fiducia nei pazienti, i prerequisiti per una relazione davvero terapeutica.

Il paradigma descritto in questo capitolo si basa, come molti paradigmi di psicopatologia, sul presupposto che la psicopatologia costituisca una modalità inefficace di affrontare l’angoscia. Un paradigma esistenziale presume che l’angoscia emani dallo scontro dell’individuo con le preoccupazioni ultime dell’esistenza. In questo capitolo presento un modello di psicopatologia basato sulla lotta dell’individuo con l’angoscia della morte, e nei capitoli successivi mi soffermerò sui modelli applicabili a pazienti la cui angoscia sia più strettamente legata ad altre preoccupazioni ultime, vale a dire la libertà, l’isolamento e l’assenza di senso. Anche se per motivi didattici devo discutere queste preoccupazioni separatamente, tutte e quattro si intrecciano per formare il filo dell’esistenza, e tutte alla fine devono essere ricombinate in un modello esistenziale unificato di psicopatologia.

Tutti si trovano a fronteggiare l’angoscia della morte: la maggior parte delle persone sviluppa delle modalità adattive per affrontarla, modalità che consistono in strategie basate sulla negazione, quali soppressione, rimozione, dislocazione, convinzione dell’onnipotenza personale, accettazione di credenze religiose socialmente sancite che “disintossicano” la morte, o sforzi personali per prevalere sulla morte attraverso un’ampia varietà di strategie che mirano al raggiungimento dell’immortalità simbolica.

Vuoi a causa di uno stress straordinario o per l’inadeguatezza delle strategie di difesa disponibili, l’individuo che si ritrova nella condizione di essere “un paziente” ha trovato insufficienti le modalità universali per venire a patti con la paura della morte ed è stato guidato verso modalità estreme di difesa. Queste manovre difensive sono spesso modalità maldestre nel trattare il terrore, e costituiscono il quadro clinico presente nella terapia.

La psicopatologia (in ogni sistema) è, per definizione, una modalità difensiva inefficace. Persino le manovre difensive che con successo tengono lontana un’angoscia severa, impediscono la crescita e conducono a una vita limitata e insoddisfacente. Molti teorici esistenziali hanno commentato l’alto prezzo preteso dalla lotta per far fronte all’angoscia della morte. Kierkegaard sapeva che l’uomo si limitava e diminuiva per evitare la percezione «del terrore, della perdita [e] annientamento [che] sta sempre alle porte [della coscienza] di ogni uomo»1. Otto Rank descriveva il nevrotico come un individuo «che rifiutava il prestito (la vita) allo scopo di evitare il pagamento del debito (la morte)»2. Paul Tillich affermava che «la nevrosi è il modo di evitare il non essere evitando l’essere»3. Ernest Becker intendeva qualcosa di simile quando scriveva: «L’ironia della condizione dell’uomo è che il bisogno più profondo è quello di esser liberi dall’ansietà della morte e dell’annientamento. Ma poiché è la vita stessa a risvegliare tale bisogno, ecco che noi siamo indotti a rifuggire dall’essere pienamente vivi»4. Robert Jay Lifton usava l’espressione «ottundimento psichico» per descrivere come l’individuo nevrotico si protegge dall’angoscia della morte5.

L’angoscia della morte pura non è facilmente manifesta nel paradigma della psicopatologia qui descritto. Ma la cosa non dovrebbe sorprenderci: l’angoscia primaria in forma pura è raramente visibile in qualsiasi sistema teorico. Le strutture difensive esistono proprio allo scopo di un camuffamento interno: la natura del conflitto dinamico di fondo è occultata dalla rimozione e da altre manovre atte a ridurre la disforia. Alla fine il conflitto di fondo è profondamente sepolto e può essere dedotto, anche se mai completamente conosciuto, solo dopo un’analisi laboriosa di tali manovre.

Tanto per fare un esempio: un individuo può difendersi dall’angoscia della morte inerente all’individuazione mantenendo un legame simbiotico con la madre. Questa strategia difensiva può avere un successo temporaneo, ma con il passare del tempo diventerà essa stessa una fonte di angoscia secondaria; per esempio, la riluttanza a separarsi dalla madre può interferire con la frequenza della scuola o lo sviluppo di abilità sociali, e queste deficienze possono probabilmente generare angoscia sociale e disprezzo nei propri confronti, potendo dare a loro volta origine a nuove difese per temperare la disforia che però ritardano la crescita, e di conseguenza generano strati di angoscia e difesa. In breve, il conflitto di base sarà pesantemente incrostato da questi epifenomeni e la messa a nudo dell’angoscia primaria diverrà eccessivamente ardua. L’angoscia della morte non è immediatamente manifesta al clinico: la si scopre attraverso uno studio dei sogni, delle fantasie o degli enunciati psicotici, o attraverso un’analisi scrupolosa della comparsa dei sintomi nevrotici. Per esempio Lewis Loesser e Thea Bry6 relazionano che i primi attacchi fobici analizzati accuratamente sono invariabilmente caratterizzati da un’incursione dell’angoscia della morte. La comprensione di attacchi successivi è confusa dalla presenza di elaborazioni, sostituzioni e dislocazioni.

Le forme secondarie, derivate, dell’angoscia sono comunque forme di angoscia “reale”. Un individuo può essere messo in crisi dall’angoscia sociale o da un disprezzo pervasivo di sé; e gli sforzi del trattamento sono generalmente rivolti verso i derivati piuttosto che verso l’angoscia primaria (si veda il capitolo 5). Lo psicoterapeuta, indipendentemente dal suo sistema di convinzioni riguardo la fonte primaria di angoscia e la genesi della psicopatologia, comincia la terapia partendo dalle preoccupazioni del paziente: per esempio, il terapeuta può assistere il paziente offrendo sostegno, mettendo in piedi difese adattabili o aiutandolo a correggere modelli di interazione interpersonale disastrosi. Così nel trattamento di molti pazienti il paradigma esistenziale della psicopatologia non richiede un allontanamento radicale dalle strategie o dalle tecniche terapeutiche tradizionali.

L’angoscia della morte:
un paradigma della psicopatologia

Nel capitolo precedente ho accennato a un paradigma clinico che ritengo di considerevole valore pratico ed euristico. La modalità del bambino di avere a che fare con la consapevolezza della morte è basata sulla negazione, e i due baluardi principali di questa negazione sono le credenze arcaiche che uno sia personalmente inviolabile e/o eternamente protetto da un salvatore ultimo. Queste due convinzioni sono particolarmente potenti perché trovano un supporto in due fonti: nelle circostanze della parte iniziale della vita e nei miti diffusi e culturalmente sanciti che coinvolgono sistemi di immortalità e l’esistenza di una divinità personale che ci osserva.

L’espressione clinica di queste due difese fondamentali mi si chiarì in modo particolare un giorno, quando incontrai due pazienti, diciamo Mike e Sam, in due sedute successive. I loro casi forniscono uno studio potente delle due modalità di negazione della morte: il contrasto tra i due è impressionante e ciascuno, illustrando la possibilità opposta, getta luce sulla dinamica dell’altro.

Mike aveva venticinque anni e mi era stato mandato da un oncologo: aveva un linfoma maligno e, anche se una nuova forma di chemioterapia gli offriva la sua unica possibilità di sopravvivenza, rifiutava di collaborare al trattamento. Incontrai Mike solo una volta (arrivò con quindici minuti di ritardo all’incontro), ma fu subito evidente che il motivo guida della sua vita era l’individuazione. Molto presto nella sua esistenza si era battuto contro qualsiasi forma di controllo e aveva sviluppato notevoli capacità di autosufficienza. Dall’età di dodici anni si era mantenuto da solo e a quindici aveva abbandonato la casa dei genitori. Dopo la scuola superiore si era messo a lavorare come apprendista e in breve era stato in grado di padroneggiare tutti gli aspetti della professione: lavori di falegnameria, impianti elettrici, idraulici e in muratura. Aveva costruito diverse case, le aveva vendute con notevoli profitti, si era comprato una barca, sposato, e con la moglie aveva fatto il giro del mondo in barca. Era attratto dalla cultura individualista autosufficiente che aveva trovato in un paese sottosviluppato e si stava preparando a emigrare quando, quattro mesi prima che ci incontrassimo, gli era stato diagnosticato il cancro.

Il tratto più sorprendente dell’incontro con Mike era stato il suo atteggiamento irrazionale nei confronti della chemioterapia. È vero, il trattamento era notevolmente sgradevole, ma la paura di Mike andava al di là di qualsiasi limite ragionevole. La notte prima del trattamento non riusciva a dormire: sviluppava un grave stato di angoscia ossessiva ed era ossessionato dai metodi per evitare il trattamento. Che cosa precisamente temeva del trattamento? Non era in grado di specificarlo, ma sapeva per certo che aveva a che fare con l’immobilità e con l’essere impotenti. Non poteva sopportare l’attesa mentre l’oncologo preparava la medicazione, che non poteva essere preparata in anticipo perché il dosaggio dipendeva dal suo emocromo, che doveva essere analizzato prima di ogni somministrazione. La cosa più terribile, tuttavia, era l’endovenosa: odiava la penetrazione dell’ago, il fissaggio, la vista delle gocce che entravano nel suo corpo. Odiava essere impotente e bloccato, stare disteso fermo sul lettino, tenere il braccio immobile. Sebbene Mike non avesse consciamente paura della morte, la sua paura della terapia era un’ovvia dislocazione dell’angoscia della morte. Per lui era terribile essere dipendente e statico: queste condizioni innescavano la paura, erano equivalenti alla morte, e per la maggior parte della sua vita le aveva tenute a bada grazie a una assoluta autonomia. Era profondamente convinto del proprio essere speciale e della propria invulnerabilità e, fino al cancro, aveva creato una vita che consolidava questa convinzione.

Potei fare poco per Mike, se non suggerire al suo oncologo di insegnargli a preparare da solo le medicazioni e permettergli di monitorare e adattare le endovenose. I suggerimenti furono d’aiuto e Mike portò a termine il trattamento. Non si presentò al secondo appuntamento con me, ma telefonò per chiedere una cassetta audio per il rilassamento muscolare. Scelse di non rimanere per il seguito delle cure oncologiche e decise di perseguire il proprio piano ed emigrare. La moglie disapprovò a tal punto il progetto che si rifiutò di andare, e Mike prese il largo da solo.

Sam aveva più o meno la stessa età di Mike, ma non avevano altro in comune. Venne a trovarmi come sua ultima possibilità, dopo che la moglie aveva deciso di lasciarlo. A differenza di Mike non si trovava di fronte alla morte in un senso letterale, ma a livello simbolico. Il suo comportamento suggeriva che stesse fronteggiando una minaccia straordinariamente seria per la sua sopravvivenza: era in una condizione d’angoscia che sfiorava il panico, piangeva per ore senza sosta, non riusciva a dormire o mangiare, agognava una tregua a qualsiasi costo e contemplava seriamente l’idea del suicidio. Con il passare delle settimane la catastrofica reazione di Sam si placò, ma il malessere si protrasse. Pensava di continuo alla moglie. Come affermò lui stesso, non «viveva nella vita» ma si muoveva furtivo fuori di essa. «Passare del tempo» divenne una proposizione conscia e seria: cruciverba, televisione, giornali, riviste vennero visti nella loro vera natura, come veicoli atti a colmare il vuoto, a far passare il tempo nel modo più indolore possibile.

La struttura del carattere di Sam può essere compresa in relazione al motivo della “fusione”, drammaticamente opposto all’“individuazione” di Mike. Durante la Seconda guerra mondiale la famiglia di Sam, quando lui era piccolo, si era spostata molte volte per sfuggire il pericolo. Aveva subito molte perdite, tra le quali la morte del padre quando Sam era preadolescente e la morte della madre pochi anni dopo. Era venuto a capo della situazione formando dei legami stretti e intensi: dapprima con la madre e poi con una serie di parenti diretti o adottivi. Era il tuttofare di chiunque e l’eterno baby-sitter. Era un donatore inveterato, e offriva generose quantità di tempo e denaro a un gran numero di adulti. Per Sam nulla sembrava più importante che essere amato e accudito. Infatti, dopo che la moglie lo aveva lasciato si era reso conto di sentirsi esistere solo se amato: in uno stato di isolamento si raggelava in uno stato di animazione sospesa, come un animale terrorizzato, come se non fosse né vivo né morto. Una volta, mentre parlavamo del suo dolore a seguito dell’allontanamento della moglie, disse: «Quando siedo a casa da solo, la cosa più difficile è pensare che nessuno davvero sa che sono vivo». Quando era solo, quasi non mangiava e non cercava di soddisfare i bisogni più elementari. Non puliva la casa, non si lavava, non leggeva e non dipingeva, anche se era un artista di talento. Affermava che non c’era ragione di «spendere energie se non sono certo che mi sarebbero state restituite da un’altra persona». Non esisteva, a meno che non ci fosse qualcuno a ratificare la sua esistenza. Quando era solo, Sam si trasformava in una spora, dormiente fino a quando un’altra persona non gli forniva dell’energia vivificante.

Nel momento del bisogno Sam aveva cercato aiuto presso gli anziani della sua famiglia: aveva attraversato il paese in aereo per la consolazione di qualche ora trascorsa nella casa di alcuni parenti adottivi; aveva ricevuto sostegno semplicemente fermandosi accanto alla casa in cui lui e la madre avevano vissuto per quattro anni; aveva pagato bollette telefoniche astronomiche sollecitando consiglio e conforto; aveva ricevuto molto aiuto dai parenti acquisiti, perché la devozione di Sam nei loro confronti li aveva fatti parteggiare per lui piuttosto che per la figlia. Gli sforzi di Sam per uscire da questa sua crisi erano considerevoli, ma monotematici: in un modo o nell’altro cercava di rinsaldare la convinzione che qualche figura protettiva lo tenesse d’occhio e si occupasse di lui.

Nonostante l’estrema solitudine, Sam non desiderava fare alcun tentativo per alleviarla. Gli proposi una serie di suggerimenti pratici su come incontrare nuovi amici: eventi per single, attività sociali legate alla chiesa, eventi al club, corsi formativi per adulti, e così via. Con mia grande perplessità, i miei consigli restavano lettera morta. A poco a poco capii: quello che era importante per Sam non era, a dispetto della sua solitudine, essere con gli altri, ma confermare la propria fede in un salvatore ultimo. Era esplicito nella propria riluttanza a trascorrere del tempo lontano da casa in attività da single o in appuntamenti con altre persone. La ragione? Aveva paura di perdere una telefonata! Una telefonata da là fuori era infinitamente più preziosa del partecipare a decine di attività sociali. Soprattutto Sam voleva essere “trovato”, protetto, salvato senza dover chiedere aiuto e senza dover progettare il proprio salvataggio. Infatti, a livello profondo, viveva male gli sforzi positivi di prendersi delle responsabilità per uscire dalla situazione della sua vita. Lo incontrai per un periodo di quattro mesi. Quando stette meglio (grazie al mio sostegno e alla “fusione” con un’altra donna), perse ovviamente la motivazione per un lavoro continuato di psicoterapia ed entrambi concordammo che fosse opportuno concludere la terapia.

Due difese fondamentali contro la morte

Che cosa impariamo dai casi di Mike e Sam? Vediamo con chiarezza due modalità radicalmente differenti di affrontare un’angoscia fondamentale. Mike era profondamente convinto del proprio essere unico e inviolabile, mentre Sam confidava nell’esistenza di un salvatore ultimo. Il senso di autosufficienza di Mike era ipertrofico, mentre Sam non esisteva da solo, bensì lottava per fondersi con un’altra persona. Queste due modalità sono diametralmente opposte e, anche se non si escludono affatto a vicenda, costituiscono un’utile dialettica che permette al clinico di capire un’ampia varietà di situazioni.

Incontriamo Mike e Sam in un momento di esperienza pressante. In nessuno dei due uomini la crisi suscita nuove difese: nel modo più netto possibile, evidenzia la natura e le limitazioni delle loro modalità di essere. Un’estrema aderenza tanto alla modalità dell’individuazione quanto a quella della fusione dà come risultato una rigidità caratteriale che è ovviamente disadattiva. Mike e Sam esibivano degli stili estremi che aumentano lo stress, evitano di affrontare il problema e ritardano la crescita. Mike si rifiutava di sottoporsi a una terapia che poteva salvargli la vita e in seguito rifiutava le valutazioni successive alla cura. L’intenso desiderio di Sam per tutta l’attenzione della moglie era responsabile della decisione presa dalla donna di lasciarlo: la sua passione per la fusione aveva dato come risultato un’accentuazione del dolore per la solitudine e un’incapacità di affrontare in modo intraprendente la nuova situazione di vita. Né Mike né Sam erano stati capaci di crescere in alcun modo a seguito delle loro crisi. Un comportamento disadattivo e rigido che preclude la crescita personale è, per definizione, un comportamento nevrotico.

In un modo approssimativo e indiscriminato le due difese costituiscono una dialettica, due modalità diametralmente opposte di affrontare la situazione umana. L’essere umano si fonde o si separa, si integra o emerge. Per usare le parole di Rank, afferma la sua autonomia «mettendosi al di fuori della natura»7 o cerca salvezza mescolandosi con un’altra forza. O diventa il proprio padre, o rimane l’eterno figlio. Ciò è di sicuro quello che Fromm intendeva quando descriveva l’uomo come «desideroso di sottomissione o avido di potere»8.

La dialettica esistenziale offre un paradigma che permette al clinico di “afferrare” la situazione. Ci sono molti paradigmi alternati, ciascuno con un potere esplicativo: Mike e Sam hanno dei disturbi del comportamento, rispettivamente schizoide e di dipendenza passiva. Mike può essere considerato dal punto di vista del continuo conflitto ribelle con i genitori, della controdipendenza, della perpetuazione nevrotica della lotta edipica, o del panico omosessuale. Sam può essere “afferrato” dal punto di vista dell’identificazione con la madre e del dolore irrisolto, o dell’angoscia di castrazione, o da quello della dinamica familiare nella quale il clinico concentra l’attenzione sull’interazione tra Sam e la moglie.

L’approccio esistenziale è dunque un paradigma tra i molti, e la sua raison d’être sta nell’utilità clinica. Questa dialettica permette al terapeuta di comprendere dati spesso trascurati nel lavoro clinico. Il terapeuta può, per esempio, capire perché Mike e Sam abbiano risposto con tale potenza o reticenza alle loro situazioni dolorose, o perché Sam si sia tirato indietro di fronte alla prospettiva di migliorare la propria situazione con un’assunzione di responsabilità nei propri confronti. Questa dialettica permette al terapeuta di impegnarsi con il paziente ai livelli più profondi, ed è basata su una comprensione dell’angoscia primaria che esiste nell’immediato presente: il terapeuta osserva i sintomi del paziente come una risposta all’angoscia della morte che in quel momento lo minaccia, non in quanto una risposta all’evocazione di un trauma e di uno stress del passato. Quindi l’approccio enfatizza la consapevolezza, l’immediatezza e la scelta, e accresce l’influenza del terapeuta.

Più avanti descriverò queste due forme di base di negazione della morte e i tipi di psicopatologia che ne derivano (sebbene molte delle sindromi cliniche familiari possano essere osservate e capite nei termini di queste negazioni di base della morte, non pretendo di creare un sistema di classificazione esaustivo, che richiederebbe una maggiore precisione e dovrebbe essere più esauriente di quanto qui proposto). Entrambe le fedi, l’essere speciali e il salvatore ultimo, possono essere adattive al massimo grado. Ciascuna, tuttavia, può essere sovraccaricata e forzatamente dilatata fino a un punto in cui l’adattamento si spezza, l’angoscia filtra, l’individuo ricorre a misure estreme per proteggersi e la psicopatologia appare in forma di esaurimento nervoso o di fuga difensiva.

Per maggiore chiarezza prima di tutto discuterò ciascuna difesa separatamente. Avrò poi bisogno di integrarle di nuovo perché sono intrinsecamente interdipendenti: la grande maggioranza degli individui ha tracce di entrambe le difese intessute nelle strutture della personalità.

L’essere speciali

Nessuno ha mai descritto la profonda convinzione irrazionale del nostro essere speciali in modo più potente e struggente di Tolstoj che, attraverso le labbra di Ivan Il’ič, disse:

Nel profondo dell’anima Ivan Il’ič sapeva che stava morendo, e non soltanto non s’era abituato alla cosa, ma, semplicemente, non la comprendeva, non poteva in alcun modo capire quel genere di cose.

Quell’esempio di sillogismo che aveva studiato nella logica di Kizevetter: «Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale», per tutto il corso della sua vita gli era sembrato giusto unicamente nei confronti di Caio, ma del tutto insensato per quel che riguardava lui. Quello era Caio, l’uomo, l’uomo in genere, e la cosa era assolutamente giusta; ma lui non era Caio e non era l’uomo in genere, e lui era sempre stato un essere del tutto diverso dagli altri: lui era Vanja con la mamma, con il papà, con Mitja e Volodja, con i giocattoli, con il cocchiere, con la balia, poi con Katen’ka, con tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Era forse stato per Caio quell’odore di palla di cuoio che Vanja tanto amava? Era forse stato Caio a baciare in quel modo la mano della madre, ed era forse stato Caio a sentire il fruscio della veste di seta della madre? Era forse stato lui a ribellarsi per i pasticcini, quando frequentava i corsi? Era stato Caio a innamorarsi? Era forse in grado Caio di condurre un’udienza?

E Caio, dunque, era mortale, e per lui era giusto morire, ma per me, Vanja, Ivan Il’ič, con tutti i miei sentimenti, pensieri, per me era un’altra questione. E non poteva essere che mi toccasse di morire. Sarebbe stato troppo orribile9.

Sappiamo tutti che nei confini di base dell’esistenza non siamo gli uni diversi dagli altri. Nessuno, a livello conscio, lo nega. Tuttavia, nel profondo, ciascuno di noi crede, come Ivan Il’ič, che la regola della mortalità si applichi agli altri ma di certo non a noi stessi. Occasionalmente si è colti di sorpresa quando questa convinzione spunta fuori nella coscienza e si è colti di sorpresa dalla propria irrazionalità. Di recente, per esempio, mi sono recato dal mio optometrista per lamentarmi degli occhiali che non funzionavano più come un tempo. Mi ha visitato e mi ha chiesto quanti anni avessi. «Quarantotto» ho risposto. E lui ha ribattuto: «Caspita, perfettamente nei tempi». Da qualche parte dentro di me un pensiero si è sollevato e ha sibilato: «Quali tempi? Chi è perfettamente nei tempi? Tu o gli altri potete essere perfettamente nei tempi, ma non certo io».

Quando un individuo viene a sapere di avere una qualche malattia grave, per esempio il cancro, la prima reazione è in genere una qualche forma di negazione. La negazione è un tentativo di venire a patti con l’angoscia associata alla minaccia della vita, ma è anche la funzione di una convinzione profonda della propria inviolabilità. Deve essere fatto molto lavoro psicologico per ristrutturare il proprio mondo supposto, che dura da una vita. Una volta che la difesa è davvero minata, una volta che l’individuo davvero afferra l’idea «Mio Dio, morirò davvero» e si rende conto che la vita lo tratterà nello stesso modo duro con cui tratta gli altri, si sentirà perduto e, in qualche strana maniera, tradito.

Nel mio lavoro con i malati terminali di cancro ho osservato che gli individui variano enormemente nel desiderio di essere informati delle loro morti. Molti pazienti per un certo tempo non “sentono” il medico che gli annuncia la loro prognosi. Deve essere fatta una grande ricostruzione interiore per permettere a questa conoscenza di prendere piede. Alcuni pazienti divengono consapevoli della morte e fronteggiano l’angoscia della morte in modo intermittente: un breve momento di consapevolezza, un breve terrore, negazione, processo interiore, e poi preparazione per ulteriori informazioni. Per altri la consapevolezza della morte e l’angoscia a essa associata fanno irruzione con forza terribile.

Pam, una mia paziente di ventotto anni con un cancro alla cervice, vide distruggersi il mito dell’essere speciale in modo piuttosto suggestivo. Dopo una laparotomia esplorativa il suo chirurgo la informò che la sua condizione era davvero grave, e che la sua aspettativa di vita non superava i sei mesi. Un’ora più tardi fu visitata da una squadra di radioterapisti, che con ogni evidenza non avevano comunicato con il chirurgo, ed essi le assicurarono che pensavano di sottoporla a radioterapia per «curarla». Ma, all’insaputa di Pam, il chirurgo aveva parlato con i genitori comunicando loro che alla figlia restavano circa sei mesi di vita.

Pam trascorse i mesi successivi in convalescenza a casa dei genitori nel più irreale degli ambienti: i genitori la trattavano come se dovesse morire nel giro di sei mesi. Si isolavano e la isolavano dal mondo, filtravano le telefonate per escludere tutte le comunicazioni che potessero turbarla: in breve, fecero di tutto per renderle la vita “comoda”. Alla fine Pam affrontò i genitori e pretese di sapere che cosa stesse capitando. Loro le dissero della conversazione con il chirurgo. Pam riferì quella con i radioterapisti, e l’equivoco fu rapidamente chiarito. Tuttavia, Pam fu profondamente scossa da quell’esperienza. Lo scontro con i genitori l’aveva resa consapevole, in un modo che la sentenza di morte del chirurgo non aveva fatto, che stava davvero andando verso la morte. I suoi commenti a questo punto sono rivelatori:

Mi sembrava davvero di stare meglio e la situazione era migliore ma cominciarono a trattarmi come se non avessi prospettive di vita e fui colpita dal sentimento terribile del rendermi conto che avevano già accettato la mia morte. A causa di un errore e di una comunicazione sbagliata, per la mia famiglia ero già morta, e allora cominciai a essere morta, e fu davvero duro fare il percorso inverso per tornare a essere viva. In seguito fu peggio quando cominciai a stare meglio di quanto lo fosse stato quando stavo molto male perché quando la mia famiglia si rese conto che stavo migliorando si allontanò, ciascuno fece ritorno alle mansioni quotidiane e io venni lasciata come se fossi morta e non fui in grado di governare bene la cosa. Sono ancora spaventata e sto cercando di superare quella linea di confine che sembra essere davanti a me, la linea di confine tra essere morta o essere viva.

Pam aveva davvero capito cosa significasse morire non da qualcosa che i dottori le avevano detto, ma dalla devastante comprensione del fatto che i suoi genitori avrebbero continuato a vivere senza di lei e che il mondo sarebbe continuato come prima, che i bei tempi sarebbero andati avanti senza di lei.

Un’altra paziente con metastasi diffuse era arrivata allo stesso punto quando scrisse una lettera ai suoi figli dando loro istruzioni su come dividere i suoi averi personali di valore sentimentale. Aveva svolto piuttosto meccanicamente gli altri compiti amministrativi riguardanti la morte – scrivere un testamento, acquistare un loculo, l’appuntamento con un esecutore – ma fu la lettera personale ai figli che rese la morte reale per lei. Fu la semplice ma terribile comprensione che quando i suoi figli avrebbero letto la lettera lei non sarebbe più esistita: né per rispondere loro, né per osservare le loro reazioni, o guidarli. Loro sarebbero stati lì, ma lei non sarebbe stata nulla.

Dopo mesi di temporeggiamento, un’altra paziente giunse alla dolorosa decisione di discutere con i figli adolescenti il fatto di avere un cancro avanzato e non molto tempo davanti a sé. I figli reagirono con tristezza, ma anche con coraggio e autonomia. Un po’ troppo coraggio e un po’ troppa autonomia per i suoi gusti: in qualche punto remoto della sua mente poteva provare un po’ di orgoglio – aveva fatto quello che un bravo genitore deve fare, e loro avrebbero modellato le loro vite lungo le linee che lei aveva tracciato per loro – ma avevano accettato troppo bene l’idea della sua morte. Anche se lei odiava la propria irrazionalità, era turbata, perché loro avrebbero continuato a crescere senza di lei.

Un’altra paziente, Jan, aveva un cancro al seno con metastasi cerebrali. I dottori l’avevano avvisata di una possibile paralisi. Aveva ascoltato le loro parole, ma a livello profondo si era sentita con compiacimento immune da questa possibilità. Quando l’inesorabile debolezza e paralisi si presentarono, di colpo Jan si rese conto che il suo essere speciale era un mito. Non c’era, e lo stava imparando, una sorta di clausola di recesso. Disse tutto ciò durante un incontro di terapia di gruppo e poi aggiunse che nell’ultima settimana aveva scoperto una verità potente, una verità che le aveva fatto tremare la terra sotto i piedi. Aveva cominciato a ragionare tra sé della durata che avrebbe desiderato per la propria vita. Settant’anni sarebbe stato giusto, ottanta avrebbe potuto essere troppo, e poi all’improvviso si rese conto: «Quando si ha a che fare con la vecchiaia e con la morte, quello che desidero non ha assolutamente nulla a che fare con tutto ciò».

Forse questi esempi clinici contribuiscono a far capire la differenza tra il sapere e il sapere davvero, tra la consapevolezza quotidiana della morte che tutti possediamo e il trovarsi davvero davanti alla propria morte. Accettare la propria morte personale significa fronteggiare un certo numero di altre verità moleste, ciascuna delle quali ha il suo proprio campo di forza di angoscia: siamo finiti; la vita di una persona arriva davvero a una conclusione; il mondo continuerà comunque; siamo uno tra molti, niente di più e niente di meno; l’universo non riconosce il nostro essere speciali; per tutte le nostre vite abbiamo giocato una partita truccata; e, per finire, certe dimensioni estreme e immutabili dell’esistenza sono al di là della nostra influenza. Infatti, quello che uno desidera non ha assolutamente niente a che fare con tutto ciò.

Quando un individuo giunge alla scoperta che il proprio essere speciale è un mito, prova rabbia e si sente tradito dalla vita. Di sicuro questo senso di tradimento è quello che Robert Frost aveva in mente quando scrisse: «Perdona, o Signore, i piccoli scherzi che Ti ho fatto/ E io perdonerò il grande scherzo che Tu hai fatto a me»10.

Molte persone sentono che se solo lo avessero davvero saputo prima, avrebbero vissuto le loro vite in modo diverso. Provano rabbia: tuttavia la rabbia è impotente perché non ha un oggetto ragionevole. (Incidentalmente, il medico è spesso il bersaglio di questa rabbia dislocata, e specialmente di quella di molti pazienti terminali.)

La convinzione del proprio essere speciali è straordinariamente adattiva e ci permette di emergere dalla natura e tollerare la disforia che si accompagna a ciò: l’isolamento, la consapevolezza della nostra piccolezza e della grandiosità del mondo esterno, delle inadeguatezze dei nostri genitori, della nostra creaturalità, delle funzioni corporee che ci legano alla natura e, soprattutto, la conoscenza della morte che romba incessante al limite della coscienza. La nostra convinzione di essere esenti dalla legge della natura è alla base di molti aspetti del nostro comportamento: accresce il coraggio in quanto ci permette di incontrare il pericolo senza essere sopraffatti dalla minaccia dell’estinzione personale. Ne è testimone il salmista che scrisse: «Un migliaio cadrà alla tua destra, diecimila alla tua sinistra, ma la morte non verrà a te». Il coraggio così generato dà origine a quella che molti hanno chiamato la lotta “naturale” dell’essere umano per la competenza, l’effectance, il potere e il controllo. Quanto più uno ottiene potere, più la sua paura della morte è mitigata ulteriormente e la convinzione del proprio essere speciale è ulteriormente rafforzata. Portarsi avanti, raggiungere risultati, accumulare beni materiali, lasciarsi alle spalle opere come monumenti imperituri divengono modi efficaci per dissimulare le angosce mortali che rombano sotto alla superficie della vita.

L’eroismo compulsivo

Per molti di noi l’individuazione eroica rappresenta il meglio che un uomo possa fare alla luce della sua situazione esistenziale. Lo scrittore greco Nikos Kazantzakis era uno spirito del genere, e il suo Zorba era la quintessenza dell’uomo autosufficiente. Nella sua autobiografia, Kazantzakis citava le ultime parole dell’uomo che era stato il modello di Zorba il Greco: «Se dovesse venire un prete per confessarmi e darmi la comunione, ditegli di levarsi dai piedi, e che potrebbe invece darmi la sua maledizione! […] Gli uomini come me dovrebbero vivere mille anni»11. Altrove, attraverso le labbra del suo Ulisse, Kazantzakis ci consigliava di vivere in modo così completo da non lasciare alla morte nient’altro che un «castello bruciato»12. La sua stessa pietra tombale sui bastioni di Heraklion porta un semplice epitaffio eroico: «Non voglio nulla, non ho paura di nulla, sono libero».

Basta spingere un po’ oltre, e questo tipo di difesa va a estendersi a tutti gli ambiti della vita: la posa eroica collassa su se stessa, e l’eroe diventa un eroe compulsivo che, come Mike, il giovane malato di cancro, è spinto a fronteggiare il pericolo per sfuggire a un pericolo più grande che ha dentro. Ernest Hemingway, il prototipo dell’eroe compulsivo, per tutta la vita fu costretto a cercare e ad avere la meglio sul pericolo come un modo grottesco per provare che il pericolo non esiste. Secondo la madre di Hemingway una delle sue prime frasi fu: «Ho paura di niente»13. Ironicamente, non aveva paura di niente perché, come tutti noi, aveva paura del nulla. L’eroe alla Hemingway rappresenta così la fuga estrema della soluzione emergente, individualistica, dalla condizione umana. Questo eroe non sta scegliendo: le sue azioni sono frutto di una pulsione e sono fisse; non impara dalle nuove esperienze. Persino l’approccio alla morte non gli fa volgere lo sguardo all’interno o aumentare la propria saggezza. Questo codice non ha posto per l’invecchiamento e la debolezza, perché queste cose sono troppo ordinarie. Ne Il vecchio e il mare Santiago va incontro alla morte in modo stereotipato, lo stesso modo con cui aveva fronteggiato ognuna delle minacce di base della sua vita, andando al largo da solo alla ricerca del grande pesce14.

Lo stesso Hemingway non poteva sopravvivere alla dissoluzione del mito della propria invulnerabilità. Con il declino della salute e del coraggio fisico, con il doloroso manifestarsi della sua “ordinarietà” (nel senso che, come tutti, doveva fronteggiare la situazione umana), cadde in una condizione di lutto e alla fine di profonda depressione. La sua malattia, una psicosi paranoide con allucinazioni persecutorie e idee di riferimento, rinforzò temporaneamente il mito del suo essere speciale. (Tutte le tendenze persecutorie e le idee di riferimento fluiscono da un nucleo di grandiosità personale; dopo tutto, solo una persona molto speciale giustificherebbe una tale attenzione, per quanto malevola, da parte del suo ambiente.) Alla fine la soluzione paranoide fallì e, lasciato senza difese di fronte alla paura della morte, Hemingway si suicidò. Per quanto possa sembrare paradossale che una persona si suicidi a causa della paura della morte, non è un avvenimento infrequente. Molti individui hanno detto in effetti: «Ho così paura della morte che sono spinto al suicidio». L’idea del suicidio offre una certa tregua dal terrore. È un’azione attiva che permette a una persona di controllare ciò che la controlla. Inoltre, come ha notato Charles Wahl, molti suicidi hanno una visione magica della morte e la considerano come temporanea e reversibile15. L’individuo che si suicida per esprimere ostilità o per generare senso di colpa negli altri può credere nell’esistenza continuata della coscienza, in modo che sia possibile assaporare i frutti della propria morte.

Il maniaco del lavoro

L’individualista eroico compulsivo rappresenta un esempio chiaro, ma non comune sul piano clinico, della difesa dell’essere speciali che cessa di essere efficace e non riesce a proteggere l’individuo dall’angoscia o degenera in un modello di fuga. Un esempio ordinario è il “workaholic”, il maniaco del lavoro, l’individuo consumato dal lavoro. Uno dei tratti più impressionanti di un maniaco del lavoro è la convinzione implicita di stare “avanzando”, “progredendo”, salendo verso l’alto. Il tempo è un nemico non solo perché è parente stretto della finitezza, ma perché minaccia uno dei supporti all’illusione dell’essere speciali: la convinzione di stare eternamente avanzando. Il maniaco del lavoro deve rendersi sordo al messaggio del tempo, non deve sentire che il passato aumenta a spese di un futuro che si va restringendo.

La modalità esistenziale del maniaco del lavoro è compulsiva e disfunzionale: il maniaco del lavoro lavora o si applica non perché lo desideri ma perché lo deve fare. Il maniaco del lavoro può mettersi sotto pressione senza pietà e senza considerare i limiti umani. Il tempo libero è un momento di angoscia e viene spesso freneticamente riempito con delle attività che portano all’illusione del conseguimento di qualcosa. Vivere viene così equiparato a “diventare” o “fare”, e il tempo non usato per “diventare” non è “vivere” bensì “attendere” che la vita abbia inizio.

La cultura ha naturalmente un ruolo importante nel dare forma ai valori dell’individuo. Riguardo all’attività Florence Kluckhohn suggerì una classificazione antropologica degli orientamenti dei valori che postula tre categorie: “essere”, “essere-in-divenire” e “fare”16. L’orientamento “essere” enfatizza l’attività piuttosto che l’obiettivo, si concentra sull’espressione naturale spontanea dell’“è” della personalità. “Essere-in-divenire” condivide con l’orientamento “essere” un’enfasi su quello che una persona è piuttosto che su quello che una persona può compiere, ma enfatizza il concetto di “sviluppo”. In tal modo incoraggia attività di un certo tipo, vale a dire attività dirette verso l’obiettivo dello sviluppo di tutti gli aspetti dell’Io. L’orientamento “fare” enfatizza risultati misurabili con standard al di fuori dell’individuo che agisce. Ovviamente la contemporanea cultura conservatrice americana, con la sua enfasi sulla sfera professionale e sull’attività, è una cultura estrema del “fare”.

Tuttavia in ogni cultura ci sono ampie gamme di variazione individuale. Qualcosa all’interno del maniaco del lavoro interagisce con lo standard culturale in una maniera che genera un’internalizzazione ipertrofica e rigida del sistema di valori. Per gli individui diventa difficile assumere una visione distaccata della propria cultura e osservare il proprio sistema di valori come una delle molte possibili posizioni. Una volta ho avuto un paziente maniaco del lavoro che si era concesso una rara passeggiata pomeridiana (come ricompensa per un qualche risultato particolarmente importante) ed era rimasto strabiliato dalla vista di centinaia di persone che se ne stavano lì semplicemente a prendere il sole. «Che cosa fanno tutto il giorno? Come può la gente vivere così?» si era chiesto. Una lotta frenetica con il tempo può essere indicativa di una potente paura della morte. Gli individui maniaci del lavoro si relazionano al tempo proprio come se fossero in procinto di morire e si affrettassero a portare a compimento il maggior numero possibile di cose.

Immersi nella nostra cultura, accettiamo senza fare domande la bontà e la correttezza dell’andare avanti. Non molto tempo fa stavo facendo una breve vacanza in un villaggio turistico su una spiaggia dei Caraibi. Una sera stavo leggendo e di tanto in tanto davo un’occhiata al ragazzo del bar che non stava facendo nulla se non fissare languidamente il mare, pensai che fosse simile a una lucertola che si riscalda al sole su una roccia tiepida. Il paragone che elaborai tra il ragazzo e me mi diede una sensazione di grande compiacimento e calore. Lui non stava semplicemente facendo niente, stava sprecando il suo tempo; io, d’altro canto, stavo facendo qualcosa di utile, stavo leggendo, imparando. In breve, stavo andando avanti. Andava tutto bene, fino a quando una vocetta interna non pose la terribile domanda: «Andando avanti rispetto a cosa? Come? E (persino peggio) perché?» Quelle domande erano, e sono tuttora, profondamente inquietanti. Quello che ne dedussi con forza insolita fu che mi stavo cullando in un’illusione di sconfitta della morte proiettandomi senza posa in avanti nel futuro. Io non esisto come esiste una lucertola: io preparo, divento, sono in transito. John Maynard Keynes la mise in questo modo: «Quello che l’uomo “determinato” sta sempre cercando di assicurare è una immortalità spuria e illusoria, un’immortalità per le sue azioni spingendo il suo interesse in esse avanti nel tempo. Non ama il suo gatto, ma i cuccioli del suo gatto; e nemmeno, in verità, i cuccioli, ma solo i cuccioli dei cuccioli, e così via, per sempre, sino alla fine della gattità»17.

In Anna Karenina Tolstoj descrive il crollo del sistema di convinzioni “a spirale ascendente” nella persona di Aleksej Aleksandrovič, il marito di Anna, un uomo per il quale tutto è sempre andato verso l’alto: una splendida carriera, un matrimonio brillante. L’andare via di Anna significa molto più della perdita della moglie, è il crollo di una Weltanschauung personale:

[…] si vedeva in una situazione illogica e assurda, e non sapeva come comportarsi. Si era improvvisamente trovato faccia a faccia con la vita, di fronte alla possibilità che la sua compagna amasse non più lui ma un altro; e proprio questo gli sembrava incoerente e incomprensibile, perché era vita vera.

Egli aveva sempre lavorato e vissuto nelle sfere delle alte cariche, ove non si ha da fare con i riflessi della realtà. E ogni volta che gli era accaduto di urtare contro la realtà stessa, aveva cercato di scansarla. L’impressione che provava ora era simile a quella che proverebbe un uomo il quale, mentre cammina fiducioso su un ponte gettato sopra un abisso, vedesse a un tratto quel ponte crollare e l’abisso spalancare la sua voragine sotto di lui. L’abisso era la vita vera; il ponte, la vita falsa ch’egli aveva sempre vissuta18.

Nessuno lo ha detto in modo più chiaro. La difesa, se ha successo, protegge l’individuo dalla conoscenza del baratro. Il ponte rotto, la difesa fallita, lo espone a una verità e a un terrore che un individuo a metà della propria vita, dopo decenni di autoinganno, è poco attrezzato ad affrontare.

Il narcisismo

La persona che affronta un’angoscia di base con una profonda fede nel proprio essere speciale spesso incontrerà grosse difficoltà nelle relazioni interpersonali. Se una convinzione dell’inviolabilità personale è abbinata, come spesso accade, a un corrispondente minor riconoscimento dei diritti e dell’essere speciali degli altri, allora ci troviamo in presenza di una personalità narcisistica pienamente sviluppata. A Fromm è attribuita la descrizione di tale personalità, illustrata da una conversazione tra un narcisista e un medico. Il paziente aveva chiesto un appuntamento per quel giorno. Il medico aveva detto che non sarebbe stato possibile per mancanza di tempo. Il paziente aveva esclamato: «Ma dottore, abito appena a pochi minuti dal suo studio».

Il modello della personalità narcisistica è molto più evidente nella terapia di gruppo che in quella individuale. Nella terapia individuale ogni parola del paziente viene ascoltata, e ogni sogno, fantasia e sentimento viene esaminato. Viene dato tutto al paziente e si richiede poca reciprocità; possono quindi trascorrere mesi prima che i tratti narcisistici risultino evidenti. Nella terapia di gruppo, invece, al paziente si richiede di condividere il tempo, di capire ed entrare in empatia con gli altri, di formare relazioni e di preoccuparsi per i sentimenti altrui.

Il modello narcisistico si manifesta in molti modi: alcuni pazienti sentono che possono offendere gli altri ma che sono autorizzati a essere esenti da critiche; sentono che qualsiasi persona della quale si siano innamorati dovrà ricambiare i loro sentimenti; sentono che non dovrebbero aspettare gli altri; si aspettano regali, sorprese e preoccupazioni per loro, anche se loro non danno agli altri nulla di tutto ciò; si aspettano di essere amati e ammirati per il semplice fatto di essere lì. Nella terapia di gruppo sentono che dovrebbero ricevere la massima attenzione da parte del gruppo, e che la cosa dovrebbe avvenire senza il minimo sforzo da parte loro; si aspettano che il gruppo apra un dialogo con loro anche se, per parte loro, non aprono un dialogo con nessuno. Il terapeuta deve continuare a far notare a questi pazienti che c’è un solo momento nella vita nel quale quest’aspettativa è appropriata: durante i primi mesi di vita, quando si può esigere un amore incondizionato dalla madre senza alcuna richiesta di reciprocità.

Hal, un paziente in una terapia di gruppo, illustra molti di questi tratti della personalità. Era un medico brillante che sapeva parlare e che aveva intrattenuto il gruppo per mesi con racconti avvincenti alla Faulkner sulla propria infanzia nel Sud (consumando in questo processo all’incirca il 40 per cento del tempo di un gruppo di otto persone). Aveva la lingua tagliente, ma il suo sarcasmo era così arguto e colorito che i membri del gruppo non si offendevano e permettevano che lui li intrattenesse a quel modo. Solo gradualmente gli altri membri si risentirono per la sua avidità di attenzione, e per la sua ostilità. Cominciarono a diventare insofferenti ai suoi racconti, poi a spostare l’attenzione da Hal ad altri membri e, alla fine, a etichettarlo in modo esplicito come un monopolizzatore di tempo e attenzione. La rabbia di Hal si intensificò: superò i limiti del mite sarcasmo ed esplose in un flusso cronico e continuo di amarezza. La sua vita personale e professionale cominciò a deteriorarsi: la moglie minacciò di lasciarlo e il preside del suo dipartimento lo ammonì a causa dei rapporti insoddisfacenti con gli studenti. Il gruppo lo spinse a esaminare la sua rabbia. Ripetutamente membri del gruppo gli chiesero: «Per cosa sei arrabbiato?» Quando discuteva qualche avvenimento concreto, gli chiedevano di scendere a un livello più profondo e di rispondere ancora una volta alla domanda: «Per cosa sei arrabbiato?» Al livello più profondo Hal diceva: «Sono arrabbiato perché sono migliore di chiunque altro qua dentro e nessuno me lo riconosce. Sono più intelligente, più svelto, sono migliore e, per Dio, nessuno mi apprezza. Dovrei essere ricco, ricco come un arabo, dovrei ricevere riconoscimenti come un uomo del Rinascimento, e invece sono trattato come tutti gli altri». Il gruppo fu utile a Hal sotto molti aspetti. Il semplice aiutarlo a scavare e a tirare fuori questi sentimenti e considerarli razionalmente era stato un primo passo essenziale ed enormemente benefico. Lentamente gli altri membri aiutarono Hal a riconoscere che anche loro erano esseri senzienti; che anche loro si sentivano speciali; che anche loro volevano soccorso, attenzione e il centro del palcoscenico. Hal imparò che gli altri non erano semplicemente fonti di apprezzamento e di stupore dalle quali poteva trarre all’infinito sostegno per il suo solipsismo. “Empatia” fu il concetto chiave per Hal, e il gruppo lo aiutò a sperimentare l’empatia chiedendogli, di tanto in tanto, di fare il giro del gruppo e indovinare che cosa stessero provando tutti gli altri membri. Dapprima Hal rispose in modo peculiare, indovinando che cosa ciascuno provasse nei suoi confronti; ma a poco a poco fu in grado di percepire quello che loro stavano sperimentando, per esempio che anche loro volevano del tempo, o erano arrabbiati, delusi o addolorati.

Il narcisismo è una patologia così integrale che spesso un paziente ha difficoltà a trovare qualcosa che “esca” al di fuori del proprio “essere speciale”, su cui porsi e osservarsi. Un altro paziente che in molti modi ricordava Hal venne messo di fronte al proprio egocentrismo in un modo curioso. Aveva fatto parte di un gruppo di terapia per due anni, facendo dei miglioramenti sorprendenti soprattutto nella capacità di amare e di impegnarsi per gli altri. Lo vidi in una seduta di debriefing sei mesi dopo la conclusione del gruppo, e gli chiesi se riusciva a rammentare un qualche evento critico particolare della terapia. Individuò una seduta nella quale il gruppo aveva assistito a una registrazione della seduta precedente; era rimasto sbalordito dallo scoprire che ricordava solo quelle parti dell’incontro che erano concentrate su di lui; c’erano ampi stralci della seduta che vedeva come se fosse stata la prima volta. Altri lo avevano criticato di frequente per il suo essere incentrato su se stesso, ma la cosa lo colpì davvero (come per tutte le verità importanti) quando fu lui stesso a scoprirlo.

Aggressione e controllo

L’essere speciali come modalità primaria di trascendenza della morte assume diverse altre forme maladattive. È abbastanza comune che la pulsione per il potere sia motivata da questa dinamica: la paura e il senso di limitazione sono evitati dilatando se stessi e la propria sfera di controllo. Ci sono prove, per esempio, che coloro che intraprendono professioni in un certo senso collegate con la morte (soldati, medici, preti e impresari di pompe funebri) possano in parte essere motivati dal bisogno di ottenere un controllo dell’angoscia della morte. Per esempio, Herman Feifel dimostrò che, anche se i medici hanno una preoccupazione per la morte meno conscia rispetto ai gruppi di controllo di pazienti o di popolazione generale, a livelli più profondi hanno invece più paura della morte19. In altre parole, le paure consce della morte sono placate dall’assunzione di potere, ma le paure più profonde, che in parte dettano la scelta della professione da intraprendere, continuano a operare. Quando il terrore è particolarmente forte, la pulsione aggressiva non è contenuta da una pacifica sublimazione e dunque accelera. L’arroganza e l’aggressività non di rado hanno questa origine. Rank scrisse che «la paura della morte dell’io è diminuita dall’uccisione, dal sacrificio, dell’altro; attraverso la morte dell’altro uno acquista per sé la libertà dalla condanna al morire»20. Ovviamente Rank si riferiva a qualcosa di più dell’uccisione letterale: forme più sottili di aggressione – inclusi il dominio, lo sfruttamento, o «l’omicidio dell’anima», per dirla con le parole di Ibsen21 – servono allo stesso scopo. Ma questa modalità di adattamento spesso trova uno scompenso in una difesa in forma di fuga. Il potere assoluto, come abbiamo sempre saputo, corrompe in modo assoluto: corrompe perché non funziona per l’individuo. La realtà si insinua sempre: la realtà della nostra impotenza e della nostra mortalità; la realtà che, a dispetto del nostro tendere alle stelle, ci attende un destino creaturale.

Le difese dell’essere speciali: l’essere incerti e l’angoscia

Nel discutere la modalità dell’essere speciali di affrontare la paura della morte mi sono concentrato sulle forme maladattive della soluzione individualistica o agentica: un individualismo eroico che porta alla fuga (con il suo terrore correlato per qualsiasi segnale di fragilità umana), una soluzione compulsiva da maniaco del lavoro, una depressione derivante da un’interruzione dell’eterna spirale verso l’alto, un disordine grave di carattere narcisistico con le correlate ramificazioni problematiche interpersonali e con la sua aggressività e bisogno di controllo. Ma c’è un’altra limitazione alla difesa dell’essere speciali, persino più seria e intrinseca. Molti attenti osservatori hanno notato che, anche se una grande euforia può per un certo tempo accompagnare l’espressione e il risultato individualista, si arriva poi a un punto in cui l’angoscia prende piede. La persona che emerge dall’embeddedness (vale a dire da una condizione di inglobamento) o che “si distingue dalla natura” deve pagare un prezzo per il suo successo. C’è qualcosa di spaventoso nell’individuazione, nel separarsi dal tutto, nell’andare avanti e vivere la vita come essere isolato separato, nel superare i propri pari e i propri genitori.

Molti clinici si occupano della “nevrosi da successo”, una curiosa condizione nella quale individui sul punto di essere incoronati dal successo per quello per cui hanno a lungo lottato non sviluppano uno stato di euforia ma di opprimente disforia che spesso li porta a non raggiungere quel successo. Freud si riferì al fenomeno come la sindrome di «coloro che soccombono al successo»22. Rank la descrisse come «angoscia della vita»23, cioè la paura di fronteggiare la vita come essere separato.

Maslow notò che tendiamo a ritrarci dalle nostre possibilità più elevate (come pure da quelle più basse), e definì il fenomeno «complesso di Giona», dato che Giona, come tutti noi, non aveva potuto sopportare la sua personale grandezza e aveva cercato di evitare il suo destino24.

Come si può spiegare questa curiosa tendenza dell’essere umano alla negazione? Forse è il risultato di un intreccio tra conquiste ottenute e aggregazione. Alcune persone usano le conquiste come un metodo per superare vendicativamente gli altri: temono che gli altri divengano consapevoli dei loro motivi e possano contrattaccare quando il successo diventa troppo grande. Freud sosteneva che fosse collegato alla paura di superare il proprio padre e quindi esporsi alla minaccia della castrazione. Becker illuminò la nostra comprensione suggerendo che la cosa terribile nel superare il padre non è la castrazione, bensì la prospettiva spaventosa di diventare il proprio padre25. Diventare il proprio padre significa rinunciare al sostegno genitoriale confortante ma magico per affrontare il dolore inerente alla coscienza della propria finitezza personale.

Così l’individuo che si tuffa nella vita è condannato all’angoscia. Distinguersi dalla natura, essere il proprio padre o, per dirla con Spinoza, essere «il proprio Dio», significa un assoluto isolamento, stare da soli senza il mito del salvatore o del soccorritore, senza il conforto della folla umana. Un’esposizione così priva di difese all’isolamento dell’individuazione è troppo terribile per essere sopportata dalla maggior parte di noi. Quando la fede nel nostro essere speciali e nell’inviolabilità personale non riesce a procurare la tregua dal dolore che richiediamo, cerchiamo sollievo nell’altro grande sistema alternativo di negazione: la convinzione dell’esistenza di un salvatore ultimo personale.

Il salvatore ultimo

L’ontogenesi ricapitola la filogenesi. In entrambe si rispecchiano lo sviluppo fisico e sociale dell’individuo, lo sviluppo della specie. In nessun attributo sociale il meccanismo si esprime più chiaramente che nella convinzione umana dell’esistenza di un intercessore onnipotente personale: una forza o un essere che eternamente ci osserva, ci ama e ci protegge. Anche se può permetterci di avventurarci fino al limite dell’abisso, alla fine ci salverà. Secondo Fromm questa figura mitica è il «protettore magico»26, secondo Masserman il «servo onnipotente»27. Ho tracciato lo sviluppo di questo sistema di fede nella prima infanzia: la fede nel proprio essere speciali è radicata negli avvenimenti della primissima parte della vita, quando i genitori sembrano perennemente attenti e pronti a soddisfare qualsiasi bisogno (si veda il capitolo 3). Di certo fin dagli albori della storia scritta l’umanità si è aggrappata alla fede in un dio personale, una figura che potesse essere eternamente amorosa, spaventosa, volubile, dura, acquiescente o collerica, ma una figura che comunque fosse sempre lì. Nessuna cultura primitiva ha mai creduto che gli umani fossero soli in un mondo indifferente.

Alcuni individui scoprono il loro salvatore non in un essere soprannaturale ma in quello che li circonda su questa terra, un leader o una qualche causa elevata. Per millenni gli esseri umani hanno soggiogato la loro paura della morte in questo modo e hanno scelto di rinunciare alla loro libertà, in effetti alle loro vite, per abbracciare una qualche figura più elevata o una causa personificata. Tolstoj era ben consapevole del nostro bisogno di crearci una figura simile a Dio e poi di cullarci nell’illusione della salvezza che emana dalla nostra creazione. Si consideri, in Guerra e pace, l’estasi di Rostov sul campo di battaglia al pensiero della prossimità dello zar:

[…] era stato inghiottito tutto quanto dal sentimento di felicità che la vicinanza del sovrano gli suscitava. Era felice come un innamorato che vada all’appuntamento tanto atteso. Non osava guardarsi attorno lungo la linea, ma anche senza volger lo sguardo, con il suo estasiato istinto sentiva che lui si stava avvicinando. E lo sentiva non soltanto dal suono degli zoccoli dei cavalli, che appunto si avvicinavano, ma anche perché, via via che si avvicinavano, tutto diveniva più chiaro attorno a lui, e più gioioso, e più significativo, e più festoso. Per Rostov, era come se il sole si stesse avvicinando: e diffondeva attorno a sé i raggi di una luce mite e maestosa, ed ecco, si sentiva già avvolta da quei raggi, udiva la voce di lui – quella voce affettuosa, calma, maestosa e al tempo stesso tanto semplice. […] E Rostov si alzò e andò a vagare tra i falò, fantasticando sulla gioia di morire, e non per salvar la vita al sovrano (una cosa simile non osava nemmeno sognarla), ma semplicemente di morire sotto i suoi occhi. Era davvero innamorato, dello zar, e della gloria delle armi russe, e della speranza d’un imminente trionfo. E non era lui solo a provare questo sentimento, in quei giorni memorabili che precedettero la battaglia di Austerlitz: nove decimi dell’armata russa erano innamorati, in quel periodo, anche se non in modo tanto entusiastico, del loro zar e della gloria delle armi russe28.

Mentre lo zar si avvicinava «ogni cosa diventava più brillante, più gioiosa e significativa e più festosa… era come se il sole si stesse avvicinando…» Com’è magnificamente chiara la descrizione di Tolstoj dell’estasi difensiva interiore: non solo, naturalmente, del soldato russo, ma delle legioni di uomini e donne comuni che i terapeuti incontrano nel loro lavoro clinico quotidiano.

La difesa del salvatore e la restrizione della personalità

Nel complesso la difesa del salvatore ultimo è meno efficace della fede nel proprio essere speciali. Non solo è più probabile che si infranga, ma è intrinsecamente restrittiva per la persona. In seguito riporterò una ricerca empirica che dimostra questa scarsa efficacia, ma è un’intuizione che Kierkegaard aveva già avuto più di cento anni fa, in una riflessione curiosa in cui metteva in contrasto i perigli dell’avventurarsi (l’emergere, l’individuazione, l’essere speciali) e del non avventurarsi (la fusione, l’essere inglobati, la fede nel salvatore ultimo):

[…] è pericoloso avventurarsi. E perché? Perché si può perdere. Non avventurarsi è accorto. E tuttavia, non avventurandosi, è così terribilmente facile perdere quello che sarebbe difficile perdere persino nella più avventurosa delle avventure, […] il proprio io. Perché se mi sono avventurato a sproposito, bene, allora la vita mi aiuterà con la sua punizione. Ma se non mi sono avventurato affatto – allora chi mi aiuterà? E, inoltre, se non avventurandomi affatto nel senso più alto (e avventurarsi nel senso più alto consiste precisamente nel divenire consapevoli di se stessi) mi sono guadagnato tutti vantaggi terreni… e ho perso me stesso. Non sarebbe terribile29?

Restare inglobati dentro un altro, «non avventurarsi», sottopone allora la persona al rischio più grande di tutti, vale a dire la perdita di se stessi, il fallimento dell’esplorazione o dello sviluppo dei potenziali multiformi che ha dentro di sé.

Quando viene chiesto troppo alla difesa basata sul salvatore, ne risulta una modalità di vita altamente ristretta. Come nel caso di Lena, una donna trentenne di un gruppo di terapia: era profondamente depressa, pervasa da idee suicidarie e spesso cadeva in una sorta di torpore depressivo durante il quale restava a letto per giorni. Viveva un’esistenza isolata e trascorreva la maggior parte del tempo da sola nella sua stanza scarsamente ammobiliata. Il suo aspetto personale era sorprendente. In ogni tratto – i lunghi capelli biondi trascurati, i jeans decorati, la giacchetta militare, l’atteggiarsi, la dabbenaggine da ragazzina – ricordava un’adolescente. Aveva perso la madre all’età di cinque anni e il padre a dodici, ed era cresciuta sviluppando un eccessivo attaccamento ai nonni e ad altri surrogati dei genitori. Quando i nonni erano invecchiati aveva manifestato una sorta di fobia nei confronti del telefono poiché il telefono era stato il messaggero della morte del padre, e si rifiutava di rispondere per paura che qualcuno le portasse la notizia della morte dei nonni.

Lena era apertamente terrorizzata dalla morte ed evitava qualsiasi contatto con motivi a essa legati, tentando di venire a patti con il suo terrore secondo una modalità magica e del tutto inefficace, una modalità che ho visto usare da molti pazienti: tentava di eludere la morte rifiutandosi di vivere. Come Oskar nel Tamburo di latta di Günter Grass, tentava di soggiogare il tempo, di fissarlo in modo permanente rimanendo per sempre una bambina. Si dedicava a evitare l’individuazione e cercava salvezza nel tentare di immergersi in un protettore. Un assioma della terapia di gruppo è che i membri esibiscono, nel qui-e-ora del gruppo, le loro difese interne mentre interagiscono l’uno con l’altro. L’atteggiamento difensivo di Lena divenne estremamente trasparente con il procedere dell’attività del gruppo. Una volta cominciò la seduta annunciando che durante il fine settimana precedente era stata coinvolta in un grave incidente d’auto. Era andata a trovare un amico in una città a quasi duecentocinquanta chilometri di distanza e per una grossa negligenza era uscita di strada, la macchina si era cappottata e lei era sfuggita alla morte per un pelo. Lena aveva commentato che sarebbe stato così facile e desiderabile non riprendere più conoscenza.

I membri del gruppo avevano risposto di conseguenza, preoccupandosi e spaventandosi per lei. Avevano fatto di tutto per esserle di sostegno. Il terapeuta del gruppo aveva reagito allo stesso modo fino a quando non aveva cominciato ad analizzare, in silenzio, il processo dell’incontro. Lena rischiava sempre di morire, spaventava sempre il gruppo, mobilitava sempre grosse preoccupazioni da parte degli altri membri. Durante i primi mesi nel gruppo, infatti, i membri si erano fatti carico del compito di mantenere Lena in vita facendola mangiare e trattenendola dal suicidio. Il terapeuta si era chiesto: «Ma a Lena capita mai qualcosa di buono?»

L’incidente di Lena si era verificato mentre stava andando a trovare un amico. All’improvviso il terapeuta si pose questa domanda: «Che amico?» Lena si era incessantemente presentata al gruppo come un individuo isolato, senza amici, parenti, persino conoscenti. E tuttavia raccontava che stava percorrendo quasi duecentocinquanta chilometri per andare a trovare un amico. Quando il terapeuta le pose la domanda, venne a sapere che Lena aveva un ragazzo, che aveva trascorso i fine settimana con lui da mesi e che lui la voleva sposare. Tuttavia, lei aveva deciso di non condividere quest’informazione con il gruppo. Le sue ragioni erano ovvie: quello che per Lena era importante non era la crescita ma la sopravvivenza, e la sopravvivenza sembrava possibile solo grazie all’attenzione sollecita e alla protezione del gruppo e del terapeuta. Il suo dilemma maggiore consisteva nel come conservare la protezione in eterno: non doveva dare prova di alcuna crescita o cambiamento, per paura che i membri del gruppo e il terapeuta concludessero che stava bene abbastanza da terminare la terapia.

Durante la terapia di gruppo Lena era stata molto minacciata da incidenti che sfidavano il suo sistema difensivo principale: ovvero la convinzione che l’aiuto era là fuori e che solo la presenza continua del salvatore assicurava la sua salvezza. Il bisogno di Lena della fusione con il terapeuta aveva dato come esito molte distorsioni del transfert che avevano richiesto un’attenzione continua per tutta la terapia. Era estremamente sensibile a qualsiasi segno di rifiuto da parte del terapeuta e reagiva con forza alle prove della sua mortalità, fallibilità o indisponibilità. Lei si allarmava (e arrabbiava) molto più degli altri membri del gruppo quando lui andava in vacanza, o si ammalava, o si sbagliava e si confondeva in modo evidente nel lavoro. Molto lavoro terapeutico con i pazienti che hanno una brama ipertrofica di un salvatore ultimo si centrerà sull’analisi del transfert (si veda il capitolo 5).

Il crollo del salvatore

Per molta parte della vita la fede in un salvatore ultimo offre un notevole conforto e funziona in modo regolare e invisibile. La maggior parte degli individui non prende coscienza della struttura del proprio sistema basato su questa fede fino a quando questo fallisce nel suo scopo o fino a quando, per dirla con le parole di Heidegger, lo «strumento […] si è guastato»30. Ci sono molte forme di cedimento, associate a forme di patologia collegate al crollo del sistema difensivo.

Una malattia fatale. Forse il test più severo per l’efficacia dell’illusione del salvatore ultimo è rappresentato da una malattia fatale. Molti individui colpiti dalla malattia canalizzano una gran quantità di energia per sostenere la loro fede nella presenza e nel potere di un protettore. Il candidato per eccellenza al ruolo di salvatore è il medico, e la relazione medico-paziente diventa sovraccarica e complessa. In parte la veste del salvatore è imposta al medico dal desiderio del paziente di credere; in parte, tuttavia, il medico indossa con gioia quella veste perché fare la parte del salvatore gli permette di incrementare la propria convinzione di essere speciale. In ogni caso il risultato è lo stesso: il dottore diventa straordinario, e l’atteggiamento del paziente nei suoi confronti è spesso irrazionalmente deferente. Comunemente i pazienti con una malattia fatale temono moltissimo di fare arrabbiare o deludere il proprio medico; questi pazienti si scusano per l’occupare il tempo del medico e sono così scombussolati in sua presenza che si dimenticano di porre le domande urgenti che si erano preparati. (Alcuni pazienti cercano di far fronte a questo problema preparando un elenco scritto delle domande da porre al medico.)

Per i pazienti è così importante che i dottori conservino il loro potere che non rischieranno mai di sfidare o di dubitare del medico. Molti pazienti, infatti, in modo altamente magico, permettono ai medici di mantenere il ruolo del risanatore efficace nascondendo loro informazioni importanti sulla propria sofferenza psicologica e persino fisica. Spesso, dunque, il medico è l’ultimo a conoscere la profondità della disperazione di un paziente. Un paziente che è perfettamente in grado di parlare apertamente con infermieri e operatori sociali della propria angoscia, mantiene una faccia allegra e impavida davanti al medico, che ne deduce che il paziente sta fronteggiando la situazione come meglio non ci si potrebbe aspettare. (Di conseguenza i medici sono notoriamente riluttanti a consigliare ai pazienti terminali un trattamento psicologico.)

Gli individui differiscono nella tenacia con cui si aggrappano alla negazione, ma alla fine tutta la negazione va in briciole davanti alla realtà travolgente. Kübler-Ross, per esempio, raccontò che nella sua lunga esperienza vide solo un gruppo di individui mantenere la negazione fino al momento della morte. La reazione di un paziente nell’apprendere che non esistono cure mediche o chirurgiche è catastrofica. Prova rabbia, si sente ingannato e tradito. Con chi, tuttavia, si può essere arrabbiati? Con il cosmo? Con il destino? Molti pazienti si arrabbiano con il medico per averli delusi: non per averli delusi dal punto di vista medico, ma per non essere riuscito a incarnare il mito personale del salvatore ultimo.

La depressione. Nel suo studio su individui depressi da un punto di vista psicotico Silvano Arieti descrisse un motivo centrale, un’ideologia di vita che precede e «prepara il terreno» per la depressione31. I suoi pazienti vivevano un tipo di esistenza mediata: vivevano non per loro stessi ma o per l’altro dominante o per lo scopo dominante. Anche se la terminologia differisce, la descrizione di Arieti di queste due ideologie coincide molto da vicino con le due difese contro la paura della morte qui descritte. L’individuo che vive per lo scopo dominante è l’individuo che modella la propria vita attorno alla fede nel proprio essere speciale e nella propria inviolabilità. Come detto in precedenza, la depressione spesso si manifesta quando la fede in una spirale sempre ascendente (lo scopo dominante) crolla.

Vivere per l’altro dominante è tentare di fondersi con un altro che si percepisce come dispensatore di protezione e significato della vita. L’altro dominante può essere il coniuge, la madre, il padre, l’amante, il terapeuta o un’antropomorfizzazione di un’istituzione sociale o economica. L’ideologia può crollare per molte ragioni: l’altro dominante può morire, partire, sottrarre amore e attenzione, o dimostrarsi troppo fallibile per il compito.

Quando i pazienti riconoscono il fallimento della loro ideologia sono spesso sopraffatti e possono sentire di aver sacrificato le loro vite per una moneta che alla fine si è rivelata contraffatta. Tuttavia, non hanno a disposizione alcuna strategia alternativa per affrontare il problema. Discutendo di una paziente, Arieti disse:

La paziente ha raggiunto un punto critico in cui sono necessari un riallineamento delle forze psicodinamiche e un nuovo modello di relazioni interpersonali, ma non è in grado di metterli assieme. Questa è la situazione delicata in cui si trova. È impotente. Non è in grado di visualizzare strutture cognitive alternative che conducano a passi curativi o, se è in grado di visualizzarle, le sembrano insormontabili. Altre volte queste alternative non sembrano irrealizzabili, ma inutili, dato che ha imparato a investire tutti i suoi interessi e desideri unicamente nella relazione che ha fallito32.

La paziente può tentare di ristabilire la relazione o di cercarne un’altra. Se questi tentativi falliscono, la paziente è senza risorse e si sente impoverita e critica nei propri confronti. Ristrutturare l’ideologia di una vita è inconcepibile; e molti pazienti, piuttosto che interrogarsi sul loro sistema di credenze di base, concludono che sono troppo inutili o troppo cattivi per meritare l’amore e la protezione del salvatore ultimo. La loro depressione è inoltre alimentata dal fatto che, inconsciamente, la sofferenza e l’immolazione di sé agiscono come un’ultima implorazione disperata d’amore. Così sono in lutto perché hanno perso l’amore e rimangono in lutto allo scopo di riguadagnarlo.

Il masochismo. Ho descritto un gruppo di comportamenti associati alla fede ipertrofica nel salvatore ultimo: tenersi in disparte, paura di un venir meno dell’amore, passività, dipendenza, immolazione di sé, rifiuto di accettare l’età adulta e depressione al crollo di un sistema di credenze basato sulla fede. Quando enfatizzato, ciascuno di questi punti può produrre una sindrome clinica caratteristica. Quando domina l’immolazione di sé, il paziente viene indicato come “masochista”.

Karen, una paziente quarantenne che ho avuto in trattamento per due anni, mi insegnò molto sulle dinamiche alla base della brama di dolore inflitto a se stessi. Karen era entrata in terapia per una serie di ragioni: inclinazioni sessuali masochiste, incapacità di raggiungere il piacere sessuale con il suo ragazzo, depressione, inerzia pervasiva, incubi terrificanti ed esperienze ipnagogiche. In terapia sviluppò rapidamente un potente transfert positivo. Si dedicò al progetto di ottenere attenzione e preoccupazione da parte mia. Le sue fantasie masturbatorie consistevano in lei che si ammalava gravemente (di una malattia fisica come la tubercolosi, o di un esaurimento psicotico) e io che la nutrivo e la cullavo. Rimandava il momento dell’uscita dal mio studio in modo da trascorrere alcuni minuti in più con me; per avere la mia firma, conservava gli assegni annullati con i quali aveva pagato le mie parcelle; tentava di assistere alle mie conferenze. Nulla sembrava darle più piacere del mio essere severo con lei: infatti, se esprimevo una qualche irritazione, sperimentava un eccitamento sessuale nel mio studio. Faceva di me un essere straordinario in ogni modo possibile, e ignorava selettivamente tutti i miei difetti evidenti. Leggeva un libro che avevo scritto con una paziente nel quale avevo rivelato molto delle mie angosce e delle mie limitazioni33. Ma, invece di rendersi conto delle mie limitazioni, la sua ammirazione nei miei confronti era persino aumentata per il grande coraggio che avevo mostrato nel pubblicare un libro del genere.

Rispondeva in modo simile ai segnali di debolezza o limitazione di altre figure importanti e potenti della sua vita. Se il suo ragazzo si ammalava o manifestava un qualsiasi segno di debolezza, confusione o indecisione, lei provava una grande angoscia. Non poteva sopportare di vederlo indebolito. Una volta, quando si era fatto male in un incidente d’auto, divenne fobica riguardo all’idea di andare a trovarlo in ospedale. Reagì in modo simile nei confronti dei suoi genitori e si sentì dolorosamente minacciata dal loro progressivo invecchiamento e dalla loro fragilità. Da bambina si era relazionata a loro tramite la malattia. «Essere ammalata è stata la menzogna della mia vita» diceva Karen. Cercava il dolore per ottenere soccorso. Durante l’infanzia, in più di un’occasione aveva trascorso settimane a letto con malattie fittizie. Durante l’adolescenza era stata anoressica, fin troppo contenta di avere fame in cambio dell’attenzione e della sollecitudine che ciò suscitava.

La sua sessualità si esprimeva secondo le stesse modalità di ricerca di sicurezza e soccorso: forza, vincolo, resistenza e dolore la eccitavano, mentre debolezza, passività e persino tenerezza le facevano repulsione. Essere punita voleva dire essere protetta. Essere legata, confinata o limitata era meraviglioso: significava che erano stati posti dei limiti, e che una qualche figura possente li stava ponendo. Il suo masochismo era sovradeterminato: cercava la sopravvivenza non solo attraverso il soggiogamento ma anche attraverso il valore simbolico e magico della sofferenza. Una piccola morte, dopo tutto, è meglio di quella vera.

Il trattamento ebbe successo nell’alleviare la depressione acuta, gli incubi e le preoccupazioni suicidarie. Ma giunse il momento in cui il trattamento con me sembrò impedire una crescita ulteriore in quanto, per non perdermi, Karen continuava a immolarsi. Posi quindi una data conclusiva di lì a sei mesi e le dissi che dopo quel momento non l’avrei più rivista. Nelle settimane successive superammo la tempesta di una severa recrudescenza di tutta la sintomatologia. Non solo l’angoscia violenta e gli incubi fecero ritorno, ma ebbe delle terrificanti esperienze allucinatorie che consistevano in giganteschi pipistrelli che le calavano addosso ogni volta che si trovava da sola.

Fu un periodo di grande paura e disperazione per Karen. La sua illusione del salvatore ultimo l’aveva sempre protetta dal terrore della morte e la sua rimozione la lasciava apertamente esposta al terrore. Nel suo diario (inviatomi al termine della terapia) scrisse magnifiche poesie che descrivono il terrore in forma grafica.

Con la morte in bocca io ti parlo

E con i vermi che mi mangiano il cuore.

Nella cacofonia delle campane

Le mie proteste sono inascoltate.

La morte è delusione,

È pane amaro.

Tu me lo infili in gola

Per soffocare le mie urla.

La convinzione potente e radicata di Karen che, nel fondersi con me, avrebbe potuto sfuggire la morte, era apertamente espressa in questa poesia:

Prenderei la Morte come padrone,

chiamerei la sua frusta una mano gentile,

e con lei cavalcherei fino alle grotte

dove alberga, là sulle colline;

rinuncerei al profumo maturo dell’estate,

ai baccelli ribollenti di vita spumeggiante,

per sedere con lei su un trono di ghiaccio

e conoscerne l’amore.

Con l’approssimarsi della data conclusiva, Karen le tentò tutte. Minacciò il suicidio se non avessi continuato il trattamento. Un’altra poesia espresse il suo umore e la sua minaccia:

La morte non è simulazione.

È desolata come la realtà,

presenza completa come la vita stessa,

l’altra scelta definitiva.

Sento che sto correndo nelle ombre,

rivestendomi di ragnatele,

nascondendomi alla realtà che tu mi imponi.

Voglio tenere in alto il mio oscuro mantello, morte,

e con esso minacciarti.

Mi capisci?

Mi ci avvolgerò se tu persisti.

Anche se ero spaventato dalle minacce e le fornivo il maggior sostegno possibile, decisi di non recedere dalla mia posizione e confermai che al termine dei sei mesi non l’avrei più incontrata, indipendentemente da quanto stesse male. La nostra conclusione doveva essere definitiva e irrevocabile; nessun tipo di sofferenza da parte sua avrebbe potuto influenzarla. A poco a poco i suoi sforzi di unirsi a me diminuirono, e lei si concentrò su quello che era il suo compito: utilizzare le nostre sedute conclusive nel modo più costruttivo possibile. Fu solo allora, quando ebbe abbandonato la speranza nella mia presenza continua ed eterna, che lavorò in modo davvero efficace nella terapia. Si permise di conoscere e di rendere note le sue forze e la sua crescita. Rapidamente ottenne un’occupazione a tempo pieno commisurata al suo talento e alla sua abilità (aveva procrastinato tutto ciò per quattro anni!) Mutò il suo modo di comportarsi e da squallida ragazzetta si trasformò in una donna matura piena di fascino.

Due anni dopo mi chiese di incontrarmi di nuovo a seguito della morte di un’amica. Accettai di vederla per un’unica seduta e venni a sapere che non solo aveva mantenuto i suoi cambiamenti, ma aveva avuto un’ulteriore crescita considerevole. Sembra che una cosa importante per i pazienti sia sapere che, sebbene il terapeuta possa essere utile, c’è un punto oltre il quale non è in grado di offrire altro. Nella terapia, come nella vita, c’è un sostrato inevitabile di lavoro solitario e di esistenza solitaria.

La difesa del salvatore e le difficoltà interpersonali. Il fatto che alcuni individui evitino la paura della morte convincendosi dell’esistenza di un salvatore ultimo offre al clinico un quadro di riferimento per dei veri e propri “duetti” interpersonali sconcertanti. Si consideri l’esempio di un comune problema clinico: il paziente invischiato in una relazione chiaramente poco gratificante, persino distruttiva, che tuttavia non è in grado di liberarsene.

Bonnie aveva quarantotto anni, e soffriva della malattia di Buerger. Dopo un matrimonio ventennale senza figli, era separata da dieci anni. Il marito era appassionato della vita all’aria aperta e sembrava essere un autocrate del tutto insensibile ed egocentrico che aveva lasciato Bonnie quando le sue condizioni di salute le avevano reso impossibile accompagnarlo nelle spedizioni di caccia e pesca. Non le aveva fornito alcun sostegno economico durante i dieci anni di separazione, aveva storie con numerose altre donne (cosa che non mancava di condividere con lei) e andava a casa di Bonnie una o due volte alla settimana per usare la lavatrice, ascoltare i messaggi nella segreteria telefonica del telefono che usava per gli affari e che era a casa di lei e, una o due volte all’anno, avere dei rapporti sessuali. Bonnie, a causa della propria moralità rigorosa, si rifiutava di incontrare altri uomini mentre era ancora sposata. Continuava a essere ossessionata dal marito: a volte furiosa alla vista di lui, a volte ancora innamorata. La sua vita diminuiva con il progredire della sua malattia, in solitudine ma tormentata dalle visite settimanali di lui per la lavatrice. Ma non riusciva a divorziare, disconnettere il telefono o mettere fine ai privilegi di lui.

Delores aveva avuto una serie di relazioni insoddisfacenti con vari uomini e alla fine, all’età di trentacinque anni, aveva sposato un individuo straordinariamente compulsivo, senza alcuna sensibilità. Prima del matrimonio era stata in terapia per via di un’angoscia cronica e un’ulcera duodenale. Dopo il matrimonio la puntigliosità controllante del marito aveva in breve trasformato la sua angoscia prenuziale in una condizione al confronto paradisiaca. Il marito preparava dei programmi dettagliati per le sue attività settimanali (dalle 9:00 alle 10:15 lavori in giardino; dalle 10:30 all’ora di pranzo spesa, e così via) e un grafico preciso delle spese. Monitorava tutte le telefonate e la rimproverava per il tempo passato con chiunque non fosse lui. In breve Delores si trovò in una condizione terribile di angoscia e rabbia repressa; tuttavia era terrorizzata al solo pensiero di una separazione o di un divorzio.

Martha aveva trentuno anni e voleva disperatamente sposarsi e metter su famiglia. Per molti anni era stata legata a un uomo che apparteneva a una setta mistica che gli aveva insegnato che meno impegni un individuo ha, più grande è la sua libertà. Di conseguenza, anche se Martha gli piaceva, si rifiutava di vivere con lei o di fare qualsiasi progetto a lungo termine. Era allarmato dal bisogno che aveva di lui e, più lei si attaccava, meno lui aveva voglia di fare delle promesse. Martha era ossessionata dall’idea di legarlo a sé e soffriva al di là di ogni possibile descrizione per la mancanza di impegno di lui. Tuttavia, si sentiva dipendente e non era in grado di liberarsi; ogni volta che rompeva con lui soffriva di uno stato di astinenza e alla fine di depressione o di panico, e gli telefonava di nuovo. Lui viveva queste separazioni con esasperante tranquillità: gli importava di lei, ma comunque se la cavava bene anche senza. Martha era troppo presa da lui per cercare altre relazioni: il suo principale progetto nella vita era strappargli un impegno, un impegno che la ragione e l’esperienza suggerivano come qualcosa di altamente improbabile.

Ciascuna paziente era coinvolta in una relazione che le causava un’angoscia considerevole e si rendeva conto che continuare la relazione era autodistruttivo. Ciascuna cercava, invano, di liberarsi, e i loro futili tentativi costituivano il tema principale della terapia. Che cosa rendeva così difficile il disimpegno? Che cosa saldava ciascuna di loro in modo così stretto all’altra persona? Un filo ovvio e comune passava attraverso le preoccupazioni delle tre pazienti, che divenne evidente quando chiesi di dirmi quello che veniva loro in mente quando pensavano a separarsi dal compagno.

Bonnie aveva vissuto un matrimonio ventennale con un marito che aveva preso ogni decisione per lei. Era un uomo che decideva su tutto e che si occupava di lei. Naturalmente, come capì solo dopo essersi separata, essere “accudita” aveva limitato la sua crescita e la sua autonomia. Ma era così consolante sapere che qualcuno era sempre lì a proteggerla e salvarla. Bonnie aveva una malattia grave e continuava con ostinazione a credere, anche dopo dieci anni di separazione, che il marito fosse là fuori a prendersi cura di lei. Quando la spingevo a riflettere sulla vita senza la presenza di lui (e parlo di presenza simbolica, perché al di là della lavatrice e dei rapporti sessuali non c’era stata una presenza fisica significativa per anni), veniva assalita da un’angoscia profonda. Che cosa avrebbe fato in caso di emergenza? Chi avrebbe chiamato? La vita sarebbe stata insopportabilmente solitaria senza di lui. Ovviamente lui era un simbolo che la proteggeva dal confronto con la dura realtà che non c’è nessuno là fuori, che l’“emergenza” è inevitabile e che nessuna persona, simbolica o reale, può prevenirla.

Anche Delores era terrorizzata dall’idea di essere sola. Il marito era incredibilmente restrittivo, ma lei «preferiva la prigione del matrimonio alla libertà della strada». Diceva che non sarebbe stata altro che un’emarginata, un soldato in un esercito di donne disadattate alla ricerca di un rapporto occasionale con un uomo. Bastava chiederle, durante la seduta di terapia, di riflettere sulla separazione per provocarle un attacco severo di iperventilazione ansiosa.

Martha permetteva che la sua vita fosse governata dal futuro. Ogni volta che le chiedevo di meditare su cosa sarebbe successo se avesse rinunciato alla relazione con quel ragazzo che non si voleva impegnare, rispondeva sempre che tutto ciò a cui riusciva a pensare era «mangiare da sola a sessantatré anni». Quando le chiedevo una sua definizione di impegno, rispondeva: «È la garanzia che non dovrò mai vivere da sola o morire da sola». Il pensiero di morire da sola o di andare al cinema da sola la riempiva di vergogna e terrore. Cos’è che realmente voleva da una relazione? «Essere in grado di avere aiuto senza doverlo chiedere» rispondeva.

Martha era tiranneggiata dalla paura disperata e sempre presente che, in futuro, sarebbe stata sola. Come molti pazienti nevrotici non viveva realmente nel presente, ma tentava invece di trovare il passato (ovvero il legame confortante con la madre) nel futuro. La paura di Martha e il suo bisogno erano così grandi che facevano sì che lei non riuscisse a instaurare una relazione gratificante con un uomo. Era troppo spaventata dalla solitudine per rinunciare alla sua relazione attuale, per quanto fosse insoddisfacente, e il suo bisogno era così frenetico da spaventare e allontanare i possibili partner.

Per ciascuna di queste donne, dunque, la forza del legame non era la relazione in sé ma il terrore di essere sole. E ciò che le spaventava particolarmente nell’essere sole era l’assenza di quell’altro essere potente e magico che si libra attorno a ciascuno di noi osservando, anticipando i nostri bisogni, procurando a ciascuno di noi uno scudo contro il destino della morte.

Che la fede nel salvatore ultimo possa dare come esito delle relazioni interpersonali restrittive è esemplificato in modo eccezionalmente chiaro nella relazione tra alcuni adulti e i loro genitori anziani. Irene aveva quarant’anni e aveva avuto una relazione ambivalente con la propria madre, una donna ostile, esigente e cronicamente depressa, nei confronti della quale provava, per lo più, odio e grande rabbia. Tuttavia, quando la madre si era lamentata delle proprie condizioni, Irene l’aveva invitata a trasferirsi dall’altra parte del paese per vivere con lei. Anche se all’epoca Irene era in terapia, non aveva discusso dell’invito della madre con il suo terapeuta se non dopo averle fatto la proposta. Sembrava che, pur essendo ben consapevole della natura autodistruttiva del proprio comportamento, fosse costretta a precipitarsi in avanti e non volesse che nessuno provasse a dissuaderla. Non molto tempo dopo l’arrivo della madre Irene manifestò una decompensazione: seri attacchi di angoscia, insonnia ingestibile, asma acuto. Fino a quando, nella terapia, ci concentrammo sulle manovre della madre atte a produrre senso di colpa, sulla sua intrusività e sul suo umore astioso, non ci furono progressi. Questi giunsero solo quando ci rivolgemmo a un’altra questione, la questione cruciale per la comprensione di molte relazioni tormentate tra gli adulti e i loro genitori. Perché la madre era così importante per Irene? Perché era suo compito e responsabilità assicurare la felicità della madre? Perché non si poteva separare dalla madre?

Quando chiesi a Irene di riflettere sulla struttura intima della sua vita senza la madre, la sua prima associazione fu interessante: «Senza mia madre a nessuno importerebbe quello che mangio!» La madre era là fuori, che si librava da qualche parte sopra la sua spalla destra guardandola e prendendo nota di quello che Irene mangiava. A un livello conscio la presenza della madre aveva sempre fatto infuriare Irene, ma adesso che guardava la cosa più in profondità, era rassicurante. Se la madre monitorava quello che lei mangiava, ne conseguiva che la madre avrebbe assicurato anche in altro modo il benessere della figlia. Irene aveva bisogno di una madre non solo viva, ma vigorosa; per Irene i segni di infermità, apatia o depressione nella madre erano, a un livello profondo, angoscianti.

Per una visione integrata
della psicopatologia

Per scopi didattici ho focalizzato separatamente le due principali modalità di far fronte all’angoscia della morte e ho presentato storie di pazienti che mostrano forme estreme di una di queste due difese di base. Ma ora è giunto il momento di integrarle. La maggior parte dei pazienti, naturalmente, non si presenta con dei quadri clinici chiari e monotematici. In genere non ci si costruisce una singola difesa ponderosa, ma si usano difese multiple e intrecciate nel tentativo di tenere lontana l’angoscia. La maggior parte degli individui si difende dall’angoscia della morte attraverso una fede irrazionale nella propria inviolabilità e una fede nell’esistenza di un salvatore ultimo. Sebbene finora abbia presentato queste due difese come una dialettica, esse sono strettamente interdipendenti. Siccome abbiamo un essere o una forza onnipotenti che ci osservano e si preoccupano del nostro benessere, siamo unici e immortali e abbiamo il coraggio di emergere dall’inglobamento. Siccome siamo esseri unici e speciali, forze speciali nell’universo si preoccupano per noi. Sebbene il nostro salvatore ultimo sia onnipotente, al tempo stesso è il nostro eterno servitore.

Otto Rank ipotizzò una dinamica di base che illumina la relazione tra le due difese34. Rank sentiva che nell’individuo c’è una paura originaria che a volte si manifesta come paura della vita, a volte come paura della morte. Con paura della vita Rank intendeva l’angoscia di fronte a «una perdita di connessione con un tutto più grande». La paura della vita è la paura di dover fronteggiare la vita come essere isolato, è la paura dell’individuazione, «dell’andare avanti, o del distinguersi dalla natura». Rank credeva che la paura prototipica della vita fosse la nascita, il trauma originario e la separazione originaria. Con paura della morte Rank si riferiva invece alla paura dell’estinzione, della perdita dell’individualità, dell’essere di nuovo dissolto in un tutto.

Rank affermava che «l’individuo è sballottato avanti e indietro per tutta la vita tra queste due possibilità di paura, tra questi poli di paura». L’individuo tenta di separarsi, di individuare, di affermare la propria autonomia, di andare avanti, di realizzare il proprio potenziale. Tuttavia, giunge il momento in cui sviluppa la paura davanti alla vita. L’individuazione, l’emersione o, per dirla con le parole che ho usato in questo capitolo, l’affermazione dell’essere speciali, non sono a costo zero. Comportano, infatti, un senso spaventoso e solitario di mancanza di protezione, un senso che l’individuo mitiga invertendo la direzione: uno va “all’indietro”, rinuncia all’individuazione, trova conforto nel fondersi, nel dissolversi, nel darsi a un altro. Tuttavia, il conforto è instabile in quanto anche questa alternativa evoca paura, e cioè la paura della morte: la rinuncia, la stagnazione e, per finire, l’inorganicità. Tra questi due poli della paura, la paura della vita e la paura della morte, l’individuo fa la spola nel corso della sua esistenza.

Sebbene il paradigma che offro in queste pagine di un sistema duale di difesa articolato attorno all’essere speciali e al salvatore ultimo non sia identico alla dialettica paura della vita-paura della morte di Rank, le due cose si sovrappongono in modo evidente. I poli della paura di Rank presentano notevoli somiglianze con limiti inerenti alle difese che ho descritto. L’angoscia della vita emerge dalla difesa dell’essere speciali: è il prezzo che si paga per il distinguersi, senza protezioni, dalla natura. L’angoscia della morte è il tributo della fusione: quando si rinuncia all’autonomia ci si perde e si subisce un tipo di morte. Così si oscilla, si va in una direzione finché l’angoscia diventa più importante della difesa, e poi ci si muove nella direzione opposta.

Quest’oscillazione può essere dimostrata da una parte del materiale clinico già presentato. Si consideri Lena, che evitava l’angoscia scegliendo di rimanere bloccata nell’adolescenza. Cercava di continuo di fondersi con qualche salvatore, tuttavia era spesso terrorizzata dalla propria situazione: si aggrappava agli altri, ma si ribellava ostinatamente. Bramava la vicinanza, tuttavia scappava quando le veniva offerta. Molta della sua energia sembrava diretta verso l’evitare l’angoscia della vita con il suo cambiamento e la sua crescita. Cercava la pace, il conforto e la sicurezza, tuttavia veniva fagocitata dall’angoscia della morte, quando li aveva. Odiava il sonno o una qualsiasi immobilità e, per evitare entrambi, si impegnava in attività frenetiche, guidando spesso senza uno scopo per tutta la notte.

Poi c’era Karen, una masochista che aveva scelto di immolarsi, se necessario, pur di ottenere il mio abbraccio. Ma anche lei era spaventata dal suo obiettivo. Fondersi con un’altra persona significava conforto e sicurezza, ma anche la perdita di se stessa. Una delle sue poesie illustra molto bene questo dilemma:

Voglio scrollarmi, come un cane uscito dall’acqua,

per liberarmi dalla tua influenza,

Ero troppo libera con te,

ti lasciavo avvicinare troppo al mio cuore

e mi attaccavo come la carne al metallo ghiacciato.

Riscaldami e poi lasciami andare.

Per liberarmi, devo strappare la carne,

farmi ferite che non guariranno.

È questo quello che vuoi da me?

L’oscillazione emersione-fusione è spesso manifestata in modo particolarmente chiaro nelle sedute di terapia familiare, quando il problema principale ruota attorno a un adolescente che si prepara ad andare via da casa. In una delle famiglie che ho avuto in trattamento Don, un paziente di diciannove anni, era palesemente stufo del controllo dei genitori sulla sua vita. Si sforzava spasmodicamente di essere indipendente e insisteva che i suoi genitori non partecipassero alla scelta del college o alle procedure di ammissione. Tuttavia, procrastinò troppo a lungo la scelta per ottenere l’ammissione al college dove avrebbe voluto andare e decise di restare a casa e frequentare il biennio presso il college locale.

La presenza continuata di Don in casa provocò il caos nella vita familiare: era ambivalente riguardo alla libertà. Pur essendo dolorosamente sensibile a qualsiasi azione dei genitori che suggerisse una limitazione della sua libertà, in modo segreto ma inequivocabile richiedeva di essere trattenuto: continuava a tenere acceso lo stereo a un volume assordante fino a tarda notte; esigeva di usare la macchina di famiglia ma la guidava a tutto gas, con gli pneumatici che stridevano uscendo dal vialetto e spesso la restituiva con il serbatoio così vuoto che il padre, nel migliore dei casi, raggiungeva a stento la stazione di servizio, la mattina successiva. Chiedeva soldi per uscire con le ragazze ma lasciava “inavvertitamente” i preservativi sulla cassettiera perché i rigidi genitori mormoni li trovassero.

Don esigeva la libertà, ma non se la prendeva. In numerose occasioni uscì di casa infuriato e cercò asilo presso un amico per qualche giorno, ma non esplorò mai seriamente la possibilità di trovarsi un appartamento. I genitori erano ricchi, ma non avrebbe permesso loro di pagargli l’affitto, né aveva intenzione di pagarselo da solo. (Aveva fondi sufficienti grazie ai lavori estivi ma si rifiutava di spenderli, dato che desiderava metterli da parte per un momento in cui avrebbe avuto “davvero” bisogno di soldi!) Anche se Don agognava e lottava per la libertà, al tempo stesso diceva ai genitori: «Sono immaturo, irresponsabile, occupatevi di me, ma fate finta che non ve lo abbia chiesto».

I genitori non erano affatto degli spettatori disinteressati in questo dramma. Don era il figlio maggiore e andare via da casa rappresentava una tappa fondamentale nel ciclo della vita dei genitori. Il padre di Don, un maniaco del lavoro appassionatamente competitivo, era particolarmente minacciato da questa tappa: metteva a nudo la natura illusoria del suo progetto di essere speciale, significava una diminuzione personale, l’inizio di una nuova fase, meno vitale, meno utile; significava declassamento e declino e, acquattata dietro entrambi, la morte. La madre di Don, la cui principale identità consisteva nell’essere madre e donna di casa, era minacciata allo stesso modo dalla partenza di Don. Temeva la solitudine e la perdita di significato della propria vita. Di conseguenza i genitori di Don, nei modi più sottili, ne impedivano la crescita. Lo preparavano per la vita come adulto autonomo (non è questo lo scopo di un bravo genitore?) e tuttavia supplicavano: «Non crescere, non ci lasciare, resta giovane per sempre, e così faremo anche noi»*.

Un altro individuo oscillante tra l’emersione e la fusione era Rob, un dirigente trentunenne che mi aveva consultato per via del suo travestitismo. Aveva sempre indossato abiti femminili, in privato, fin dall’adolescenza e lo schema era stato, fino a quel momento, sempre egosintonico. La spinta sembrava provenire proprio dal centro di se stesso: indossare abiti femminili gli dava molto piacere, e desiderava farlo. Di recente il comportamento sembrava avere il sopravvento. Era spesso angosciato ed era consapevole di doversi mettere indumenti femminili per alleviare l’angoscia. Il sintomo pretendeva di più: voleva che lui apparisse in pubblico come una donna; voleva che si radesse i peli del corpo (cosa che faceva) e, per finire, che si tagliasse il pene e diventasse una donna. Così era comunque angosciato: lo era se non indossava vesti femminili, e lo era se lo faceva.

In genere gli psicoterapeuti si pongono dinanzi al paziente travestito presumendo che si tratti di un comportamento che tenti di tenere lontana l’angoscia della castrazione (ovvero se uno è già castrato, è al sicuro dall’attacco) e al tempo stesso permetta all’individuo di avere una qualche forma di soddisfazione genitale. Questo paradigma aveva per Rob un qualche potere esplicativo. Chiariva, per esempio, perché potesse masturbarsi solo quando indossava abiti femminili e fantasticasse di sé come donna. Tuttavia, lasciava molto di non spiegato, e un paradigma esistenziale poteva fornire una visione più ampia del comportamento di Rob.

Le fantasie di Rob erano di rado esplicitamente sessuali. In genere si immaginava come donna che veniva salutata e ammirata da un gruppo di altre donne che la accoglievano nel loro circolo: la accoglievano per il suo aspetto o semplicemente per la sua persona, ma non richiedevano nessun atto specifico. Lui desiderava unirsi a loro, essere una di loro, un’infermiera, una donna di casa o una dattilografa. Commentava che quello che importava davvero era che non doveva far niente: era così stanco dello stress connesso all’essere maschio – alla competizione, alla distinzione, alla lotta, alla dimostrazione della propria abilità.

Indossare abiti femminili dissimulava una profonda angoscia della morte. La madre di Rob era morta in modo lento e doloroso di cancro quando lui era adolescente, e per oltre quattordici anni aveva continuato a sognarla. Vestire abiti femminili rappresentava una fusione simbolica con la madre e con tutte le donne: per la maggior parte della sua vita l’atto aveva limitato l’angoscia inerente all’individuazione. Da sempre una persona di successo, Rob aveva da molto tempo superato il padre ma, nel far ciò, aveva dovuto fronteggiare quella che Rank definì la «paura della vita». Rob aveva sempre reagito a quest’angoscia dell’individuazione con una vita fantastica nella quale la fusione attraverso il meccanismo dell’indossare vesti femminili era il tema dominante. Tuttavia, la difesa dell’indossare tali vesti non era più efficace: evocava troppo la «paura della morte», e Rob era terrorizzato dall’idea che le sue fantasie potessero avere il sopravvento.

Il tentativo di mitigare l’angoscia dell’individuazione attraverso la fusione sessuale è comune. L’uomo di successo che si dedica totalmente al potere, ad andare avanti, a distinguersi e a farsi un nome deve, a un certo punto, trovarsi faccia a faccia con la solitaria mancanza di protezione inerente all’individuazione. Spesso questo punto è raggiunto durante i viaggi d’affari. Quando un uomo che lavora sodo non è più in grado di canalizzare le proprie energie e l’attenzione nel lavoro, quando deve rallentare in un ambiente non familiare, spesso sperimenta una terribile solitudine e una profonda frenesia. Cerca il sesso, non un abbraccio amoroso (che aumenterebbe le paure di perdere se stesso): cerca sesso manipolativo, un’unione sessuale che gli permetta di continuare a controllare la vita e limitare la consapevolezza ma che procura un cataplasma per l’isolamento e la sottostante angoscia della morte. La relazione è naturalmente una sciarada, e a un qualche livello profondo l’individuo riconosce la sua modalità inautentica di incontrare l’altro. Il senso di colpa che ne deriva si unisce all’angoscia e come risultato produce un maggiore isolamento e una maggiore frenesia, nonché il bisogno di avere ancora un’altra donna, a volte pochi minuti dopo aver lasciato la precedente.

L’attività sessuale come modalità per placare l’angoscia della morte è stata spesso osservata clinicamente. Patricia McElveen-Hoehn riportò una serie di episodi simili: la donna sessualmente conservatrice che torna a casa per il funerale di un genitore o di un parente stretto e si porta dietro il diaframma, e in modo per lei insolito si impegna in una relazione sessuale con uno sconosciuto o con un compagno occasionale; l’uomo che ha avuto un grave attacco alle coronarie e, mentre sta andando all’ospedale, palpa il seno della moglie e chiede con insistenza un qualche scambio sessuale; l’uomo che, con un figlio che sta morendo di leucemia, diventa molto promiscuo36.

Un altro esempio clinico è offerto da Tim, un paziente trentenne la cui moglie stava morendo di leucemia. Tim era entrato in terapia non per superare il dolore ma a causa di un allarmante grado di preoccupazione e compulsione sessuale. Prima della malattia della moglie aveva condotto una vita monogama ma con l’approssimarsi della morte di lei aveva cominciato a visitare compulsivamente cinema porno e locali per single (correndo grandi rischi di esposizione pubblica) e a masturbarsi diverse volte al giorno, spesso mentre era a letto con la moglie morente. La notte del funerale della moglie aveva cercato una prostituta. Il dolore di Tim e la paura della propria morte erano chiaramente individuabili sotto alla compulsione sessuale. I suoi sogni davano chiara prova di tali preoccupazioni (si veda il capitolo 5).

Un esempio impressionante della relazione tra il sesso e la morte si è verificato con una mia paziente che aveva sviluppato un diffuso cancro inoperabile alla cervice. Nonostante il dolore e la sindrome da deperimento, aveva un’infinità di corteggiatori, più di quanti ne avesse avuti prima di sapere della malattia. I suoi compagni avevano a che fare con paure della morte in modo controfobico. Ricevevano una sorta di euforia dall’essere così vicini al fulcro della vita o, per dirla con le parole di uno di loro, alle «viscere della terra». Credo fossero esaltati dall’essere così vicini alla morte, dal poterle sputare in faccia e dall’emergere ogni volta sani e salvi. La paziente aveva una motivazione diversa: nonostante l’intenso dolore pelvico, aveva una potente brama di sesso. Era così vicina alla morte e così terrorizzata dalla solitudine del morire che era divorata dal bisogno di unirsi a un’altra persona. Ellen Greenberger ha studiato le donne con un cancro terminale e, sulla base dei risultati TAT, relaziona un’incidenza significativamente elevata di temi legati alla sessualità proibita37.

Il compito di soddisfare entrambi i bisogni – separazione e autonomia da un lato, protezione e fusione dall’altro – e fronteggiare la paura corrispondente costituisce una dialettica eterna che governa il proprio mondo interiore. È un compito che comincia nei primi mesi di vita, quando il bambino, che dapprima è simbioticamente unito alla madre (e successivamente ha una dipendenza emotiva da lei in costante diminuzione), deve, per sviluppare un senso di identità, interezza e separazione, sganciarsi e differenziarsi dalla madre: un compito al quale Margaret Mahler si riferì come “separazione-individuazione”38.

Il costo dell’adattamento nevrotico

Il tentativo di sfuggire all’angoscia della morte è al centro del conflitto nevrotico. Il comportamento diventa nevrotico quando è estremo e rigido. E, come abbiamo visto, l’ipertrofia di una qualsiasi delle difese principali contro la morte dà come risultato una qualche forma di adattamento nevrotico. Lo stile di vita nevrotico è generato da una paura della morte; ma nella misura in cui limita la capacità di una persona di vivere in modo spontaneo e creativo, la difesa contro la morte è essa stessa una morte parziale. È ciò che Rank intendeva sostenendo che il nevrotico rifiuta il prestito della vita per sfuggire il debito della morte ma si compra la libertà dalla paura della morte attraverso una parziale autodistruzione quotidiana39.

Ma il costo dell’adattamento nevrotico non si lega soltanto all’autolimitazione. A causa del senso di colpa, l’individuo nevrotico non può sfuggire impunemente nemmeno a quel che resta della vita. Tradizionalmente il senso di colpa è definito come il sentimento che deriva da una trasgressione reale o fantasticata nei confronti di un altro. Fu Kierkegaard40, seguito da Rank e Tillich41, a richiamare l’attenzione su un’altra fonte del senso di colpa: la trasgressione contro se stessi, il fallimento di vivere la vita assegnata a ciascuno. Per usare le parole di Rank: «Quando ci proteggiamo… da una vita troppo intensa o troppo veloce, ci sentiamo colpevoli per via della vita non usata, della vita non vissuta che portiamo in noi»42. La rimozione è così un’arma a doppio taglio: procura sicurezza e sollievo dall’angoscia ma al tempo stesso genera una restrizione della vita e una forma di senso di colpa, il «senso di colpa esistenziale» (si veda il capitolo 6).

Finora ho discusso gli adattamenti nevrotici ben delineati nei confronti dell’angoscia della morte. Lasciate che ora consideri le difese più primitive e frammentarie contro l’angoscia della morte che si incontrano nella schizofrenia.

La schizofrenia e
la paura della morte

Per quanto si stiano accumulando prove che molte forme di schizofrenia hanno un’importante componente biochimica non si può negare il fatto che la schizofrenia sia anche una tragica esperienza umana, che può essere compresa sia da una prospettiva longitudinale (storica) sia da una sezione trasversale (fenomenologica). Stress evolutivi devastanti hanno contribuito allo sviluppo della visione del mondo del paziente schizofrenico, e costui abita in un mondo esperienziale terrificante e caotico.

Forse nessun terapeuta ha fatto uno sforzo più concertato o eroico di comprendere ed esplicare il mondo del paziente schizofrenico di Harold Searles, che per molti anni trattò pazienti profondamente psicotici al Chestnut Lodge di Rockville, in Maryland. Nel 1958 scrisse un articolo estremamente acuto ma trascurato, «Schizophrenia and the Inevitability of Death», in cui espresse le sue opinioni sulla psicodinamica del paziente schizofrenico:

Il fatto palesemente prosaico dell’inevitabilità della morte è, in pratica, una delle fonti di suprema potenza dell’angoscia dell’uomo, e le risposte dei sentimenti a questo aspetto della realtà sono tra le più intense e complesse che ci sia possibile sperimentare. I meccanismi di difesa della malattia psichiatrica, incluse le frequenti difese dall’aspetto “esotico” che si trovano nella schizofrenia, sono strutturate per tenere fuori dalla consapevolezza dell’individuo – assieme ad altri aspetti della realtà interiore ed esteriore che provocano angoscia – il semplice fatto della finitezza dell’esistenza43.

Searles suggerì che la dinamica del paziente schizofrenico, come quella del paziente nevrotico, possa essere pienamente compresa solo nella prospettiva della risposta del paziente all’inevitabilità della morte. Ovviamente le difese del paziente schizofrenico sono più insolite, più estreme e più disabilitanti di quelle del paziente nevrotico. Inoltre il paziente schizofrenico ha un’esperienza iniziale della vita molto più devastante. Ma la natura esistenziale della realtà umana ci rende tutti fratelli e sorelle. Anche se la grandezza della minaccia o le caratteristiche della risposta differiscono, è la finitezza umana ad assillare lo schizofrenico non meno del nevrotico. Searles lo affermò brillantemente:

Sicuramente la schizofrenia può essere considerata un risultato delle esperienze esotiche e deformanti del passato – in modo predominante della primissima e prima infanzia, ma secondo l’autore può essere vista, con eguale accuratezza e con utilità clinica maggiore, come qualcosa che consiste nell’uso di certi meccanismi di difesa, appresi molto presto, per affrontare le fonti dell’angoscia presente. E di queste ultime nessuna è più potente della circostanza esistenziale della finitezza della vita. In sostanza, dunque, qui si ipotizza che la schizofrenia possa essere vista, da uno dei vari altri punti di osservazione, come uno sforzo intenso di tenere lontano o di negare questo aspetto della condizione umana.

L’autore desidera mettere bene in chiaro che, nella sua esperienza, il fatto dell’inevitabilità della morte ha più di una relazione tangenziale con la schizofrenia. In altre parole, non è tanto che il paziente, con il liberarsi dalla sua schizofrenia, acquisisca la capacità di volgere la propria attenzione verso quella grande circostanza della vita che è l’inevitabilità della morte – una circostanza che in precedenza se ne era rimasta inerte in un’area periferica, o persino completamente al di là, della sua comprensione. Al contrario, il lavoro clinico dell’autore ha indicato che la relazione è molto più centrale. La questione è piuttosto che il paziente è diventato, ed è a lungo rimasto, schizofrenico (e qui si fa naturalmente riferimento a un’intenzionalità ampiamente o totalmente inconscia) allo scopo di evitare di fronteggiare, tra gli altri aspetti della realtà interna ed esterna, il fatto che la vita è finita44.

In genere le storie dei casi di pazienti schizofrenici sottolineano sempre la prima infanzia squallida e piena di conflitti, e la grave patologia dell’ambiente familiare. Ma che succederebbe se la vera storia del caso di un paziente, la storia esistenziale di un caso, venisse scritta? L’esame psichiatrico include un’indagine dello stato mentale tramite la quale l’esaminatore tenta di scoprire se il paziente è orientato nel tempo, nello spazio e nel rapporto con la persona. Searles ipotizza quello che un paziente risponderebbe se fosse davvero “orientato”:

Sono Charles Brennan, un uomo che oggi, 15 aprile 1953, ha cinquantuno anni; vivo a Chestnut Lodge, un ospedale psichiatrico a Rockville, Maryland; ho costantemente soggiornato in una serie di ospedali psichiatrici da otto anni a questa parte; sono seriamente malato da venticinque anni, con una malattia mentale che mi ha portato via ogni prospettiva realistica, considerando la mia età attuale, di essere mai in grado di sposarmi e avere dei figli, e che è piuttosto possibile che richiederà l’ospedalizzazione per il resto della mia vita. Sono un uomo che un tempo è stato membro di una famiglia che comprendeva due genitori e sette figli, ma che negli anni ha assistito a una serie devastante di tragedie che hanno colpito questa famiglia. Anni fa mia madre è morta, in uno stato di prolungata malattia mentale; uno dei miei fratelli ha sviluppato una malattia mentale da giovane, il che ha richiesto una lunga ospedalizzazione; un altro fratello si è suicidato; ancora un altro fratello è morto combattendo nella Seconda guerra mondiale; e un terzo è stato assassinato di recente, al culmine della sua carriera legale, da un cliente malato di mente. L’altro mio genitore, mio padre, adesso è vecchio, pateticamente lontano dall’uomo forte che era un tempo, e la morte non può essere lontana da lui45.

C’è qualcosa di desolato e scioccante nella storia di questo caso particolare, ma forse più scioccante ancora è sapere che una storia di casi similarmente tragici, che si focalizza non sullo sviluppo iniziale, sull’istruzione, sul servizio militare, sulla relazione con l’oggetto, sulle pratiche sessuali, ma sui fatti esistenziali della vita, può essere scritta per ogni paziente (e, di certo, per ogni terapeuta).

Searles descrisse il corso della terapia di una grave paziente psicotica che ebbe in trattamento per diversi anni. In un primo momento la paziente mostrava «prove evidenti di un sistema delirante ampiamente dettagliato, fascinosamente insolito e complesso, e difeso con estremo rigore, colmo di ogni genere di rappresentazioni orribili, che andavano dalla ferocia brutale alla stregoneria e a intricate macchinazioni fantascientifiche». Sebbene l’esperienza del mondo della paziente fosse terrificante, Searles notò che si mostrava poco preoccupata per quei fatti che sono terrificanti per tutti gli esseri umani, come la malattia, l’invecchiare e la morte ineluttabile. Trattava queste questioni con una esplicita e massiccia negazione della morte: «Non c’è ragione per nessuno al mondo di essere infelice o miserabile oggigiorno; ci sono antidoti per tutto… la gente non muore ma in effetti è semplicemente “rimpiazzata”, spostata da un posto all’altro o trasformata nei soggetti inconsapevoli di qualche film».

Dopo tre anni e mezzo di psicoterapia, la paziente sviluppò una visione della vita basata sulla realtà e ad accettare che la vita, anche la vita umana, fosse finita. Prima di questa comprensione aveva dato prova di una disperata intensificazione delle difese deliranti contro il riconoscimento dell’inevitabilità della morte.

Arrivava a trascorrere la maggior parte del suo tempo raccogliendo foglie morte e occasionalmente, dopo ore di ricerche, uccelli e piccoli animali morti, e comprando ogni sorta di articoli dai negozi del piccolo villaggio vicino e poi, attraverso vari processi di tipo alchemico, tentava di riportare questi o quelle a una qualche forma di vita. Divenne chiarissimo (e lei stessa lo confermava) che sentiva di essere Dio, che selezionava varie foglie o altre cose morte per riportarle alla vita. Molte volte le sedute di psicoterapia si svolgevano fuori, nei giardini dell’ospedale; il terapeuta sedeva su una panca, mentre lei continuava il quotidiano controllo del prato lì accanto.

Ma con il passare dei mesi, verso la fine di questo periodo di negazione della morte, arrivò a esprimere sempre più apertamente un sentimento di disperazione nei confronti di quell’attività. Poi giunse un giorno d’autunno in cui, durante una seduta, paziente e terapeuta sedettero su due panche vicine e guardarono assieme il prato coperto di foglie. Lasciò capire, per lo più in modi non verbali, che era colma di tranquillità, tenerezza e dolore. Disse, con le lacrime agli occhi, con un tono di rassegnazione per un fatto che doveva semplicemente essere accettato: «Non posso trasformare quelle foglie in pecore, per esempio». Il terapeuta rispose: «Ne deduco che si sta rendendo conto che forse è così anche per la vita umana, che, come per le foglie, la vita umana termina con la morte». Lei annuì, e rispose: «Sì».

Questa presa di coscienza segnò l’inizio di un solido progresso terapeutico. Gradualmente la paziente abbandonò la sua difesa principale nei confronti della morte: la fede nella propria onnipotenza e invulnerabilità. Si rese conto

[…] che non era Dio… e che gli esseri umani sono mortali. Questo mostrò che il vero fondamento della sua malattia paranoide schizofrenica stava adesso andando in briciole, una malattia che aveva implicato per lunghi anni la convinzione, per esempio, che entrambi i genitori deceduti fossero ancora vivi46.

Sebbene le difese della donna e di altri pazienti schizofrenici descritti da Searles siano estreme ed eccessivamente primitive, sono comunque omologhe agli schemi difensivi riscontrati in pazienti nevrotici. Il paziente paranoide, per esempio, dimostra, nei deliri di grandezza e onnipotenza, una delle modalità primarie di fuga dalla morte: la fede nel proprio essere speciale e nell’immortalità.

Molti, se non tutti, i pazienti schizofrenici non sono in grado di sperimentarsi in quanto pienamente vivi. Senza dubbio questa mancanza di vitalità è una funzione della rimozione globale di ogni affetto nel paziente schizofrenico, ma può anche servire, secondo Searles, da proposito difensivo aggiuntivo: essere “morto” può proteggere il paziente dalla morte. Una morte limitata è meglio della morte reale. Non c’è bisogno di temere la morte se si è morti comunque.

Ma tutti dobbiamo fronteggiare la morte. Se la paura della morte è una centrale nel paziente schizofrenico dobbiamo risolvere l’enigma del perché il paziente schizofrenico sia così turbato da questa paura onnipresente. Searles suggerì diverse ragioni.

Per prima cosa, l’angoscia del fronteggiare la morte è infinitamente più grande in coloro che non hanno una conoscenza consolidante dell’integrità personale e della partecipazione complessiva alla vita. «Una persona» scrisse Searles «non può sopportare di fronteggiare la prospettiva di una morte inevitabile fino a quando non ha avuto esperienza del vivere pienamente, e lo schizofrenico non ha ancora vissuto pienamente»47. Norman Brown, nello straordinario libro La vita contro la morte, fa un’affermazione simile: «Solo chi, perché esse sono una cosa sola, può affermare la nascita può affermare la morte. […] L’orrore della morte è la paura di morire con quelli che Rilke chiama “i segni non vissuti del nostro corpo”»48. (Che l’angoscia della morte sia profondamente accentuata dal fallimento della vita è una tesi con implicazioni considerevoli per la terapia, ed è discussa nel capitolo successivo.)

Una seconda ragione per cui lo schizofrenico è sopraffatto dall’angoscia della morte è che il paziente ha sofferto enormi perdite così presto nel suo sviluppo da non essere stato in grado di integrarle. A causa di un io immaturo, il paziente reagisce alle perdite in modo patologico, in genere rinforzando l’onnipotenza infantile soggettiva che serve a negare la perdita (non si subisce una perdita se si è il mondo intero). Così, non essendo stato in grado di integrare le perdite nel passato, nel presente il paziente non è in grado di integrare la prospettiva della più grande di tutte le perdite, vale a dire la perdita di se stesso e di chiunque conosca. Lo scudo principale del paziente contro la morte, allora, è costituito da un senso di onnipotenza, un elemento chiave di qualsiasi malattia schizofrenica.

Una terza fonte di intensa angoscia della morte emana dalla natura della relazione iniziale del paziente schizofrenico con la madre – un’unione simbiotica dalla quale il paziente non è mai emerso ma nella quale continua a oscillare tra una posizione di fusione psicologica e uno stato di totale estraneità. L’esperienza del paziente di una relazione con la madre non è diversa dai meccanismi che regolano un campo magnetico: se ci si avvicina troppo si viene risucchiati all’improvviso, se ci si allontana troppo si va a finire nel nulla. La relazione simbiotica richiede, per essere mantenuta, che nessuna delle due parti viva indipendentemente dall’altra: ciascuno ha bisogno dell’altro per completare la propria interezza. Così il paziente non sviluppa mai il senso di interezza necessario a sperimentare pienamente la vita.

Inoltre il paziente schizofrenico percepisce che la relazione simbiotica è assolutamente necessaria alla sopravvivenza: il paziente ha bisogno di protezione contro qualsiasi minaccia alla relazione; e tra queste minacce nessuna è pericolosa quanto l’intensa ambivalenza sua (e della madre). Il bambino ha un senso di profonda impotenza quando prova l’odio più profondo nei confronti della persona verso cui nutre l’amore più profondo. Il bambino è indifeso anche di fronte alla consapevolezza che quella stessa persona lo ama e lo odia con grande intensità. Quest’impotenza richiede una continua conservazione della fantasia dell’onnipotenza personale, normale solo nell’infanzia. Nulla distruggerebbe in modo così completo il senso di onnipotenza personale dell’accettazione dell’inevitabilità della morte, e il paziente schizofrenico si aggrappa alla propria negazione della morte con feroce disperazione.

Un paradigma esistenziale
della psicopatologia:
le prove documentate

In questo capitolo sostengo che, sebbene la negazione della morte sia onnipresente e sebbene le modalità specifiche della negazione della morte siano molto varie, ci sono due principali baluardi della negazione: la fede nel proprio essere speciali e la fede nel salvatore ultimo. Queste difese hanno origine nelle prime fasi della vita e influenzano profondamente la struttura del carattere dell’individuo. Un individuo che crede fermamente in un salvatore ultimo (e che lotta per la fusione, l’unione o l’inglobamento) cerca la forza al di fuori di sé; assume una posa dipendente e supplice verso gli altri; reprime l’aggressività; può manifestare tendenze masochiste e può cadere in una profonda depressione in caso di perdita dell’altro. L’individuo orientato verso l’essere speciale e l’inviolabilità (e che lotta per l’emersione, l’individuazione, l’autonomia e la separatezza) può essere invece narcisista; raggiunge spesso obiettivi in modo compulsivo; è probabile che diriga l’aggressività verso l’esterno; può essere autonomo al punto da respingere l’aiuto necessario e appropriato offerto dagli altri; può non accettare affatto le proprie personali fragilità e i propri limiti ed è probabile che mostri tendenze, a volte grandiose, alla stravaganza.

Non c’è una diretta prova empirica dell’esistenza di questa dialettica tra emergenze e inglobamento, ma ciò vale per qualsiasi dei paradigmi psicopatologici clinici posti da Freud, Horney, Fromm o Jung: i paradigmi clinici affiorano sempre in modo intuitivo e sono giustificati e validati dalla loro utilità clinica. Tuttavia, costrutti della personalità analoghi sono stati postulati e studiati attentamente secondo due grandi assi: la ricerca di laboratorio sugli stili cognitivi e la ricerca personale sul locus of control.

Lo stile cognitivo

Nel 1949 Herman Witkin identificò due modalità percettive di base – campo-dipendenza e campo-indipendenza – che sembrano analoghe all’organizzazione della personalità basata sul salvatore ultimo e sull’essere speciali49. Nella modalità campo-dipendente (analoga allo stile del salvatore ultimo) la percezione dell’individuo è fortemente dominata dall’organizzazione globale del campo. Nella modalità campo-indipendente (analoga allo stile dell’essere speciali) parti del campo sono sperimentate come separate dal contesto. Molte ricerche dimostrano che la tendenza verso l’una o l’altra modalità è una caratteristica costante e pervasiva di un individuo. In un’ampia varietà di compiti percettivi l’individuo campo-dipendente non è in grado di mantenere il primo piano distinto dal contesto ambientale, mentre l’individuo campo-indipendente non ha difficoltà a svolgere questi compiti*. Così i test dimostrano una tendenza stilistica dell’individuo che, mentre si produce, non è limitata alla percezione ma è uno stile cognitivo pervasivo, evidente nelle attività intellettuali dell’individuo, nel concetto di corpo e nel senso di identità separata.

Le attività intellettuali. L’individuo campo-dipendente incontra maggiori difficoltà rispetto a quello campo-indipendente nel risolvere problemi che richiedono l’isolamento di un elemento centrale dal suo contesto. Tali tendenze sono dette “stili cognitivi”. Da un lato c’è una tendenza costante perché l’esperienza sia globale e diffusa e dall’altro perché sia delineata e strutturata. Witkin si riferisce a questi poli dello stile cognitivo chiamandoli rispettivamente «globale» e «articolato». È tuttavia importante sottolineare il fatto che il mondo non è popolato da due tipi di esseri: i risultati dello stile cognitivo mostrano una distribuzione continua piuttosto che una distribuzione bipolare.

L’immagine del corpo. Gli stili di un individuo non solo influiscono su quello che è percepito là fuori, ma influenzano anche l’esperienza “lì dentro”. I test sull’immagine del corpo (per esempio i test basati sul disegno di una persona) suggeriscono con forza che il modo in cui un individuo percepisce il proprio corpo è correlato in maniera significativa alla propria prestazione nei test percettivi e cognitivi. Individui con uno stile campo-dipendente («globale») mostrano pochi dettagli, rappresentazioni non realistiche delle proporzioni e di parti del corpo, e uno scarso tentativo di rappresentare un ruolo sessuale; gli individui campo-indipendenti («articolati»), invece, mostrano una rappresentazione chiara delle proporzioni e delle differenze di sesso.

L’identità. Le persone con uno stile cognitivo campo-indipendente danno prova di un senso sviluppato di identità separata: ciò significa che hanno una consapevolezza di bisogni, sentimenti e attributi che riconoscono come propri e che identificano come distinti da quelli degli altri. D’altra parte, gli individui con uno stile cognitivo campo-dipendente fanno affidamento su fonti esterne per la definizione dei propri atteggiamenti, giudizi, sentimenti e per la visione di se stessi*. Per esempio, alcuni studi hanno dimostrato che le persone campo-dipendenti guardano la faccia dell’esaminatore adulto molto più frequentemente di quanto facciano quelli campo-indipendenti. Inoltre le persone campo-dipendenti sono più brave a riconoscere i volti di chi hanno visto in precedenza, e molto spesso fanno sogni che riguardano la loro relazione con lo sperimentatore.

Lo stile cognitivo e la negazione della morte. L’individuo campo-dipendente, definito sperimentalmente, ricorda da vicino la caratterizzazione clinica dell’individuo orientato verso l’esistenza di un salvatore ultimo; la persona campo-indipendente rammenta invece un individuo orientato verso la convinzione dell’essere speciale. La dialettica tra campo-dipendenza e campo-indipendenza è derivata interamente dagli studi empirici della funzione percettiva e cognitiva, ma è priva del contenuto soggettivo. Arriverei a ipotizzare che la dialettica esistenziale qui descritta sia collegata a questa dialettica empirica nello stesso modo in cui il “terrore” è collegato alla risposta galvanica della pelle: la dialettica esistenziale procura il significato personale, l’esperienza fenomenologica, dell’individuo che è categorizzato in uno di questi stili cognitivi. Permettetemi di portare oltre l’analogia e di paragonare il collegamento empirico tra lo stile cognitivo e la psicopatologia con le osservazioni fatte all’inizio di questo capitolo sulla psicopatologia associata a ciascuna delle principali difese contro l’angoscia della morte.

La psicopatologia e gli stili cognitivi. Lo stile cognitivo dell’individuo è strettamente collegato alla “scelta” della difesa psicologica e alla forma della psicopatologia. La campo-dipendenza/indipendenza è un continuum, e a entrambi i poli si trova una psicopatologia che assume forme piuttosto diverse a seconda del polo a cui tende.

È possibile che un individuo campo-dipendente con disordini della personalità abbia seri problemi di identità, con sintomi spesso considerati evocativi di problemi ben sedimentati di dipendenza, passività e impotenza. Diversi studi indicano che un simile paziente manifesta sintomi collegati alla mancanza di sviluppo di un “senso di identità separata”, come alcolismo, obesità, personalità inadeguata, depressione e reazioni psicopatologiche (per esempio l’asma). È possibile che un paziente psicotico abbia allucinazioni, a differenza di un campo-indipendente che è probabile sia invece delirante50.

È probabile che un individuo campo-indipendente che sviluppa una patologia mostri verso l’esterno aggressività, allucinazioni, idee di grandezza espansive ed euforiche, sindromi paranoidi e strutture del carattere compulsive e depressive.

Delle osservazioni interessanti sono state fatte anche a proposito delle differenze tra le persone campo-dipendenti e campo-indipendenti che entrano in psicoterapia. La differenza principale ruota attorno al transfert. Come si potrebbe prevedere, un paziente campo-dipendente tende a sviluppare un transfert rapido e altamente positivo nei confronti del terapeuta e a sentirsi meglio prima rispetto a un paziente campo-indipendente. Un paziente campo-dipendente tende a “fondersi” con il terapeuta, laddove un campo-indipendente è probabile sia molto più cauto nello sviluppo di una relazione con il terapeuta. Un paziente campo-indipendente viene alla prima seduta con un resoconto articolato e con delle idee a proposito dei suoi problemi, laddove un paziente campo-dipendente è poco specifico. Un individuo campo-dipendente accetta con prontezza i suggerimenti del terapeuta, sollecita sostegno, e tenta di prolungare le sedute per via dei sentimenti di angoscia al termine dell’incontro.

Lo stile cognitivo di uno psicoterapeuta è un fattore decisivo importante del contesto psicoterapeutico. Gli psicoterapeuti che sono essi stessi campo-indipendenti tendono a favorire un approccio osservazionale al paziente, direttivo o passivo, laddove i terapeuti campo-dipendenti favoriscono relazioni personali e reciproche con i loro pazienti.

Le somiglianze sono davvero evidenti: una posizione estrema, tanto nella campo-dipendenza quanto nell’orientamento verso un salvatore ultimo, dà come risultato una patologia caratterizzata da passività, dipendenza, oralità, mancanza di funzione autonoma e inadeguatezza. Un’estrema campo-indipendenza o una fede nell’essere speciali può dare come risultato, invece, un’espansività patologica, sindromi paranoidi, aggressività o compulsione. Queste osservazioni ricevono un sostegno aggiuntivo da un’altra linea di indagine, quella del locus of control, un paradigma della personalità empiricamente derivato che ricorda anch’esso strettamente il paradigma clinico dell’essere speciali e del salvatore ultimo.

Locus of control

A cominciare con il lavoro di Julian B. Rotter51 ed E. Jerry Phares52, molti ricercatori si sono interessati a un paradigma della personalità che tenti di stabilire se l’individuo ha un locus of control interno o esterno. Una persona sente di controllare la propria vita, o sente che questi avvenimenti si verificano indipendentemente dalle sue azioni? La maggior parte della ricerca sul controllo interno-esterno è basata su uno strumento, la scala I-E* sviluppata da Rotter nel 1966 e usata da allora in diverse centinaia di studi di ricerca55.

Gli interni hanno un locus of control interno e sentono di controllare il loro destino personale; gli esterni pongono il controllo al di fuori di sé e cercano risposte, sostegno e guida al di fuori di se stessi. Gli interni differiscono dagli esterni in moltissimi modi. Gli interni tendono a essere più indipendenti, più capaci di raggiungere un risultato, più attivi politicamente, e hanno un maggiore senso del potere personale. Cercano maggiormente il potere, dirigono i loro sforzi verso l’acquisizione di una padronanza dell’ambiente. I pazienti interni ospedalizzati per tubercolosi sanno di più della loro condizione, sono più curiosi riguardo alla loro malattia e segnalano che non sono soddisfatti della quantità di informazioni che ricevono da medici e infermiere56. Quando vengono date loro le carte TAT e vengono guidati astutamente da chi li sottopone al test, gli interni sono molto meno aperti alla suggestione e all’influenza di quanto lo siano gli esterni57.

In generale, poi, gli interni acquisiscono più informazioni e le conservano e memorizzano meglio per controllare il loro mondo. Gli interni sono meno influenzabili e sono più indipendenti e si fidano di più del proprio giudizio. In contrasto con gli esterni, valutano l’informazione sulla base del suo valore invece di reagire sulla base del prestigio o della competenza della fonte dell’informazione. È più probabile che gli interni siano delle persone di maggior successo ed è più probabile che rimandino la gratificazione in modo da ottenere ricompense maggiori in seguito. Gli esterni sono molto più suggestionabili, tendono più spesso a essere fumatori o a prendersi rischi elevati giocando d’azzardo, hanno minore successo, dominio e perseveranza, e un più elevato desiderio di sostegno esterno, e manifestano una maggiore tendenza all’autoumiliazione58.

Queste caratterizzazioni e le precedenti relative ai campo-indipendenti (a chi crede nel proprio essere speciale) e ai campo-dipendenti (a chi crede nel salvatore ultimo) sono chiaramente simili. Possiamo integrare queste scoperte immaginando un continuum con la campo-dipendenza, il locus of control esterno e l’orientamento verso un salvatore ultimo a un estremo, e la campo-indipendenza, il locus of control interno e l’orientamento verso il proprio essere speciali all’altro. La posizione in entrambi gli estremi del continuum è strettamente collegata a una psicopatologia clinicamente significativa. Molte ricerche, tuttavia, indicano che un polo del continuum costituisce una personalità organizzata che è meno efficace e che più probabilmente darà come risultato una psicopatologia. Gli individui del polo campo-dipendente, quelli del locus of control esterno, hanno in modo più probabile una psicopatologia dimostrabile rispetto agli individui del polo campo-indipendente, o con un locus of control interno59. Gli individui con risultati elevati nel locus of control esterno più probabilmente si sentiranno inadeguati60, saranno più angosciati, ostili, affaticati e depressi61, sentiranno di avere meno vigore e resilienza62. I pazienti psichiatrici seriamente invalidati sono con maggiore probabilità esterni63, e gli schizofrenici lo sono con una probabilità ancora maggiore64. Una gran quantità di ricerca dimostra una forte relazione tra locus of control esterno e depressione65.

Le scoperte di queste ricerche corrispondono all’esperienza clinica. Più individui cercano la terapia per il fallimento del salvatore ultimo (forti desideri di dipendenza, bassa autostima, disprezzo nei confronti di se stessi, impotenza, tendenze masochistiche, depressione causata dalla perdita, o dalla minaccia della perdita, del loro altro dominante) piuttosto che per il crollo del proprio essere speciali. Una squadra di ricercatori ha riportato una correlazione positiva tra la modalità del locus of control esterno e l’angoscia della morte66. In altre parole, la modalità esterna sembrava uno scudo meno efficace contro l’angoscia della morte di quanto fosse invece la modalità interna (tuttavia un altro esperimento utilizzava degli strumenti diversi per valutare l’angoscia della morte e non è riuscito a replicare gli stessi risultati)67.

La difesa costituita dalla fede in un salvatore esterno sembra intrinsecamente limitata. Non solo non contiene interamente l’angoscia primaria, ma la sua stessa natura genera patologia aggiuntiva: credere che la propria vita sia controllata da forze esterne è associato a senso di incapacità, mancanza di efficacia e scarsa considerazione di sé. Chi non può contare su di sé o credere in se stesso, limita conseguentemente le proprie acquisizioni di informazioni e capacità, e può relazionarsi agli altri in modo servile. Non è difficile vedere che una bassa autostima, una tendenza verso l’umiliazione di sé, poche abilità sulle quali costruire il senso del proprio valore e delle relazioni interpersonali insoddisfacenti preparano il terreno per una psicopatologia.

 

* Dinamiche simili sono rilevabili nelle famiglie di bambini che manifestano fobie nei confronti della scuola. W. Tietz presentò diversi casi di pazienti la cui paura della morte aveva dato come esito una fobia della scuola: un bambino cerca di difendersi dall’angoscia della morte rifiutando di separarsi dalla famiglia; la famiglia, a causa dell’ambivalenza relativa all’autonomia crescente del bambino, agisce in collusione con il sintomo35.

* Molti test percettivi possono essere usati per dimostrare questo fenomeno. Per esempio, nel test di adattamento corporale un individuo viene fatto sedere su una sedia che può essere inclinata verso destra o verso sinistra, e la sedia viene messa in una stanza piccola che può anch’essa essere inclinata verso destra o verso sinistra. Al soggetto viene chiesto di mantenere il proprio corpo eretto tenendo conto della gravità, mentre la stanza attorno a lui viene inclinata. Gli individui campo-dipendenti non sono in grado di separarsi dalla posizione della stanza che li circonda. In altre parole, se la stanza è inclinata, si inclineranno anche loro di conseguenza e diranno di essere eretti anche se i loro corpi possono oggettivamente essere inclinati fino a quarantacinque gradi. I soggetti campo-indipendenti sono in grado, senza tener conto della posizione della stanza che li circonda, di tenere i loro corpi quasi perfettamente eretti. Così, gli individui campo-dipendenti sembrano avere una fusione tra corpo e campo, mentre quelli campo-indipendenti sembrano possedere un senso immediato di separazione dei loro corpi dall’ambiente. In un test analogo all’individuo viene mostrato un bastone e un quadro luminosi (gli unici oggetti visibili in una camera buia) e gli viene chiesto di mettere il bastone in posizione eretta, indipendentemente dall’inclinazione del quadro. Nel test delle figure incastrate all’individuo viene chiesto di studiare alcuni disegni complessi nei quali sono incastrate alcune figure semplici particolari. Gli individuo campo-dipendenti non sono in grado di percepire la figura semplice, mentre per gli individui campo-indipendenti la figura semplice è evidente e “salta fuori” di per sé dal disegno.

* Un individuo campo-dipendente che venga posto in una situazione autocinetica cambia il proprio giudizio relativo al movimento di un punto di luce in conformità della suggestione proposta da un complice. (La situazione autocinetica consiste nel fissare un punto di luce fisso in una stanza buia e valutare di quanto il punto si sia mosso. La luce in sé non si muove, ma l’individuo può essere più o meno influenzato dalle valutazioni di soggetti che partecipano all’esperimento, o complici, che lo hanno preceduto nella prova.)

* La scala I-E (interna-esterna) è costituita da un questionario di autovalutazione basato su ventitré punti a scelta obbligata, quali per esempio:

a. La gente è sola perché non cerca di essere cordiale.

b. Non c’è un gran senso nel cercare con troppo impegno di piacere alla gente, se gli piacete, gli piacete.

a. Quello che mi succede è il prodotto delle mie azioni.

b. A volte sento di non avere abbastanza controllo della direzione che la mia vita sta prendendo53.

Esiste anche una versione per bambini in età prescolare, con punti quali:

a. Quando hai un buco nei pantaloni è

a) perché te lo sei fatto tu, o

b) perché si sono strappati.

b. Se avessi un soldino nuovo e lo perdessi, sarebbe

a) perché l’hai fatto cadere, o

b) perché c’è un buco nella tasca54.