Il processo di introspezione profonda, al quale Heidegger si riferiva con il termine di «svelatezza»1, ci porta a riconoscere che siamo finiti, che dobbiamo morire, che siamo liberi e che non possiamo sfuggire alla nostra libertà. Riconosciamo anche che l’individuo è inesorabilmente solo.
Dato che la libertà e la morte sono concetti tradizionalmente lasciati al di fuori del dominio dello psicoterapeuta, nei capitoli precedenti ho sentito la necessità di trattare la loro specifica rilevanza per la psicoterapia. La situazione è diversa per quel che riguarda l’isolamento, trattandosi di un concetto familiare che si presenta di frequente nella psicoterapia quotidiana. Infatti l’isolamento è così familiare ed è usato in così tanti modi diversi che il mio primo compito consiste nel definirlo in un contesto esistenziale. A parer mio, il clinico incontra tre tipi diversi di isolamento: interpersonale, intrapersonale ed esistenziale.
L’isolamento interpersonale, in genere sperimentato come solitudine, si riferisce all’isolamento dagli altri individui. È una funzione costituita da numerosi fattori: isolamento geografico, mancanza di capacità sociali appropriate, sentimenti fortemente conflittuali in relazione all’intimità, o un tipo di personalità (schizoide, narcisista, manipolatrice, critica) che preclude un’interazione sociale gratificante. I fattori culturali hanno un ruolo importante nell’isolamento interpersonale. Il declino delle istituzioni a sostegno dell’intimità – la famiglia estesa, il vicinato residenziale stabile, la chiesa, i negozi di quartiere, il medico di famiglia – ha portato inesorabilmente, per lo meno negli Stati Uniti, a un incremento dell’isolamento interpersonale.
L’isolamento intrapersonale è un processo nel quale un soggetto elimina parti di se stesso. Freud usava il termine “isolamento” per descrivere un meccanismo di difesa, particolarmente evidente nelle nevrosi ossessive, nelle quali un’esperienza spiacevole è privata del suo affetto e le sue connessioni associative sono interrotte, di modo che quell’espressione è isolata dal processo ordinario del pensiero2. Harry Stack Sullivan era particolarmente interessato al fenomeno secondo il quale si tende a escludere l’esperienza dalla consapevolezza conscia e/o a rendere parti della psiche inaccessibili al sé. Si riferiva a questo processo chiamandolo “dissociazione” (abbandonando il termine “rimozione”) conferendogli una posizione centrale nel suo schema della psicopatologia3. Sulla scena della psicoterapia contemporanea l’isolamento è usato non solo per riferirsi a meccanismi di difesa formali, ma in un senso più generale, per connotare una qualsiasi forma di frammentazione del sé. In tal modo l’isolamento intrapersonale si verifica ogni volta che si soffocano i propri sentimenti o desideri, quando si accettano gli “io devo” o i “dovrei” come se fossero i propri desideri, quando non ci si fida del proprio giudizio, o si seppellisce il proprio potenziale.
L’isolamento intrapersonale è un paradigma corrente e molto usato della psicopatologia. Horney, Fromm, Sullivan, Maslow, Rogers e May postularono tutti che la patologia sia il risultato di ostruzioni che, verificatesi nella primissima fase dell’esistenza, agiscono per sviare il naturale sviluppo dell’individuo. Carl Rogers, in una discussione del famoso caso Ellen West di Ludwig Binswanger, descrisse con chiarezza l’isolamento intrapersonale: «Anche se da bambina era completamente indipendente dalle opinioni altrui, adesso è completamente dipendente da quello che pensano gli altri. Non ha più modo di sapere quello che prova o quale sia la sua opinione. Questo è lo stato di maggior solitudine tra tutti, una quasi totale separazione dal proprio organismo autonomo»4.
I terapeuti contemporanei si concentrano sull’obiettivo di aiutare i pazienti a reintegrare parti di se stessi precedentemente tagliate fuori. In un progetto di ricerca a dei pazienti che avevano svolto una terapia riuscita veniva chiesto di dare un ordine a sessanta fattori della terapia secondo il grado di utilità (si veda il capitolo 6)5. Il singolo punto scelto più di frequente era «Scoprire e accettare parti di me stesso in precedenza sconosciute o inaccettabili». Restaurare l’integrità dell’individuo è l’obiettivo della maggior parte delle psicoterapie (escludendo quelle orientate verso i sintomi). Perls, per esempio, aveva battezzato il suo approccio terapia della Gestalt (dal tedesco Gestaltpsychologie, “psicologia della forma” o “rappresentazione”), per enfatizzare l’importanza accordata allo scopo della “interezza”.
Nella parte restante di questo capitolo mi concentrerò sulla terza forma di isolamento: l’isolamento esistenziale. Questo non significa che l’isolamento interpersonale e intrapersonale non siano questioni cruciali nel lavoro clinico; ma se voglio mantenere questo trattato entro dimensioni gestibili, devo accontentarmi di raccomandare al lettore di consultare la bibliografia specifica6. Ci saranno comunque molte occasioni nelle quali farò riferimento all’isolamento inter e intrapersonale, perché sono entrambi strettamente collegati all’isolamento esistenziale (l’isolamento interpersonale e quello esistenziale condividono in particolare un confine comune). I tipi di isolamento sono simili su un piano soggettivo; ovvero possono sembrare la stessa cosa e una sorta di maschera l’uno dell’altro. Di frequente i terapeuti li confondono e trattano il paziente per il tipo di isolamento sbagliato. Inoltre i loro confini sono semipermeabili: l’isolamento esistenziale, per esempio, è spesso tenuto entro limiti gestibili dell’affiliazione interpersonale. Tutte queste questioni verranno discusse a tempo debito, ma prima occorre definire l’isolamento esistenziale.
Gli individui sono spesso isolati dagli altri e da parti di loro stessi, ma al di sotto di queste lacerazioni c’è un isolamento più fondamentale che appartiene all’esistenza, un isolamento che persiste nonostante il coinvolgimento più gratificante con gli altri individui e nonostante l’integrazione e una perfetta conoscenza di sé. L’isolamento esistenziale si riferisce a un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche a un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo. La «separazione dal mondo» sembrerebbe la definizione giusta, e tuttavia è ancora troppo vaga. Una delle mie pazienti ha fornito una definizione rappresentativa. Aveva vissuto attacchi di panico periodici che si verificavano quando la relazione con un altro dominante era minacciata. Nel descrivere l’esperienza disse: «Ricorda il film West Side Story, quando i due amanti si incontrano ogni altra cosa al mondo misticamente svanisce e loro sono soli l’una con l’altro? Beh, è quello che mi succede. Solo che non c’è nessun altro oltre a me».
Un altro paziente aveva un incubo ricorrente che risaliva alla sua prima infanzia e che era causa di una grave insonnia, in effetti una vera e propria fobia del sonno, dato che il paziente era terrorizzato all’idea di andare a dormire. L’incubo era strano, in quanto il sognatore non subiva alcun danno. Invece il suo mondo svaniva, esponendolo al nulla. Ecco il sogno che mi descrisse nel dettaglio:
Sono sveglio nella mia stanza. All’improvviso comincio a notare che tutto sta cambiando. Il telaio della finestra sembra allungato, poi ondulato, la libreria è schiacciata, il pomello della porta scompare e nella porta si apre un buco che diventa sempre più ampio. Tutto perde la sua forma e comincia a sciogliersi. Non c’è più nulla e io comincio a gridare.
Thomas Wolfe fu sempre assillato da una consapevolezza insolitamente acuta dell’isolamento esistenziale. Nel libro autobiografico, intitolato Angelo, guarda il passato, il protagonista medita sull’isolamento persino quando era soltanto un neonato disteso nella sua culla:
…una solitudine e una tristezza insondabili lo pervadevano; vedeva la sua vita in fondo al sentiero di una foresta, e sapeva che sarebbe sempre stato triste: ingabbiata nella piccola prigione del suo cranio, imprigionata nel battito del suo cuore nascosto, la sua vita avrebbe sempre camminato per strade solitarie.
Perduto. Capiva che uomini erano sempre sconosciuti gli uni agli altri, che nessuno riesce mai a conoscere nessun altro, che, imprigionati nell’utero buio di nostra madre, veniamo alla luce senza averla vista in faccia, che le siamo messi in braccio da sconosciuti, e che, catturati in quella definitiva prigione dell’essere, non ne fuggiamo mai, non importa quali siano le braccia che ci afferrano, quale bocca ci possa baciare, quale cuore ci possa scaldare. Mai, mai, mai, mai, mai7.
L’isolamento esistenziale è una valle di solitudine dove sono possibili molti approcci. Un confronto con la morte e con la libertà condurranno inevitabilmente l’individuo in questa valle.
È la conoscenza della “mia morte” che rende pienamente consapevoli che nessuno può morire con qualcuno o per qualcun altro. Heidegger affermò: «Nessuno può assumersi il morire di un altro. Ognuno può, sì, “morire per un altro”. Ma ciò significa sempre: sacrificarsi per un altro in una determinata cosa. Ma questo morire-per… non può mai significare che all’altro sia così sottratta la propria morte»8. Anche se possiamo essere circondati da amici, anche se altri possono morire per la stessa causa o persino nello stesso momento (come nella pratica dell’antico Egitto in cui i servi del faraone venivano uccisi e seppelliti con lui, o nei patti suicidi), tuttavia al livello più fondamentale il morire è la più solitaria delle esperienze umane.
Everyman, la più famosa morality play medievale, ritrae in modo semplice e potente la solitudine dell’incontro umano con la morte. Everyman è visitato dalla Morte, che lo informa che deve intraprendere il suo pellegrinaggio finale per raggiungere Dio. Everyman supplica pietà, ma invano. La Morte lo informa che deve prepararsi a quel giorno che «nessun uomo vivente può scampare». Disperato, Everyman si affretta a cercare aiuto. Spaventato e, soprattutto, isolato, supplica gli altri di accompagnarlo nel suo viaggio. Il personaggio Compagno Affine si rifiuta di accompagnarlo:
Tu sei un uomo allegro:
Fa’ buon viso e non ti lamentare
Di una cosa ti avviso, per sant’Anna,
Quanto a me, da solo te ne andrai.
Allo stesso modo si comporta la cugina di Everyman, affermando di essere indisposta:
No, per la nostra Signora! Ho un crampo a un piede
Non contar su di me. Perché Dio mi rallenta,
Ti abbandonerei nel momento del massimo bisogno.
Allo stesso modo viene abbandonato da tutti gli altri personaggi allegorici della commedia: Amicizia, Beni Terreni e Conoscenza. Persino i suoi attributi lo abbandonano:
Bellezza, forza e discrezione.
Quando la morte soffia la tempesta
Se ne fuggon da me con gamba lesta9.
Alla fine Everyman è salvato dal terrore totale dell’isolamento esistenziale perché una figura, Buone Azioni, accetta di andare con lui anche fino alla morte. E, in effetti, questa è la morale cristiana della commedia: le buone azioni, all’interno di una visione religiosa, offrono un sostegno contro l’isolamento finale. L’Everyman secolare di oggi, che non può o non vuole abbracciare una fede religiosa, deve davvero intraprendere il suo viaggio da solo.
La solitudine dell’essere il proprio genitore. Nella misura in cui si è responsabili della propria vita, si è soli. La responsabilità implica l’essere l’autore della propria vita, l’esserne consapevole significa abbandonare la credenza che c’è un altro che ci crea e protegge. Una profonda solitudine è inerente all’atto dell’autocreazione. Si diventa consapevoli dell’indifferenza cosmica dell’universo. Forse gli animali hanno un qualche senso del pastore e del rifugio ma il genere umano, maledetto dalla coscienza di sé, deve essere esposto all’esistenza.
Erich Fromm credeva che l’isolamento fosse la fonte primaria dell’angoscia. Enfatizzava in particolare il senso di impotenza inerente alla condizione di separazione di base dell’essere umano.
Questa coscienza di se stesso come entità separata, la consapevolezza della propria breve vita, del fatto che è nato senza volerlo e contro la propria volontà morirà; che morirà prima di quelli che ama, o che essi moriranno prima di lui, il senso di solitudine, d’impotenza di fronte alle forze della natura e della società, gli rendono insopportabile l’esistenza. […] Il senso di solitudine provoca l’ansia; anzi, è l’origine di ogni ansia. Essere soli significa essere indifesi, incapaci di penetrare attivamente nel mondo che ci circonda; significa che il mondo può accerchiarci senza che abbiamo la possibilità di reagire10.
Questo affetto diffuso è una risposta emotiva comprensibile al nostro trovarci inseriti, senza il nostro consenso, in un’esistenza che non abbiamo scelto. Heidegger usava l’espressione «essere gettato» per riferirsi a questo stato. Per quanto uno si crei da sé, il suo progetto – quello che ciascuno si crea in definitiva per sé – è limitato dal fatto che è stato gettato da solo dentro all’esistenza.
Defamilizzazione. Non solo costituiamo noi stessi, ma costituiamo un mondo strutturato per occultare il fatto che siamo stati noi a costituirlo. L’isolamento esistenziale impregna la “pasta delle cose”, il fondamento del mondo. Ma è così dissimulato da uno strato sopra all’altro di oggetti materiali, ciascuno carico di un significato personale e collettivo, che noi sperimentiamo soltanto un mondo di quotidianità, di attività di routine, di “loro”. Siamo circondati, ci sentiamo a casa, in un mondo stabile di oggetti e istituzioni familiari, un mondo in cui tutti gli oggetti e gli esseri sono connessi e interconnessi a più riprese. Siamo cullati da un senso di appartenenza intimo e familiare; il mondo primordiale di vasto vuoto e isolamento è sepolto e azzittito, e trova parole solo in brevi accessi negli incubi e nelle visioni mitiche.
Tuttavia ci sono momenti in cui il sipario della realtà svolazzando si schiude, e noi cogliamo con lo sguardo il balenare dei macchinari dietro le quinte. In questi momenti, che ritengo siano sperimentati da qualsiasi individuo capace di riflettere su di sé, si verifica un’istantanea defamilizzazione quando i significati sono staccati dagli oggetti, i simboli disintegrati e si è strappati via dagli ormeggi dell’essere a casa. Albert Camus, in una delle sue prime opere, descrisse uno di questi momenti, accaduto quando si era trovato in una camera d’albergo in un paese straniero.
Eccomi sguarnito. Città di cui non so leggere le insegne, caratteri strani a cui non si riallaccia nulla di familiare, senza amici a cui parlare, senza diversioni insomma. So bene che nulla può trarmi fuori da questa stanza dove arrivano i rumori d’una città straniera per condurmi verso la luce più delicata di un focolare o di un luogo amato. Debbo chiamare, gridare? Compariranno visi stranieri […] Ed ecco che il sipario delle abitudini, il confortevole tessuto dei gesti e delle parole in cui il cuore si assopisce, si alza lentamente e scopre finalmente la faccia livida dell’inquietudine. L’uomo è di fronte a se stesso: lo sfido a esser felice11…
In questi momenti di profonda angoscia esistenziale la propria relazione con il mondo è profondamente scossa. Uno dei miei pazienti, un dirigente di successo e di grande esperienza, mi descrisse questo tipo d’esperienza: era durata solo pochi minuti, e tuttavia era stata così potente da mantenere la propria vivacità a quarant’anni di distanza. All’età di dodici anni stava dormendo all’aperto, guardando il cielo, e all’improvviso si era sentito separato dalla madre terra, alla deriva tra le stelle. Dov’era? Da dove veniva? Da dove veniva Dio? Da dove venivano le cose (piuttosto che il nulla)? Si sentiva sommerso dalla solitudine, dalla vulnerabilità e dall’assenza di un fondamento. Sebbene mi sia difficile credere che decisioni con un influsso sull’intera esistenza possano essere prese in un istante, il mio paziente insiste che fu proprio allora che aveva deciso che sarebbe diventato così famoso e potente che non avrebbe mai più provato un sentimento del genere.
Naturalmente quest’esperienza di vuoto, perdita e privazione di legame non è “là fuori”: è dentro di noi, e non è necessario uno stimolo esterno per trovarla. Tutto quello che serve è una ricerca interiore autentica, descritta magnificamente da Robert Frost:
Non mi fanno paura coi loro spazi aperti
E vuoti fra le stelle dove non è stirpe umana,
Quando io posso da me così vicino a casa
Far paura a me stesso con i miei luoghi deserti12.
Quando si va a finire nei propri deserti, il mondo all’improvviso perde la sua familiarità, come affermato da Kurt Reinhardt:
Qualcosa di totalmente misterioso interviene tra lui e gli oggetti familiari del suo mondo, tra lui e i suoi compagni umani, tra lui e tutti i suoi “valori”. Tutto quello che aveva chiamato suo impallidisce e affonda, di modo che non viene lasciato niente a cui si possa aggrappare. Quello che minaccia è il “nulla”, e lui si ritrova da solo e perduto nel vuoto. Ma quando questa oscura e terribile notte d’angoscia è passata, l’uomo respira di sollievo e si dice: non era “niente”, dopo tutto. Ha sperimentato il “nulla”13.
Heidegger usava il termine “estraniato” per riferirsi allo stato nel quale si perde il proprio senso di familiarità nel mondo. Quando uno (Dasein) è totalmente immerso nel mondo familiare dell’apparenza e ha perso il contatto con la propria situazione esistenziale, secondo Heidegger si trova nella modalità “quotidiana”, “inautentica”. L’angoscia serve da guida per riportarlo indietro, attraverso lo spaesamento, verso la consapevolezza dell’isolamento e del nulla:
L’angoscia, al contrario, va a riprendere l’Esserci nella sua immedesimazione deiettiva col “mondo”. La familiarità quotidiana si dissolve. L’Esserci resta isolato, ma lo è come essere-nel-mondo. L’in-essere assume il “modo” esistenziale del non-sentirsi-a-casa-propria. A null’altro si allude quando si parla di “spaesamento”14.
In un altro punto Heidegger affermava che quando si è portati indietro dall’immersione nel mondo e gli oggetti sono privati del loro significato, si sperimenta l’angoscia nel confrontarsi con la solitudine, l’implacabilità e il nulla del mondo*. Così, per sfuggire lo spaesamento usiamo il mondo come un attrezzo e ci lasciamo assorbire dalle distrazioni offerte da Maya, il mondo delle apparenze. Il terrore ultimo si presenta quando ci troviamo di fronte al nulla. Davanti al nulla, nessuna cosa o essere ci possono aiutare; è in quel momento che sperimentiamo l’isolamento esistenziale nella sua pienezza. Sia Kierkegaard sia Heidegger erano affascinati dal gioco di parole che utilizzava la parola “nulla”. «Di cosa ha paura l’uomo?» «Di nulla!»
Il regista italiano Antonioni era un maestro nel ritrarre la defamilizzazione. In molti suoi film (per esempio L’eclissi) gli oggetti sono filmati con una cruda chiarezza, una sorta di fredda misteriosità. Sono staccati dal loro significato e la protagonista va semplicemente alla deriva passando loro accanto, incapace di agire, mentre tutti attorno a lei continuano a usarli16.
La defamilizzazione non coinvolge solo gli oggetti del mondo. Altre entità create per procurare struttura e stabilità – per esempio i ruoli, i valori, le linee guida, le regole, l’etica – possono essere allo stesso modo private di significato. Nel capitolo 5 ho descritto un semplice esercizio di disidentificazione nel quale gli individui elencano risposte alla domanda «Chi sono?» su dei pezzi di carta e poi meditano sull’esperienza di rinunciare, uno dopo l’altro, a ciascuno di quei ruoli (per esempio, un uomo, un padre, un figlio, un dentista, un marciatore, un lettore di libri, un marito, un cattolico, o Bob). Alla conclusione dell’esercizio, l’individuo si è spogliato di tutti i ruoli e diventa consapevole che essere è indipendente dai vari attributi, che uno persiste, come detto da Nietzsche, persino dopo «l’ultima esalazione di una realtà che si dissolve»17. Alcune fantasie riferite dai soggetti al termine dell’esercizio (per esempio «uno spirito disincarnato che scivola nel vuoto») suggeriscono chiaramente che lo spogliarsi dei ruoli stimola un’esperienza di isolamento esistenziale.
Le esperienze in cui uno si ritrova solo, e le linee guida quotidiane sono all’improvviso eliminate, hanno il potere di evocare un senso di estraniamento, il non essere a casa nel mondo. L’escursionista che perde la strada, lo sciatore che all’improvviso si ritrova fuori pista, il guidatore che in una nebbia fitta non vede più la strada: in queste situazioni l’individuo spesso sperimenta un attacco di terrore, un terrore indipendente dalla minaccia fisica insita nel momento, un terrore solitario che è il vento che soffia dal proprio luogo deserto, il nulla che è al cuore dell’essere.
Stranianti sono le esplosioni sociali che all’improvviso sradicano i valori, l’etica e la morale che pensavamo esistessero indipendentemente da noi stessi. L’olocausto, le violenza di massa, i suicidi collettivi, come l’episodio di Jonestown, il caos della guerra, tutto ciò suscita in noi orrore perché è male, ma ci colpisce anche perché ci fa sapere che niente è come avevamo sempre pensato che fosse; che tutto quello che consideriamo fisso, prezioso, buono può all’improvviso svanire; che non c’è un terreno solido; che non ci sentiamo «a-casa-propria», qui o in qualsiasi parte nel mondo.
Il verbo “esistere” implica la differenziazione (ex-istere significa, alla lettera, “staccarsi”). Il processo della crescita, come Rank ben sapeva, è un processo di separazione, del diventare un essere separato. Le parole della crescita implicano un processo di separazione: l’autonomia (governare la propria vita), la capacità di dipendere da sé e stare sui propri piedi, l’individuazione, l’essere se stessi, l’indipendenza. La vita umana ha inizio con la fusione di ovulo e sperma, passa attraverso uno stato embrionale di completa dipendenza fisica dalla madre a una fase di dipendenza fisica ed emotiva dagli adulti circostanti. A poco a poco l’individuo stabilisce dei confini che segnalano dove egli termina e gli altri cominciano, e diventa autonomo, indipendente e separato. Non separarsi significa non crescere, ma il prezzo da pagare per separarsi e crescere è l’isolamento.
La tensione inerente a tale dilemma è, per usare le parole di Kaiser, il «conflitto universale» dell’essere umano: «Diventare un individuo comporta un isolamento fondamentale, eterno e insormontabile»18. In Fuga dalla libertà Fromm si espresse in modo simile:
A mano a mano che il bambino emerge da quel mondo diventa cosciente di esser solo, di essere un’entità separata da tutti gli altri. Questa separazione da un mondo che in confronto alla propria esistenza individuale è irresistibilmente forte e potente, e spesso minaccioso e pericoloso, crea un sentimento di impotenza e di ansietà. Finché si era parte integrante di quel mondo, ignari delle possibilità e delle responsabilità dell’azione individuale, non si sentiva il bisogno di averne paura. Una volta divenuti individui, si è soli ad affrontare il mondo in tutti i suoi aspetti pericolosi e soverchianti19.
Rinunciare a uno stato di fusione interpersonale significa incontrare l’isolamento esistenziale con tutto il suo terrore e la sua impotenza. Il dilemma fusione-isolamento – o, come spesso viene chiamato, attaccamento-separazione – è il più importante compito esistenziale evolutivo. Questo è ciò che Otto Rank intendeva quando enfatizzava il trauma della nascita. Per Rank la nascita era il simbolo di tutte le esperienze in cui si emerge dalla embeddedness. Quello di cui il bambino ha paura è la vita stessa20.
È dunque chiaro che l’isolamento esistenziale e l’isolamento interpersonale sono strettamente intrecciati. L’emergere dalla fusione interpersonale getta l’individuo nell’isolamento esistenziale. Uno stato insoddisfacente di fusione-esistenza o un emergere troppo precoce o troppo esitante lascia l’individuo impreparato ad affrontare l’isolamento inerente a un’esistenza autonoma. La paura dell’isolamento esistenziale è la forza propulsiva di molte relazioni interpersonali ed è, come vedremo, una dinamica importante che sta dietro al fenomeno del transfert.
Il problema della relazione è un problema di fusione e isolamento. Da un lato, si deve imparare a relazionarsi all’altro senza arrendersi al desiderio di scivolare fuori dall’isolamento diventando parte di quell’altro. Ma si deve anche imparare a relazionarsi all’altro senza ridurre l’altro a un attrezzo, a una difesa contro l’isolamento. Bugental (in un lavoro sui problemi della componente relazionale) giocò con la parola apart21. Il compito interpersonale di base dell’uomo è di essere al tempo stesso a-part-of, una parte di, e a-part-from, separato da. L’isolamento interpersonale ed esistenziale sono delle tappe intermedie l’uno dell’altro. Ci si deve prima separare dall’altro allo scopo di incontrare davvero l’isolamento: si deve essere soli per sperimentare la solitudine. Ma, come mi accingo a dimostrare, è il fronteggiare la solitudine che alla fine consente di impegnarsi con l’altro in modo profondo e significativo.
L’esperienza dell’isolamento esistenziale produce uno stato soggettivo di profondo disagio e, come qualsiasi altra forma di disforia, non è tollerata a lungo dall’individuo. Le difese inconsce “lavorano” e la seppelliscono rapidamente, mettendola al di fuori della portata dell’esperienza conscia. Le difese devono lavorare senza sosta perché l’isolamento è all’interno, sempre in attesa di essere riconosciuto. Come diceva Martin Buber: «Le onde dell’etere spumeggiano sempre, ma per lo più abbiamo staccato i ricevitori»22.
Come ci si può proteggere dal terrore dell’isolamento finale? Si può includere in sé una parte dell’isolamento e sopportarlo con coraggio o, per usare il termine di Heidegger, con “risolutezza”. Quanto al resto, si tenta di rinunciare a questa solitudine entrando in relazione con un altro, si tratti di un essere umano o divino. Il principale baluardo contro il terrore dell’isolamento esistenziale è quindi di natura relazionale, e la mia discussione delle manifestazioni cliniche dell’isolamento esistenziale deve necessariamente centrarsi sulle relazioni interpersonali. Tuttavia, il mio approccio si differenzierà dalle discussioni tradizionali della psicologia interpersonale: non mi focalizzerò su bisogni quali la sicurezza, l’attaccamento, la conferma di sé, la soddisfazione di desideri o il potere, ma considererò piuttosto le relazioni sulla base di come mitigano l’isolamento fondamentale e universale.
Nessuna relazione può eliminare la solitudine. Ciascuno di noi è solo nella sua esistenza. Tuttavia, questa condizione può essere condivisa in modo tale che l’amore compensi il dolore dell’isolamento. Buber affermava che una grande relazione infrange le barriere di una superba solitudine, sottomette la sua legge severa e getta un ponte tra l’essere-se-stessi e l’essere-se-stessi attraverso l’abisso del terrore dell’universo.
Sono convinto che se siamo in grado di riconoscere le nostre situazioni isolate nell’esistenza e affrontarle con risolutezza, saremo in grado di volgerci amorevolmente verso gli altri. Se, d’altro canto, siamo sopraffatti dal terrore davanti all’abisso della solitudine, non porgeremo la mano agli altri, ma invece ci sbracceremo scomposti per non annegare nel mare dell’esistenza. In questo caso le nostre relazioni non saranno affatto vere relazioni ma distorsioni, aborti e strani assemblaggi di quello che avrebbero potuto essere. Non ci relazioneremo agli altri con la percezione di avere a che fare con esseri come noi, esseri senzienti, anch’essi soli, spaventati, anch’essi intenti a cavar fuori dalla “pasta delle cose” un mondo in cui essere a casa propria. Ci comportiamo con gli altri esseri come se fossero attrezzi o strumenti. L’altro, che non è più un “altro” ma una “cosa”, viene piazzato lì, nel cerchio del nostro mondo, per svolgere una funzione. La funzione fondamentale è naturalmente la negazione dell’isolamento, ma la consapevolezza di questa funzione è troppo prossima al terrore in agguato. È necessario un maggiore occultamento, le metafunzioni emergono, e noi costituiamo relazioni che offrono un prodotto (per esempio potere, fusione, protezione, grandezza o adorazione) che a loro volta servono a negare l’isolamento.
Non c’è nulla di nuovo in questa organizzazione psichica difensiva: ogni sistema esplicativo di comportamento postula un qualche conflitto di base che è incrostato da strati di meccanismi di protezione e dissimulazione. Queste relazioni abortite con i loro prodotti, le loro funzioni e le loro metafunzioni, costituiscono quello che i clinici definiscono una «psicopatologia interpersonale». Descriverò il quadro clinico di molte forme di relazione patologica e tratterò i meccanismi esistenziali di ciascuna. Ma per comprendere appieno quello che una relazione non è, è necessario dapprima apprendere che cosa una relazione possa essere nel migliore dei casi.
Una relazione riuscita coinvolge individui che si relazionano l’un l’altro in una modalità che non dipende dal bisogno. Tuttavia, come è possibile amare un altro per quello che è e non per quello che questo altro offre a colui che l’ama? Come possiamo amare senza usare, senza un quid pro quo, senza innalzare la grande vela dell’infatuazione, della libidine, dell’ammirazione o dell’utilizzazione per sé? Molti saggi pensatori hanno affrontato tale questione, e partirò dalla presentazione dei loro contributi.
Martin Buber. «All’inizio è la relazione»23. Così proclamava il filosofo e teologo, il cui fascino patriarcale, completato da uno sguardo penetrante e da una folta barba bianca, aumentava il potere dei suoi pronunciamenti filosofici. Buber ebbe un impatto straordinario sia sulla filosofia religiosa sia sulla teoria psichiatrica moderna. La sua posizione è insolita, poggiando da un lato sul pensiero mistico ebraico e chassidico e dall’altro sulla moderna teoria relazionale. La sua dichiarazione si radica in queste tradizioni. Buber faceva parte di una tradizione mistica che crede che ogni individuo sia parte del Patto divino; ciascuno contiene una scintilla divina che, unita alle altre, rivela la presenza sacra. In tal modo ciascun individuo è unito in quanto ciascuno ha un’associazione cosmica e spirituale con l’universo. Buber credeva che l’anelito alla relazione fosse innato e dato, «e che nel grembo materno ogni uomo conosce l’universo, e lo dimentica alla nascita»24. Il bambino cerca il contatto, originariamente tattile, e poi “ottimale”, con un altro essere. Il bambino non conosce l’io, non conosce altro stato dell’essere che non sia la relazione.
Per Buber l’uomo non esiste come entità separata, ma «sta tra». Ci sono due tipi di base di relazioni, e dunque due tipi di stare-tra, che Buber caratterizzava con le definizioni di Io-Tu e Io-Esso. La relazione Io-Esso è la relazione tra una persona e un’attrezzatura, una relazione “funzionale” tra soggetto e oggetto, totalmente priva di reciprocità.
La relazione Io-Tu è una relazione completamente reciproca che coinvolge una piena sperimentazione dell’altro. Differisce dall’empatia (la percezione immaginaria di una situazione dalla prospettiva dell’altro) perché è qualcosa di più di un Io che tenta di relazionarsi a un “altro”: «Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso»25.
«Relazione è reciprocità»26. Non solo il Tu della relazione Io-Tu è diverso dall’Esso della relazione Io-Esso, e non solo le nature dell’Io-Tu e dell’Io-Esso sono profondamente differenti, ma c’è una differenza ancor più fondamentale. L’io stesso è differente nelle due situazioni. Non è l’Io ad avere una realtà preminente, vale a dire un Io che può decidere di relazionarsi a degli Esso o a dei Tu che sono oggetti fluttuanti nel suo campo visivo. No, l’Io è in una posizione “tra”; l’Io appare ed è modellato nel contesto di una relazione. In tal modo l’“Io” è profondamente influenzato dalla relazione con il Tu. Con ogni Tu, e in ogni momento della relazione, l’Io è creato nuovamente. Quando ci si relaziona a un Esso (si tratti di una cosa o di una persona considerata come una cosa), si trattiene qualcosa di sé: la si ispeziona da molte possibili prospettive; la si categorizza, analizza, giudica e si decide della sua posizione nel grande schema delle cose. Ma quando ci si relaziona a un Tu, l’intero essere è coinvolto; nulla può essere trattenuto.
Solo con l’intero essere si può dire la parola fondamentale io-tu. L’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu; diventando io, dico tu27.
Se ci si relaziona a un altro con qualcosa di meno dell’integrità del proprio essere, se si trattiene qualcosa per avidità o come anticipazione di un qualche ritorno, o se si rimane nell’atteggiamento oggettivo dello spettatore, e ci si interroga sull’impressione che le proprie azioni faranno sugli altri, allora si è trasformato un incontro Io-Tu in un incontro Io-Esso.
Se ci si deve veramente relazionare a un altro, si deve veramente ascoltare l’altro: rinunciare agli stereotipi e alle anticipazioni in rapporto all’altro, e permettersi di essere modellati dalla risposta dell’altro. La distinzione di Buber tra ascolto “autentico” e “pseudoascolto” ha ovviamente implicazioni importanti per la relazione terapeutica.
Per relazionarsi a un altro in un modo che non dipende dal bisogno si deve perdere o trascendere se stessi. La mia illustrazione preferita di una relazione Io-Tu è la descrizione di Buber di sé e del suo cavallo quando era giovane:
Undicenne, passavo l’estate nel podere dei nonni; appena mi riusciva di passare inosservato, mi piaceva intrufolarmi nella stalla e accarezzare la groppa del mio favorito, un poderoso cavallo bianco pezzato. Non si trattava per me di un piacere occasionale, ma di un avvenimento importante, di natura sottile e tuttavia profondamente sconvolgente. Se dovessi esplicitarlo adesso, a partire dal ricordo della mia mano, rimasto vivissimo, direi: ciò di cui ho fatto esperienza nell’animale era l’altro, l’incredibile alterità dell’altro, che però non mi rimaneva estranea, come quella del bue e dell’ariete, ma mi lasciava avvicinare, toccare. Quando passavo la mano sulla possente criniera – talvolta meravigliosamente liscia, talaltra altrettanto sorprendentemente selvaggia – e sotto la mia mano avvertivo vivere la vita, era come se l’elemento stesso della vitalità venisse a contatto della mia pelle. Era qualcosa che non era me, non era affatto me, per nulla familiare all’io, e tuttavia a portata di mano; non semplicemente un altro, ma l’altro stesso, e si lasciava avvicinare da me, mi si affidava, si poneva con me in un rapporto di elementare tu per tu. Non avevo ancora iniziato a versare il fieno nella mangiatoia e già il cavallo sollevava mite il capo massiccio, rizzando le orecchie in modo speciale, e fremeva piano, come un congiurato che dà all’altro congiurato il segnale convenuto, che solo lui può capire: e io ero confermato. Ma una volta – non so cosa passò nella mia mente di ragazzo – a ogni modo era qualcosa di abbastanza puerile –, mentre lo accarezzavo, mi capitò di pensare quale piacere ciò mi procurasse e improvvisamente percepii la mia mano. Il gioco continuò come sempre, ma qualcosa era cambiato, non era più la stessa cosa. E il giorno dopo quando, dopo una ricca manciata di fieno, accarezzai la groppa del mio amico, egli non sollevò più il capo28.
La modalità esperienziale di base dell’Io-Tu è il “dialogo”, nel quale, silenziosamente o in maniera esplicita, «ciascuno dei partecipanti intende l’altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge loro con l’intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocità»29. Il dialogo consiste semplicemente nel volgersi verso un altro con tutto il proprio essere. Quando il giovane Buber si allontanò dal cavallo, divenne consapevole della propria mano e di quanto piacere l’accarezzare l’animale gli procurasse, quindi il dialogo svanì, e cominciò il regno del monologo e dell’Io-Esso. Buber definì questo distogliersi dall’altro con il termine “ripiegamento”. Nel ripiegamento «uno si occupa di sé»30 ma, e la cosa è persino più importante, si dimentica dell’essere specifico dell’altro.
Viktor Frankl disse qualcosa di simile deplorando la «volgarizzazione» contemporanea del concetto di incontro31. Sosteneva, credo piuttosto correttamente, che l’incontro come spesso si realizza nei gruppi di incontro di base non è affatto un incontro ma piuttosto un’espressione di sé, una sorta di culto dello scaricamento affettivo la cui logica si radica in una “monadologia” psicologica che ritrae l’essere umano come una cellula priva di finestre, una creatura che non può trascendere se stessa, che non può “volgersi verso l’altro”. Di conseguenza si dà troppo spesso un’enfasi all’espressione dell’aggressività, al dare i pugni a un cuscino o a un sacco da boxe, all’autostima, all’usare gli altri per risolvere problemi antichi, alla realizzazione di sé. Invece di volgersi verso l’altro, Buber avrebbe detto che si realizza «il monologo travestito da dialogo»32.
Buber chiedeva molto a una relazione Io-Tu. Una volta, per esempio, ricevette la visita di un giovane sconosciuto che era evidentemente venuto per una chiacchierata. Molto tempo dopo Buber scoprì che lo sconosciuto aveva un suo obiettivo nascosto, che «non era venuto da me per caso, ma per destino» e che era sul punto di prendere una decisione personale di grande importanza. Anche se Buber lo aveva trattato in modo cordiale e con attenzione, egli si rimproverò di non essere stato «presente con l’anima» e aggiunse: «Tralasciai soltanto di indovinare le domande che non pose»33. Ma è possibile volgersi sempre verso l’altro con una simile intensità? Ovviamente no, e Buber sottolineava che, sebbene l’Io-Tu costituisca un ideale verso il quale si dovrebbe tendere, ciononostante esiste solo in rari momenti. Si deve vivere principalmente in un mondo di Io-Esso; vivere unicamente nel mondo del “Tu” ci porterebbe a bruciarci alla fiamma bianca del “Tu”.
[…] quel mondo in cui si deve vivere ed è anche piacevole vivere, quel mondo che attende una persona con ogni sorta di allettamenti e di eccitazioni, di attività e di conoscenze. In questa cronaca solida e utile i momenti del tu appaiono come episodi strani, lirici e drammatici, certo dal fascino seducente, che tuttavia trascinano pericolosamente all’estremo […].
Non si può vivere nel puro presente, se ne verrebbe consumati, se non si provvedesse, in fretta e bene, a superarlo. […]
E con tutta la serietà della verità, ascolta: senza l’esso l’uomo non può vivere. Ma colui che vive solo con l’esso, non è l’uomo34.
Questa invocazione all’equilibrio evoca il ben noto aforisma del rabbino Hillel: «Se io non sono per me, chi lo sarà? E se io sono solo per me, che cosa sono?»
Ho ampiamente citato Buber perché la sua formulazione di una relazione d’amore non basata sul bisogno è vivida e avvincente. Non posso lasciarlo senza affrontare un punto di tensione evidente tra la posizione fondamentale che ho accordato all’isolamento esistenziale e la dichiarazione di Buber che l’essere umano non esiste in quanto Io, ma è invece una «creatura che sta tra». Dato che Buber sosteneva che la modalità d’esistenza di base dell’essere umano fosse relazionale, nel suo sistema non concedeva alcuno spazio all’isolamento esistenziale. Si sarebbe opposto al mio sostenere che l’isolamento è un aspetto fondamentale della nostra situazione esistenziale; e avrebbe protestato con ancora maggior vigore al fatto che lo citassi all’interno della mia discussione.
Tuttavia lasciatemi esaminare un sogno importante citato da Buber, un sogno ricorrente che lo aveva visitato per tutta la vita, a volte con un intervallo di diversi anni. Questo sogno, che Buber chiamava «il sogno del doppio grido», comincia così:
Mi trovo in una vasta caverna, come le latomìe di Siracusa, o in una costruzione di fango, che al risveglio mi ricorda i villaggi dei fellah, o anche ai margini di una gigantesca foresta, di cui non ricordo averne visto l’uguale. Il sogno inizia in modi molto diversi, ma sempre con il fatto che mi capita qualcosa di straordinario, per esempio che un piccolo animale, simile a un cucciolo di leone, il cui nome conosco in sogno, ma non al risveglio, mi sbrana il braccio, e solo a fatica riesco a tenerlo a bada.
Poi si verifica qualcosa di fuori dell’ordinario, per esempio un animale gli strappa la carne da un braccio, e allora:
[…] io sono là e chiamo. […] ogni volta è lo stesso grido, non articolato, ma rigorosamente ritmico, che si spegne e rinasce, che cresce fino a una pienezza che, da sveglio, la mia gola non sopporterebbe, lungo e lento, lentissimo e lunghissimo, un grido-canzone; quando termina, mi si fermano i battiti del cuore. Ma allora, da qualche parte, in lontananza, si alza rivolto a me un altro grido, diverso e uguale, lo stesso grido gridato e cantato da un’altra voce.
Il grido che sembra rispondere è un evento critico per Buber:
Ma, appena la risposta è al termine, nell’attimo successivo all’onda che si è spenta, mi invade una certezza, un’autentica certezza onirica: ora è accaduto. Niente di più. Solo questo, proprio in questo modo. Se cercassi di spiegarlo, dovrei dire che quell’evento, che produsse il mio grido, solo ora, con il controsuono, è avvenuto in modo vero e indubitabile35.
Buber sosteneva che la nostra modalità d’esistenza di base fosse relazionale, e in questo sogno, al quale si riferiva come a una visione pervasa di verità, l’esistenza comincia con l’apparizione della relazione, il grido che si leva in risposta. Tuttavia, senza forzature, il sogno può anche essere interpretato in modo differente. Si comincia non nella relazione, ma da soli e in un luogo strano. Si è attaccati e spaventati. Si grida e, nell’attesa di una risposta, il cuore smette di battere. Il sogno mi parla di un isolamento fondamentale e suggerisce che la nostra esistenza comincia con un grido solitario, nell’attesa angosciosa di una risposta.
Abraham Maslow. Maslow, scomparso nel 1970, ebbe un influsso immenso sulla teoria psicologica moderna. Più di chiunque altro deve essere considerato il progenitore della psicologia umanista, un ambito che, come ho avuto modo di dire, si sovrappone in molti punti alla psicologia esistenziale. Maslow è destinato a parer mio a essere riscoperto molte volte prima che la ricchezza del suo pensiero venga assimilata pienamente.
Una delle sue tesi fondamentali era che la motivazione di base di un individuo è orientata verso la “deficienza” o verso la “crescita”. Maslow pensava che la psiconevrosi fosse una malattia di deficienza, conseguenza di una mancanza di realizzazione, a partire dalla fase iniziale della vita, di certi “bisogni” psicologici di base quali la sicurezza, l’appartenenza, l’identificazione, l’amore, il rispetto, il prestigio36. Gli individui che hanno questi bisogni soddisfatti sono orientati verso la crescita: sono in grado di realizzare il loro potenziale innato di maturità e di realizzazione di sé. Gli individui orientati verso la crescita, in contrasto con quelli orientati verso la deficienza, sono di gran lunga più autosufficienti e meno dipendenti dall’ambiente in termini di rinforzo o gratificazione. In altre parole, i fattori determinanti che li governano non sono sociali o ambientali, ma interiori:
Tali persone divengono autosufficienti e bastano a se stesse in misura di gran lunga maggiore. I determinanti che le governano sono ora primariamente interiori, piuttosto che sociali e ambientali: e sono le leggi della loro intima natura, le loro potenzialità e capacità, i loro talenti, le loro risorse latenti, i loro impulsi creativi, il loro bisogno di conoscersi e integrarsi e unificarsi sempre più, di esser sempre più consapevoli di ciò che realmente sono e realmente vogliono, di quale debba essere la loro disposizione o vocazione, o destino37.
Gli individui motivati alla crescita e quelli motivati alla deficienza hanno relazioni interpersonali di tipo diverso. La persona motivata alla crescita è meno dipendente, meno in debito con gli altri, meno bisognosa della lode e dell’affetto altrui, meno angosciata da onori, prestigio e ricompense. Non richiede un continuo bisogno di gratificazione interpersonale e, in effetti, a volte può sentirsi intralciato dagli altri e preferire periodi di isolamento. Di conseguenza l’individuo motivato alla crescita non si relaziona agli altri in quanto fonti di rifornimento, ma è in grado di vederli in quanto esseri complessi, unici e completi. L’individuo motivato alla deficienza, invece, si relaziona agli altri dal punto di vista dell’utilità. Quegli aspetti dell’altro non collegati ai bisogni di colui che li percepisce sono trascurati nel loro complesso, o considerati come qualcosa di irritante o una minaccia. Così, come affermato da Maslow, l’amore è trasformato in qualcos’altro e ricorda le nostre relazioni «con le mucche, i cavalli, le pecore, nonché con i camerieri, i tassisti, i facchini, i poliziotti, o altre persone che usiamo»38.
Di conseguenza Maslow descrisse due tipi di amore che corrispondono a questi due tipi di motivazione: la “deficienza” e la “crescita”. L’amore D è «amore carenziale, bisogno d’amore, amore egoistico», mentre l’amore B, è «amore per l’Essere di un’altra persona, amore non necessitante, amore non egoistico»39. L’amore B non è possessivo ma ammirativo e non basato sul bisogno; è un’esperienza soggettiva di valore maggiore, più ricco, più elevato rispetto all’amore D. L’amore D può essere gratificato, mentre il concetto di gratificazione non si può applicare all’amore B. Quest’amore contiene in sé una componente minima di angoscia-ostilità (anche se naturalmente ci può essere un’angoscia-per-l’altro). Gli amanti B sono più indipendenti l’uno dall’altro, più autonomi, meno gelosi o minacciati, meno bisognosi, più disinteressati, ma anche al tempo stesso più desiderosi di aiutare l’altro a raggiungere la propria realizzazione, più orgogliosi dei successi dell’altro, più altruisti, generosi e incoraggianti. L’amore B, in un senso profondo, crea il partner, offre accettazione di sé e un sentimento d’essere degni d’amore, che stimola una crescita continua.
Erich Fromm. In quel gioiello di libro che è L’arte di amare40, Fromm si rivolse alla domanda con la quale Buber e Maslow si erano battuti: qual è la natura di un amore non basato sul bisogno? In effetti è notevole, e rassicurante, che questi tre pensatori fondamentali, ciascuno proveniente da un ambito differente (teologia-filosofia, psicologia sperimentale e sociale, e psicoanalisi) siano arrivati a conclusioni simili.
Fromm partiva dal fatto che la preoccupazione fondamentale dell’essere umano è l’isolamento esistenziale, che la consapevolezza della separazione è «la fonte di tutta l’ansia»41, e che il nostro principale compito psicologico, nel corso dei secoli, sia stato avere la meglio su questa separazione. Fromm individuò diversi tentativi in tal senso nel corso della storia: l’attività creativa (l’unione dell’artista con il materiale e il prodotto), gli stati orgiastici (religiosi, sessuali, indotti da droghe) e la conformità con i costumi e le credenze del gruppo. Tutti questi tentativi falliscono:
L’unità conquistata col lavoro produttivo non è interpersonale; l’unità raggiunta con la fusione orgiastica è fittizia; l’unità ottenuta col conformismo è solo una parvenza di unità. Non sono che soluzioni parziali al problema dell’esistenza. La soluzione completa sta nella conquista dell’unione interpersonale, nella fusione con un’altra persona, nell’amore42.
Quello che Fromm intendeva con «soluzione completa» non è chiaro, ma presumo fosse la soluzione più soddisfacente. L’amore non elimina la separazione, che è un dato di fatto dell’esistenza e che può essere affrontata, ma non cancellata. L’amore è la modalità migliore per fronteggiare il dolore della separazione. Buber, Maslow e Fromm giunsero a una formulazione similare dell’amore non basato sul bisogno, ma partendo da posizioni differenti riguardo allo schema dell’amore nella vita dell’individuo. Buber riteneva che uno stato d’amore fosse lo stato naturale dell’essere umano nell’esistenza, e che l’isolamento fosse uno stato decaduto. Maslow considerava l’amore come uno dei bisogni e delle potenzialità umane innate. Fromm vedeva nell’amore una modalità per affrontare la separazione, «una risposta al problema dell’esistenza», una concezione prossima alla posizione che espongo in questo libro.
Non tutte le forme d’amore rispondono egualmente bene all’ansia da separazione. Fromm differenziava l’unione simbiotica, una forma di amore decaduto, dall’amore maturo. L’amore simbiotico, composto da una forma attiva (sadismo) e una passiva (masochismo), è uno stato di fusione dove nessuna parte è integra e libera (ne parlerò tra le forme di amore maladattivo). L’amore maturo è «l’unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità […] Sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due»43.
Fromm faceva risalire lo sviluppo individuale dell’amore alla primissima infanzia, quando si sperimenta la condizione dell’essere amati per quello che si è o forse a voler essere più accurati, perché si è. In seguito, tra gli otto e i dieci anni, nella vita del bambino fa il suo ingresso un altro fattore: la consapevolezza che si produce amore attraverso la propria attività. Mentre l’individuo supera l’egocentrismo, i bisogni dell’altro diventano importanti tanto quanto i suoi; e gradualmente l’individuo trasforma il concetto di amore da “essere amato” ad “amare”. Fromm equiparava l’essere amato con uno stato di dipendenza nel quale, rimanendo piccoli, indifesi o “buoni”, si è ricompensati dall’essere amati, mentre l’“amare” è uno stato efficace e potente: «L’amore infantile segue il principio: amo perché sono amato. L’amore maturo segue il principio: sono amato perché amo. L’amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L’amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo»44.
Il concetto di Fromm che l’amore sia un processo attivo e non passivo ha un’importanza straordinaria per il clinico. I pazienti si lamentano della solitudine, del non essere amati e del non essere degni d’amore, ma il lavoro produttivo deve sempre essere fatto nella sfera opposta: l’incapacità di amare. L’amore è un atto positivo, non un affetto passivo; è dare, non ricevere, è una conquista e non una resa45. Deve essere fatta una distinzione tra il “dare” e il “cedere”. Un individuo orientato a fare incetta, a ricevere o a sfruttare* si sentirà deprivato o impoverito dal dare; uno con un orientamento commerciale si sentirà imbrogliato dal dare senza ricevere. Ma per la persona “produttiva” matura il dare è un’espressione di forza e abbondanza. Nell’atto del dare si esprime e si acuisce la propria vitalità: «Ma nel dare non (si) può fare a meno di portare qualche cosa alla vita dell’altra persona, e colui che riceve si riflette in essa; nel dare con generosità, non si può evitare di ricevere ciò che le viene dato di ritorno. Dare significa fare anche dell’altra persona un essere che dà, ed entrambi dividono la gioia di sentirsi vivi»47. Notiamo quanto questo sia vicino al pensiero di Buber: «Relazione è reciprocità. Il mio tu opera su di me, come io opero su di lui. I nostri allievi ci formano, le nostre opere ci costruiscono. […] Imperscrutabilmente inclusi, viviamo nella fluente reciprocità dell’universo»48.
Oltre al dare, l’amore maturo implica altri elementi di base: la sollecitudine, la responsività, il rispetto e la conoscenza49. Amare significa essere attivamente preoccupati della vita e della crescita di un altro. Si deve essere responsivi dei bisogni (fisici e psichici) dell’altro. Si deve rispettare l’unicità dell’altro, vederlo quale egli è, e aiutarlo a crescere e a svilupparsi a modo suo, per se stesso e non per lo scopo di servirsene. Ma non si può rispettare pienamente l’altro senza conoscerlo profondamente. La vera conoscenza dell’altro secondo Fromm è possibile solo quando si trascende la preoccupazione per se stessi e si vede l’altra persona secondo i suoi propri termini. Si ha bisogno di ascoltare e sperimentare empaticamente (anche se Fromm non usa questa parola): ovvero si ha bisogno di entrare nel mondo privato dell’altro e conoscerlo bene, di vivere nella vita dell’altro e percepire i significati e le esperienze dell’altro. Si noti di nuovo come Fromm e Buber convergessero: si confronti l’amore di Fromm con il dialogo e l’ascoltare autentico e senza presupposti di Buber.
Per il clinico è importante pensare all’amore come a una “attitudine” (qualcosa di caratteristico dell’orientamento nel mondo di colui che ama) piuttosto che nei termini della relazione di chi ama con l’“oggetto” del suo amore. Troppo spesso commettiamo l’errore di considerare l’attaccamento esclusivo a una persona come una prova dell’intensità e della purezza dell’amore. Ma, per usare la terminologia di Fromm, un amore del genere è un «amore simbiotico» o un «egoismo esagerato»50 e, in assenza della premura per gli altri, è invariabilmente destinato a crollare su se stesso. L’amore che non è fondato sul bisogno è invece una modalità di relazionarsi al mondo dell’individuo.
Un dirigente quarantenne di notevole successo una volta mi consultò perché si era innamorato di una donna ed era tormentato perché non sapeva se lasciare o meno la moglie e i figli. In terapia, dopo solo poche sedute manifestò impazienza e un atteggiamento fortemente critico nei miei confronti, accusandomi di una generale inefficienza e di non riuscire a offrirgli un piano d’azione sistematico e ben organizzato. In breve questo atteggiamento critico ci condusse al suo atteggiamento profondamente categorico nei confronti degli altri. In terapia procedemmo a investigare non la decisione immediata che si trovava ad affrontare, ma la sua mancanza di amore verso il mondo nel senso più ampio. La terapia si rivelò benefica per lui grazie al focalizzarsi, come in generale la terapia fa, sull’inaspettato.
Secondo Fromm, il tipo più fondamentale d’amore è quello fraterno, un’esperienza di unione con tutti gli individui che è caratterizzata dalla sua assenza assoluta di esclusività. La Bibbia sottolinea che l’oggetto dell’amore dovrebbe essere il debole, il povero, la vedova, l’orfano, lo straniero. Questi non sono a servizio di uno scopo, e amarli vuol dire amare in modo “fraterno” e non basato sul bisogno.
Ho cominciato questa sezione con la domanda: «Come è possibile relazionarsi a un altro in un modo che non dipenda dal bisogno?» Ora, alla luce delle conclusioni similari di Buber, Maslow e Fromm, descriverò le caratteristiche di una relazione matura, che non dipende dal bisogno, e poi userò questo prototipo per illuminare per contrasto la natura di varie forme di relazioni abortite.
1. Voler bene a un’altra persona significa relazionarsi in modo disinteressato, lasciare andare la coscienza e la consapevolezza, relazionarsi senza un pensiero che in sé includa «Che cosa pensa di me?» o «Che cosa posso trarre da questa relazione?» Non si è alla ricerca di lode, adorazione, appagamento sessuale, potere, denaro. Ci si relaziona unicamente all’altra persona: non deve esserci un terzo partito, effettivo o immaginario. Ci si deve relazionare con tutto il proprio essere: se una parte di sé è altrove, magari a studiare l’effetto che la relazione avrà su una terza persona, la relazione sarà fallita.
2. Voler bene a un’altra persona significa conoscere e sperimentare l’altro nel modo più completo possibile. Se ci si relaziona in modo disinteressato, si è liberi di sperimentare tutte le parti dell’altro invece della parte che serve a un qualche scopo utilitaristico. Ci si estende nell’altro, riconoscendo l’altro come essere senziente che ha lui stesso costituito un mondo attorno a sé.
3. Voler bene a un’altra persona significa preoccuparsi dell’essere e della crescita dell’altro. Grazie alla piena conoscenza generata dall’ascolto autentico, ci si sforza di aiutare l’altro a diventare pienamente vivo nel momento dell’incontro.
4. Voler bene è attivo. L’amore maturo significa amare, non essere amato. Uno dà a un altro, non si lascia prendere dall’altro.
5. Voler bene è uno dei modi di essere nel mondo; non è una connessione esclusiva, elusiva e magica con una particolare persona.
6. Il voler bene maturo ha origine nella propria ricchezza, non nella propria povertà, ha origine dalla crescita, non dal bisogno. Non si ama perché si ha bisogno dell’altro per esistere, essere integri, sfuggire a una solitudine schiacciante. Colui che ama in modo maturo ha incontrato questi bisogni in altri momenti e modi, uno dei quali, non certo il meno importante, è l’amore materno provato durante la primissima fase dell’esistenza. L’amore passato è quindi la fonte della forza; l’amore presente è il risultato della forza.
7. Voler bene è reciproco. Nella misura in cui ci si volge verso l’altro veramente, si è modificati. Nella misura in cui si porta l’altro alla vita, si diventa più pienamente vivi.
8. Il voler bene maturo non è senza ricompense. Si è modificati, arricchiti e appagati, la solitudine esistenziale è attenuata. Attraverso il voler bene si riceve affetto. Queste ricompense provengono da un voler bene autentico, non lo suscitano. Per utilizzare il felice gioco di parole di Frankl, le ricompense conseguono, non possono essere perseguite.
Se non riusciamo a sviluppare la forza interiore, il senso di valore personale e di salda identità che ci permettano di fronteggiare l’isolamento esistenziale, di dire «Così sia» e di assumere in noi l’angoscia, allora lotteremo in maniere indirette per trovare sicurezza. In questa sezione esaminerò tali metodi di ricerca di sicurezza, con le relative manifestazioni cliniche. Per la maggior parte sono relazionali, coinvolgono relazioni interpersonali; ma, come vedremo, in ogni caso l’individuo non si relaziona (ovvero non “vuole bene”) all’altro, ma invece lo usa per una funzione. Il terrore, la consapevolezza diretta dell’isolamento esistenziale, e la struttura difensiva psichica che elaboriamo per mitigare l’angoscia sono tutti inconsci. Si sa solo di non poter essere soli, di volere disperatamente dagli altri qualcosa che non si è mai in grado di ottenere e che, per quanto si possa provare, qualcosa va sempre storto nelle nostre relazioni.
Tuttavia un’altra soluzione consiste nel sacrificio di sé: si ottiene sollievo dall’angoscia dell’isolamento tramite l’immersione in un qualche altro individuo, causa o attività. Così, come diceva Kierkegaard, gli individui sono due volte disperati51: per cominciare, c’è la disperazione esistenziale fondamentale, e poi c’è un’ulteriore disperazione perché, avendo sacrificato la consapevolezza di sé, non sanno nemmeno di essere disperati.
«La cosa peggiore dell’essere solo, il pensiero che mi fa impazzire, è che è possibile che al momento nessuno al mondo stia pensando a me». Così si era espresso, durante una seduta di gruppo, un paziente ospedalizzato a causa degli attacchi di panico che lo coglievano quando si trovava da solo. In quel gruppo di terapia di pazienti interni c’era stata un’immediata condivisione dell’esperienza. Una ragazza di diciannove anni, ospedalizzata per essersi tagliata i polsi dopo la rottura di una relazione amorosa, aveva detto semplicemente: «Preferirei essere morta piuttosto che sola!» Un altro aveva aggiunto: «Quando sono da solo, è allora che sento le voci. Forse le mie voci sono un modo per non stare da solo!» (Una sorprendente spiegazione fenomenologica dell’allucinazione.) Un’altra paziente, che in diverse occasioni si era mutilata, aveva affermato di averlo fatto per la disperazione causata da una relazione profondamente insoddisfacente con un uomo. Tuttavia, non riusciva a lasciarlo per il terrore di essere da sola. Quando le avevo chiesto che cosa la terrorizzasse della solitudine, aveva risposto con un insight crudo, diretto, psicotico: «Quando sono sola non esisto».
La stessa dinamica è presente nell’incessante supplica del bambino: «Guardami!» La presenza dell’altro è richiesta per rendere reale la realtà. (Qui, come altrove, cito l’esperienza del bambino come manifestazione anteriore di un conflitto latente, non come sua causa.) Lewis Carroll, in Alice attraverso lo specchio, espresse magnificamente la cruda convinzione, sostenuta da molti pazienti: «Esisto solo il tempo in cui mi si pensa». Alice, Pizzicotto e Pizzichino si imbattono nel Re Rosso addormentato:
«Adesso sta dormendo» disse Pizzichino «e chissà cosa sta sognando».
Disse Alice: «Questo non può saperlo nessuno».
«Perché? Sta sognando te!» esclamò Pizzichino battendo le mani in segno di trionfo. «E quando smetterà di sognarti, dove andrai a finire?»
«Dove sono adesso, naturalmente» rispose Alice.
«No, non è vero!» replicò Pizzichino con tono sprezzante. «Non andrai a finir in nessun posto, perché tu sei soltanto una specie di cosa nel suo sogno!»
«Se il Re si svegliasse» aggiunse Pizzicotto, «tu spariresti… buuum… come la fiamma di una candela!»
«Niente affatto!» esclamò Alice indignata. «E ammettiamo pure che io sia soltanto una specie di cosa nel suo sogno: mi piacerebbe sapere allora che cosa siete voi».
«Idem» disse Pizzicotto.
«Idem, idem» gridò Pizzichino.
Egli urlò così forte che Alice non poté fare a meno di dire: «Attento! Ho paura che lo sveglierai, se continuerai a fare tanto rumore!»
«Perché ti preoccupi che si svegli» disse Pizzicotto «se non sei altro che una cosa nel suo sogno? Lo sai benissimo che tu non sei vera».
«Io sono vera» disse Alice, e si mise a piangere.
«Non credere che piangendo diventerai più vera» le fece notare Pizzichino. «Non c’è niente da piangere».
«Se io non fossi vera» disse Alice (un po’ rideva e un po’ lacrimava, e tutto sembrava così ridicolo) «non sarei capace di piangere».
«Non crederai certo che le tue lacrime siano vere» l’interruppe Pizzicotto con un tono di superiorità52.
Una paziente di un gruppo di terapia raccontò che una volta era stata in terapia per diversi mesi, e anni dopo le era capitato di incontrare il suo terapeuta. Era rimasta «devastata» perché al terapeuta ci erano voluti quarantacinque secondi per ricordare chi fosse. Poi si rivolse al terapeuta del gruppo e chiese: «Si ricorderà sempre di me? Non posso continuare se non dovesse farlo». Era una docente di scuola superiore e a poco a poco fu in grado di accettare il fatto crudele che, così come lei avrebbe dimenticato i suoi studenti molto prima che loro dimenticassero lei, così sarebbe stato per i terapeuti. Il terapeuta e l’insegnante sono più importanti per il paziente e per lo studente di quanto questi ultimi lo siano per loro. (Il che tuttavia non preclude il fatto che, come tratterò in seguito, quando il terapeuta è con il paziente, sia una presenza piena e profonda). In seguito, nella stessa seduta, la paziente disse che stava cominciando a capire perché il suicidio le fosse sempre apparso un’opzione affascinante. Credeva che, se si fosse suicidata, gli altri l’avrebbero ricordata per molto, molto tempo. Questo è un esempio eccellente della concezione del “suicidio in quanto atto magico” (si veda il capitolo 2). Nella sua visione del suicidio non c’è l’idea della morte: al contrario, si afferrava al suicidio come a un modo per sconfiggere la morte, come può fare uno che creda di poter continuare a vivere se esiste nella coscienza di un altro.
Cercando l’amore, il nevrotico rifugge il senso confusamente percepito di isolamento e di vuoto al centro dell’essere. Essendo scelto e apprezzato, l’individuo si sente affermato nel proprio essere. Il puro senso dell’essere, dell’io sono, dell’essere la fonte delle cose, è troppo spaventoso nel suo isolamento; quindi si nega l’autocreazione e si sceglie di credere che si esiste fino a quando si è l’oggetto della coscienza altrui. Questa soluzione è condannata a fallire per una serie di ragioni. La relazione in genere fallisce perché l’altro, col tempo, si stanca di affermare l’esistenza dell’individuo. Inoltre, l’altro percepisce che non lo si ama, ma che c’è semplicemente bisogno di lui. L’altro non si sente mai completamente conosciuto e completamente abbracciato perché l’individuo si relaziona solo a una parte, la parte che serve alla funzione di affermare la propria esistenza. La soluzione fallisce perché è solo una misura tampone: se uno non può affermare se stesso, allora ha di continuo bisogno dell’affermazione da parte dell’altro. Uno è permanentemente distratto dall’affrontare il proprio isolamento fondamentale. La soluzione fallisce anche perché si sbaglia nell’identificare il problema: si considera sia il non essere amati, mentre in effetti il punto è che uno non è in grado di amare. Come abbiamo visto, amare è più difficile che essere amati e richiede una maggiore consapevolezza e accettazione della propria situazione esistenziale.
L’individuo che ha bisogno dell’affermazione da parte degli altri per sentirsi vivo deve evitare di essere solo. La vera solitudine si avvicina troppo all’angoscia dell’isolamento esistenziale, e l’individuo nevrotico la evita a tutti i costi; lo spazio isolato è popolato dagli altri; il tempo isolato è estinto da mille attività. (La carcerazione in isolamento è sempre stata una punizione particolarmente feroce.) Altri combattono l’isolamento rifuggendo il momento presente, solitario: si confortano con felici ricordi del passato (anche se quei momenti, all’epoca in cui erano stati vissuti, sembravano tutt’altro che felici) o si proiettano nel futuro, godendo dei frutti immaginari di progetti ancora da realizzare.
La crescita di interesse per la meditazione si origina in parte nella sua novità e nel senso di padronanza. È davvero raro che l’individuo nel mondo occidentale sia semplicemente con se stesso e sperimenti il tempo, invece di usarlo. Siamo stati istruiti a fare diverse cose allo stesso tempo: fumare, masticare, ascoltare, guidare, guardare la televisione, leggere. Diamo valore ai macchinari che ci fanno guadagnare tempo, e applichiamo a noi stessi i valori di questi macchinari. Cosa possiamo fare, dunque, con il tempo che risparmiamo, se non trovare altri modi per ammazzarlo?
Quando il motivo primario per entrare in relazione con gli altri è tenere lontana la solitudine, allora l’altro è trasformato in un utensile. Non è raro che due individui servano l’uno la funzione primaria dell’altro e, come una spina e la sua presa, si adattino perfettamente l’uno all’altro. La loro relazione può essere così mutualmente funzionale da rimanere stabile; tuttavia un simile accordo non può non essere che un blocco alla crescita, dato che ogni partner è conosciuto, e conosce l’altro, soltanto in modo parziale. Queste relazioni ricordano le case in legno prefabbricate, in cui le pareti si sostengono l’una con l’altra: se si toglie uno dei partner (o se ne rafforza uno con la psicoterapia), l’altro cade.
Di solito, tuttavia, non c’è una simile soddisfazione reciproca dei bisogni. A un qualche livello l’individuo si rende conto di essere usato invece che impegnato, e cerca altrove un partner più soddisfacente. Una mia paziente trentacinquenne, ossessionata dalla paura della solitudine, era assillata dalla visione di se stessa che «mangiava da sola a sessantatré anni». Era consumata dalla ricerca di un legame permanente. Anche se era una donna attraente e vivace, un uomo dopo l’altro interrompeva la relazione con lei dopo un breve incontro. Credo fossero allontanati tanto dall’intensità quanto dalla disperazione del suo bisogno d’amore, nonché dalla consapevolezza che lei avesse poco amore da dare. Un indizio importante per la comprensione delle dinamiche che la guidavano poteva essere rintracciato nelle sue relazioni interpersonali. Estremamente critica, respingeva rapidamente e con disprezzo tutti quelli che non potevano essere potenziali compagni. Quando si tratta un paziente che ha difficoltà nello stabilire una relazione duratura, è sempre fruttuoso indagare in profondità la qualità delle altre relazioni del paziente, quelle meno intense. Le problematiche amorose non sono specifiche di un contesto. L’amore non è un incontro specifico ma un atteggiamento. Il problema del “non essere amati” è, il più delle volte, un problema del “non amare”.
Un esempio particolarmente chiaro del relazionarsi agli altri per evitare di affrontare l’isolamento si verificò nel trattamento di Charles, il paziente malato di cancro introdotto in un gruppo di psicoterapia (si veda il capitolo 5). Charles aveva cominciato la terapia perché voleva migliorare le sue relazioni con le altre persone. Era sempre stato trattenuto e distaccato, e si era sistemato comodamente in questa modalità distante di relazionarsi agli altri. L’avvento della malattia e la prognosi di due anni di vita avevano generato un sentimento di grande isolamento e catalizzato i suoi sforzi di avvicinarsi agli altri. L’episodio cominciò quando uno dei partecipanti, Dave, informò il gruppo che, a seguito di certe esigenze di formazione professionale, avrebbe dovuto lasciare la città, e il gruppo, per diversi mesi. Dave era molto turbato da questo trasferimento, come pure tutti gli altri membri, tranne Charles. I membri del gruppo condividevano i sentimenti di tristezza, rabbia e delusione di Dave. Cito dal riassunto del gruppo (i riassunti venivano inviati a tutti i membri dopo ogni incontro):
Tirai in ballo Charles quando sottolineai che stava rispondendo a Dave soltanto su un piano di risoluzione dei problemi e mi chiesi quali fossero invece i suoi sentimenti. Questo aprì la strada a un episodio davvero notevole per il gruppo. Per un certo periodo di tempo Charles negò di avere un qualsiasi tipo di sentimenti riguardo all’allontanamento di Dave dal gruppo. Cercammo di tirargli fuori dei sentimenti senza successo e ci chiedemmo se avrebbe o meno voluto che la gente lo rimpiangesse quando avrebbe lasciato il gruppo. Nemmeno questo ci portò da una qualsiasi parte. Gli feci notare che una volta aveva affermato di provare un dolore al petto quando le persone lasciavano il gruppo e lui minimizzò asserendo che era successo in una sola occasione. Insistetti, e dissi che una sola occasione era sufficiente, ma lui sorrise e poi rise e ci respinse tutti quanti. Dopo un po’ Charles disse al gruppo, quasi di sfuggita, che aveva appreso dal suo controllo medico che il cancro si stava evolvendo molto più lentamente di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. In seguito venimmo a sapere che il controllo medico era stato proprio quel giorno. Dave gli chiese: «Perché non ce l’hai detto prima?» La scusa di Charles fu che voleva aspettare fino all’arrivo di Lena (Lena era arrivata con qualche minuto di ritardo). Gli dissi che non capivo perché non avesse potuto dirlo a noi e poi a Lena quando sarebbe arrivata. Allora Charles disse una cosa davvero notevole. Adesso che pensa che il cancro si sta evolvendo più lentamente del previsto, all’improvviso scopre di non voler più incontrare gente e si ritrova a volersi ritrarre 53.
Il “conflitto universale” dell’essere umano sta nel fatto che egli lotta per essere un individuo e tuttavia l’essere un individuo richiede che si sappia sopportare uno spaventoso isolamento. La modalità più comune per trattare questo conflitto è la negazione: si elabora un’illusione di fusione e in effetti si proclama: «Non sono solo, sono parte degli altri». E così si ammorbidiscono i confini del proprio Io e si diventa parte di un altro individuo o di un gruppo che trascende l’individuo.
Gli individui il cui principale orientamento è verso la fusione sono generalmente etichettati come “dipendenti”. Vivono, come sostiene Arieti, per l’«altro dominante»54 (ed è probabile patiscano una sofferenza straordinaria in caso di separazione dall’altro dominante). Soffocano i propri bisogni, cercano di scoprire che cosa desideri l’altro e rendono propri quei desideri. Soprattutto, desiderano evitare qualsiasi forma di attacco. Scelgono la sicurezza e la fusione, a detrimento dell’individuazione. La descrizione di tali individui a opera di Kaiser è particolarmente chiara:
Il loro comportamento sembra suggerire: «Non prendetemi seriamente. Non appartengo alla categoria degli adulti e non posso essere considerato tale». Sono giocosi, ma non come qualcuno che ami giocare, quanto piuttosto come qualcuno che non voglia (o non osi?) apparire serio e concreto. Gli avvenimenti dolorosi e persino tragici sono menzionati ridendo, o in modo affrettato, distaccato, come se non meritassero che ci si perda del tempo. C’è anche una prontezza a parlare dei propri difetti con la tendenza a esagerarli. Le conquiste e i successi vengono messi in ridicolo, o la loro menzione è seguita dall’enumerazione compensatoria di una serie di fallimenti. Il loro modo di parlare può spesso sembrare frammentato da un rapido passaggio da un argomento all’altro. Assumendosi insolite libertà quali il formulare domande ingenue, o usare un modo di parlare infantile, indicano che vogliono essere inseriti nella categoria dei “non adulti” e che non dovrebbero essere inclusi tra le persone grandi55.
Kaiser descrisse il comportamento clinico di un paziente particolarmente incline alla fusione con una figura più potente:
Per otto mesi G. aveva incontrato un uomo sulla quarantina che sembrava pronto a fare qualsiasi cosa pensava ci si attendesse da lui. Ogni volta che G. aveva voluto spostare l’appuntamento a un altro giorno o a un’altra ora, la risposta del paziente era stata invariabilmente: «Certo, dottore, certo!» Era sempre puntuale, ma non sembrava gli importasse quando invece G. era in ritardo. Quando, durante la seduta, il sole spuntava andando a battere sugli occhi del paziente, non avrebbe mai osato tirare le tende o abbassare gli scuri. Sedeva in silenzio, sbattendo dolorosamente gli occhi e torcendo il collo fino a quando G. non glielo faceva notare. Allora il paziente rispondeva come se G. gli avesse chiesto di abbassare gli scuri. «Certo, dottore, certo!» diceva, alzandosi di scatto dalla sedia e sganciando il cordone. «Così, dottore? O è troppo?»56
La fusione come risposta all’isolamento esistenziale offre una struttura per comprendere molte sindromi cliniche. Si consideri, per esempio, il travestitismo. Di solito si ritiene che la motivazione sia l’angoscia da castrazione. C’è una tale minaccia nell’essere maschi, nel competere con altri uomini per le donne, che l’uomo opta per uscire dalla competizione vestendosi da donna, di modo che la sua angoscia da castrazione, mitigata dall’autocastrazione, sia in grado di accedere a una liberazione sessuale genitale. Tuttavia, il caso di Rob (si veda il capitolo 4) illustra come la fusione possa essere una dinamica organizzatrice centrale. Rob si era vestito da donna dall’età di tredici anni, usando i vestiti della sorella e poi della madre. Troppo spaventato dai maschi per sviluppare delle relazioni con loro e troppo impaurito dall’idea di essere respinto negli approcci con le donne, era sempre stato isolato. Le sue fantasie relative al travestimento erano sempre state di carattere non sessuale e delle variazioni sul tema della fusione: immaginava semplicemente di unirsi a un gruppo di donne che lo accoglievano e lo consideravano una di loro. Il suo stile interpersonale nel gruppo di terapia rifletteva il suo desiderio di fusione: docile, ossequioso, in costante richiesta di attenzione da parte dei partecipanti ma specialmente da parte dei terapeuti, che ammirava enormemente. Durante lo svolgimento del gruppo Rob venne istruito sulle possibilità della relazione. Divenne pienamente consapevole, credo per la prima volta, della portata del suo isolamento. «Non sono né qui né lì, né uomo né donna, isolato da tutti» disse durante una seduta. Per un poco la sua angoscia (e la frequenza del suo travestitismo) aumentò in modo notevole. A poco a poco sviluppò delle abilità sociali e si relazionò in modi significativi prima con i membri del gruppo, e poi con gli individui del suo ambiente, e tutti i desideri di travestitismo lo abbandonarono.
C’è una notevole sovrapposizione tra il concetto di fuggire dall’isolamento esistenziale tramite la fusione e il concetto di sfuggire al terrore della morte tramite la credenza e l’immersione di sé in un salvatore ultimo. Non solo Rob, ma molti degli esempi clinici relativi alla difesa del salvatore ultimo (si veda il capitolo 4) sono anche descrittivi di una fusione. Entrambi i concetti descrivono una modalità di fuga dall’angoscia attraverso il rifuggire dell’individuazione, e in entrambi si cerca un sollievo al di fuori del sé. Quello che li differenzia è la spinta (angoscia dell’isolamento e angoscia della morte) e lo scopo finale (ricerca di una dissoluzione del confine dell’Io e di una fusione, o ricerca di un intercessore potente). La distinzione è naturalmente accademica: in genere le motivazioni e le strategie difensive coesistono nello stesso individuo.
La fusione elimina l’isolamento in modo radicale, eliminando la coscienza di sé. I momenti belli della fusione non si riflettono sull’individuo: il senso del sé è perduto. L’individuo non può nemmeno dire «Ho perso il mio senso del sé» perché nella fusione non c’è un Io separato. La cosa meravigliosa dell’amore romantico è che l’Io solitario e pieno di domande scompare nel noi. Come affermato da Kent Bach: «L’amore è la risposta quando non c’è domanda»57. Perdere la coscienza di sé è spesso confortante. Kierkegaard diceva: «Il grado della coscienza potenzia la disperazione. Essa diventa più intensa nello stesso grado in cui un uomo ha una rappresentazione più vera della disperazione, pur restando in essa, e nello stesso grado in cui egli ha una coscienza più limpida di essere disperato, pur restando nella disperazione»58.
Si può anche respingere il proprio senso di isolamento fondendosi non con una persona ma con una “cosa”, un gruppo, una causa, un paese, un progetto. C’è qualcosa di enormemente coinvolgente nella fusione con un gruppo più ampio. Kaiser divenne per la prima volta consapevole di questo fatto durante uno spettacolo di pattinaggio sul ghiaccio, quando due artisti, vestiti allo stesso modo, pattinavano all’unisono in una coreografia complicata. Dopo l’applauso, con disinvoltura e noncuranza si sistemarono le cravatte e contemporaneamente diedero un’occhiata ai loro orologi. La loro sincronia aumentò ancor di più l’entusiasmo del pubblico, e anche quello di Kaiser, che si ritrovò a riflettere sulle gioie apportate dall’attenuazione dei confini dell’Io:
L’uniformità del movimento e la sincronia del movimento, se entrambe arrivano a sfiorare la perfezione, attraggono, eccitano e affascinano il pubblico, indipendentemente dal fatto che i movimenti eseguiti da un singolo individuo siano di per sé piacevoli. Un solo soldato ben addestrato che esegue i passi, le fermate, i cambiamenti di direzione della sua esercitazione può dare piacere allo sguardo dell’ufficiale istruttore, mentre agli occhi di qualsiasi persona al di fuori è semplicemente ridicolo. Se un intero battaglione avanza in parata, al passo, suddividendosi in piccoli gruppi, che si voltano tutti esattamente nello stesso momento, tornando poi a voltarsi e a formare una lunga linea diritta e mantenendo questo fronte senza interruzioni, marciando e ruotando, e poi, a un breve segnale, si immobilizza sul posto in modo tale che tutte le braccia, le gambe, gli elmetti, le borracce e i fucili siano all’improvviso a riposo, tutti esattamente nella stessa posizione senza che nemmeno una singola baionetta sia fuori dai ranghi, allora persino un fervente antimilitarista non potrà fare a meno di essere affascinato da questo spettacolo. E quello che lo affascina non è certamente la bellezza degli angoli e delle linee rette, ma l’immagine […] o piuttosto l’idea dei molti che agiscono come se fossero animati da una mente59.
Essere come tutti gli altri, conformarsi negli abiti, nel discorso, nelle abitudini e non avere pensieri o sentimenti che siano differenti salva una persona dall’isolamento. Naturalmente l’Io è perduto, ma così lo è la paura dell’essere soli. I nemici del conformismo sono naturalmente la libertà e la consapevolezza di sé. La soluzione all’isolamento fornita dalla fusione e dal conformismo è minata dalle domande: «Che cosa voglio io? Che cosa sento io? Qual è il mio obiettivo nella vita? Che cosa ho in me da esprimere e soddisfare?»
Nell’eterna lotta tra l’espressione di sé e la sicurezza offerta dalla fusione, il sé è generalmente compromesso dall’interesse di evitare l’isolamento. La seduzione del gruppo è davvero potente. Per fare uno di innumerevoli esempi, un caso come quello della tragedia di Jonestown dimostra il potere del gruppo. L’identificazione con il gruppo offre ai membri un rifugio dalla paura dell’esistenza isolata, un prodotto di tale valore da far sì che siano pronti a sacrificare tutto per averlo: i beni terreni, la famiglia, gli amici, il paese, la vita. Il misticismo, che implica momenti intensi e meravigliosi di unità con l’universo, è anch’esso una manifestazione di perdita dell’Io. La fusione con un altro individuo, con un gruppo o una causa, con la natura o con l’universo, implica sempre una perdita del sé: è un patto con Satana e sfocia in un senso di colpa esistenziale, quel senso di colpa che si lamenta per la vita non vissuta che è in ciascuno di noi.
Il sadismo. L’individuo che cerca la fusione, dipendente, ossequioso, pronto a sacrificarsi, che sopporta il dolore, che in effetti gode del dolore perché dissipa la solitudine e che, in poche parole, è qualsiasi cosa l’altro desideri in cambio della sicurezza della fusione, ha una curiosa controparte. Uno che cerca di dominare l’altro, di umiliare l’altro, sembra molto diverso da colui che cerca la fusione ed è dipendente. Tuttavia, come evidenziato da Fromm, «sia gli impulsi masochistici che quelli sadici tendono ad aiutare l’individuo a sfuggire all’intollerabile sentimento di solitudine e impotenza che egli prova. […] L’individuo sadico ha bisogno del suo oggetto proprio come il masochista ha bisogno del suo»60. La differenza tra il masochista e il sadico è quella che c’è tra chi chiede e chi si sottopone a tale fusione. Uno cerca la sicurezza lasciandosi inghiottire, l’altro inghiottendo. In entrambi i casi l’isolamento esistenziale è mitigato, vuoi tramite la perdita della propria separazione e isolamento o tramite l’allargamento di sé attraverso l’incorporamento di altri. È per questo che masochismo e sadismo spesso oscillano all’interno di un individuo: sono soluzioni diverse allo stesso problema.
Fu Freud a introdurre il concetto di “simbolo” nell’organizzazione psichica. Nel capitolo 5 dell’Interpretazione dei sogni descrisse vari simboli che rappresentano il tema sessuale: gli organi sessuali o un qualche atto sessuale61. Freud avvertiva che l’idea di una cosa che funga da “rimpiazzo” per qualcos’altro può portare troppo lontano. Un sigaro non è sempre un simbolo fallico: «Alle volte un sigaro è semplicemente un sigaro». Ma non insistette abbastanza con questa sua avvertenza. È possibile che il sesso possa essere un simbolo di altro. Se le preoccupazioni ultime più profonde dell’essere umano sono di natura esistenziale e collegate a morte, libertà, isolamento e assenza di significato, allora è del tutto possibile che queste paure possano essere dislocate e simbolizzate da preoccupazioni derivate come la sessualità.
Il sesso può essere messo al servizio della repressione dell’angoscia della morte. In diverse occasioni ho lavorato con pazienti con cancro metastatico che sembravano ossessionati da preoccupazioni sessuali. Ho incontrato coppie sposate, in cui uno dei coniugi aveva un cancro terminale, che parlavano soprattutto del maladattamento sessuale. A volte, nel calore della discussione, durante le recriminazioni e le contraccuse, dimenticavo completamente che uno di quegli individui stava fronteggiando una morte imminente. Tale è il successo della manovra difensiva. Nel capitolo 5 ho descritto una giovane donna con un cancro avanzato alla cervice: riteneva che la sua malattia non solo non scoraggiasse i corteggiatori maschi ma, al contrario, sembrasse aumentarne il numero e gli appetiti sessuali. Ellen Greenberger riportò delle ricerche che dimostravano che le donne con un cancro alla mammella, a confronto con un gruppo di donne sane della stessa età, avevano una incidenza più elevata di fantasie sessuali proibite62.
C’è qualcosa di profondamente magico nella seduzione del sesso. È un baluardo potente contro la consapevolezza e l’angoscia della libertà dato che noi, quando siamo sotto l’incantamento del sesso, perdiamo il senso di essere noi a costituire il nostro mondo. Al contrario, siamo catturati da una potente forza esterna. Siamo incantati, sospinti, ci lasciamo prendere. Possiamo resistere alla seduzione, rimandarla, o abbandonarci a essa, ma non abbiamo la sensazione di scegliere o creare la nostra sessualità: è qualcosa al di fuori di noi, ha una forza sua e sembra più grande della vita stessa. Gli individui con una sessualità compulsiva in terapia testimoniano, quando cominciano a migliorare, la presenza di un senso di desolazione riguardo alle loro vite. Il mondo è banalizzato e si chiedono: «È questo tutto quello che ha da offrire?»
La sessualità compulsiva è anche una risposta comune al senso di isolamento. Il sesso promiscuo offre una tregua potente ma temporanea all’individuo solitario (temporanea perché non è che una parodia di relazione). Il sesso compulsivo infrange tutte le regole del vero accudimento. L’individuo usa l’altro come uno strumento. Usa e si relaziona soltanto a una parte dell’altro. Relazionarsi secondo questa modalità significa che si forma una relazione per fare sesso, e più la cosa è veloce, meglio è, piuttosto che arrivare alla situazione opposta, dove il sesso è una manifestazione e una facilitazione di una relazione più profonda. L’individuo dalla sessualità compulsiva è l’esempio par excellence di chi non si relaziona all’essere dell’altro nella sua completezza. Al contrario, si relaziona solo a quella parte che gli serve per soddisfare i propri bisogni. La lingua parlata riflette bene questo atteggiamento quando parliamo di “pezzo di figa”, “maschione”, “gran figo”. La lingua cruda del sesso (“scopare”, “farsi qualcuno”, “fottere”, “portarsi a letto”, “inzuppare il biscotto”, “dare un colpo”) denota inganno, aggressività, manipolazione, tutto meno che accudimento e relazione.
Ma, soprattutto, gli individui sessualmente compulsivi non conoscono i loro partner. Spesso è un vantaggio non conoscere l’altro e mantenersi il più possibile celati, quindi mostrano e vedono solo quelle parti che facilitano la seduzione e l’atto sessuale. Uno dei tratti caratteristici della deviazione sessuale è che un individuo non si relaziona all’altro in quanto persona integra, ma a una sua qualche parte. Un feticista, per esempio, non ha una relazione con una donna (tutti i casi di feticismo pubblicati al momento della stesura di queste pagine riguardano uomini) ma con un accessorio della donna, per esempio una scarpa, un fazzoletto, un indumento intimo. Un osservatore di relazioni umane è giunto a dire: «Se facciamo l’amore con una donna senza relazionarci al suo spirito, siamo dei feticisti, anche se per l’atto fisico utilizziamo l’orifizio corretto»63.
Un terapeuta attento dovrebbe quindi deplorare qualsiasi incontro sessuale che non si riveli all’altezza di un incontro interpersonale autentico e accudente? Non c’è dunque spazio per il sesso in quanto atto di un gioco adulto non impegnativo? Queste domande sono in gran parte di carattere etico e morale, e il terapeuta fa bene a evitare di pronunciarsi su questioni che stanno al di fuori del proprio ambito professionale. Ma il terapeuta ha qualcosa di utile da dire nel caso di chi si relazioni sessualmente agli altri unicamente in un modo parziale e funzionale. Non solo un comportamento sessuale rigido ed esclusivo è indicativo di una patologia più profonda, ma un simile comportamento non può che dare come risultato un senso di colpa esistenziale e un disprezzo di sé. Kierkegaard tracciò uno schizzo sbalorditivo di una simile situazione nel Diario del seduttore, in cui il protagonista dedica tutto se stesso alla seduzione e all’abuso di una ragazza64. Anche se riesce nei propri intenti, paga un caro prezzo per questo bottino: la sua vita diventa vuota, il suo spirito ne è impoverito.
Così, l’individuo sessualmente compulsivo non conosce l’altro e non si impegna con l’altro. Non si preoccupa della crescita dell’altro. Non solo non ha mai completamente presente l’altro, ma non perde mai di vista se stesso nella relazione. Non esiste “tra”, ma osserva sempre se stesso. Buber aveva definito questo orientamento con il termine “riflessione”, deplorando una relazione sessuale in cui i partner non sono impegnati in un dialogo autentico pieno ma vivono in un mondo di monologhi, un mondo di specchi e di rispecchiamenti. La descrizione di Buber dell’erotico è particolarmente pittoresca:
Ho attraversato per molti anni la terra dell’uomo e non ho ancora finito di studiare le varietà dell’“erotico” (così talvolta si fa chiamare il suddito di colui che ha le ali spezzate). Là si aggira un innamorato, ed è innamorato solo della propria passione. Là uno porta i suoi differenti sentimenti come decorazioni. Là uno gode l’avventura del suo fascino. Là uno osserva rapito lo spettacolo della propria presunta dedizione. Là uno fa collezione di eccitazioni. Là uno mette in gioco la “potenza”. Là uno si fa grande di una vitalità estranea. Là uno si diverte a essere contemporaneamente se stesso e un idolo che non gli assomiglia per nulla. Là uno si scalda all’incendio del suo successo. Là uno fa esperimenti. E così via tutti gli svariati tipi di persone che, nella dimora del dialogo più intimo, recitano un monologo allo specchio65!
Così, uno è innamorato della passione, un altro raccoglie eccitazione e trofei, un altro ancora si riscalda «alla fiamma di quello che gli è toccato in sorte», ma quello che non fanno è relazionarsi in modo autentico a se stessi o a un altro.
Molti di questi temi sono illustrati nel sogno di Bruce, un paziente sessualmente compulsivo (si vedano i capitoli 5 e 6). Verso la conclusione della terapia, mentre stava emergendo dalla modalità sessualmente determinata di relazionarsi agli altri, Bruce cominciò a volgere la propria attenzione verso altri problemi: «Se non cerco di scoparmi le donne, che cosa faccio con loro? E che cosa faccio con gli uomini? A cosa servono le persone?» Quest’ultima domanda emerge, in un modo o nell’altro, nel trattamento di tutti i pazienti che cominciano a cambiare le loro modalità di relazionarsi passando dall’Io-Esso all’Io-Tu. Questa fase della terapia di Bruce fu annunciata da tre sogni. Il primo:
Ero disteso a letto con mio figlio quattordicenne. Eravamo completamente vestiti ma stavo cercando di fare sesso con lui ma non riuscivo a trovare la sua vagina. Mi sono svegliato triste e frustrato.
Questo sogno descrive graficamente il dilemma di Bruce riguardo alle relazioni. Il sogno sembra dire: «Esiste una qualche altra maniera che non sia genitale di relazionarsi con qualcuno, persino con qualcuno che per noi è molto importante?» Il secondo:
Stavo giocando a tennis con una donna ma ogni palla che colpivo tornava a me invece di andare verso di lei. Era come se a separarci ci fosse un tabellone invisibile di vetro invece della rete.
L’immagine è chiara: Bruce pretendeva di giocare a tennis con qualcuno ma in effetti intratteneva una relazione solo con se stesso. L’altra persona era estranea al gioco; e, inoltre, anche se cercava di raggiungerla, non lo poteva fare. Il terzo:
Volevo essere vicino a Paul (un conoscente) ma continuavo a vantarmi di tutti i soldi che avevo, e lui si era arrabbiato. Poi ho cercato di avvicinare la mia guancia alla sua ma le nostre barbe erano così ruvide che ci siamo fatti male a vicenda.
Bruce aveva dei compagni per le sue attività, compagni di pallacanestro, di tennis e di bowling, ma non aveva mai avuto un amico intimo maschio. Era confusamente consapevole del desiderio di vicinanza ma, come il sogno illustra, non trovava modo per relazionarsi agli uomini se non in termini di competitività.
Cerchiamo di sfuggire al dolore dell’isolamento esistenziale in una varietà di maniere: rendiamo più tenui i confini dell’Io e tentiamo di fonderci con l’altro; tentiamo di incorporare l’altro; prendiamo qualcosa dall’altro che ci faccia sentire più grandi, più potenti o più amati. Il tema comune interpersonale in questi tentativi e in un certo numero di altri che adesso discuterò, è che l’individuo non è con l’altra persona. Al contrario l’individuo usa l’altra persona come un utensile che svolge una funzione, e non si verifica mai una relazione mutualmente arricchente; c’è invece una qualche forma di unione sbagliata, una relazione abortita che può solo bloccare la crescita ed evocare il senso di colpa esistenziale. Dato che la varietà delle modalità inautentiche di relazione si sottrae a qualsiasi schema classificatorio esaustivo, descriverò alcune delle modalità più comuni osservate nell’attività clinica.
L’altro come vettore ascendente. Barry era un ingegnere trentacinquenne con la cosiddetta “sindrome dell’ingegnere”: era rigido, freddo e isolato. Non manifestava emozioni di alcun genere ed era generalmente consapevole dell’emozione solo dopo aver preso nota di un elemento fisiologico (un nodo allo stomaco, lacrime, pugni serrati, e così via). Il suo obiettivo principale in terapia era “entrare in contatto” con i propri sentimenti ed essere in grado di stabilire una relazione amorosa con un altro. Fisicamente attraente, non aveva problemi ad attirare l’attenzione delle donne, ma non era in grado di portare oltre la relazione. Trovava la donna poco desiderabile e se ne liberava, o la trovava desiderabile ma era troppo angosciato per corteggiarla.
Alla fine, dopo molti duri mesi di terapia, Barry cominciò a uscire e poi a vivere con Jamelia, una giovane donna che trovava molto attraente. Fu subito evidente, tuttavia, che investiva poco di sé nella relazione. In terapia discusse il problema di andare a letto molto presto. Si chiedeva (e questo tipo di isolamento dai propri sentimenti era estremamente caratteristico) se stesse a significare che era già annoiato da Jamelia, o se invece significasse che stava così bene con lei che si permetteva di rilassarsi in sua compagnia? «Come può scoprirlo?» domandai. «Che succede quando si chiede se ama Jamelia?» Barry rispose con una convinzione insolita per lui che gli importava molto di Jamelia.
Tuttavia decise che era meglio per lui trattenersi in modo da non suscitare in lei false speranze. Spiegò che la relazione non sarebbe mai diventata un rapporto a lungo termine perché Jamelia non corrispondeva affatto a quello che lui cercava in una donna. La ragione principale era che le sue abilità sociali non erano sufficientemente sviluppate: lei non era sufficientemente articolata, era troppo inibita e socialmente introversa. Barry sapeva di non essere un gran parlatore e desiderava moltissimo sposare una donna con una maggiore abilità verbale: dato che imparava bene per imitazione, aveva sperato di migliorare a seguito del contatto con una donna del genere. Si aspettava anche una donna che gli offrisse una vita sociale meno ristretta. Inoltre si preoccupava del fatto che, se avessero passato troppo tempo da soli e si fossero innamorati troppo l’uno dell’altra, avrebbe rivolto tutte le sue attenzioni a lei e non avrebbe avuto niente da dare agli altri.
Le affermazioni di Barry illustrano molti dei problemi più comuni che precludono lo sviluppo di una relazione amorevole e autentica. Quello più di base è che la raison d’être della modalità di relazionarsi di Barry era l’utilitarismo. Il suo bisogno era l’elevazione, e lui cercava un partner che potesse fungere da elevatore: un insegnante, un terapeuta, un “procacciatore” di vita sociale.
Barry parlava spesso con disperazione della sua lunga ricerca infruttuosa di una relazione. Sentivo che il suo uso della parola “ricerca” offriva una chiave per la comprensione del problema. Barry si era avvicinato a Jamelia in modo inorganico: non solo la considerava un oggetto, un utensile atto a procurare un determinato prodotto, ma considerava la relazione come qualcosa di statico e inorganico, un’entità che era lì quasi completamente formata fin dall’inizio, e non come un processo in evoluzione.
Un altro paziente dava voce allo stesso tema affermando che più si avvicinava a una persona, meno quella persona gli pareva attraente, dal punto di vista sia fisico sia emotivo. Quando si accostava fisicamente a una donna, vedeva le imperfezioni della pelle, le vene varicose e le borse sotto gli occhi. Quando la conosceva bene, si annoiava sempre più all’ascolto dei pochi aneddoti e fatti della sua vita. In un simile approccio inorganico alla relazione, si vede l’altro come un oggetto con certe proprietà fissate e con delle risorse che si possono esaurire. Quello che non si considera è che, come ricordato da Buber, in una relazione organica autentica c’è reciprocità: non c’è un Io immutabile che osserva (e misura) l’altro; l’Io nell’incontro è alterato e l’altro, il Tu, è alterato anch’esso. Barry considerava l’amore come un bene di consumo esauribile: più ne offriva a una persona, meno ne avrebbe avuto da offrire a un’altra. Ma, come ci ha insegnato Fromm, questo approccio mercantile all’amore non ha senso: l’impegnarsi con gli altri ci lascia sempre più ricchi, non più poveri.
Barry aveva sempre sperimentato un’angoscia intensa davanti alla prospettiva di incontrare donne che corrispondessero ai suoi standard. Spesso meditava per ore riguardo all’approccio adeguato. Cominciava col telefonare a una donna: il telefono in mano, il numero digitato a metà, essere sopraffatto dall’angoscia e chiudere la telefonata. Altri terapeuti avevano tentato senza successo di offrire a Barry un sollievo dalla sua angoscia utilizzando degli approcci comportamentali. In psicoterapia non si verificava alcun progresso quando affrontavamo il problema dal punto di osservazione ovvio, vale a dire che Barry temeva la competizione con gli altri uomini e il rifiuto da parte di donne obiettivamente attraenti. C’era, tuttavia, un progresso considerevole quando esploravamo i modi in cui Barry usava, o desiderava usare, gli altri. A un livello profondo sapeva che non stava incontrando l’altra, ma che la stava violando: non voleva lei, voleva qualcosa da lei. La sua angoscia era il senso di colpa per la trasgressione anticipata nei confronti di un altro e la paura che l’altro scoprisse le sue motivazioni.
In quanti siamo nella stanza? In una relazione matura e amorevole ci si relaziona all’altro con tutto il proprio essere. Se si trattiene una parte di sé allo scopo di osservare la relazione o l’impatto che si ha sull’altro, allora in una certa misura non ci si è riusciti a relazionare. Buber descrisse la situazione che si sviluppa quando due individui che trattengono una piena coscienza di sé cercano di relazionarsi.
Immaginiamoci due uomini dell’immagine, che, seduti l’uno accanto all’altro, parlano tra loro – chiamiamoli Pietro e Paolo –, e verifichiamo le figurazioni che sono in gioco. Dapprima abbiamo Pietro, come vuole apparire a Paolo, e Paolo, come vuole apparire a Pietro; poi Pietro come realmente appare a Paolo, cioè l’immagine che Paolo ha di Pietro, che usualmente non coincide affatto con l’immagine che Pietro desiderava suscitare, e viceversa. E ancora Pietro come appare a se stesso, e Paolo come appare a se stesso; buoni ultimi Pietro e Paolo in carne e ossa. Due esseri viventi e sei sembianze fantomatiche, che in modi vari si mescolano nella conversazione tra i due! Quale spazio può ancora rimanere per l’autenticità dell’interumano66?
Si può non riuscire a creare una relazione relazionandosi solo in parte a un altro, e per il resto a un’altra persona (o persone) immaginaria. Nel valutare la natura della mia relazione con un paziente trovo sempre utile chiedermi: «In quanti siamo nella stanza?» Per esempio, non è che forse non sto pensando solo al paziente ma anche a quanto sembrerò intelligente quando presenterò il caso di questo paziente a una conferenza, o al materiale clinico interessante che posso usare per comunicare in modo più efficace con i miei lettori? Pongo le stesse domande al mio paziente. Il paziente si sta realmente relazionando con me o con qualche figura fantasma del passato?
Mentre il paziente mi parla delle sue relazioni importanti, mi chiedo: «Quante persone ci sono in ogni relazione? Sono solo due le persone coinvolte? O tre? O un intero auditorium pieno di gente?» Nei suoi romanzi, Camus era un maestro nel ritrarre personaggi che non potevano amare ma che simulavano amore per uno scopo recondito. Nel suo primo romanzo, La morte felice (inedito fino a dopo la sua morte), il protagonista dice:
Vedeva, per esempio, che a Marthe lo aveva legato più la vanità che l’amore […] In lei aveva amato le sere in cui facevano la loro comparsa al cinema e gli sguardi si volgevano verso di lei, il momento in cui la presentava al mondo. In lei amava la propria forza e la propria ambizione di vivere67.
Il «momento in cui lui la presentava al mondo»: la definizione è molto precisa. Non ci sono mai due persone in una relazione. Il protagonista non si relazionava a Marthe, ma si relazionava agli altri attraverso Marthe.
Allo stesso modo Ken, un mio paziente che aveva problemi di lunga data nel relazionarsi in modo autentico alle donne, sognava molto ma non faceva mai un sogno con solo due persone. Ecco un sogno significativo presentatosi a metà del nostro lavoro:
Ero con una donna nella mia vecchia camera da letto a San Francisco alle due e mezza del mattino. Mio fratello e mio padre stavano guardando attraverso la finestra. Non ero troppo interessato alla donna o a fare l’amore. Lasciai mio padre e mio fratello in attesa per un’ora prima di farli entrare alle tre e mezza.
Le associazioni importanti di questo sogno includevano i suoi tentativi di identificare la donna. Si rendeva conto di essere piuttosto disinteressato a lei. Ricordava una giovane cheerleader, quel tipo di ragazza che non aveva mai avuto il fegato di approcciare quando era al college, che quel giorno aveva visto a una partita di football. Ricordava anche una ragazza, Christine, con la quale era uscito quando era al liceo. Lui e un suo amico erano entrambi usciti con la stessa ragazza per diversi mesi, una situazione che lui trovava al tempo stesso imbarazzante ed esilarante. Alla fine lui e l’amico avevano unito le forze e fatto pressione su Christine affinché scegliesse uno dei due come ragazzo fisso. Christine aveva scelto Ken, con suo grande piacere. Tuttavia, nel giro di poche settimane l’amore era sfiorito, Ken aveva perso l’interesse (non era comunque mai stato interessato a lei in primo luogo: era interessato soltanto alla sua funzione nella competizione con l’amico) e aveva messo fine alla loro relazione.
Ken era sempre stato in competizione con il padre e con il fratello, dapprima per la madre e poi per le altre donne. Nel sogno il suo essere con una donna e il tenere padre e fratello in attesa invidiosa fuori dalla finestra per un’ora (fino alle tre e mezza che, incidentalmente, era l’ora abituale della nostra seduta di terapia) era un modo di batterli tramite una donna. Ken non poteva nemmeno “stare con” degli uomini. Si relazionava con me, con il fratello e con il padre, con tutti i suoi amici maschi, in modo sempre profondamente competitivo; quando era con me, per esempio, era così convinto che volessi soggiogarlo che per mesi trattenne qualsiasi materiale importante che sentiva mi avrebbe dato un “vantaggio” su di lui. I suoi unici amici maschi erano persone di talento ma non suscitavano competizione dato che il loro talento si manifestava in ambiti completamente differenti (musica, arte o sport).
La notte successiva all’analisi di questo sogno, Ken ebbe una serie di sogni brevi, e tutti illuminarono qualche aspetto del lavoro che doveva essere fatto nelle relazioni. Nel primo sogno andava in un rifugio montano e incontrava molti dei suoi amici maschi che lo salutavano calorosamente; poi si ritrovava seduto accanto a loro in una stanza dove stava aspettando di dare l’esame finale per diventare immobiliarista (Ken era un agente immobiliare). Dopo parecchio tempo l’esame era superato, ma subito l’istruttore (il suo terapeuta) annunciava che era annullato: erano andati nel posto sbagliato il giorno sbagliato. Questo sogno sottolineava la fusione tra amicizia e competizione in Ken: il lavoro in terapia che lo attendeva avrebbe dovuto districare le due cose.
Il secondo frammento di sogno consisteva in Ken che vedeva se stesso su un jumbo jet (spesso, come molti sognatori, simboleggiava la terapia come un viaggio a bordo di un veicolo). Camminava lungo un corridoio dell’aereo ed era sbalordito dallo scoprire diversi scompartimenti nascosti, tutti quanti pieni di gente. Anche se li vedeva per la prima volta, in qualche modo sapeva che queste persone erano sempre state lì. Ovviamente questo sogno rappresentava un altro compito cruciale della terapia: la scoperta degli altri nel mondo.
L’ultimo sogno quella notte fu poco più di un frammento: una semplice immagine di un grande tucano. Ken non aveva alcuna associazione per quest’uccello, ma la mia associazione per tucano fu two can, “due possono”, una rappresentazione del lavoro a due che Ken doveva fare.
Questo modo di relazionarsi agli altri “in malafede” è così comune che gli esempi abbondano nella vita quotidiana e nella terapia di tutti i giorni. Per esempio, la donna che di proposito porta il nuovo fidanzato a un incontro dove sa che ci sarà quello vecchio non è evidentemente con il nuovo partner. Karl, un altro paziente, era con la sua nuova ragazza quando ricevette una telefonata inferocita dalla ragazza precedente. Con aria derisoria teneva il telefono lontano dall’orecchio, rivolgendolo verso la nuova partner in modo che anche lei potesse sentire. Ciascuna delle relazioni di un individuo riflette le altre: credo sia raro che uno sia in grado di relazionarsi in malafede con alcuni individui e in modo autentico e amorevole con pochi altri. La nuova ragazza di Karl fu profondamente turbata dal trattamento riservato all’amica precedente. Sospettò (e a ragione) che l’episodio del telefono fosse un presagio infausto della sua futura relazione con lui.
Lo stare con l’altro per il bene dell’altro è particolarmente evidente nella terapia di gruppo, una modalità di terapia idealmente adatta a rivelare ed elaborare la malafede nelle relazioni interpersonali. Un esempio lampante si è sviluppato per diverse settimane in uno dei miei gruppi di terapia. Ron, un quarantenne sposato, aveva sistematicamente contatti al di fuori dal gruppo con tutti i membri anche se lui e il resto del gruppo si rendevano conto che una simile socializzazione spesso ostacolava la terapia. Ron invitò alcuni membri ad andare in barca a vela, altri a sciare, e altri ancora a cena, e stabilì un’intensa relazione romantica con una di loro, Irene. La socializzazione al di fuori del gruppo di solito è distruttiva in una terapia di gruppo solo se è circondata da un silenzio cospiratorio. In questo caso, la terapia si ritrovò in una situazione di stallo perché Ron si rifiutò di discutere dei suoi contatti al di fuori del gruppo, specialmente di quelli con Irene. Non vedeva nulla di “sbagliato” in tali contatti, e si rifiutava ostinatamente di esaminare il significato del proprio comportamento.
In una seduta il gruppo discusse il fatto che Ron aveva invitato la mia co-terapeuta a un fine settimana in montagna. Su di lui fu esercitata un’enorme pressione per portarlo a esaminare il suo comportamento, e Ron uscì dall’incontro confuso e scosso. Tornando a casa ricordò all’improvviso che da bambino la sua storia favorita era quella di Robin Hood. Spinto dall’impulso, guidò fino alla sezione per bambini della biblioteca pubblica più vicina e rilesse la storia. Solo allora il significato del suo comportamento acquistò un senso. Quello che amava della leggenda di Robin Hood era il salvataggio degli individui, specialmente le donne, dai tiranni. Questo motivo aveva avuto un ruolo potente nella sua vita, a partire dalla lotta edipica in famiglia. Aveva messo in piedi un’attività di successo lavorando dapprima per altre persone e poi fondando un’azienda competitiva e convincendo gli impiegati del suo ex capo a lavorare per lui. Lo stesso era stato con la moglie, che aveva sposato non tanto per amore quanto per salvarla da un padre tirannico.
Allo stesso modo il motivo si era ripetuto nel gruppo. Era fortemente motivato a strappare dalle mie grinfie gli altri membri, persino la co-terapeuta. A poco a poco gli altri membri espressero il loro sconcerto per essere stati semplici pedine nella lotta tra Ron e me. Quando la sua modalità di relazione predominante e non autentica fu messa a nudo e pienamente compresa, Ron cominciò ad affrontare la domanda seguente: «A cosa servono le persone?» Trascorse diversi mesi lavorando alla propria relazione con ciascuno dei membri, eccetto Irene. Si aggrappava strettamente a lei e, anche quando fu chiaro che aveva fatto tutto il progresso possibile per lui in quel gruppo, resistette all’idea di uscirne perché, a un livello inconscio, voleva essere presente per poterla difendere da me. Alla fine terminò la terapia, e pochi mesi dopo Irene fece la stessa cosa. A quel punto, eliminata la presenza del tiranno, l’amore di Ron svanì rapidamente ed egli mise fine alla relazione.
Una relazione completa e amorosa è una relazione con un altro, non con una figura estranea del passato o del presente. Il transfert, le distorsioni paratassiche, i motivi e gli scopi ulteriori: tutto questo deve essere spazzato via prima che una relazione autentica con un’altra persona possa essere stabilita.
* Heidegger si riferiva agli oggetti nel mondo in quanto “sottomano” o “semplicemente presenti”, a seconda che l’oggetto sia considerato un “utensile” o sia afferrato nella sua pura essenza: «La minaccia non viene dall’utilizzabile e dalla semplice-presenza ma, al contrario, proprio dal fatto che l’utilizzabile e la semplice-presenza non “dicono” assolutamente più nulla. Con l’ente del mondo-ambiente non sussiste più alcuna possibile appagatività. Il mondo in cui esisto è precipitato nell’insignificatività; cioè: il mondo aperto in questo modo può rilasciare l’ente soltanto nel modo della non-appagatività. Il nulla del mondo innanzi a cui l’angoscia si angoscia non significa che nell’angoscia si esperisca un’assenza della semplice-presenza intramondana. Al contrario, bisogna che la semplice-presenza possa venir incontro perché non ci possa essere con essa alcuna appagatività ed essa si possa mostrare in una vuota separatezza. Dal che consegue: l’aspettarsi prendentesi cura non trova nulla in base a cui possa comprendersi e perciò brancola nel nulla del mondo»15.
* Fromm descrisse i cinque tipi fondamentali di strutture del carattere in base alle relazioni interpersonali: ricettivo, appropriativo, tesaurizzante, mercantile produttivo. I primi quattro (i tipi “non produttivi”) sono convinti che la “fonte di ogni bene” sia fuori di loro, e che debbano cercare di ottenerla rispettivamente accettando, prendendo o scambiando. Il tipo produttivo è motivato dall’interno ed è un individuo motivato alla crescita e attualizzato46.