Le vittorie giapponesi furono celebrate con grande enfasi, specie quando offrivano l’opportunità di provocare l’invidia dei tedeschi.1 Tuttavia, il Natale del 1941 non fu per Benito Mussolini un giorno di letizia, bensì un’altra occasione per rafforzare la sua misantropia. Dalla Germania giunse la notizia dell’esonero del generale Walther von Brauchitsch, il che significava che l’Unione Sovietica non era ancora stata cancellata dalle carte geografiche.2 Il fronte orientale avrebbe dimostrato che Hitler era un «coglione»? Ciano deve essersi compiaciuto scrivendo questa parola, anche se la attribuì a un diplomatico tedesco.3 Ma, in quei giorni, nemmeno la perfidia più caustica sarebbe riuscita a strappare un sorriso al suocero, che in un incontro con lui sfogò tutto il suo livore. Dagli strepiti sulla necessità di una maggiore politicizzazione dell’esercito (altro pio desiderio), Mussolini spostò la propria aggressività sul Natale. Era stupito, disse, che i tedeschi non l’avessero ancora abolito. Quella festa ricordava «soltanto la nascita di un ebreo che regalò al mondo teorie debilitanti e svirilizzatrici». Lamentò poi che Cristo aveva «particolarmente fregato l’Italia attraverso l’opera disgregatrice del Papato». Per sradicare influenze così nefaste, il Duce si vantò di aver proibito ai giornali italiani di menzionare la nascita di Gesù.4 Fu un gesto inutile. Uno sguardo dalla finestra della Sala del Mappamondo, commentò Ciano nella privacy del suo diario, ed era chiaro che la gente che si affannava nella via sottostante «lo [il Natale] ricorda e lo ama lo stesso». Mussolini, insomma, era frustrato anche nell’aspirazione a essere un Grinch.a
Forse alcuni, particolarmente fedeli al partito, decisero di rinviare i festeggiamenti sino all’Epifania (la «Befana fascista», come veniva chiamata durante il Ventennio), giorno del tradizionale scambio di doni. Certamente sapevano che il Duce aveva in serbo una sorpresa natalizia per il suo entourage, per il partito e per la nazione. Il 26 dicembre fu annunciato che Serena non era più il segretario del PNF e che era stato sostituito da Aldo Vidussoni. Ciano espresse tutta la propria sorpresa:
[La nomina] va a un certo Vidussoni, che ha la medaglia d’oro, ventisei anni ed è laureando in legge. Altro di lui non vi saprei narrare. Evidentemente si tratta di un esperimento audace e speriamo che la fortuna sia questa volta compagna fedele dell’audacia. Io non lo conosco affatto, neppure di vista.5
Il giorno dopo registrò «l’unanime stupore» suscitato dalla notizia: dal più umile caddie del campo di golf al distinto Giuseppe Volpi, conte di Misurata, a quel tempo presidente della Confindustria e della commissione economica italo-croata,6 ogni italiano affilava il proprio sarcasmo nel commentare quella scelta. Neppure l’incontro con il nuovo divo del firmamento politico servì a porre fine allo sconcerto. Ciano osservò malignamente che il giovane segretario avrebbe «sudato sangue in quell’ambiente di vecchie puttane che è il Partito» e tenne a precisare che era una creatura del Duce, «uscito dal pensiero di Mussolini come Minerva dal cervello di Giove».7 Però sembrava entusiasta e in buona fede, e forse questo era l’aspetto migliore.
Una settimana più tardi Ciano ebbe modo di conoscere ancor più da vicino le idee di questo fascista della nuova generazione. Vidussoni si presentò al ministero degli Esteri per discutere dei Balcani e dell’instabilità che continuava ad affliggere il confine nordorientale italiano, dove stava dilagando la guerriglia antifascista. Aveva le idee chiare: l’Italia doveva liquidare tutti gli sloveni. Ciano, in veste di statista e di membro della borghesia, obiettò: «Mi permetto osservare che sono un milione». «Non importa» fu la risposta. «Bisogna fare come gli ascari e sterminarli tutti.»8 Era un giovane che aveva evidentemente assimilato lo spirito dei tempi dell’Asse (anche se il suo prendere a modello gente di colore lasciava intendere che il concetto di «razzismo scientifico» non era stato ancora da lui perfettamente compreso).
De Felice sostiene che quella nomina fu un ultimo tentativo di Mussolini di organizzare il partito secondo i propri criteri,9 ma la scelta di Vidussoni deve essere piuttosto considerata come un gesto di disperazione e di sconforto. Il Duce può aver detto al partito che i giovani dovevano avere la loro opportunità (aggiungendo, quasi una sorta di giustificazione, che il segretario aveva ventotto anni, non ventisei):10 «Vidussoni farà il suo tirocinio.» Può anche aver invitato i suoi collaboratori a concentrarsi, sotto la nuova amministrazione, sulla «grande politica», termine con cui intendeva riferirsi all’educazione, o meglio all’indottrinamento del popolo, e non sulla «grande polizia» che, come sempre, riteneva preferibile riservare allo «Stato». O, ancora, può essere giunto alla conclusione che una lunga guerra avrebbe portato i suoi vantaggi, in quanto costringeva gli italiani a dar fondo alle proprie energie morali, fino a vincere le loro battaglie in patria e fuori.11 Tuttavia, né Vidussoni né Mussolini riuscirono a nascondere le profonde crepe che ormai si stavano aprendo in tutto l’edificio del fascismo.
Da qualunque parte osservassero la situazione i membri della vecchia élite fascista si sentivano offesi dal cambiamento. Tutti coloro che in precedenza si erano considerati come vere e proprie emanazioni del Duce, in qualche modo i suoi alter ego, furono messi di fronte alla propria inutilità e impotenza. I vari Farinacci,12 Ciano,13 Bottai14 si videro – improvvisamente e inopinatamente – affiancati o sopravanzati da un «cretino», un «imbecille».15 E, quel che è peggio, la loro valutazione era corretta. Corse voce che il nuovo segretario sfoggiasse la propria giovinezza, virilità e subordinazione percorrendo regolarmente di corsa la distanza che, a palazzo Venezia, separava la porta dell’ufficio di Mussolini dalla scrivania dello stesso Duce.16 Vidussoni ebbe forse il dubbio merito di ripetere pappagallescamente qualche vecchio slogan ma, nel ruolo di veicolo del «misticismo» fascista, il nuovo segretario si rivelò nient’altro che l’ennesimo fallimento dei vari tentativi effettuati dal regime di mutare radicalmente il cuore degli italiani e delle italiane, oltre a essere la prova evidente che una carriera amministrativa non può essere improvvisata. Nel febbraio 1943 un rapporto della polizia descrisse l’ipotesi della permanenza in carica di Vidussoni come un disastro, soprattutto «per la sua mancanza di capacità organizzativa che svuota ogni giorno di più l’essenza del partito». «L’opera di Vidussoni» aggiungeva implacabilmente il commentatore «si limita a visitare i feriti negli ospedali, a frequentare campi di calcio o partite di boxe.» Dopo quattordici mesi di servizio Vidussoni non aveva ancora conosciuto a fondo i principali esponenti del partito né compreso la loro strategia. Grossi nomi continuavano a chiedere che diamine ci facesse uno come lui alla segreteria e perché mai il Duce l’avesse estratto dal cilindro per elevarlo a quel ruolo tanto importante quanto svuotato dalla sua presenza.17 In altre parole, anziché acquisire il controllo del PNF, con questa nomina Mussolini si era alienato i seguaci più devoti. Quando finalmente, nell’aprile 1943, Vidussoni lasciò l’incarico, la caduta di Mussolini era ormai imminente.
Nel discorso del gennaio 1942 con cui presentò Vidussoni ai suoi nuovi colleghi, il Duce disse: «Dopo venti anni di regime, vi sono due generazioni che si contendono il governo: quella che tramonta e quella che sorge». Ogni coorte, aggiunse con parole che esprimevano la sua tipica concezione darwinista del mondo, era in lotta con quella che l’aveva preceduta.18 Ma si trattava di argomenti in qualche modo pericolosi. Mussolini era entrato in carica all’età di trentanove anni e nel 1943 ne avrebbe compiuti sessanta. La maggior parte dei suoi colleghi era più giovane di lui, molti di dieci e più anni, mentre Ciano non ne aveva ancora quaranta. Non rappresentavano quindi la «nuova generazione»19 destinata a spodestare la vecchia? I propagandisti avevano ancora buon gioco a scrivere che «nessuno è sempre nuovo ed eterno come Lui; nessuno nasce ogni mattina alla storia, alla politica, all’idea, come Lui» e che il popolo aveva bisogno di «Lui, come dell’aria e del pane».20 Eppure, l’immagine di un Duce eternamente giovane stava progressivamente perdendo credibilità.
Anzi, a mano a mano che i giorni passavano, l’aggettivo che sembrava adattarsi meglio al Duce era «vecchio». Dopo averlo incontrato una sera dell’ottobre 1942, Bottai fece una descrizione del suo leader che è divenuta famosa. Mussolini era visibilmente in declino, con «il volto grigio, cinereo, guance tirate, lo sguardo stanco, la bocca atteggiata a un senso di amarezza», come se soffrisse per via dell’ulcera o di uno qualsiasi tra gli altri mali che lo affliggevano. «Il fatto è» scrisse Bottai nel suo diario «che l’uomo appare, più che stanco, avvilito, intristito, non più in lotta vittoriosa con la sua età.» La situazione era sconcertante per chi l’aveva «amato e, nonostante tutto, l’ama. Si vorrebbe prendergli le mani nelle nostre mani e parlargli. Ma egli ha ucciso in sé l’uomo ch’egli era». Perfino nella sua cerchia, ammise con tristezza Bottai, Mussolini veniva beffardamente chiamato «Provolone» per la sua testa calva e lucida «da cui un tempo balenava più vivo il suo fascino». «L’uomo che aveva sempre ragione ha, ormai, per i più, sempre torto» aggiungeva, nell’abituale tentativo di trovare un significato filosofico nella realtà quotidiana. «Prima gli si attribuivano opere e meriti non suoi; ora, sbagli e errori non suoi. È la legge del compenso.»21
Qual era, dunque, nel 1942-43, lo stato di salute del Duce? Fino a che punto si può dire che fosse un altro capo di Stato in guerra i cui insuccessi militari finivano per coincidere con una graduale debilitazione fisica? Mussolini soffriva di ulcera duodenale fin dal 1925.22 Tuttavia, una dieta attenta (che oggi i medici, sapendo che le ulcere sono l’esito di infezioni batteriche, considererebbero comunque troppo ricca di latte e derivati), l’abolizione di carne, alcol e sigarette, gli avevano consentito di conservare a lungo una forma discreta, anche se i capelli, incanutiti subito dopo i cinquant’anni, ne smentivano l’immagine ufficiale di uomo forte, sessualmente vigoroso e cultore di ogni tipo di sport. E sotto la pressione degli eventi bellici, il Duce nuotatore, podista e cavallerizzo cedette il posto a un Mussolini dalla salute piuttosto precaria e che appariva spesso fisicamente provato.
Nell’agosto 1941 la famiglia Mussolini fu colpita da un lutto. Bruno morì in un incidente aereo nel cielo della Toscana, durante il volo di collaudo di un bombardiere.23 La sua vedova raccolse le lenzuola e le federe del letto in cui il marito aveva dormito l’ultima notte a Pisa e le donò alla suocera.24 Il Duce non fu mai molto vicino ai figli più grandi, anche se si disse che, dopo la morte di Bruno, prese a passare più tempo con Vittorio.25 Se in passato, per ricordare il fratello, aveva scritto la Vita di Arnaldo, in questa occasione raccolse i suoi pensieri in un libretto intitolato Parlo con Bruno. Al pari dell’opera precedente, si tratta di un testo strano, un misto di rigore fascista e stucchevole sentimentalismo familiare.26 Ed è permeato di ipocrisia, fin quasi al punto di divinizzare il figlio, ancorché definito uno dei tanti giovani combattenti per la vittoria. Inoltre, mentre da un lato Mussolini parlava della riservatezza del rapporto padre-figlio e della sua tomba, dall’altro la propaganda di regime pubblicizzava il libro con gran clamore. Nell’eroe fascista così poco fedelmente ritratto, gli amici stentarono a identificare lo schivo, timido, inibito e taciturno Bruno che avevano conosciuto.27
Sebbene non avessero mai abbandonato il Duce, i Mussolini di villa Torlonia e di Rocca delle Caminate, con la loro incorreggibile grossolanità, non avevano mai contribuito a rasserenarlo. Nemmeno le relazioni extraconiugali erano sicure. Il rapporto con Claretta Petacci continuava e Ciano e altri dell’entourage spettegolavano apertamente, criticando «le passioni senili» del loro Duce,28 mentre Arpinati, tornato dal confino, sosteneva che a Rimini Claretta si stesse immischiando in affari che non la riguardavano, proprio come era noto facessero le altre «donne della famiglia Mussolini» nel resto della Romagna.29 Sebbene con il passare degli anni il Duce diventasse sempre più di manica larga, a Roma Claretta spendeva con prodigalità per la sua suite, una camera da letto con specchi e stanza da bagno in marmo nero, tanto che persino un generale commentò severamente che sembrava «un ambiente da film americano, ma di evidente cattivo gusto».30 Dopo una pesante giornata in ufficio il Duce era solito telefonare alla sua amante la sera tardi, di solito per lamentarsi del carico di lavoro e dell’insonnia, e per farsi consolare con qualche banale parola d’amore. Per esempio, il 9 giugno 1940 e il 22 giugno 1941 furono registrate due telefonate fatte intorno alla mezzanotte. Nella seconda, Mussolini profetizzò sciagure dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, dicendo che i nazisti avrebbero vinto molte battaglie, ma perso la guerra.31 Claretta era spesso indisposta e pare che nel 1940 avesse sofferto per una gravidanza extrauterina.32 Corsero anche voci di un aborto e, nel dicembre 1941, fu registrata una sua telefonata in cui comunicava al Duce di essere incinta. A questa affermazione fecero seguito le rituali felicitazioni di lui, ma non nacque mai nessun bambino.33 Claretta si prendeva generosamente a cuore i problemi di salute del suo uomo e incalzava i medici per avere l’assicurazione che presto ci sarebbero stati dei miglioramenti.34 Forse a tenerli uniti fu proprio il fatto di condividere questa forma di ipocondria melanconica.
Intanto Marcello Petacci continuava a creare problemi. Fece parlare di sé bisticciando in pubblico con una contessa veneziana a proposito di qualche proprietà immobiliare.35 Nell’estate del 1943 si vociferò di suoi presunti traffici clandestini d’oro e Riccardi fece notare quanto fosse umiliante per il Duce dover ammettere che membri della sua seconda «famiglia» indulgevano al peculato.36 Nel febbraio 1943 l’improntitudine di Petacci superò ogni limite, inviando all’attenzione del Duce un piano generale per vincere la guerra. Si trattava di un progetto bizzarro che contava su attacchi a sorpresa organizzati e coordinati dalla Spagna contro le forze anglo-americane in Marocco, attraverso la Turchia contro l’URSS e, passando per la Cina, contro la Siberia (i giapponesi dovevano essere dirottati sull’India e sull’Australia), il tutto da realizzarsi con l’appoggio del Vaticano. Nel caso il suo piano fosse stato irrealizzabile, aggiungeva candidamente Petacci, egli sarebbe potuto arrivare a Stalin tramite un amico di cui non faceva il nome o ai britannici tramite Sir Samuel Hoare. Ovviamente la cosa andava preparata perché in quel momento, secondo i calcoli dello stesso Petacci, le forze anglo-americane erano dieci volte superiori a quelle italiane.37
Nemmeno la carriera di Maria, la sorella minore di Claretta nata nel 1923, fu totalmente esente dallo scandalo. Già lanciata nel 1940 come cantante, benché non avesse una gran voce, passò al cinema come attrice di film scabrosi con il nome d’arte di «Miriam di San Servolo». Nel giugno 1942 trovò una sistemazione, anche se non quella che ci si sarebbe potuta aspettare da una moderna donna fascista, sposando un conte.38 Non si può negare che la cattiva fama dei Petacci finisse per offuscare ulteriormente il carisma del Duce, tanto che alla fine del 1942 Bottai commentò: «Il Regime si pompadourizza: con quale bassa specie di pompadour!».39
A quanto pareva, il soddisfacimento della pulsione sessuale aveva il suo prezzo. Inoltre, dal 1942 Claretta vedeva una rivale nella diciannovenne Elena Curti, dattilografa e studentessa di filosofia (l’argomento dei suoi studi era particolarmente gradito al Duce).40 Al pomeriggio Mussolini era solito recarsi nell’appartamento della ragazza per scambiare due chiacchiere41 e cercare in lei la narcisistica gratificazione di essere ammirato da una donna giovane (anche a costo di dover sopportare qualche scenata di gelosia da parte di Claretta). Questo bisogno nasceva indubbiamente dalla necessità di compensare la profonda misantropia in cui lo precipitava la vita pubblica. Nella sua ricerca di una comoda via di fuga dal crudele mondo dell’ufficialità, Mussolini faceva ciò che molti uomini di governo avevano fatto prima di lui e faranno dopo di lui. Recitando con Elena e Claretta la parte del vecchio sentimentale e premuroso, riusciva a eludere le fosche relazioni che si ammucchiavano sulla sua scrivania e a dimenticare la freddezza dei suoi rapporti con i colleghi. In quei momenti poteva cercare di risuscitare il «vero» Mussolini e ignorare per un attimo il peso del proprio carisma.
Si trattava indubbiamente di distrazioni piacevoli, ma nel frattempo Mussolini continuava ad accusare problemi di salute. Già nel 1941 le preoccupazioni per le proprie condizioni fisiche avevano distolto la sua attenzione dallo sforzo bellico. Nel maggio 1942 si buscò un’influenza e cominciò a diventare evidente la sua sempre maggiore predisposizione ai raffreddori e ad altri disturbi passeggeri. In luglio, di ritorno da un viaggio in Libia, lamentò forti dolori, che peggiorarono nei mesi successivi, inducendo la famiglia e i medici a chiedersi se fossero dovuti a un’ulcera o a qualche malattia tropicale. A novembre gli spasmi erano diventati insopportabili. Il celebre mento sporgente del Duce, notò un medico, sembrava sparito; Mussolini aveva «una faccia pallida, dalle gote smunte, la pelle avvizzita, il collo scarno».42 Il suo stato di salute era così palesemente precario che dovette ricorrere a rimedi consigliati da altri: un suo vecchio conoscente di Forlì, Giacomo Paulucci di Calboli, gli assicurò che una cura a base di «succo di patate» l’avrebbe fatto ringiovanire.43
Con i medici Mussolini si comportava da malato obbediente, che assumeva i farmaci prescritti e si atteneva scrupolosamente alla dieta indicata. Anche durante la malattia, se poteva, gli piaceva leggere di filosofia, benché fosse ovviamente circondato da pile di giornali che, secondo uno dei medici, scorreva un po’ per svagarsi e un po’ per senso del dovere. Con la matita in mano si divertiva a sottolineare gli errori, che commentava con battute sarcastiche ad alta voce.44 Ancora nel luglio 1943 era abbastanza vanitoso da gradire le visite di una manicure.45 Il portiere e la governante di villa Torlonia, fu fatto notare, erano entrambi romagnoli:46 un giovane visitatore, più attento di un semplice medico alle convenzioni sociali, descrisse il proprio disappunto nello scoprire che il domestico calzava scarpe marroni e indossava una camicia dal colletto sbottonato.47 Come sempre, c’era un’atmosfera strana in casa del Duce, luogo che veniva giudicato poco gradevole da tutti coloro che vi si recavano in visita. Ciano spettegolò su un pranzo a villa Torlonia in cui il Duce cercò di impressionare Vittorio con la promessa che «tra cinque anni … vedrai: metterò gl’italiani a passo di corsa», mentre Rachele, valorosa «regina rossa» fascista venuta dalla provincia, interveniva per consigliare al marito che bisognava «far saltare delle teste».48
Dopo un breve periodo durante il quale si sentì meglio – fu allora che Bottai credette di veder spuntare le lacrime negli occhi del dittatore al termine di un discorso ai funzionari che echeggiava il suo vecchio stile –49 il Duce si ammalò di nuovo e nel dicembre 1942 fu costretto a farsi sostituire dal genero in un incontro programmato da tempo con Hitler. I medici riferirono che negli ultimi cinque mesi aveva perso un quarto del suo peso.50 Benché gli fosse stata prescritta una cura a base di iniezioni quotidiane contro il mal di stomaco, il peso di Mussolini continuò a diminuire e anche la pressione sanguigna si abbassò notevolmente. Tuttavia, lo staff medico non era ancora riuscito a stabilire se la natura dei disturbi fosse organica o psicologica. Sta di fatto che il Duce era visibilmente depresso.51 I giorni dal Natale 1942 al Capodanno 1943 li passò quasi tutti a letto: ancora una volta non aveva l’energia per essere un Grinch. A metà gennaio un dottore ipotizzò addirittura che il paziente fosse affetto da un tumore in uno stadio molto avanzato.52 Ma la diagnosi si rivelò allarmistica e, da febbraio a luglio 1943, Mussolini fu di nuovo in condizioni fisiche accettabili, ancorché afflitto da frequenti e acuti mal di stomaco. Inoltre soffriva d’insonnia. Malgrado una dieta quasi esclusivamente liquida, il Duce doveva combattere contro la tendenza a vomitare subito dopo mangiato e il suo peso continuava a fluttuare. Risultava altresì anemico e astenico.53 Un politico ungherese in visita lo trovò «molto malato. Era calvo, con un colorito pallido tendente al giallastro, e parlava velocemente con gesti nervosi».54 Nell’aprile 1943, durante un viaggio in Germania, Mussolini ebbe un’altra crisi e in maggio, mentre pernottava alla Rocca della Caminate, il dolore fu così intenso da costringerlo a rotolarsi sul pavimento nel disperato tentativo di trovare sollievo.55 Anche la ferita di guerra era tornata a farlo soffrire.56 Ma, ancora una volta, la crisi passò e il Duce riprese il consueto ritmo di lavoro, benché l’abitudine di allentare la cintura e premersi le mani sullo stomaco fosse ormai diventato un gesto meccanico.57 Nella corrispondenza epistolare con Hitler di questo periodo è possibile leggere un regolare scambio di informazioni sulle rispettive condizioni di salute ed entrambi i dittatori, in particolare Mussolini, confessavano gli effetti stressanti prodotti dalla guerra.58
Dietro la sofferenza fisica e psichica si celava l’agonia politica. A parte i discorsi un po’ vaghi sulla necessità di aprire l’Atlantico alla penetrazione italiana, il Duce e il regime non avevano mai chiaramente definito gli scopi della loro guerra. In fondo avevano coltivato l’illusione di un conflitto breve fino allo scivolone in Grecia e, dopo quella sconfitta, il riconoscimento della dipendenza dell’Italia dalla Germania faceva apparire sciocco e irrealistico ogni tentativo di abbozzare iniziative di conquista autonome. Nei suoi vari discorsi e scritti Mussolini si sforzava di chiarire i potenziali vantaggi della guerra. Per esempio, nell’ottobre 1941 dichiarò che la volontà superiore delle forze dell’Asse garantiva che «fra qualche anno il mondo sarà fascistizzato».59 Nel gennaio 1942 l’argomento principale era invece quello della razza; la guerra stava permettendo di accelerare il processo di fusione delle province italiane, tanto che all’incirca nell’arco di un secolo, si sarebbe sicuramente avuta «una razza italiana pura». Il «libero accesso agli oceani» avrebbe favorito in qualche misura tale processo e l’ideale dell’unità d’Italia (il che implicava pure la fine dei «giri di valzer»).60 Evitando gli errori del passato liberale e marciando a fianco dei tedeschi e dei giapponesi «fino in fondo», secondo il Duce l’Italia si stava meritando un ottimo voto nel test della guerra. In questa tragica prova alcune nazioni cadevano, altre emergevano, e l’Italia doveva essere inclusa nella seconda categoria.61 La presa di posizione di Mussolini era improntata al più crudo darwinismo:
La lotta è l’origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c’è l’amore e l’odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità.62
Ma ogni giorno si faceva sempre più pressante un’altra domanda: e se l’Italia, il fascismo e Mussolini appartenessero invece alla categoria dei perdenti storici?
La mollezza borghese, un peccato che sembrava essere condiviso da tutto il popolo, rimaneva il bersaglio della feroce critica del Duce. Gli italiani, disse con un certo imbarazzo durante una riunione dei dirigenti del partito del Veneto e dell’Alto Adige – cioè le regioni che confinavano con il superefficiente mondo germanico –, dovevano imparare a essere pronti. Dovevano vivere la loro vita secondo un programma. «Quando l’ora dice nove, bisogna andare alle ore nove. Non alle nove e un quarto.» «Dobbiamo diventare disperatamente un popolo serio» aggiunse con una dichiarazione dal tono autenticamente disperato. I ritardatari e gli abulici dovevano essere espulsi dal Partito fascista per «puntare risolutamente sul giovane. Puntare, cioè, sulle nuove generazioni».63 Di fronte ai federali emiliani disse più o meno le stesse cose: «Bisogna abituare gli italiani alla precisione del linguaggio, delle esposizioni dei dati». «Gli stranieri» continuò «ci calcolano sempre della gente che non arriva in orario, che ha sempre imprecisione nel linguaggio, negli impegni, che è e non è, che fa il giro di valzer» (ancora una volta quell’imbarazzante espressione che risaliva alla prima guerra mondiale).64
Queste prediche, tuttavia, non sortivano alcun effetto: gli italiani non erano all’altezza. Nel maggio 1942 Mussolini redarguì la direzione del partito per i problemi del fronte interno, dove regnavano «l’indisciplina, il sabotaggio e la resistenza passiva su tutta la linea». I fascisti accantonavano «del cuoio, dei liquori, delle pere cotte» (queste ultime sembravano un accenno involontario alla propria dieta). Negli anni tra il 1915 e il 1918 – di nuovo quel doloroso senso di inadeguatezza della guerra fascista al confronto con quella liberale – gli italiani avevano veramente compreso il significato del sacrificio. Ora si doveva imporglielo con «brutalità assoluta». Ma quello che più di tutti meritava un rimprovero era il mondo degli affari, che era tornato a far uso dei suoi vecchi trucchi e non aveva mai ceduto alla rivoluzione fascista.65 A un industriale, invece, disse che il vero biasimo ricadeva su «commercianti e albergatori»: erano loro quelli che non si erano adeguatamente fascistizzati.66 Le filippiche si susseguivano senza posa, senza però che venisse mai indicato il modo in cui attuare il cambiamento, e senza mai spiegare chiaramente perché, dato che il regime era al potere da vent’anni, le sue conquiste si fossero rivelate così fragili. Su questo tema Mussolini cadeva nelle contraddizioni più grossolane. Davanti a un’assemblea di giornalisti disse con un tono che non ammetteva repliche: «In venti anni il fascismo ha dato una risposta esauriente a tutte le questioni che turbano la coscienza contemporanea». Non c’era il benché minimo contrasto con la teoria, dichiarò. Era solo la pratica a tradire gli italiani.67
Tutte queste diatribe, comunque, non servivano affatto a risolvere i molti dilemmi causati dalla guerra. Un capitolo terribile fu la sorte degli ebrei d’Europa. Con il passare del tempo a Roma cominciavano a giungere le prime notizie del genocidio. Nel dicembre 1941 il ministro della Guerra croato, Slavko Kvaternik, disse a Ciano – «con un sorriso che non lascia adito a dubbi» – che il numero degli ebrei sotto il suo comando era ridotto di più di due terzi grazie a un’«emigrazione» da cui non sarebbero più ritornati.68 Il regime fu molto amareggiato da quella che lo stesso Mussolini definì la sopraffazione della Croazia da parte della Germania in campo economico, politico e militare69 e gli sforzi di Pavelić per mettere l’uno contro l’altro i due alleati non facevano che confermare l’inveterata convinzione di Mussolini sull’ingratitudine dei sedicenti amici. Egli criticò aspramente Pavelić per il suo fanatismo nello sterminio dei serbi e lo fece «non soltanto per ragioni di umanità» ma perché si trattava di «un errore, un grave errore».70 A Hitler, invece, disse poco o nulla, limitandosi in genere a far notare, con parole che presumeva gradite al Führer, che le forze d’occupazione in Iugoslavia avrebbero dovuto adottare misure «estreme» per reprimere ogni forma di opposizione alle forze dell’Asse.71
Rapporti ancora più terribili cominciarono a giungere dalla Russia e dal fronte orientale. Nel marzo 1942 un diplomatico italiano di ritorno da Berlino riferì ai colleghi del ministero degli Esteri gli «orrori perpetrati nei territori polacchi e russi occupati», con «massacri sistematici, uccisione di donne e bambini, prostituzione obbligatoria, impiego di monache nei bordelli, ecc.».72 Nel maggio-giugno il Vaticano ricevette notizie particolareggiate sul «più radicale antisemitismo» nei paesi occupati dall’Asse, con «milioni» di morti,73 sebbene in quello stesso periodo Pavelić rassicurasse Pio XII che nella parte cattolica del suo paese «il popolo croato desidera ispirare tutta la sua condotta e la sua legislazione al cattolicesimo».74 In risposta il papa mantenne quel silenzio ambiguo o colpevole che era diventato il suo modo di affrontare le tragedie della guerra. In ogni caso, nell’estate-autunno del 1942 i funzionari italiani in Iugoslavia, Francia, Tunisia, e in ogni luogo in cui la nazionalità italiana avrebbe potuto salvare gli ebrei dalla barbarie tedesca,75 inaugurarono il curioso tentativo fascista di contrastare e differire la «soluzione finale».76 Essi usarono contro la Germania le arti della dissimulazione e del temporeggiamento, che avevano sempre fatto parte del loro armamentario burocratico e che gli anni del «rigore» fascista non avevano scalfito.
In Italia la politica razziale del tempo di guerra restava confusa. La stampa antisemita continuava le sue polemiche. Nel settembre 1942, in un articolo dall’impostazione palesemente paranoica, Preziosi caldeggiò «la soluzione del problema ebraico», sostenendo che in Italia gli ebrei erano molto più numerosi di quanto fino ad allora fosse stato riconosciuto. I «cripto-ebrei», ne era sicuro, pullulavano nell’Azione cattolica e nel resto della Chiesa, ed erano responsabili della «mammonizzazione [sic] della nostra borghesia». Dichiarò che si doveva preparare d’urgenza una classificazione scientificamente precisa dei gruppi sanguigni italiani. Solo allora il paese e la sua rivoluzione sarebbero potuti ripartire.77 In un discorso tenuto a Milano, anche Farinacci affermò, pur restando più nel vago, che la questione ebraica andava risolta con «fermezza e intelligenza chirurgica»: «I Giudei vogliono distruggere noi, noi distruggeremo loro».78 Altri propagandisti si scagliarono contro il presunto dominio ebraico negli Stati Uniti e contro il loro leader, «il criminale della Casa Bianca»,79 mentre i razzisti più convinti prospettavano candidamente che «ventun milioni» di ebrei «dovranno essere sacrificati» per curare un problema che richiedeva a gran voce «rimedi estremi».80
Malgrado la brutalità di queste parole, che evidentemente godevano dell’approvazione ufficiale (anche «Gerarchia», la rivista teorica che un tempo Mussolini aveva diretto con Margherita Sarfatti, pubblicò polemiche antigiudaiche),81 sotto il regime fascista l’attuazione pratica dell’antisemitismo fu caratterizzata da una certa indulgenza. Fino al luglio 1943 i doganieri italiani erano noti per la loro disponibilità a permettere che gli ebrei in fuga dalle persecuzioni subite in altri paesi trovassero salvezza entro i confini della loro nazione.82 Se la guerra rivelò chiaramente, come una sorta di radiografia, la natura delle società coinvolte (mettendo a nudo l’istinto omicida del nazismo), la mitezza del comportamento razziale in territorio italiano e lo scetticismo della stragrande maggioranza della popolazione verso la teoria della razza indicano che quest’ultima fu soltanto un’aggiunta posticcia al fascismo, non la sua essenza. Ma si poteva dire altrettanto per il Duce, l’italiano che, dopotutto, era in costante contatto con i tedeschi, nonché l’uomo che in più occasioni era stato definito l’unico «vero amico» rimasto a Hitler?83 Qual era la posizione di Mussolini a proposito della «soluzione finale»?
La risposta è che, negli atteggiamenti e nel modo di agire, il Duce non era molto diverso dalla maggioranza degli italiani. Se i tedeschi facevano pressioni, obbediva. Per esempio, quando nell’agosto 1942 chiesero di punto in bianco il diritto di associarsi ai croati per un rastrellamento di ebrei nella zona occupata dalle forze militari italiane, e di poter contare sul loro appoggio fino ad allora non concesso, il Duce diede la sua approvazione con una nota scritta. Nulla, dichiarò, poteva opporsi a questa collaborazione,84 anche se poi fece ben poco per bloccare i continui tentativi compiuti dagli italiani per ostacolare i tedeschi e frustrarne i propositi. In cambio i capi nazisti non lo tennero completamente informato. In ottobre, per esempio, Himmler incontrò Mussolini a palazzo Venezia ma non gli fornì che notizie parziali. Gli ebrei, ammise, venivano deportati «in Russia»; «un rilevante numero di ebrei», compresi donne e bambini, erano stati uccisi, perché altrimenti avrebbero aiutato i partigiani. «Il Duce, da parte sua, confermò che questa era l’unica soluzione.» Quindi Himmler proseguì raccontando che altri ebrei avevano lavorato in quelle zone fino a morirne, soprattutto perché erano assai poco abituati al lavoro manuale. Si affrettò ad aggiungere, mentendo, che i nazisti sistemavano gli ebrei più anziani in confortevoli alloggi a Theresienstadt o in ospedali di Berlino, Vienna e altre località. Quanto a quelli rimasti, tentavano di spingerli a varcare il fronte in direzione dei sovietici, ma i comunisti sparavano su di loro, «dimostrando palesemente anch’essi di non volerli».85
Pur non fornendo assolutamente all’alleato un resoconto completo dei terribili dettagli della «soluzione finale», Himmler aveva comunque confermato i delitti che venivano perpetrati contro gli ebrei e Mussolini l’aveva lasciato parlare senza fare domande né sollevare obiezioni. Qualche settimana dopo, di ritorno da un viaggio sul fronte orientale, Vidussoni riferì un analogo miscuglio di informazioni ugualmente frammentarie (affermò fra l’altro, facendo sfoggio di umiltà, di aver insistito per viaggiare in uno scompartimento adattato a terza classe). Raccontò che i tedeschi trattavano gli ebrei con «un assoluto rigore», cioè massacrandoli o facendoli lavorare fino allo stremo delle forze. «Quello che ha più colpito gli italiani» spiegò «è il modo dell’uccisione» e la rassegnazione con cui le vittime l’accettavano. Il senso morale di Vidussoni e i suoi strumenti di analisi critica erano troppo limitati perché potesse dire di più. Passò quindi ad altri argomenti come l’antipatia dei militari italiani per i tedeschi e la sua ammirazione per Hitler, per il mondo nazista e il suo partito.86 Tuttavia, Vidussoni aveva detto abbastanza per lasciare il suo Duce, meno superficiale di lui, piuttosto inorridito dagli avvenimenti di cui era di certo al corrente. Anche in questo caso, come accadeva spesso, il cinismo ebbe il sopravvento. Nel novembre 1942 Mussolini aveva liquidato le proteste dell’industriale Alberto Pirelli sulle politiche di occupazione attuate dalla Germania all’Est dichiarando che i tedeschi facevano emigrare gli ebrei «all’altro mondo».87 Poche settimane dopo disse in Parlamento che «non si fa la guerra senza odiare il nemico» e aggiunse che gli italiani dovevano liberarsi dai «falsi sentimentalismi».88 Non approfittò dell’occasione, però, per condannare gli ebrei. Se ne può quindi concludere che i massacri all’Est dovevano apparirgli come un aspetto terribile della guerra e dell’alleanza con la Germania, di fronte al quale però né lui né il fascismo né l’Italia potevano fare nulla. Fino al luglio 1943 di fronte alle uccisioni degli ebrei Mussolini poté comportarsi come Ponzio Pilato, ma dopo il settembre 1943 non gli fu più possibile prenderne le distanze.
Frattanto, sul finire del 1942 la debolezza dell’Asse nei confronti della soverchiante coalizione alleata era diventata innegabile. Nello scacchiere africano, l’intervento tedesco non poté impedire la seconda grande offensiva degli Alleati e in novembre la Cirenaica fu perduta. Nello stesso mese gli americani, sbarcati nel Marocco francese, minacciavano di spingersi fino a Tunisi, frettolosamente occupata dalle forze dell’Asse. Era giunto il momento dell’impari sfida tra la povera Italia e i ricchi Stati Uniti. Come se non bastasse, sul fronte orientale Hitler aveva ostinatamente bloccato la sua Sesta Armata nell’assedio di Stalingrado; la resa finale del maresciallo von Paulus, nel gennaio 1943, avvenne dopo che l’esercito tedesco, in un’unica battaglia,89 ebbe lasciato sul campo un numero di vittime quasi pari alle perdite complessive dell’Italia dal 1940 al luglio 1943.90 In questo infernale contesto a Est, persino Hitler biasimò la collaborazione data ai suoi uomini dagli alleati italiani; le truppe fasciste, disse, valevano meno di quelle rumene (anche se il Führer, da buon austriaco, pensava che le ungheresi rimanessero comunque le peggiori).91 Così cominciarono a diffondersi in modo sempre più insistente92 le voci sul disprezzo nutrito dai tedeschi per gli operai stranieri: nel 1941 ne entrarono nel Reich 229.000 e nel 1942 altri 81.000.93 Uno studio «scientifico» compiuto da alcuni esperti tedeschi concludeva che gli operai italiani erano inferiori per produttività e condotta persino ai prigionieri di guerra sovietici; indisciplinati e inetti com’era legittimo aspettarsi da una «razza meridionale», continuava la ricerca, passavano il tempo a mangiare con gli occhi le donne e a giocare a carte.94 Insomma, gli italiani sembravano essere, sotto ogni aspetto, dei pessimi alleati. Nella primavera del 1942 Mussolini ripeté nervosamente quello che gli risultava essere un detto tedesco: «Vinceremo in due mesi la guerra contro la Russia, in quattro mesi contro l’Inghilterra e in quattro giorni contro l’Italia».95
Se in Europa l’alleanza dell’Asse funzionò con grandi difficoltà, in Nord Africa gli Alleati schiacciarono l’esercito congiunto tedesco-italiano da ovest e da est. La Libia, la più importante conquista dell’Italia liberale, era perduta. Nel febbraio 1943 Rommel stava cercando di attestare le forze dell’Asse sul versante tunisino, al confine con la Tripolitania, occupando le difese approntate dai francesi negli anni Trenta. Un tentativo di sfondamento fu neutralizzato dopo le iniziali sconfitte americane, ma in maggio il Gruppo armate d’Africa, stretto nella morsa delle forze britanniche che avanzavano da Tripoli e da quelle americane provenienti da Tunisi, capitolò. Circa 225.000 soldati, fra italiani e tedeschi, furono fatti prigionieri dagli anglo-americani. Sull’agenda alleata il passo successivo era l’invasione dell’Italia.
Mussolini, di fronte a questa serie di disastri militari, non aveva contromosse. I suoi incontri con il Führer avvenivano secondo modalità che si ripetevano sempre uguali, con Hitler che parlava a lungo, il più delle volte per giustificarsi dell’andamento della guerra nel settore orientale (i meteorologi, disse al Duce nell’aprile 1942, erano cattivi consiglieri quanto i teologi).96 Ogni volta che Mussolini tentava di richiamare la sua attenzione sulle necessità dell’Italia – per esempio, quando chiese aiuto per bombardare Malta e costringerla alla resa –,97 veniva regolarmente ignorato. Anche su altre questioni era difficile registrare un successo. Serrano Suñer in cuor suo rimaneva fascista, ma la situazione militare aveva convinto persino lui che la Spagna avrebbe fatto meglio a conservare la neutralità.98 Nel febbraio 1943 Mussolini dovette avvertire Franco che gli Alleati non facevano «distinzione fra fascismo e falangismo e nazionalsocialismo», ma avevano piuttosto intenzione di reclutare i «rossi».99 I francesi di Vichy, anche dopo l’occupazione del loro paese da parte dell’Asse nel novembre 1942, sembravano ben poco propensi a ingraziarsi gli italiani. Inoltre, cosa ancora più grave, i tentativi indiretti e discreti di Mussolini di contenere l’ossessione di Hitler per l’Est e convincerlo che i veri nemici erano invece «gli anglosassoni», non ebbero effetto alcuno, cosa non sorprendente dal momento che Hitler, i nazisti e la maggior parte dei tedeschi erano decisamente concentrati sulla titanica lotta razziale-ideologica contro il «giudeo-bolscevismo».100
Nella primavera del 1943 la disperazione cominciava a essere evidente anche all’interno dei confini italiani. In febbraio Mussolini operò un altro dei suoi improvvisi e drastici cambiamenti dell’esecutivo. Questa volta, tra i licenziati vi furono Bottai, Riccardi e Ciano, quest’ultimo inviato come ambasciatore in Vaticano nella speranza che la componente borghese del fascismo potesse sottrarsi al proprio destino negoziando accordi per il tramite della Chiesa. Come a dare adito a questa intrigante possibilità, Ciano annotò con malizia nel suo diario: «Le vie che la Provvidenza sceglie sono a volte misteriose».101 Bottai, nei suoi modi più adolescenziali, confessò di aver tentato di mostrare indifferenza di fronte alla perdita del ministero dell’Educazione, dato che «il Capo» era stato crudelmente irremovibile quando lo aveva incontrato.102
Al ministero degli Esteri andò lo stesso Mussolini, ma ora il suo sottosegretario era Giuseppe Bastianini, l’uomo che nel 1939-40 aveva sostituito Grandi all’ambasciata di Londra, dove era stato accolto con un certo favore.103 Bastianini, adottando lo stesso metodo già usato da Suvich, tentò tardivamente di persuadere Mussolini a formulare una dichiarazione d’intenti relativa alla guerra, facendogli pervenire un’utile lista in sette punti104 e sperando, in questo modo, di contrastare la Carta atlantica da poco sottoscritta da Churchill e Roosevelt.105 Dal documento di Bastianini risultava che gli italiani stavano combattendo per il principio dell’«unità etnica» (a tutti gli Stati, scrisse, dovrebbe essere consentito di realizzarla, mentre Mussolini modificò il termine in «omogeneità» e limitò gli Stati coinvolti a quelli «europei»), per la completa sovranità e indipendenza (anche su questo punto Mussolini, ancora ferito dal conflitto con l’Impero africano d’Etiopia e dai malintesi di Stresa, restrinse la questione all’Europa), per il diritto di ogni Stato a gestire in modo autonomo la propria politica interna, per l’accesso alle risorse economiche del mondo (punto cancellato da Mussolini), per il diritto dei popoli alla giustizia sociale (altro punto cancellato), per l’affermazione del fatto che la pace poteva essere raggiunta solo tramite «una reale collaborazione» tra i settori economici e sociali (Mussolini aggiunse che questa doveva essere europea e «sotto l’egida dell’Asse») e per la libertà dei mari (punto annullato dal Duce). Era un programma che difficilmente avrebbe ottenuto l’approvazione dei nazisti fanatici, mentre le correzioni apportate da Mussolini rendevano l’elenco più simile a una dichiarazione di «sacro egoismo» che a un’espressione di fascismo entusiastico. Non deve stupire, quindi, che ogni tanto il Duce dichiarasse che «le guerre del fascismo sono state, sono, tutte inevitabili», e che egli stesso vi era stato semplicemente trascinato.106
Nell’aprile 1943 Vidussoni venne finalmente rimosso dall’incarico di segretario del PNF e fu sostituito da Carlo Scorza, fascista della prima ora (era nato nel 1897).107 La mossa di puntare sui giovani non aveva prodotto grandi risultati. Anche Scorza prometteva di rianimare il Partito fascista e, per quanto fosse ormai tardi, di ampliarne l’influenza sulla società. Nominato vicesegretario nel dicembre precedente, egli aveva dichiarato poco dopo che le differenze di classe in Italia dovevano essere annullate e che il partito doveva essere epurato, avendo comunque cura di aggiungere che «l’arma più potente» posseduta dall’Italia era «la figura, il pensiero, l’azione del DUCE».108 Ottenuta la carica di segretario, sebbene Mussolini dichiarasse la propria ostilità verso i subordinati troppo autonomi e intraprendenti,109 Scorza decise di sondare lo stato della nazione, e il 7 giugno presentò un rapporto disastroso.
Dopo un preambolo in cui sottolineava come il suo intento fosse solo quello di essere «un subordinato e intelligente collaboratore», consapevole del fatto che Mussolini voleva dare «proprio un nuovo indirizzo all’intera vita nazionale», Scorza fornì al capo del governo un’analisi delle differenti classi sociali italiane (a dispetto del gran parlare di unità fascista, queste categorie continuavano ad avere un senso). Fra le classi superiori, scriveva, «antifascismo e antimussolinismo» erano «contenuti solamente dalla paura» che la fine della guerra portasse al collasso sociale e al «bolscevismo». Nei ceti medi, tra gli impiegati e i professionisti, l’ostilità era meno accentuata, ma era comunque difficile trovare «un acceso fascismo». Solo la piccola borghesia e altri membri del «popolo minuto» rimanevano autenticamente fascisti, fedeli al proprio Duce, ed erano appunto loro che avrebbero dovuto costituire la base di una futura ricostruzione politica. Il partito stesso era gravemente malato, danneggiato da un’«elefantiasi» numerica, dalla corruzione e dalle lotte intestine; soltanto i giovani ci credevano ancora. Per tacere poi della burocrazia statale, che interferiva in tutti gli aspetti della vita, compresi quelli di diretta pertinenza del partito, e che, specie ai livelli superiori, era corrotta fino al midollo. I tempi erano bui anche dal punto di vista economico. Dilagavano la fame e il mercato nero. L’autarchia, con la costituzione di numerosi enti semigovernativi, aveva generato sovrapposizioni di compiti e caos. Urgevano tagli decisi. L’esercito era colpevole di «imprevidenza, impreparazione, incompetenza, irresponsabilità». Esistevano cinque istituzioni «supreme» preposte alla conduzione della guerra e nessuna di esse funzionava. Gli italiani diffidavano degli alleati tedeschi; avevano bisogno di maggiori e più convincenti informazioni sul loro conto e sulla causa che li muoveva. I generali di grado superiore dovevano essere subito rimossi. Mussolini avrebbe dovuto impegnarsi in ogni settore della vita dello Stato, agire e far sapere che agiva. Solo ravvivando, in senso ampio, lo spirito fascista nel paese si poteva rianimare il regime e vincere la guerra.110
Altrettanto chiaro, e potenzialmente più influente, fu in maggio un telegramma in cui Edda riferiva gli effetti di un bombardamento su Palermo. «Qui» diceva «i civili si sentono abbandonati» dalle autorità militari e fasciste. «Io sono stata in Albania e Russia, mai ho visto tanta sofferenza e tanto dolore. E io stessa» aggiungeva «ho l’impressione di essere capitata non so dove, lontana le mille miglia dalla Patria e dalla civiltà.» Medicine, indumenti, pane, pasta, mancava tutto.111
Si può discutere sull’impronta populista delle argomentazioni di Scorza, ma tanto la sua descrizione quanto quella di Edda dimostravano chiaramente l’impreparazione dell’Italia fascista e del suo Duce alla prova della guerra. Ovviamente era ormai troppo tardi per fare qualcosa e lo stesso Mussolini, nella sua risposta, tentò di minimizzare le critiche.112 Il 10 luglio 1943 le forze alleate sbarcarono in Sicilia, dopo aver pesantemente bombardato e poi occupato le «imprendibili» isole di Pantelleria113 e Lampedusa, quest’ultima al modico prezzo, così fu detto, di un uomo morso da un asinello.114 Il 14 luglio Mussolini, il quale aveva ottenuto dai tedeschi solo qualche parola di cortesia in risposta alle ripetute richieste di supporto aereo contro l’invasione,115 si ridusse a chiedere pateticamente al generale Ambrosio se esisteva qualche piano per salvare la Sicilia, qualora gli Alleati avessero cominciato a occuparla.116 Avrebbe dovuto sapere che un piano del genere era semplicemente impossibile.
Intanto, da almeno sei mesi si stava discutendo di rovesciare Mussolini. Dalla fine del 1942 Eden e il SOE (Special Operation Executive) avevano ricevuto richieste di intervento da parte di Badoglio.117 Ciano, che da tempo andava dicendo che la guerra era perduta,118 sapeva che la monarchia,119 il papato,120 i grandi industriali121 e la polizia122 erano pronti a prestare orecchio a qualsiasi piano che avesse come obiettivo quello di portare l’Italia fuori dal conflitto. Oltretutto in marzo-aprile i lavoratori italiani in Germania avevano coraggiosamente scioperato, primo caso all’interno del Nuovo Ordine nazifascista.123 Lo stesso Mussolini rimase impressionato da quell’evento, spaventato in cuor suo dal fatto che il socialismo, da lui abbandonato tanto tempo prima, avesse ancora tanta influenza sui lavoratori,124 anche se Volpi aveva tentato di confortarlo dicendo della protesta operaia: «Questo è un fenomeno economico».125
Minacciato da questo e da altri spettri, Mussolini, come notarono i contemporanei, si trovava nella stessa situazione di Micawber, il personaggio dickensiano: non aveva assolutamente un piano, ma sperava che accadesse qualcosa di positivo.126 Per gli altri uomini di governo il problema era più spinoso. Come avrebbero potuto liberarsi di Mussolini e ritirarsi dalla guerra senza che si scatenasse su di essi e sul paese la furia tedesca, che difficilmente si sarebbe limitata a colpire le persone, bensì avrebbe comportato la perdita di vaste aree dell’Italia settentrionale? Il 19 luglio Mussolini, coprendo una parte del percorso in aereo, nonostante le precarie condizioni fisiche e psicologiche, incontrò Hitler in una villa presso Feltre per un’ultima discussione sullo stato della guerra. Bastianini aveva consegnato al Duce un memorandum disperato, in cui diverse disfatte militari italiane venivano attribuite alla mancanza di mezzi e si chiedeva ancora una volta all’alleato un massiccio aiuto.127 Ma Mussolini ebbe difficoltà a infilare anche una sola parola nel dialogo, perché il Führer dissertò sulla situazione generale del conflitto, soprattutto nell’Est, e concluse dicendo perentoriamente al collega italiano che avrebbe dovuto produrre armi più moderne e incoraggiare con maggior vigore i suoi ufficiali.128
Mentre il Duce era impegnato nel suo infruttuoso colloquio, le forze alleate bombardarono la capitale italiana, causando gravi danni ai quartieri operai presso la linea ferroviaria e distruggendo quasi completamente San Lorenzo, una delle sette basiliche di Roma. Altrove i bombardamenti furono meno devastanti, ma l’attacco su Roma sancì la fine di Mussolini. Le cifre dicevano che 150.000 romani avevano abbandonato la città129 ed era diffusa la certezza che da quel momento il popolo avrebbe riposto la propria speranza nella Chiesa (o negli anglo-americani) anziché nel fascismo. La settimana seguente anche Foggia e Bologna furono violentemente attaccate dal cielo. Nelle campagne circostanti i contadini, poco contagiati dall’idea fascista della guerra tecnologica, interpretarono i bombardamenti come una dimostrazione del fatto che gli americani erano tutti milionari: altrimenti come avrebbero potuto permettersi di distruggere le cose a cuor leggero?130
L’atto finale della dittatura di Mussolini andò in scena durante la centottantesima riunione del Gran Consiglio, nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943.131 Il Gran Consiglio era un’altra delle istituzioni dello Stato fascista che con il tempo si era arrugginita: da quando era scoppiata la guerra i suoi membri non si erano mai riuniti. Capitanata dal sornione Dino Grandi, la maggioranza del Gran Consiglio, compresi Ciano, Bottai e altri sedici membri, approvò una mozione che restituiva al re il comando militare. La maggior parte dei presenti capiva che questa decisione avrebbe significato una considerevole perdita di potere da parte del Duce, benché non si sappia con chiarezza quanti si rendessero conto che in questo modo stavano provocando la caduta di Mussolini e del regime fascista.
La riunione ebbe inizio alle 17.15 di un caldo pomeriggio romano. L’atmosfera nella Sala del Pappagallo a palazzo Venezia era opprimente. La respirazione affannosa dell’asmatico Suardo132 aumentò la tensione in quel gruppo di politici stremati e invecchiati. Marinelli era troppo sordo per capire ciò che stava accadendo ma, provocando la sua stessa rovina, votò comunque per la maggioranza.133 Mussolini,134 di cui si disse che fosse giunto all’assemblea con nelle orecchie il consiglio di Rachele di «arrestarli tutti», aprì la seduta con un lungo e sconclusionato resoconto della situazione bellica. In un discorso durato più di due ore, ogni tanto fu costretto a interrompersi per premersi con le mani lo stomaco dolorante.135 Il Duce si vantò, sperando forse di convincere innanzitutto se stesso, di avere ancora «una memoria di ferro».136 Poi ebbero inizio gli attacchi, in genere imbarazzati e molto circospetti, portati in modo da non affrontare direttamente il tema. De Bono, per esempio, rispose alle parole di Mussolini difendendo l’esercito. Farinacci, che pure non fu tra i diciannove gerarchi che votarono la mozione Grandi, ammise di essere «un soldato e un cittadino deluso» e, ricordando forse Vidussoni, lamentò che Mussolini non avesse mai riservato abbastanza attenzione a «noi vecchi».137
La riunione subì ripetute interruzioni, come generalmente accade. A mezzanotte Mussolini propose di aggiornare la seduta, ma Grandi si oppose, sicché fu approvata una pausa di mezz’ora. Quando la discussione riprese Bastianini dichiarò, con un’immagine significativa, che «la Nazione è in sciopero nei confronti del Partito».138 Dopodiché si passò alla votazione: 19 favorevoli, 7 contrari, Suardo astenuto, mentre Farinacci dichiarava che avrebbe potuto votare soltanto una propria mozione.139 Erano le tre del mattino quando i gerarchi, esausti, si separarono. Mussolini aveva detto a Grandi: «Sono un uomo di sessant’anni [mancavano quattro giorni al suo compleanno] e so bene come vanno a finire queste cose». Dopo il voto finale dichiarò: «Signori, con questo ordine del giorno, voi avete aperto la crisi del regime». E tuttavia non fece nulla per incoraggiare uomini come Scorza o Enzo Galbiati, della MVSN,140 probabilmente disponibili ad azioni di forza in sua difesa né raccolse il suggerimento del secondo di volare in Germania a «consultare» Himmler.141
Mussolini si trascinò fino a casa, dove ricevette certamente le rampogne di Rachele e, con ogni probabilità, soffrì d’insonnia e depressione. La mattina dopo ritornò puntuale al lavoro, vide Scorza alle 10.30, a mezzogiorno ricevette l’ambasciatore giapponese (con il quale forse parlò di nuovo della necessità di convincere Hitler a concludere una pace separata con l’URSS).142 Alle 17 si recò al tradizionale appuntamento bisettimanale con il re, presentandosi a villa Savoia in completo blu spiegazzato.143 Per contro, Vittorio Emanuele III era in uniforme, come si addiceva a un vecchio «re soldato». Con un atteggiamento che sembrava una spettrale replica delle procedure tipiche della crisi di un governo liberale, Mussolini informò il re del successo della mozione Grandi. In risposta Vittorio Emanuele, dopo aver parlato del caldo estivo, aggravò la depressione del Duce dicendogli che era diventato «l’uomo più odiato d’Italia». Stando così le cose, proseguì, aveva deciso che come capo del governo gli subentrasse Badoglio.144 Al termine dell’incontro Mussolini si diresse verso la sua automobile, ma un ufficiale, il capitano Paolo Vigneri, lo intercettò e lo fece trasferire all’ospedale militare e, quindi, verso la prigionia.145 La regina Elena, montenegrina di nascita, temeva le conseguenze di quel gesto: profetizzò che non sarebbe venuto alcun bene alla casa reale dall’aver infranto le leggi dell’ospitalità.146 L’ammiraglio Franco Maugeri scortò Mussolini all’isola di Ponza, in quella che in pratica era una sorta di confino. Secondo i ricordi di Maugeri, Mussolini «indossava un completo frusto di serge blu, spiegazzato e non stirato; sembrava che avesse dormito in quella tenuta per parecchi giorni, e forse era vero». Quello che fino a poche ore prima era stato un dio, adesso sembrava un «triste, distorto, addirittura patetico clown».147 Così caddero, almeno per la prima volta, il fascismo e il suo Duce.
A Ponza gli antifascisti Pietro Nenni e Tito Zaniboni stavano ancora aspettando di essere liberati, ma Mussolini fu sistemato in una casa fatiscente lontana dal borgo principale, che era stata il domicilio coatto del ras etiopico Immerù. Ponza era però insicura dal punto di vista militare, così il 7 agosto Mussolini fu trasferito alla base navale della Maddalena, al largo delle coste della Sardegna. Anche qui il suo soggiorno fu di breve durata. Il 28 agosto fu condotto alla stazione sciistica dal suggestivo nome di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, a 2000 metri di altezza, in quella che Mussolini definì «la più alta prigione del mondo».148 Dietro questi improvvisi spostamenti c’era, da parte delle nuove autorità italiane, la paura dei tedeschi. In effetti i nazisti erano impegnati in una caccia al Duce che, nei suoi aspetti grotteschi, prefigurava l’assurda ricerca del cadavere di Mussolini condotta nel 1946.149 Himmler assoldò un astrologo nella speranza di avere indicazioni sulla sorte di Mussolini,150 ma le più ortodosse tecniche dei servizi segreti nazisti ebbero più successo nello scoprire il luogo in cui era recluso il vecchio alleato dell’Asse. I tedeschi avviarono così i preparativi per la sua liberazione.
Nel periodo del confino a Ponza Mussolini sembrò avvicinarsi alla fede cattolica (anche se occorre tener presente che il parroco locale era probabilmente l’unica persona con cui poteva scambiare due parole, e che lui era un maestro nell’arte di dire agli interlocutori ciò che desideravano sentire). Poiché comunque non cessava, almeno in parte, di essere il professor Mussolini, iniziò a tradurre in tedesco le Odi barbare di Giosue Carducci.151 Alla Maddalena ricevette (in ritardo) il regalo che Hitler gli aveva fatto per il suo sessantesimo compleanno: i ventiquattro volumi delle opere di Nietzsche (Mussolini disse di averne letti quattro prima che intervenissero altri eventi).152 L’ex Duce scrisse alla sua famiglia chiedendo a Rachele biancheria pulita e «dei libri»153 e dicendole che la sua coscienza era tranquilla: «Ho lavorato per ventuno anni, senza riposo, con assoluto disinteresse, con perfetta lealtà».154 Particolarmente rivelatrice è la corrispondenza con la sorella Edvige, alla quale confidò di considerarsi un «defunto, un mucchio di ossa e muscoli in fase di deperimento organico». Avrebbe desiderato un funerale religioso, ma chiedeva, anche se in quelle circostanze non era necessario, che non gli fossero resi onori ufficiali.155
Durante la prigionia le condizioni di salute di Mussolini continuarono a peggiorare. A Ponza, dove festeggiò un malinconico sessantesimo compleanno, subì un violento attacco di mal di stomaco, ma sembrò trarre giovamento dai nuovi farmaci.156 Tutto faceva pensare che fosse un condannato a morte in attesa dell’esecuzione.157 Alla Maddalena si lamentava del cattivo stato di salute, che attribuiva al clima della Sardegna.158 Dopo il trasferimento a Campo Imperatore cadde nell’abulia: preferiva giocare a scopone anziché leggere, cenava alle sette di sera e si animava soltanto quando poteva parlare della propria condizione fisica.159 Pare avesse espresso l’intenzione di tagliarsi le vene piuttosto che cadere nelle mani degli Alleati,160 sebbene l’abituale passione del Duce per l’iperbole lasci più di qualche dubbio sui suoi reali propositi suicidi.161
Mentre Mussolini era così concentrato su se stesso, il governo di Badoglio e del re brancolava nel tentativo di uscire da quella che adesso veniva considerata la «guerra fascista». Il 3 settembre 1943 fu raggiunto l’accordo con i negoziatori alleati e, cinque giorni dopo, fu dichiarata ufficialmente la resa.162 Seguì il disastro, perché i tedeschi, a partire da luglio e forse anche prima, avevano esteso il loro controllo de facto sulla maggior parte della penisola. All’alba del 9 settembre Vittorio Emanuele e il suo governo, preoccupati per la propria incolumità ma non per quella del loro popolo, fuggirono, lasciando Roma e tutta l’Italia settentrionale e centrale nelle mani dei nazisti. Nel mezzo di questi avvenimenti così caotici il 12 settembre Mussolini fu liberato da una squadra di SS comandata dal colonnello austriaco Otto Skorzeny, che aveva ricevuto personalmente l’incarico da Hitler subito dopo il 25 luglio.163 Durante l’assalto i carcerieri di Mussolini, che da cinque giorni non ricevevano più comunicazioni da Roma, non spararono un solo colpo per fermare i tedeschi. Mussolini fu caricato in fretta su un aereo monoposto che, dopo un avventuroso decollo, lo depositò sulla pista d’atterraggio di un aeroporto controllato dai tedeschi a Pratica di Mare. Di là, sempre in aereo, fu trasferito a Monaco per un incontro con Hitler e per una riunione con i familiari che, seguendo percorsi differenti, si erano recati nella città simbolo del nazismo. Il 18 settembre si era già ripreso a sufficienza per trasmettere da Monaco la notizia del suo salvataggio e quella che avrebbe punito il re e i suoi collaboratori. «Solo il sangue» dichiarò «può cancellare una pagina così obbrobriosa nella storia della patria.» La guerra continuava e i traditori dovevano essere «eliminati». Le «plutocrazie parassitarie» dovevano subire il loro destino. I contadini, gli operai e i piccolo-borghesi si potevano unire alla causa di un fascismo ancor più forte.164 Secondo il resoconto che Mussolini pubblicò in seguito sui giornali, da luglio a settembre aveva conosciuto «calvario e resurrezione».165
La metafora poteva essere banale, ma quasi subito dopo il 1945166 i simpatizzanti del fascismo dichiararono che, in risposta ai fatti dell’8 settembre, il Duce aveva eroicamente deciso di offrire il proprio corpo al popolo italiano per salvarlo da quella che altrimenti sarebbe stata una vendetta terribile da parte dei tedeschi per il «tradimento» subìto. In quest’ottica il nuovo Stato repubblicano costituito sotto la guida di Mussolini era visto come «la Repubblica necessaria».167 Dopo la caduta del Muro di Berlino questa tesi fu riproposta da valenti storici, sull’onda di una rilettura del fascismo in chiave «revisionista» che è continuata fino a oggi.168 L’immagine dello statista che si offre in ostaggio ai nazisti per proteggere il suo popolo dal terrore e dall’orrore è ovviamente ricorrente nella letteratura su Henri-Philippe Pétain e sulla Francia di Vichy. Tuttavia, sia per la Francia sia per l’Italia, continua a non essere convincente. Non vi è dubbio che Mussolini abbia vissuto gli eventi di quei giorni, tanto la prigionia quanto la liberazione, come se si trovasse in uno stato di sonnambulismo. Escluso il suicidio, cos’altro poteva fare se non unirsi ai tedeschi? La sua passività non deve quindi essere confusa con l’intenzionalità o lo spirito di sacrificio. Mussolini accettò il comando della RSI non solo perché non aveva alternative, ma anche perché coltivava ancora ambizioni politiche. Rimaneva pur sempre fascista e «amico del Führer», e preferiva continuare a essere amico dei nazisti piuttosto che loro nemico. Anche la paura, sentimento certo meno nobile, ebbe il suo ruolo nelle scelte del Duce, convinto che gli inglesi l’avrebbero rinchiuso nella Torre di Londra o l’avrebbero confinato su un’isola deserta169 (l’associazione con il destino del grande Napoleone deve essergli certo balenata nella mente). Alla base delle sue scelte vi fu, molto semplicemente, il timore del processo, dell’umiliazione e dell’esecuzione. Meglio stare con i tedeschi, che conosceva, anziché con gli anglo-americani, che poteva solo immaginare. Meglio per Benito Mussolini, e tanto peggio per gli altri.
Il Duce, condotto a nord dai suoi salvatori, «fisicamente era la rovina di se stesso»170 o, quantomeno, era psicologicamente a pezzi. Fu quindi affidato alle cure di un’équipe di medici tedeschi che faceva capo all’eccentrico Theodor Morell, il dottore personale del Führer. Come raccontò uno di loro, Georg Zachariae, nelle sue memorie, al suo arrivo in Germania il Duce venne sottoposto a una serie di controlli clinici. Gli esami attestarono che soffriva di ulcera duodenale, che aveva il fegato ingrossato e l’intestino parzialmente bloccato, cosa che lo costringeva a far uso di lassativi. Non vi erano indizi della presenza di un cancro, il cuore e le arterie funzionavano regolarmente, anche se la pressione sanguigna era piuttosto bassa. Fu visitato anche da un neurologo, il quale non rilevò alcuna anomalia. Non vi era traccia di sifilide e, a una precisa domanda in proposito, Mussolini negò recisamente di esserne mai stato affetto.171
Tuttavia, una volta tornato in Italia, il Duce accusò nausea, depressione e insonnia. Alla prima riunione, nell’ottobre 1943, il suo nuovo segretario notò che sedeva con la cintura slacciata e che, durante la conversazione, si portava la mano allo stomaco per alleviare il dolore.172 Dalla Germania fu chiamato il dottor Zachariae, il quale rimase impressionato dalle condizioni del dittatore italiano. Lo trovò accasciato su un divano, con indosso la camicia e una veste da camera sudicia. Mussolini lo accolse mormorando: «Così, vede in che stato sono?».173 Gli raccontò che soffriva di ulcera da «venti anni» e che dal 1940 la situazione era peggiorata. «Lo tormentavano, specialmente due o tre ore dopo i pasti e durante la notte, dei crampi allo stomaco, come se qualcuno gli premesse contro il pugno con tutte le forze.» Non poteva dormire ed era terrorizzato dall’avvicinarsi della notte. Soffriva di stitichezza e faceva uso di forti lassativi. Mangiava pochissimo, di certo non abbastanza – a parere del medico tedesco – per sopportare il carico di lavoro. Insomma, era «una rovina di uomo, che evidentemente si trovava sull’orlo della tomba».174 Forse la biliosa visione mussoliniana del mondo e dell’umanità era davvero dovuta, almeno in parte, alla sua cattiva digestione.
I medici italiani lo avevano messo a stecchetto: tè, pane biscottato, un po’ di frutta cotta e di latte; per un certo periodo aveva bevuto due litri d’acqua bollita al giorno. Ma questa dieta aveva solo aggravato la stitichezza. Zachariae, da buon allievo di Morell, vantava invece i benefici effetti delle vitamine (benché nelle sue memorie neghi di aver seguito alla lettera i consigli del maestro).175 Stando al referto del medico tedesco, l’incremento delle vitamine e l’eliminazione del latte dalla dieta portarono un giovamento immediato all’illustre paziente. In effetti, sempre secondo Zachariae, all’inizio del 1944 il Duce era in discreta forma, tanto da poter mangiare un po’ di carne bianca o di pesce, limitando lo zucchero ai soliti piatti di frutta cotta. Intanto continuava ad assumere vitamine B e C in dosi massicce, in compresse o per iniezione. Recuperò peso e un colorito migliore, cominciò ad andare in bicicletta e a giocare a tennis per un’ora e mezzo ogni mattina. Zachariae ricordava come Mussolini ringraziasse cortesemente chiunque gli correggesse gli errori che commetteva parlando le lingue straniere.176 Avrà forse rimpianto i tempi in cui la sua più grande ambizione era quella di diventare professore di lingue? A parte una continua debolezza dovuta alle infreddature e una persistente stanchezza,177 il Duce rimase in buona salute fino al febbraio 1945, quando ebbe un nuovo crollo che si manifestò con perdita di peso, dolori di stomaco, una profonda depressione ai limiti dell’apatia e, infine, «un grave attacco nervoso», un vero e proprio esaurimento.178 Dopo averlo visitato la prima volta, Zachariae ipotizzò che le precarie condizioni di salute del dittatore potessero aver influito sulle sue decisioni, probabilmente fin dal 1940.179 Nel 1945 sembrava di nuovo ridotto a un cadavere ambulante.
Durante i mesi in cui le condizioni di salute del Duce erano migliorate, la famiglia non gli era stata di grande conforto. Nonostante i funzionari si fossero dati da fare per garantire che villa Feltrinelli avesse una sufficiente disponibilità di caffè, che vi venissero recapitati tre vagoni di libri, che il campo da tennis fosse sistemato con sacchi di «terra rossa» e che una manicure si prendesse cura dell’augusto cliente,180 l’atmosfera in casa Mussolini si fece pesante. Rachele, ferocemente determinata alla vendetta contro coloro che avevano «tradito» suo marito in luglio, aveva indirizzato la propria ostilità contro il genero, il rampante giocatore di golf.181 Nacquero alcuni problemi anche con il giovane Romano, futuro pianista jazz. Forse per nascondere gli insuccessi scolastici (nel 1942 gli insegnanti avvisarono la famiglia che il ragazzo aveva urgente bisogno di un sostegno per superare le difficoltà di concentrazione)182 insisteva a suonare il boogie-woogie a tutto volume, ignorando l’esplicita disapprovazione dei padroni di casa tedeschi. Come se non bastasse, accusò in pubblico il padre di parlare a vanvera quando affermava di leggere in originale le citazioni greche contenute nelle opere di Nietzsche.183 Anche dentro le mura domestiche era difficile sfuggire alle piccole e grandi menzogne del fascismo. L’aspetto deprimente della residenza in cui si era stabilita la famiglia non contribuì ad accrescere la benevolenza di Mussolini verso i suoi collaboratori, che, dal primo all’ultimo, dichiarò nell’ottobre 1943, erano «insetti», creature che prolificano «nella carcassa di un animale grande».184 Quasi per abitudine egli aveva intanto ripreso a svolgere le sue quotidiane incombenze professionali, dedicando molto tempo alle «udienze». Nel corso di una giornata incontrava una ventina di collaboratori, in sedute che duravano dai quindici ai trenta minuti ciascuna.185 Il carattere surreale di gran parte di quelle conversazioni non contribuiva certo a sollevare lo spirito di Mussolini o ad attenuarne la misantropia.
Non stupisce quindi che la RSI sia stata permeata dalla contraddizione, dalla corruzione, dall’incompetenza e, al tempo stesso, un’istituzione incline ad accettare e a praticare la violenza più brutale. Fu proprio in quegli anni, tanto per fare un esempio, che la «banalità del bene» appassì e i fascisti italiani divennero i diretti esecutori della «soluzione finale». Circa 7500 ebrei furono rastrellati, in genere da italiani, e inviati all’Est perché si compisse il loro destino. Ne sopravvissero soltanto 610.186 In novembre i fautori del nuovo Stato, riunitisi a Verona, redassero un Manifesto che dichiarava brutalmente, ancorché in modo un po’ confuso, che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».187 Nel frattempo un decreto pubblicato a firma del ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi ordinò la concentrazione di tutti gli ebrei nei campi di prigionia e il sequestro dei loro beni.188
Il fatto che Mussolini non assumesse personalmente l’incarico di ministro dell’Interno rivela tanto la fragilità del suo mito e del suo potere all’interno della Repubblica sociale, quanto la solita incapacità di delineare con chiarezza il rapporto fra Stato e partito. I fascisti più irriducibili (e calcolatori), come Farinacci, chiedevano a gran voce che il partito si liberasse dalle pastoie della burocrazia statale, secondo il modello del fascismo diciannovista e quello vigente nella Germania nazista. Di fronte a tale critica Mussolini si rifugiò un’altra volta nelle parole, lagnandosi di essere stato tradito in passato dagli «uomini» e sostenendo che l’idea fascista non aveva nulla di sbagliato, semmai era solo da approfondire ulteriormente (sarebbe riuscito il Mussolini professore e filosofo – si chiedeva – a meritarsi dalla storia un voto migliore di quello che avrebbero verosimilmente ricevuto il signore della guerra e il dittatore?).189 Si fece un gran parlare di «allargare e perfezionare» e di «socializzazione»,190 un’idea che Mussolini aveva a suo tempo deriso,191 ma che ora era adeguata a un populismo disperato che cercava di guadagnare al nuovo governo il consenso popolare. Propugnare un radicale livellamento aveva inoltre il vantaggio, certamente intuito da Mussolini – il quale pregustava la prospettiva di una vendetta postuma –, di lasciare in eredità al paese «mine sociali»192 che avrebbero potuto destabilizzare qualunque organizzazione statale fosse succeduta alla dittatura fascista.
Alcuni italiani furono attratti dal nuovo regime in genere per un misto di patriottismo ferito dai fatti dell’8 settembre, di giovanile spirito di avventura o di malvagio impegno a favore di un’Europa fascista e da una tradizionale brama di fare i signori della guerra o i viziati servitori di un signore della guerra (tutti questi motivi potevano a volte assumere l’aspetto di un sopravvissuto amore per il Duce).193 Altri italiani, viceversa, erano già in marcia verso le montagne per arruolarsi nelle prime formazioni della Resistenza armata antifascista. La grande maggioranza della popolazione non parteggiava né per l’uno né per l’altro schieramento, ma sperava soltanto che la tragedia della guerra non facesse irruzione nella vita quotidiana. Quasi tutti appresero la prima lezione degli eventi del 1943: «Qui non si crede più a nulla».194 Un messaggio che echeggia ancora, all’inizio del nuovo millennio, nell’animo degli italiani.
Per Mussolini il dilemma principale era quello più semplice di riuscire a convivere con se stesso e con l’enormità del suo fallimento per trovare una terza via politica: fare delle masse italiane una nazione e innalzare quest’ultima al livello delle grandi potenze. Nell’esercizio del potere il Duce aveva conservato una certa attitudine alla manipolazione, nonché la consapevolezza di dover coprire un’eventuale ritirata. Ora, invece, sembrava che né lui né nessun altro potesse aspirare a definire una linea politica indipendente. La sua invidiosa ammirazione per Hitler poteva ancora indurlo a dire ai suoi uomini che il Führer era «un mistico alla testa di un grande Stato moderno. Quale avventura per la Germania!»,195 ma era altrettanto incline a lamentarsi dello scarso spirito combattivo del popolo italiano. Farinacci, così a lungo tollerato come simpatica canaglia, aveva tentato in settembre di arruolare i tedeschi alla propria causa – e porsi alla guida della nuova Italia – con l’unico risultato di scoprire che lo schizzinoso Hitler nutriva un’antipatia personale nei suoi confronti.196 Erano finiti i giorni in cui il ras cremonese era l’uomo che poteva rivelare a Mussolini molte verità: in presenza del Duce egli venne sarcasticamente congedato come «il Gauleiter».197 Una volta stabilitosi a Gargnano Mussolini trovò, al posto di Farinacci, un nuovo, ultimo amico in Nicola Bombacci, che, come lui, aveva rinnegato il socialismo, sia pur in tempi più recenti, senza però abbandonarne completamente gli ideali.198 Durante le loro frequenti conversazioni Mussolini ebbe forse modo di convincersi che nemmeno lui si era lasciato davvero comprare e rivendere dalla borghesia.
Nell’ultimo decennio il volto borghese del fascismo era stato impersonato, per conto del Duce, dal genero Galeazzo Ciano. Nei momenti del successo e in quelli di difficoltà del regime, i due avevano formato una strana coppia che, contro ogni aspettativa, era riuscita a fare fronte comune sul piano politico. Ma ora Ciano, il «traditore di luglio» più a portata di mano, era odiato dai tedeschi e dagli altri dirigenti della RSI, in particolare da Pavolini, segretario del neocostituito Partito fascista repubblicano. Poiché, fino a luglio, le loro posizioni e i loro atteggiamenti erano stati molto simili, Pavolini era più che mai deciso a volere la testa dell’ex amico. Anche Rachele pretendeva la pena capitale per il genero. Mussolini, da parte sua, tentò debolmente di placare l’astio nei confronti di Ciano, dicendo in ottobre al suo segretario amministrativo che egli non era migliore né peggiore degli altri. Commentò con realismo che l’ex ministro degli Esteri era il bersaglio di tutti solo perché non potevano condannare il Duce in persona.199 Gli insuccessi di Ciano, ammise, erano i suoi.
E infatti Mussolini era colpevole di ciascuno dei peccati di commissione e di omissione che potevano essere imputati a Ciano e a Farinacci. Aveva predicato una rivoluzione che non eliminasse né la proprietà privata né la famiglia e le gerarchie a essa associate. Aveva tentato di essere cattolico e non cattolico, romagnolo, italiano e universale, populista ed elitario, economista ortodosso e fautore dell’assistenza sociale, razzista e realista. Per anni, per molti anni, il trucco aveva funzionato. Aveva goduto di un’adulazione che oggigiorno è concessa solo ai campioni dello sport e ai divi dello spettacolo. Si era visto attribuire un carisma illimitato. Aveva creato un «Impero italiano». Eppure si può dire che, sebbene circondato da folle osannanti, non abbia mai trovato una vera soddisfazione personale. In casa Rachele e Edda lo facevano sentire sempre più a disagio. Claretta poteva ogni tanto confortare il suo corpo, mai la sua mente. Il dolore allo stomaco continuava a tormentarlo. E adesso, in quel surrogato di nuova repubblica, doveva vivere nel grigiore dei laghi settentrionali e compiere tutti i gesti del potere pur sapendo, in ogni istante, di essere ridotto al livello che ben sintetizzò dicendo «valgo meno del podestà di Gargnano»200 oppure «stiamo costruendo sulle sabbie mobili».201 Ma anche in queste affermazioni Mussolini non faceva che ingannare se stesso. Nel 1943-44 era diventato un «dittatore fantoccio», un condottiero senza un vero esercito, un fascista la cui ideologia era stata usurpata dal suo «mistico» partner nordico, nulla più di un ossimoro storico. Ora tutte le vane parole sul misticismo del regime, la sua appassionata militanza, gli presentavano il conto. Il Mussolini fallito di quei giorni era lo stesso che nel gennaio 1944 lasciò vigliaccamente andare il genero a morire al suo posto e che in seguito guidò la fase peggiore della guerra italiana, un evento di poco conto se paragonato all’inferno dell’Est, ma che causò comunque la morte di oltre 200.000 suoi connazionali. Anche per lui, nell’aprile 1945, la seconda guerra mondiale giunse – finalmente e misericordiosamente – al termine. Per quest’uomo, che un tempo era stato il primo della classe e non aveva mai mancato di intelligenza, la ricompensa per il suo cinismo e il suo darwinismo, le sole idee che ancora sopravvivevano nella sua mente confusa, furono soltanto il disonore e la morte.
a Personaggio malvagio, metà uomo e metà bestia, creato dal vignettista e umorista americano Theodor Seuss Geisel (Doctor Seuss), protagonista della nota favola Come il Grinch rubò il Natale (1957).