Dopo che Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci furono uccisi a Giulino di Mezzegra, i loro cadaveri e quelli degli ultimi collaboratori – Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini, Paolo Zerbino e Luigi Gatti, segretario personale del Duce – furono gettati sul cassone di un autocarro. Durante la notte il veicolo li trasportò lungo i 60 chilometri che separano il lago di Como da Milano. Secondo lo storico Sergio Luzzatto: «Davanti al cancello della villa Belmonte di Giulino, il pomeriggio del 28 aprile 1945, una storia si chiude: quella del corpo vivo del Duce. E un’altra storia si apre: quella del suo corpo morto».1

Nel capoluogo lombardo, ai cadaveri di Mussolini e dei suoi collaboratori si aggiunsero quelli di Roberto Farinacci,2 ucciso mentre stava fuggendo con l’aristocratica amante, e di Achille Starace. Quest’ultimo era riuscito a sbarcare il lunario a Milano conducendo una vita da pensionato e pranzando alla «mensa di guerra»; esibiva un ultimo, debole slancio fascista facendo jogging nelle vie della città, ignorato ed evitato da tutti, e aveva compreso solo in parte quanto stava accadendo al regime, al paese e a se stesso.3

A Milano la meta dei partigiani era piazzale Loreto, nei pressi della stazione Centrale, un’anonima piazza su un lato della quale c’era un distributore di benzina. Oggi al suo posto c’è un rugginoso monumento alla Resistenza, ma in compenso gli amanti del fast food possono saziare il loro appetito nel McDonald’s al secondo piano di un edificio che domina lo slargo, contemplando da lì i «veri» vincitori di tutte le seconde guerre mondiali.

La scelta di piazzale Loreto non era stata casuale. La mattina del 10 agosto 1944 quindici partigiani catturati dai tedeschi erano stati fucilati come rappresaglia per i bombardamenti alleati e le incursioni della Resistenza. Per l’orrore dei cittadini, i cadaveri furono poi esposti nella pubblica piazza; alcune donne, si disse, mosse a pietà da quello spettacolo avevano cosparso di fiori i miseri resti. Le autorità della RSI, pubblicamente e privatamente, tentarono di declinare ogni responsabilità di quella barbarie. Un alto funzionario lamentò che quella palese crudeltà avrebbe giovato solo agli Alleati.4 Lontano dal teatro degli eventi, a Salò, una volta informatone Mussolini mormorò: «Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo molto caro».5 Questa dichiarazione, tuttavia, non va presa troppo alla lettera. I nazisti erano a Milano come amici e alleati dello Stato fascista e risulta difficile credere che il Duce e i suoi colleghi potessero stupirsi della loro determinazione a compiere rappresaglie così cruente. In ogni caso, piazzale Loreto non fu l’unico luogo in Italia dove i nazisti praticarono il terrore pubblico, ma fu quello che gli italiani avrebbero ricordato per un duplice motivo.

Il secondo momento di orrore in piazzale Loreto sarebbe stato diverso dal primo. Se gli stereotipi nazionali giocano un qualche ruolo all’interno della storia, allora si può dire che fu un evento più «italiano» che «tedesco». L’autocarro che portava i cadaveri di Mussolini e degli altri camerati giunse a Milano nelle prime ore della mattina del 29 aprile, senza che i capi della Resistenza avessero stabilito cosa fare di quelle che qualcuno poteva considerare le sacre reliquie del dittatore. I partigiani venuti dal lago di Como, invece, avevano idee più chiare in proposito e, una volta giunti sul piazzale, scaricarono i cadaveri per terra, davanti a una fila di manifesti di spettacoli cinematografici e teatrali.6 Presto si sparse la notizia che il vero spettacolo si sarebbe svolto direttamente lì, nella piazza.

Nell’alba primaverile gli abitanti del quartiere, le cui vite erano state sconvolte dalla guerra, cominciarono a radunarsi spontaneamente. Era giunto il momento in cui potevano mostrare quel che pensavano della tirannia di Mussolini, della guerra disastrosa, dei gerarchi, o soltanto della caduta di un dittatore. Finalmente Mussolini, defunto, poteva essere aggredito senza timore. La gente non si limitò a lanciare invettive contro l’ex tiranno e a sputare sui suoi resti, ma lo picchiò con bastoni e a mani nude. Le donne della zona, si racconta, gli orinarono addosso. I quindici giustiziati del 1944 erano stati vendicati e la fine del dittatore resa umiliante e ignominiosa. Lo fotografarono riverso sopra l’amante e con in pugno, a mo’ di scettro, un gagliardetto fascista. In quell’immagine assomigliò per un momento a un sovrano morto o deposto, che stringe disperatamente, ma senza rimorsi, il vuoto (ancorché fallico) scettro del potere. Poi, per umana misericordia, il suo cadavere fu appeso al traliccio di ferro del distributore di benzina. Materia cerebrale fuoriusciva dalla profonda ferita aperta sul lato destro del capo. A fianco del Duce penzolava il corpo di Claretta Petacci, devota anche oltre la morte, nella sua ingenua banalità, all’amato «Ben». Un «uomo rispettabile» o, secondo alcuni, un sacerdote caritatevole le aveva tirato su le sottane in modo che, appesa com’era a testa in giù, non esponesse troppo le sue grazie al furioso e spietato pubblico.

Sergio Luzzatto ha interpretato la natura macabra di questa scena come «una festa della morte» che lasciava un retaggio pesantemente negativo alla Repubblica italiana.7 Nel dare questa interpretazione Luzzatto seguiva una linea di partito. L’attuale storiografia conservatrice italiana è impegnata infatti in una campagna di deideologizzazione del passato per meglio adattarlo al presente deideologizzato in cui viviamo, o dobbiamo vivere, dopo la «fine della storia». Allo stesso modo nel 1945 i più consapevoli tra gli ex fascisti rimasero turbati dalla «tremenda ferocia» manifestata dal popolo8 e senza dubbio avranno pensato di dover ringraziare Dio se non avevano fatto la medesima fine.

Ma è possibile anche un’altra lettura di piazzale Loreto. Non è un caso che la fine di Mussolini sia avvenuta proprio in quella piazza. Il ragazzo di Dovia aveva compiuto il percorso che da Predappio, Forlì, Milano e Roma lo aveva riportato a Milano, la città dove suo fratello aveva lavorato ed era morto. Prima del 1914 il capoluogo lombardo era già diventato la base principale del suo potere. I banchieri e gli uomini d’affari milanesi lo avevano aiutato quando ne aveva avuto bisogno e l’avevano abbandonato solo quando la guerra era chiaramente perduta. Nel 1943-45 Mussolini aveva sperato che Milano potesse in qualche modo diventare la capitale della RSI,9 ma forse la sua architettura era un po’ troppo germanica, troppo evocativa dei tempi del potere asburgico, troppo simile al Trentino per i gusti del fantasma del Duce. Per contro, la città era vicina all’Europa, a Parigi, cioè al gran mondo dove il giovane Mussolini aveva immaginato il proprio futuro. Roma, l’Africa e tutto il resto si erano rivelate solo illusioni. Milano era il posto adatto a ospitare la morte di Benito Mussolini o, almeno, a darle una dimensione pubblica.

Lo «spettacolo» di piazzale Loreto non fu così «poco edificante» come pensa Luzzatto. I fatti del 29 aprile non furono l’esatta replica delle parate e dei discorsi di piazza Venezia a Roma.10 Il rito della morte del Duce fu piuttosto di quelli che i tiranni sconfitti si sono spesso attesi dalla storia. Le reazioni degli italiani furono indubbiamente violente ma, rispetto a ciò che il regime fascista aveva inflitto loro, alle loro famiglie e a tutte le altre sue vittime, non furono particolarmente crudeli. Il paragone più significativo è con le circostanze della morte di Hitler nel bunker berlinese. Il 5 maggio il vecchio patrono di Mussolini Giuseppe Prezzolini – che durante la seconda guerra mondiale aveva vissuto a New York, ma conservava la capacità di leggere fra le righe della storia – scrisse nel suo diario: «Hitler è morto con decenza e con mistero, come si addice a un dio dei Nibelunghi. Sembra un simbolo in opposizione a Mussolini, ammazzato in una rissa d’osteria».11 Il Führer affrontò la morte in una sorta di Gotterdämmerung, circondato dal fuoco e dagli ultimi ritrovati della tecnologia bellica, e lasciò come unico reperto utile per la sua identificazione l’arcata dentaria. La morte di Mussolini fu più convenzionale, più riconoscibile, e meno «moderna», come si addiceva a un uomo che, pur essendosi macchiato di molti crimini, non aveva tradito fino in fondo l’umanità.

Occorre dire, però, che non era solo il popolo, nel suo disprezzo spontaneo e violento, a voler mettere le mani sul Duce morto. Dopo piazzale Loreto, il cadavere fu portato all’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano.12 Là venne pietosamente ripulito e misurato: da morto, Mussolini pesava 72 chilogrammi e misurava un metro e 66 centimetri.13 Il corpo dovette subire l’insulto postumo dell’autopsia. Anche le autorità militari americane pretesero la loro parte: con precisione chirurgica, malgrado la folla radunatasi persino nell’ospedale, i medici prelevarono un campione del cervello del Duce e lo inviarono in patria perché fosse analizzato. Gli americani, irritati al pensiero che qualcuno potesse dubitare della bontà dei propri ideali, erano convinti che Mussolini fosse semplicemente «pazzo». La follia, secondo loro, era stata causata dalla sifilide contratta in gioventù (benché fino ad allora avessero risparmiato al Duce la psicoanalisi in absentia che alcuni loro specialisti avevano compiuto su Hitler durante la guerra).14 Ora attendevano dalla scienza medica la conferma delle loro ipotesi.

Presto, però, gli Stati Uniti si trovarono impegnati nella guerra fredda, cosicché Mussolini perse d’importanza tra le figure della loro demonologia. In ogni caso, le analisi attestarono nuovamente che il Duce non era affetto da sifilide. La scienza, da sola, non era in grado di fornire una spiegazione della sua politica. Risolta la questione, o meglio concluso l’esame del tessuto cerebrale di Mussolini, i campioni furono conservati per anni presso l’ospedale psichiatrico St Elizabeth di Washington, finché, forse volendo fare le pulizie di primavera, si decise di liberarsene. Il 25 marzo 1966 furono restituiti a Rachele «in sei provette di vetro racchiuse in una cassetta di legno, con i complimenti dell’ambasciatore americano a Roma».15 A quanto pare, la targhetta sul contenitore attribuiva i resti di materia cerebrale a un certo «Mussolinni».16

Esentato dal soggiorno americano, quanto restava del cadavere di Mussolini venne prelevato dall’Istituto di medicina legale e ricevette una frettolosa e anonima sepoltura nel cimitero di Musocco, allora fuori Milano.17 La tomba aveva come unico contrassegno il numero 384.18 La famiglia Mussolini, a quel tempo dispersa, non fu autorizzata a portare il lutto. Il corpo, però, non era ancora destinato ad avere pace.

A mezzanotte del 22 aprile 1946 Domenico Leccisi, un nostalgico del regime, penetrò nel cimitero con il proposito di trafugare, con l’aiuto di due amici, il cadavere. Lo stesso Leccisi ammise in seguito che la sua impresa fu piuttosto maldestra. Innanzitutto, a riprova dell’estrema disorganizzazione, la tomba del Duce fu trovata solo alle 2.30 del mattino, cioè due ore e mezzo dopo l’ingresso nel cimitero. Poi il terreno si rivelò duro come la pietra, sicché l’operazione di scavo fu faticosa e rumorosa (ci volle più di un’ora e mezzo per cominciare a intravedere la bara). Alla fine Leccisi saltò nella fossa, forzò la cassa e l’aprì, scoprendo il volto in decomposizione di Mussolini atteggiato, così almeno gli parve, in un triste sorriso.19 Il corpo dell’ex dittatore era avvolto in un lenzuolo da cui si riuscì a liberarlo con grande difficoltà. Poiché era pesante e ingombrante, si poneva il problema di come trasportarlo fuori dal cimitero. L’alba era ormai vicina quando i profanatori scoprirono una carriola da giardiniere, sulla quale depositarono il loro tesoro. Leccisi ricordò la propria inquietudine quando, appena la carriola si mosse, spuntò da un lato la testa ciondolante di Mussolini.20 Poiché, per pietà o fanatismo, aveva progettato l’impresa in modo che assomigliasse a una risurrezione pasquale, aveva pensato di lasciare il luogo della sepoltura con la solennità e la compostezza di un funerale. In realtà la partenza fu frettolosa e alcuni frammenti di carne e ossa del Duce caddero lungo il muro di cinta del cimitero, alto due metri.21 Come se non bastasse, mentre si arrampicava sul muro uno dei trafugatori perse l’equilibrio, precipitò a terra e il cadavere gli cadde addosso. Dopo aver ricomposto alla meglio il loro Duce e se stessi, Leccisi e i suoi amici infilarono il corpo nel bagagliaio dell’auto e partirono a tutta velocità nella luce del mattino.22

Per tener fede agli scopi della loro impresa avevano lasciato sul posto un po’ di materiale propagandistico del Partito fascista democratico, un piccolo gruppo che faceva capo proprio a Leccisi. Fu diramato anche un comunicato stampa che recitava: «Musocco, i morti hanno messo le ali».23 Era vero che, durante le ultime fasi della guerra, un predicatore americano aveva scoperto che Mussolini era l’Anticristo (sostenendo che il motto VIVA IL DUCE nascondeva il numero 666, il simbolo di Satana) e ne aveva predetto la risurrezione,24 ma non aveva certo previsto il metodo scelto da Leccisi per riportarlo tra i vivi.

Nonostante l’impresa del trafugamento, Leccisi e i suoi amici non erano destinati a passare alla storia. A parte questo, la scomparsa del corpo del Duce ebbe un certo impatto sui media italiani, a quel tempo immersi nell’infuocato dibattito sul referendum che, il 2 giugno, avrebbe deciso di fare finalmente dell’Italia una repubblica. In una farsesca riedizione dei tragici eventi di cui nel 1924 era stato protagonista Giacomo Matteotti, la sorte del cadavere di Mussolini divenne una questione di interesse pubblico. Impegnate in una ricerca che somigliava a un episodio di The Keystone Cops,a con i suoi buffi e sprovveduti poliziotti, le autorità giudiziarie e la polizia italiane impiegarono cento giorni per ritrovare il corpo del Duce, mentre le voci sulla vicenda diventavano sempre più bizzarre. C’era chi credeva che la salma di Mussolini sarebbe stata esposta sull’Altare della Patria a Roma, a coronamento dei festeggiamenti per il primo anniversario della fine della guerra. Altri temevano che Churchill, il cui nome in quegli anni era stato spesso associato a quello del Duce, avesse ordinato che il cadavere fosse trasferito al di là della Manica per motivi non meglio precisati. La polizia, sopravvalutando i propri avversari, era sicura che i trafugatori fossero «persone abituate ad avere contatti con i cadaveri: becchini o tecnici di medicina legale», e che disponessero di considerevoli mezzi finanziari.25

Malgrado tali fantasticherie, le autorità rivolsero ben presto le loro attenzioni ai pochi e inesperti militanti del Partito fascista democratico e procedettero a qualche arresto.26 Ciononostante, mentre la data del referendum si avvicinava e poi passava, non riuscirono a risolvere il caso. Il 31 luglio Leccisi fu catturato a Milano, ma resistette all’interrogatorio. Infine, l’11 agosto due preti di simpatie fasciste – i padri Enrico Zucca e Alberto Parini, fratello di Piero, esponente della Repubblica di Salò – confessarono di aver collaborato all’occultamento dei resti di Mussolini. In un primo tempo il corpo era stato portato in Valtellina – anche questa volta l’ironia si sprecò sul ritardo con cui il Duce era arrivato nel luogo che aveva vantato come l’ultimo ridotto del fascismo – e vi era rimasto nascosto solo due settimane, prima di essere riportato a Milano e, con l’aiuto dei pii religiosi, collocato nel convento di Sant’Angelo.27 Da qui fu nuovamente spostato e, nelle ultime settimane, era stato ospitato nei nobili e piacevoli locali della Certosa di Pavia, uno dei più celebri siti religiosi d’Italia. La bellezza del luogo non migliorò certo le condizioni del cadavere, avvolto alla bell’e meglio in sacchi di plastica e chiuso in una cassa riposta nell’armadio a muro della cella di un monaco, al pianterreno della Certosa.28

Sergio Luzzatto, che ha studiato i grotteschi eventi appena narrati, giudica Leccisi un «personaggio genuino, sinceramente votato al culto del Duce e alla causa del neofascismo» e critica la reazione del governo italiano, che considerò la sua impresa una bravata goliardica. Leccisi subì una condanna piuttosto lieve, sei mesi di reclusione, per aver stampato banconote false (molte ne furono trovate durante un’irruzione nella sede del Partito fascista democratico), mentre per il trafugamento del cadavere beneficiò di un’amnistia.29 La clemenza dei giudici era perfettamente in linea con la strategia adottata dalle autorità e contribuì a presentare l’intera vicenda con lo scherno che meritava. I dittatori in decomposizione potevano anche esercitare una certa attrattiva, ma la cosa importante era che la sottrazione del cadavere di Mussolini non distraesse gli italiani dall’impegno di votare per la repubblica, avviando così un processo politico che, nei decenni successivi, avrebbe portato le riforme di cui il paese aveva bisogno.

Mentre la storia della Repubblica faceva il suo corso, Mussolini fu nuovamente sepolto, questa volta nella cappella dei cappuccini a Cerro Maggiore, fuori Milano. In tale occasione ciò che restava del cadavere venne interrato dopo la cerimonia funebre, come imponeva la carità cristiana. I padri Zucca e Parini avevano preteso questa concessione alla dignità e alla pietà prima di rivelare il nascondiglio nella Certosa di Pavia.30

Tuttavia, la saga del corpo di Mussolini non era ancora conclusa. Nel 1957 le spoglie furono nuovamente traslate, questa volta a Predappio, nel cimitero di San Cassiano, accanto al luogo in cui viveva Rachele, la quale, a quanto dicono i suoi ammiratori, era solita cucinare per amici e conoscenti pasti frugali a base di pasta e fagioli.31 Il responsabile dell’ultimo viaggio del cadavere fu il primo ministro democristiano Adone Zoli, avvocato, antifascista, residente a Firenze e discendente della famiglia nella cui proprietà era nata Rachele.32 Proprio gli Zoli avevano convinto Rosa Maltoni a mandare il figlio dai Salesiani a Faenza33 ed erano sempre stati protettori dei Mussolini.34 Naturalmente, Adone Zoli aveva mantenuto i contatti con l’amministrazione di Predappio e con i membri superstiti della famiglia Mussolini. Fu forse indotto a clemenza anche dalle prediche del vecchio parroco di Predappio don Pietro Zoli, omonimo del primo ministro, il quale conservava un buon ricordo di Rosa Maltoni, che era stata la sua insegnante negli anni precedenti la prima guerra mondiale.35

Non fece quindi meraviglia che Adone Zoli concedesse le necessarie autorizzazioni governative per consentire che il 31 agosto 1957, dopo una breve cerimonia, il corpo di Mussolini venisse sepolto nella cripta di famiglia nel suo paese natale.36 Un funzionario britannico commentò in proposito che «gli italiani rispettano profondamente i morti e i sentimenti delle persone in lutto, fatto che persino i comunisti hanno tenuto presente nelle loro critiche al governo». In ogni caso, aggiunse con spirito caritatevole, «il ricordo del Duce, malgrado i crimini da lui commessi contro la nazione italiana, non suscita più sensazioni violente nella grande maggioranza degli italiani. Se i suoi misfatti sono ricordati, lo sono pure le sue prime realizzazioni e i suoi sforzi per dare al suo popolo un senso di appartenenza».37 Ma, probabilmente, tutto ciò non sarebbe bastato a pacificare lo spirito di Mussolini. Sebbene non vi avesse mai pensato nei dettagli quando era al potere, si può ipotizzare che, se fosse morto mentre era al governo, il dittatore sarebbe stato sepolto in una grandiosa tomba a Roma, il cuore ideale della nazione. Il luogo più adatto all’inumazione sarebbe forse stato il moderno quartiere dell’EUR, data la monumentalità dello stile architettonico fascista. E invece, nella realtà, il luogo dell’estremo riposo del Duce è il cimitero di San Cassiano, dove la sua tomba evoca, ironicamente quanto irresistibilmente, scenari di microstoria: la storia di un piccolo paese e dei suoi umili abitanti. Il destino di Mussolini era di essere seppellito nel mondo delle diverse «Italie», non in quello del ripristinato Impero romano. Anche da morto le sue ambizioni di presentarsi sulla ribalta mondiale in pose trionfali fallirono.

Ovviamente a Predappio furono in pochi a dare questa lettura. Gli abitanti ricordavano invece che, durante il Ventennio, il loro paese aveva prosperato in modo modesto ma innegabile. Il cambiamento principale era rappresentato dallo spostamento del centro di gravità della cittadina verso il fiume Rabbi, a Dovia e alla casa natale del Duce. Predappio vecchia dormiva sulla collina, contenta della sua piazza ovale e in pendenza, delle sue due chiese e delle case tinteggiate in colori pastello, lo scenario ideale per una rappresentazione del Barbiere di Siviglia. Predappio nuova esibiva invece un diverso stile architettonico, che veicolava un altro messaggio, più militante. La cittadina era diventata meta di pellegrinaggio già a partire dalla metà degli anni Venti. Dal centro della piazza, delimitato da una serie di colonne, il riverente visitatore fascista volgendo lo sguardo a est poteva vedere la Rocca delle Caminate, il castello-residenza della famiglia Mussolini. A ovest, appena sopra il colonnato, poteva ammirare la vecchia scuola di Varano, la casa natale del Duce, inevitabilmente divenuta luogo sacro. In questa zona centrale, che ospitava anche, più prosaicamente, il mercato, sboccava corso Benito Mussolini, che, pur non essendo così grandioso come vorrebbe il nome, era tuttavia l’arteria principale del paese. All’estremità meridionale c’era un’altra piazza dominata dalla nuova e imponente, ancorché piuttosto brutta, chiesa di Sant’Antonio e dalla Casa del Fascio, munita di torretta e decisamente più bella. Lungo il corso sorgevano una nuova caserma (già della guardia personale del Duce), una nuova scuola che portava il nome di Rosa Maltoni, un nuovo ospedale e, cosa forse ancor più utile, una nuova banca. Negli anni Trenta vicino al fiume era stata costruita un’officina della ditta aeronautica Caproni e ai piedi dei rilievi appenninici circostanti era stato allestito un campo d’aviazione (benché corra voce che da lì nessun aereo sia mai decollato). Qualche anno prima il fiorente comune di Predappio era stato addirittura autorizzato ad annettersi il vicino centro di Fiumana, in una sorta di versione in miniatura della Weltpolitik.38

Insomma, il regime aveva giovato a Predappio, anche se non in modo esagerato. Il dirigente sindacale fascista Edmondo Rossoni, per esempio, aveva destinato fondi molto più cospicui al suo paese natale, Tresigallo di Ferrara. C’è da dire comunque che a Predappio e dintorni il membro della famiglia Mussolini più celebre non era Benito, bensì Rachele. Era la «padrona» del posto, la «dura» che era meglio non far arrabbiare; era Donna Rachele, una persona a cui portare rispetto39 ma considerata, al pari di altre nella sua posizione, certamente non immune dall’esercizio del potere e dalla ricerca di qualche illecito profitto finanziario.40 Dopotutto, Rachele aveva continuato a usare il dialetto locale come lingua d’elezione sino alla fine del regime, ignorandone le pretese «nazionalizzanti».41 Dopo il 1945 non tardò a tornare a occuparsi della proprietà Mussolini da villa Carpena e, per un certo periodo, dirigendo un ristorante all’ombra della Rocca delle Caminate, dove offriva ai clienti generose porzioni della specialità regionale, le tagliatelle alla bolognese.42

La storia postfascista di Predappio non è priva di una sorta di ironia del destino. Finita la guerra, il paese passò immediatamente alla sinistra: in un certo senso, l’anima di Alessandro Mussolini trionfava su quella del figlio. Come quasi tutta l’Emilia-Romagna, Predappio divenne una roccaforte del PCI. Vittore Querel, simpatizzante fascista, se ne lamentò negli anni Cinquanta scrivendo – con una certa esagerazione – che Predappio era «la città più povera ed abbandonata, più triste e misera d’Italia».43 Biasimò anche il modo in cui la casa natale del Duce era stata saccheggiata dai partigiani alla fine della guerra. Condannò il degrado del cimitero di San Cassiano, ma in seguito ammise che era stato ripulito, tornando così a essere «uno dei [posti] più romantici della Romagna».44

Querel aveva un altro grande desiderio e cioè che, grazie al turismo, Predappio potesse divenire un luogo di pellegrinaggio e di rievocazione della storia del Duce. Notava che i primi nostalgici visitatori stavano già arrivando: neofascisti che amavano riunirsi al Bar Sport,45 per poi dirigersi alla cripta della famiglia Mussolini, dove giacciono i corpi dei genitori del Duce, di Arnaldo e Bruno, e di Gina Ruberti, la moglie di Bruno.46 La tomba di quest’ultima era l’unica a non essere adornata con insegne fasciste,47 forse perché, nel maggio 1946, la morte la colse a causa di un incidente di barca mentre si trovava da sola in compagnia di alcuni ufficiali inglesi. Su tale circostanza corsero voci scandalose e assai piccanti.48

Querel ventilò anche la possibilità di mettere a disposizione nella cripta un diario su cui «la gente umile, i soldati, i militi» avrebbero potuto testimoniare il proprio rispetto «per l’uomo che è caduto e la cui salma non ha pace».49 Poco dopo il desiderio di Querel fu realizzato: i resti di Benito Mussolini furono sepolti con quelli dei suoi parenti. Ma non era ancora giunto il momento della pace eterna. La notte di Natale del 1971, nel pieno di un periodo di grandi fermenti politici, una bomba esplose sulla soglia della cripta di San Cassiano.50

In generale, i membri della famiglia Mussolini fecero molta fatica a liberarsi dell’eredità del suo più illustre esponente e le loro vite non furono felici né feconde. Anna Maria, la figlia colpita dalla poliomielite, fece una carriera in qualche modo improbabile come giornalista neofascista, con il sostegno di una modesta pensione statale di 190.000 lire. Nel 1960 sposò un uomo di spettacolo, Giuseppe Negri, e nel 1961 e 1963 ebbe due figlie, Silvia e Edda, forse aiutata durante la prima gravidanza da una grazia che la madre ricevette da Padre Pio, il santo moderno più celebrato d’Italia. All’epoca Anna abitava in viale Libia, una zona periferica di Roma costruita sotto la dittatura del padre dove le strade erano intitolate al perduto impero nazionale. Morì di cancro al seno, e a causa degli strascichi della malattia presa da bambina, il 25 aprile 1968 (piuttosto ironicamente, l’anniversario della Liberazione).51

Sua sorella maggiore, Edda, non perdonò mai il padre di aver tradito suo marito e, dopo il 1945, condusse una sfrenata vita mondana (qualche neofascista puritano espresse le proprie preoccupazioni per il fatto che, secondo alcune voci, usava fare il bagno nuda nel mare di Lipari).52 Morì nel 1995, dopo aver sofferto a lungo di una malattia renale, forse causata dall’alcolismo. Aveva visto uno dei suoi figli, Fabrizio, candidarsi senza successo al Parlamento nelle file del Movimento sociale italiano. Tradendo un certo disagio, Fabrizio si era presentato con queste parole: «Sono figlio di un fascista che ha sbagliato e ha pagato». Dopo la prevedibile sconfitta emigrò in Venezuela.53 L’altro figlio di Edda, Marzio, morì alcolizzato nel 1974.

Anche Vittorio, il primogenito del dittatore, visse per molti anni in America Latina, una regione che da diverse generazioni era meta dell’immigrazione dall’Italia, ma in cui il governo italiano non ha mai avuto molta influenza. Vittorio era fuggito in Argentina nel dicembre 1946 utilizzando i canali vaticani, che nell’immediato dopoguerra favorirono l’espatrio di molti ex fascisti. A Buenos Aires fu ben accolto dal dittatore Juan Perón, che era stato un vecchio ammiratore di Mussolini e serbava con piacere il ricordo di essere stato tra la folla plaudente quando nel 1936, dopo la vittoriosa guerra d’Etiopia, Mussolini aveva proclamato il nuovo Impero romano. In seguito Vittorio compì visite occasionali in Italia (di solito per «difendere» il suo «onore» di soldato e quello della sua famiglia) prima di tornarvi definitivamente nel 1968. Dopo la fine del suo matrimonio, nell’ottobre 1979, con la morte di Rachele, divenne il membro più anziano della famiglia Mussolini.54

Romano, fratello minore di Vittorio, fece carriera nel dopoguerra come pianista jazz, un successo politicamente scorretto per il figlio di un dittatore fascista «ariano».55 Già negli anni Cinquanta, registrava come esponente dei «Romano Mussolini All Stars» e in seguito rimase una figura di rilievo nel circuito jazz internazionale, esibendosi con alcuni dei migliori musicisti neri americani. Componeva ancora musica negli anni Novanta. Come altri membri della sua famiglia, e forse incoraggiato da giornalisti in cerca di fama, Romano finì per pubblicare su riviste patinate qualche insignificante ricordo del padre.56 Il suo momento di maggior celebrità è legato al matrimonio con Maria Scicolone, sorella dell’attrice Sophia Loren, ma anche questa unione finì con un divorzio.57 Da questa unione erano nate due figlie, Elisabetta e Alessandra, e un’altra, Rachele, dal secondo matrimonio di Romano. Romano Mussolini morì nel 2006, poco dopo la pubblicazione in italiano e poi in inglese di un altro, ancor più scialbo, volume di memorie.58 Nell’ultima generazione la star della famiglia è la fotogenica Alessandra Mussolini,59che fece notizia allorché, nel 1992, fu eletta alla Camera dei deputati.60 In tempi più recenti si è trasferita al Parlamento europeo di Bruxelles, rimanendo comunque una figura di un certo rilievo in Italia. Ha rotto con Alleanza nazionale di Fini nel 2003 ma nel 2008 è tornata al Parlamento italiano con l’ampia alleanza elettorale di Berlusconi. Alessandra ha tre figli, il maschio si chiama Romano ed è stato insignito anche del cognome Mussolini, dal momento che Alessandra, insistendo sulla propria idiosincratica versione del femminismo fascista, ha sollevato un gran polverone perché tutti i bambini abbiano la possibilità di adottare il cognome della madre se lo desiderano. Almeno in questo senso ambiguo la storia familiare dei Mussolini continua a vivere in Italia.

Alessandra Mussolini aveva ottenuto la propria vittoria elettorale come esponente dell’Msi. Negli anni Novanta il partito è stato ribattezzato Alleanza nazionale e il suo leader, Gianfranco Fini, ha dichiarato che il movimento era diventato «postfascista». Con questo maquillage, in seguito Fini ha ricoperto il ruolo di vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera nel secondo e terzo governo Berlusconi. Gli è anche ampiamente riconosciuto il merito di essere divenuto il politico conservatore più sensibile e ragionevole del suo paese, spesso sottintendendo una disapprovazione nei confronti degli aspetti più vistosi del populismo del suo presidente del Consiglio. Le idee politiche di Alessandra Mussolini sono sempre state piuttosto eccentriche e la mentalità patriarcale di molti suoi colleghi non l’ha certo aiutata a far carriera nel partito. Può comunque contare su una certa copertura mediatica ogni volta che partecipa a qualche cerimonia – un matrimonio, un battesimo, una commemorazione – tenuta nella chiesa «fascista» di Sant’Antonio a Predappio. Si è inoltre adoperata per conservare la reputazione di «vera credente» in suo nonno. In un’intervista ha dichiarato: «Io mi chiamo Mussolini; ho un’identità chiara … la gente mi ama o mi odia».61 In realtà, il significato di queste parole è tutt’altro che limpido ma, almeno nella versione che ne danno stampa e televisione, Alessandra è la Mussolini della nuova generazione.

Data l’attività frenetica o sfacciata di Alessandra Mussolini, il futuro turistico immaginato da Querel per Predappio si è in parte realizzato, sebbene il susseguirsi di amministrazioni di sinistra alla guida del comune abbia ridimensionato le ambizioni di trasformare il paese in un luogo di culto del fascismo. Oggi il visitatore può ancora accedere alla cripta dove si trova il libro delle visite: si dice che venga sostituito ogni sei settimane, dopo che tutte le sue pagine sono state riempite con attestazioni di stima e di rispetto per il Duce e da dichiarazioni piene di fiducia nell’imminente risurrezione delle sue idee. A rendere più suggestiva l’atmosfera, una fiamma sempre accesa arde davanti ai resti del Duce; un busto marmoreo dall’espressione corrucciata ne ricorda i tratti somatici, mentre alcune reliquie, come la sua camicia nera e uno stivale dell’uniforme militare (l’altro andò perduto nel corso del trafugamento del 1946), testimoniano la sua militanza. Sul sarcofago spicca la caratteristica «M» con cui Mussolini era solito siglare i documenti sottoposti alla sua approvazione. Con il ritorno alla rispettabilità dei «postfascisti» sotto Berlusconi, è oggi più probabile che in passato che il mausoleo di Mussolini sia sorvegliato da «guardie» volontarie, le quali potrebbero indossare una qualche versione dell’uniforme fascista. In città il turista può scegliere tra quattro diversi negozi di souvenir. Per i nostalgici sono disponibili a prezzi interessanti T-shirt con messaggi edificanti, armi finte, statuette del dittatore (e dei suoi eredi, i leader dell’MSI e di AN), cartoline. Le giunte di sinistra che si sono susseguite a Predappio hanno sognato modi migliori per rievocare il figlio più famoso della cittadina e rivalutarne la storia, forse con un memoriale del fascismo e dell’antifascismo, che potrebbe trovare adeguata collocazione nell’elegante ex Casa del Fascio. Tali programmi sono però ostacolati dal timore che la storia venga troppo facilmente trasformata in notorietà e celebrazione. Nell’aprile 2009 il consiglio comunale, allarmato dalla comparsa di troppa storia nella sua città, ha proibito la vendita di souvenir nazifascisti, anche se resta da vedere se il divieto verrà rispettato. Esistono molte ragioni per le quali, nelle vie di Predappio, il fantasma di Benito Mussolini non ha pace né è mai stato lasciato in pace.

Le peripezie che il corpo di Mussolini ha attraversato fino al 1957 e oltre prima di poter riposare nella tomba sono ben note. Ma cosa ne è stato del suo spirito, dei suoi ideali, della memoria di tutta l’esperienza fascista? Quanto profondamente era penetrato il fascismo nell’Italia repubblicana? Dopo il 1945, in qualche modo l’anima di Mussolini continuò a vivere?

Da un punto di vista politico la risposta a queste domande è decisamente affermativa. Mentre i tedeschi e gli austriaci, sia pure in modi diversi, fecero di tutto per ridimensionare o occultare l’unanimità del consenso popolare di cui avevano goduto i nazisti nei loro paesi, l’Italia seguì la strada di un confronto molto più aperto con il proprio passato fascista. Sin dal 1944 la rivista intitolata «L’Uomo qualunque», diretta dal giornalista e commediografo Guglielmo Giannini, mobilitò i simpatizzanti del caduto regime, specialmente a Roma e nel Sud, con il motto ABBASSO TUTTI.62 Non molto tempo dopo Giannini venne liquidato politicamente dall’astuzia, e dall’implacabilità, del segretario del PCI Palmiro Togliatti, ma la sua fine era già stata compensata dalla nascita, il 26 dicembre 1946, del Movimento sociale italiano, che ebbe tra i suoi fondatori Giorgio Almirante e Arturo Michelini.63 La denominazione «Movimento sociale» bastò ad aggirare le leggi italiane che vietavano la ricostituzione del disciolto Partito fascista, laddove l’aggettivo sociale, qui e altrove, garantiva una difesa delle caratteristiche e degli scopi della Repubblica fascista tra il 1943 e il 1945. Comunque sia, i più maliziosi interpretarono la sigla MSI come l’acronimo di «Mussolini Sempre Immortale»,64 senza pensare che il Duce, il quale amava sottolineare gli errori e le sgrammaticature dei giornalisti, avrebbe potuto dispiacersi della tautologia.

L’MSI trovò presto una collocazione all’interno del sistema multipartitico italiano, aggiudicandosi in genere il quarto posto alle elezioni nazionali dietro la Democrazia cristiana, il PCI e i socialisti. Malgrado le differenze da regione a regione, il partito neofascista giunse a ottenere l’8 per cento dei voti. Come in tutte le altre formazioni politiche, anche all’interno dell’MSI si formarono diverse correnti. La storia del partito fu pertanto caratterizzata dalla dialettica fra i moderati, pronti – attraverso una qualche forma di trasformismo – a entrare nel sistema repubblicano, e gli intransigenti, contrari a ogni compromesso. L’ex repubblichino e collaboratore della rivista antisemita «La Difesa della Razza» Giorgio Almirante, che fu segretario del partito dal 1969 al 1987, cambiò rotta politica a seconda del mutare del vento, ma non vi sono dubbi sul fatto che favorì l’ascesa di ideologi del neofascismo quali Pino Rauti e Julius Evola, quest’ultimo suo ex collega alla «Difesa della Razza». All’estrema destra del partito, poi, si svilupparono frange oltranziste che segnarono tragicamente la storia della Repubblica italiana con numerosi attentati – piazza Fontana a Milano, nel dicembre 1969; piazza della Loggia a Brescia, nel maggio 1974 – e con diversi tentativi di sabotaggio alla linea ferroviaria Firenze-Bologna. Tali azioni culminarono nell’agosto 1980 con la strage alla stazione di Bologna, in cui l’esplosione di alcuni ordigni causò la morte di oltre ottanta persone.

Altre forme di eversione si registrarono a Roma, a Milano e in altre città, e nelle università dove, soprattutto negli anni caldi e politicamente confusi che seguirono le contestazioni del 1968, i fascisti pattugliavano quelle che erano ritenute vere e proprie «zone proibite».65 Nella cultura giovanile italiana il fascismo conservava, e conserva tuttora, un ruolo preminente, sia pure in forme diverse. Gli ultras al seguito delle squadre di calcio fanno regolarmente sfoggio della loro virilità sventolando bandiere fasciste. Alcuni giovani poi, cosa ancor più grave, sembrano credere che l’ostentazione di atteggiamenti genericamente riconducibili al fascismo – che configurano una sorta di fondamentalismo nazionalistico – sia la sola scelta radicale possibile, l’unica «alternativa» politica in una società bloccata dalla sottomissione al mercato e all’ordine mondiale che ne deriva.

Una diversa forma di nostalgia del regime è diffusa da tempo in alcune aree dell’Italia meridionale (da sempre il maggior bacino elettorale dell’MSI) e, ancora di più, tra le comunità di emigranti sparse in tutto il mondo. In Australia, per esempio, il giornalista Franco Battistessa, estremista di destra che si attribuisce il singolare merito di aver fondato il primo fascio a Bombay, si è guadagnato una grande popolarità presso la comunità italiana, che per un certo periodo ha mostrato di apprezzare il suo giornale intitolato «La Gente d’Italia» (solo perché non era possibile chiamarlo apertamente «Il Popolo d’Italia»).66 Una relativa carenza culturale era spesso associata a un’approvazione «sentimentale» del fascismo, tanto fra gli emigranti quanto fra coloro che erano rimasti in Italia. Come nota Sergio Luzzatto, i fautori della cultura popolare, negli anni Cinquanta e Sessanta, limitavano le loro letture alle riviste scandalistiche,67 media che enfatizzavano immancabilmente la «generosità», la «genialità» e la grandiosità di Mussolini, ignorando a bella posta qualunque analisi dei crimini fascisti (o italiani). In questa versione del passato recente, l’impero era un «paradiso perduto», i soldati italiani erano patriottici e sfortunati e la popolazione sempre «brava gente». Il fascismo non aveva nulla a che vedere con la malvagità del nazismo e del comunismo.68 Indro Montanelli, giornalista ex fascista diventato un conservatore radicale e indipendente, ha soddisfatto l’appetito di tale fascia di pubblico con una serie di libri storici ispirati proprio a quel tema.69

Fatto ancor più rilevante, una certa nostalgia del Ventennio sopravvisse nei servizi segreti e nel mondo degli affari, o meglio in tutte le reti parzialmente occulte dell’élite dirigente, comprese quelle «benedette» dall’ambasciata americana. L’anticomunismo, l’anti-antifascismo e alcune forme di fascismo non furono sempre facilmente distinguibili. Nel 1964 e nel 1970 in quegli ambienti furono progettati colpi di Stato, e non è assurdo ritenere che anche in altri momenti possano essere stati orditi complotti per abbattere l’ordinamento repubblicano. Inoltre, quei gruppi «extraparlamentari» privilegiavano i collegamenti internazionali, risultando spesso sostenitori dei dittatori sudamericani, del regime sudafricano dell’apartheid, di Franco, di Salazar, dei colonnelli greci e, in definitiva, di qualsiasi forza politica antidemocratica.

Occorre però capire fino a che punto lo spettro di Mussolini potrebbe attribuirsi la paternità di questo neofascismo. Spesso i ricordi che si avevano di lui erano confusi. Persino un pensatore lucido e profondo come Julius Evola preferiva il romeno Corneliu Codreanu, leader della Legione Arcangelo Michele, che ebbe il vantaggio di lasciare dietro di sé un corpus di scritti nebulosamente mistici e il cui estremismo verbale non era mai stato smorzato dai compromessi inevitabili per chi ricopre una qualsiasi carica. Raramente i neofascisti hanno avuto l’ardire di scriverlo, ma in realtà la predilezione segreta di molti di loro andava, più che al dubbio totalitarismo di Mussolini, al «successo» macabramente wagneriano di Hitler e della destra tedesca. La terribile e umiliante disfatta italiana nella seconda guerra mondiale era un retaggio difficile da negare o da superare.

Nonostante ciò, non sono mancati gli ammiratori del Duce. Negli anni Sessanta l’intellettuale Giano Accame organizzò a Roma un ciclo di conferenze dal titolo «Incontri romani della cultura di destra». Tra i relatori c’era lo studioso americano A. James Gregor, a quel tempo l’unico nel mondo anglosassone a prendere sul serio il pensiero di Mussolini.70 Egli continua imperterrito a difendere quella posizione, sostenendo che, in «realtà», il pensiero degli «intellettuali di Mussolini» non aveva nulla in comune con il nazismo e affermando che la dittatura dovrebbe essere considerata positivamente in tutto eccetto le leggi razziali del 1938 e successive. Purtroppo, dopo quell’atto legislativo, «il rapporto sempre più stretto con la Germania di Hitler favorì la penetrazione nel fascismo di una forma di razzismo che era totalmente estranea alla sua ideologia», anche se, dichiara, Mussolini agì regolarmente «per arginarne gli effetti peggiori».71 L’MSI, poi, poteva contare sull’aiuto dell’editore Giovanni Volpe, figlio di Gioacchino, il più eminente storico del Ventennio,72 un intellettuale che fece ben pochi sforzi per cambiare la propria divisa politica dopo il 1945. Negli anni Novanta Bruno Bottai, figlio del ministro fascista, ottenne la carica di segretario generale del ministero degli Esteri73 e gli apprezzamenti della scuola defeliciana, che si sforzava di attenuare le passate condanne del fascismo.

Nei paesi anglosassoni, invece, dopo il 1945 Mussolini ha sempre goduto di pessima stampa. La maggior parte degli storici ne ha fatto una caricatura, o poco più. Alan J.P. Taylor, il più brillante storico della sua generazione, ha dato voce a questa tendenza con grande chiarezza:

Il fascismo non ebbe l’impeto brutale, e meno che mai la forza materiale, del nazionalsocialismo; sul piano morale era però altrettanto corruttore, o forse anche di più, per la sua intrinseca disonestà. Tutto nel fascismo era frode: frode il pericolo sociale da cui aveva salvato l’Italia; frode la rivoluzione con cui aveva preso il potere; fraudolenta l’abilità e la politica di Mussolini. Il regime fascista era corrotto, incompetente, vuoto; Mussolini medesimo un fatuo millantatore, senza idee né finalità.74

Non sorprende, comunque, che gli storici italiani abbiano giudicato avventata e viziata da pregiudizi la perentorietà con cui un simile giudizio archivia un’intera generazione. Dagli anni Sessanta in poi la reputazione del Duce trovò, se non un campione, certamente un difensore nel biografo Renzo De Felice, che in una serie di libri tese progressivamente ad accordare un certo credito alle realizzazioni e agli ideali di Mussolini. L’opera di De Felice ebbe una notevole eco in Italia dove, negli anni Ottanta, Accame e lo stesso De Felice collaborarono a diverse mostre patrocinate dal socialista Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Tali esposizioni misero in evidenza la presuntuosa originalità del fascismo, che si manifestò, per esempio, nella tipologia dei beni di consumo in regime di autarchia, ma ignorarono la guerra, la tirannia e la disfatta.75 Al tempo stesso De Felice fece proseliti negli Stati Uniti, dove alcuni studiosi di origine italiana, forse influenzati dal fatto di essere nati in una «comunità» di emigranti e dalla consapevolezza delle loro «radici», mal sopportavano il sarcasmo di Taylor e dei suoi colleghi.76

Gli eventi politici e culturali favorirono una svolta negli studi storiografici allorché negli anni Novanta, sulla scia dell’«apolitico» Clifford Geertz e del difficilmente collocabile Michel Foucault, molti studiosi italiani iniziarono a chiedersi come mai la nazionalizzazione delle masse in Italia si fosse rivelata così insoddisfacente. Oggetti privilegiati delle loro indagini furono i «partiti» dell’Italia repubblicana, un termine con cui spesso alludevano al solo PCI. Concentrando l’attenzione sulle colpe della sinistra, il fascismo cominciò a recuperare un certo prestigio. Diversi commentatori, incluso De Felice, riconoscevano le possibili responsabilità del regime fascista, ma finivano poi per domandarsi se erano state veramente più gravi di quelle della Repubblica.77

Ancor più significativo fu il nuovo, globalizzato e utilitaristico indirizzo politico tendente a favorire una «riconciliazione» con il passato. Gli anni Novanta divennero il decennio delle «scuse» per le colpe dei padri, benché in modo quanto mai generico e senza la reale intenzione di indagare le cause delle tragedie di cui oggi così emotivamente e comodamente ci si rammarica. Tale indirizzo portò con sé la deideologizzazione della storia della dittatura fascista e la cancellazione del giudizio morale nei confronti dei fatti accaduti in un passato relativamente recente. La disputa tra fascismo e antifascismo veniva ora presentata come il frutto di una passione incomprensibile, alla luce di un presente in grado di riconoscere le colpe di entrambe le parti. Tanto i fascisti quanto gli antifascisti avevano ucciso dei connazionali, questo era il senso del semplicistico messaggio, e ciò li rendeva moralmente indistinguibili in un’Italia in cui il vero problema era una «memoria divisa» che impediva il fiorire nella Repubblica di un giusto patriottismo e del senso dello Stato. In ogni caso la storia e il passato finivano nel crogiuolo dell’informazione-intrattenimento. In queste acque torbide il fascismo aveva il vantaggio di risultare seducente con il suo sfoggio di parate e di uniformi; la sua propaganda, per quanto debole rispetto a quella delle società fondate sul consumismo, conservava un certo fascino postumo. Un’intera scuola di storici «culturalisti», soprattutto negli Stati Uniti, si divertì – pur non divertendo sempre allo stesso modo i suoi lettori – con affettuose thick descriptions (descrizioni dense) delle «reti di significati» da scoprire in questo o quell’aspetto della dittatura.

In tali analisi lo stesso Mussolini diventava una figura di sfondo, perché i culturalisti erano intenzionati a fotografare la storia «dal basso». Dal momento che avevano accettato una condizione di impotenza nel presente, non vedevano il motivo di riconsiderare l’esercizio del potere nel passato. Per quanto li riguardava, Mussolini poteva anche averlo esercitato, ma a chi importava se il compito dello storico era quello di descrivere, non di analizzare? Complessivamente, quindi, una «riconciliazione» con il passato fascista finiva per risultare favorevole all’immagine del Duce. L’epoca delle domande imbarazzanti era finita.78

Nel 2003 Berlusconi riportò in vita la nostalgia populista degli anni Cinquanta annunciando che Mussolini non aveva mai ammazzato nessuno e aggiungendo che la punizione del confino equivaleva a essere mandati in «vacanza».79 Il miscuglio berlusconiano di populismo, opportunismo e controllo dei mezzi d’informazione ha spinto i suoi critici più allarmisti a dipingerlo come un «secondo Mussolini».80 È difficile ammirare l’uomo che nel 2008 ha conquistato un’altra vittoria elettorale. Non c’è dubbio che sotto la sua egida sia cresciuto in maniera allarmante un grossolano autoritarismo mescolato a un razzismo altrettanto grossolano, rivolto non contro gli ebrei del paese, ma contro i suoi immigrati musulmani, est europei e zingari. Tuttavia, è arduo immaginare Berlusconi desideroso di invadere l’Etiopia o di riportare in vita alcune delle caratteristiche più drastiche del fascismo. L’ex premier incarna meglio le strutture della storia nazionale che non le peculiarità della dittatura.

Di certo, Berlusconi e i suoi amici hanno continuamente dipinto il «comunismo» come il detentore del record più sinistro del XX secolo, colpevole di crimini che superano di gran lunga le azioni del nazifascismo, rafforzando quella che può essere stata l’onnipresente visione cattolica. Nella provincia, quest’Italia fedele a Berlusconi è ora talvolta pronta a intitolare al Duce piazze e strade, elevando pubblicamente la dittatura a un momento storico meritevole di sempiterna celebrazione. Tuttavia, tale «memoria» non dovrebbe essere presa troppo sul serio dal momento che è sempre implicitamente accompagnata dal gradevole materialismo e dallo spensierato divertimento che è la ricetta più strillata di Berlusconi (e di molti altri politici contemporanei) per il nostro presente e il nostro futuro. Forse l’epitome migliore del rapporto tra il regime di Mussolini e i governi Berlusconi è il fatto di essere un altro esempio della rappresentazione «primo atto tragedia, secondo atto farsa», dove la tragedia non è stata sublime e la farsa è grossolana quanto ciò che le tv berlusconiane ci ammanniscono quotidianamente.

In fin dei conti, già dagli anni Ottanta, la figura virile di Mussolini che avanzava a passo di marcia era stata usata per pubblicizzare l’alta qualità dell’hotel Excelsior di Venezia. Ogni ospite, diceva il dépliant, poteva contare sul fatto che, in quell’albergo, «il cliente ha sempre ragione».81 Nel 1998 uno scrittore italiano di gialli, Lucio Trevisan, decise di rimettere in scena il tentato assassinio di Mussolini del 1926 in un’opera di faction dall’intrigante titolo Il naso di Mussolini.82 Uno scrittore inglese di polizieschi, meno rispettoso, aveva già introdotto in una delle sue opere un personaggio chiamato Benito Mussolini, fotografo ricattatore vittima di un omicidio, che si dimostrava decisamente meno perspicace della sua scimmietta.83 E non è da escludere che l’immagine di Mussolini venga riproposta in situazioni analoghe. Strana sorte quella del Duce di scadere nel banale, ma non la peggiore, dal momento che una rigorosa analisi della sua vita potrebbe portare a conclusioni ben più negative.84

Essere ridotto a un’icona pubblicitaria non è di sicuro ciò che Mussolini aveva immaginato di diventare quando intraprese con tanta presunzione la sua carriera. Ma, allora, oggi molte delle sue idee appaiono palesemente errate. Nell’epoca che segna il trionfo del liberismo, l’autarchia fascista dev’essere classificata come un sistema economico fondamentalmente sbagliato. In tempi di globalizzazione, il gretto nazionalismo di un’Italia fascista che non era mai davvero assurta al rango di grande potenza e aveva fallito il «test» della seconda guerra mondiale sembra antiquato e fuori luogo. Di fronte a un’Europa apparentemente sempre più unita, di cui non solo l’Italia fa parte ma è uno dei membri più entusiasti, altrettanto fuori luogo sembra l’utopia fascista di nazionalizzare le masse, a meno che il continente non sia destinato a scoprire che l’assorbimento dell’Est ex comunista è impossibile e, tragicamente e grottescamente, torni alla rivalità nazionale del periodo tra le due guerre mondiali. Fatto ancor più significativo, lo Stato che pressappoco dal tempo della nascita di Mussolini fino agli anni Ottanta aveva costituito uno strumento efficace per la tutela dei valori umani e per la diffusione del benessere e della cultura, sta ora rapidamente scomparendo. Il grande nemico della visione fascista dello Stato si è rivelato essere non quella democrazia di stampo socialista immaginata da Mussolini, bensì il capitalismo modello USA. L’egemonia delle odierne aziende globalizzate è così sicura e inattaccabile, la loro propaganda – spesso orgogliosamente spacciata per «informazione» – così pervasiva, da far apparire un’anticaglia la retorica fascista sulla costruzione di uno Stato totalitario onnipresente. Neppure la catastrofe economica ha sollecitato una seria revisione delle formule mussoliniane relative all’ordine sociale ed economico.

Mussolini decantava spesso il fascismo come l’ideologia del XX secolo. Per un certo periodo i suoi vari ammiratori e compagni di viaggio – da Hitler a Franco a Pio XII a Perón e, nel dopoguerra, altri leader del Terzo Mondo – sembrarono avallare quella convinzione. Oltretutto, anche dopo il 1945 la causa neofascista, almeno in Italia, non era affatto morta, come si è visto. A distanza di due generazioni, tuttavia, la storia ha dimostrato che Mussolini aveva assolutamente torto. Nell’ordine mondiale attuale, per la destra radicale l’unica possibilità di sopravvivere a lungo e contare a livello politico consiste nell’adattarsi a un capitalismo di tipo globale, il che significa depotenziare l’ideologia fascista e svuotare di significato i concetti che possano rievocare il periodo tra le due guerre, quali corporativismo, autarchia, antisemitismo e altre teorie razziali, impero, guerra e l’intrusivo Stato «totalitario». In Italia, il «postfascismo» di Fini è costruito, in fin dei conti, sull’abbandono di tutte quelle idee della sua giovinezza. A dire il vero, in determinati luoghi e in alcune circostanze un accordo fra estrema destra e mercato è immaginabile, così come lo è talvolta il disperato indulgere, da parte dei vinti della storia, al nazionalismo o ad altre forme di fondamentalismo. Ma in nessun caso il risultato sarà qualcosa che si possa definire legittimamente «fascismo». La nebulosa aspirazione a un ritorno allo statalismo (almeno da parte di determinati gruppi d’interesse), il dispotismo patriarcale, la rapacità verso i beni del vicino, specialmente dei ricchi, la speranza darwiniana che nella competizione sociale la vittoria arrida al più forte e, per converso, l’invidia per il successo altrui, la spietata volontà di ferire e uccidere in guerra, e non solo in guerra, il razzismo autentico (in particolare nei confronti di zingari, neri, «slavi» e arabi, ma anche degli ebrei), la determinazione di porre fine al potere dei sindacati (o di piegarlo a beneficio di singole lobby), l’amore per le menzogne propagandistiche: sono tutti elementi che possono sopravvivere e prosperare, ma non dovrebbero più essere considerati forieri di un «pericolo fascista». Al fascismo mussoliniano dovrebbe piuttosto essere accordato lo statuto di pezzo da museo. Solo una persistente quanto assurda retorica su una «terza via» separata dal mercato reca ancora tracce di un progetto di stampo fascista, sebbene i suoi fautori continuino strenuamente a ignorarlo o negarlo.

Ora, se il Mussolini ideologo è sprofondato nelle nebbie del passato, forse non lo è il Mussolini politico. Molto meglio di Adolf Hitler, egli è stato il modello storico più vicino di numerosi dittatori del mondo in via di sviluppo, e il suo ruolo e il suo messaggio potrebbero essere più ampi di così. Proprio come un tempo il Duce cercò di apparire il più perspicace degli uomini, così altri leader politici hanno ostentato regolarmente la loro improbabile levatura intellettuale. Se la fama non sembra aver procurato a Mussolini la felicità, rendendolo piuttosto cinico in fatto di donne, amici, famiglia e nazione, i suoi successori tentano in tutti i modi di agguantare il potere, salvo poi restarne il più delle volte delusi quando ne constatano la vacuità. In verità, la mitopoiesi del carisma del Duce, a cui lo stesso Mussolini contribuì attivamente, può benissimo aver aperto la strada all’attuale cultura dell’«apparire», in cui l’ultima, o la più dannosa, ambizione di ogni dirigente è la conoscenza di sé.85 Certi aspetti del populismo mussoliniano – la sua presunta passione per lo sport, il suo socializzare (il più delle volte da dietro la scrivania) con subalterni e ammiratori stranieri, persino il sudare in pubblico – si erano diffusi durante il Ventennio, ma erano tutt’altro che abituali nel mondo in cui era nato. Benché non sia chiaro se e quanto Mussolini fosse convinto che l’apparenza è il messaggio, spesso si comportò come se lo fosse o potesse esserlo. Insomma, come uomo d’immagine Mussolini può sicuramente vantare degli eredi.

In conclusione, si può convenire sul fatto che Mussolini fu, in un certo senso, «un uomo per tutti», un personaggio che ha rispecchiato il suo genere, la sua classe, la sua regione, la sua nazione, un tiranno, sì, ma non così malvagio come la storia vorrebbe dipingerlo, relegandolo nell’ultimo girone dell’inferno dantesco. Tuttavia, forse con suo grande dispetto, la vicenda di Mussolini ha avuto un significato per l’Italia e per l’Europa in un preciso periodo storico e la sua eredità ha un’influenza solo superficiale. In ultima analisi, Benito Amilcare Andrea Mussolini, malgrado la sua aspirazione a reggere le redini del potere, fu soltanto un ambizioso intellettuale di estrazione provinciale, che credeva nella propria forza di volontà e che pensò, come pensarono altri, di essere un Duce e di poter guidare uno Stato come l’Italia verso una particolare forma di modernizzazione. I suoi propagandisti affermavano che aveva sempre ragione. Tuttavia, nelle questioni più profonde che hanno a che fare con la condizione umana egli ebbe, salvo poche eccezioni, sempre torto.

a Serie americana di comiche mute, famosissime negli anni Dieci del Novecento, diretta da Mack Sennett.