Nel 1909, quattro anni dopo la fallita Rivoluzione del 1905 e otto anni prima della vittoriosa Rivoluzione d’Ottobre, Lenin, firmandosi con lo pseudonimo «V. Il’in», pubblica Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, il suo testo più filosofico.79 Bersaglio politico implicito contro cui è indirizzato il testo è Aleksandr Bogdanov, fino a quel momento suo amico e alleato, con lui fondatore e principale testa pensante dei bolscevichi.
Negli anni che precedono la Rivoluzione Aleksandr Bogdanov aveva pubblicato un lavoro in tre volumi80 per offrire una base teorica generale al movimento rivoluzionario. Faceva riferimento a una prospettiva filosofica chiamata empiriocriticismo. Lenin inizia a vedere in Bogdanov un rivale e ne teme l’influenza ideologica. Nel suo libro critica ferocemente l’empiriocriticismo, «filosofia reazionaria», e difende quello che chiama materialismo.
Empiriocriticismo è un nome con cui Ernst Mach designava idee come le proprie. Ernst Mach, ricordate? La fonte d’ispirazione filosofica per Einstein e Heisenberg.
Mach non è un filosofo sistematico e talvolta manca di chiarezza, ma ha avuto un’influenza sulla cultura contemporanea che credo sia sottovalutata.81 Ha ispirato l’inizio di entrambe le grandi rivoluzioni della fisica del XX secolo, relatività e quanti. Ha giocato un ruolo diretto nella nascita degli studi scientifici sulle percezioni. È stato al centro del dibattito politico-filosofico che ha portato alla Rivoluzione russa. Ha avuto un’influenza determinante sui fondatori del Circolo di Vienna (il cui nome pubblico era «Verein Ernst Mach»), l’ambiente filosofico dove è germogliato l’empirismo logico, radice di tanta filosofia della scienza contemporanea, che eredita da Mach la retorica «antimetafisica». La sua influenza arriva al pragmatismo americano, altra radice della filosofia analitica odierna.
La sua zampata arriva alla letteratura: Robert Musil, fra i massimi romanzieri del Novecento, ha svolto la tesi di dottorato su Ernst Mach. Le agitate discussioni del protagonista del suo primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless, ripercorrono i temi della tesi sul senso della lettura scientifica del mondo. Le stesse questioni attraversano in filigrana la sua opera maggiore, L’uomo senza qualità, fin dalla prima pagina, che si apre con una sorniona doppia descrizione, scientifica e quotidiana, di una giornata di sole.82
L’influenza di Mach sulle rivoluzioni della fisica è stata quasi personale. Mach era amico di lunga data del padre e lui stesso padrino di Wolfgang Pauli, l’amico con cui Heisenberg discuteva di filosofia. Mach era filosofo preferito di Schrödinger, che da ragazzo aveva letto praticamente ogni sua riga. Einstein aveva come amico e compagno di studi a Zurigo Friedrich Adler, figlio del cofondatore del Partito Socialdemocratico austriaco, promotore di una convergenza di idee fra Mach e Marx. Adler diverrà dirigente del Partito Socialdemocratico Operaio; per protestare contro la partecipazione dell’Austria nella Grande Guerra assassinerà il primo ministro austriaco Karl von Stürgkh, e in prigione scriverà un libro su… Mach.83
Insomma Ernst Mach sta a un impressionante crocevia fra scienza, politica, filosofia e letteratura. E pensare che oggi qualcuno vede scienze naturali, scienze umane e letteratura come ambiti impermeabili l’uno all’altro…
Obiettivo polemico di Mach è stato il meccanicismo settecentesco: l’idea che tutti i fenomeni siano prodotti da particelle di materia che si muovono nello spazio. Secondo Mach, i progressi della scienza indicavano che questa nozione di «materia» è un’assunzione «metafisica» ingiustificata: un modello utile per un po’, ma dal quale bisogna imparare a uscire perché non diventi pregiudizio metafisico. Mach insiste che la scienza si deve liberare da ogni assunzione «metafisica». Basare la conoscenza solo su ciò che è «osservabile».
Ricordate? Questa è esattamente l’idea di partenza del magico lavoro di Heisenberg concepito sull’isola di Helgoland. Il lavoro che ha aperto la strada alla teoria dei quanti e il racconto di questo libro. Ecco come si apre l’articolo di Heisenberg: «L’obiettivo di questo lavoro è gettare le basi per una teoria di meccanica quantistica basata esclusivamente su relazioni fra quantità che siano in linea di principio osservabili», quasi una citazione di Mach.
L’idea che la conoscenza si fondi su esperienza e osservazioni non è certo originale: è la tradizione dell’empirismo classico che risale a Locke e Hume, se non ad Aristotele. L’attenzione alla relazione fra soggetto e oggetto della conoscenza e il dubbio sulla possibilità di conoscere il mondo «come veramente è» avevano portato, nel grande idealismo classico tedesco, alla centralità filosofica del soggetto che conosce. Mach, scienziato, riporta l’attenzione dal soggetto all’esperienza stessa – che Mach chiama «sensazioni». Studia la forma concreta con cui la conoscenza scientifica cresce sulla base dell’esperienza. Il suo lavoro più conosciuto84 esamina l’evoluzione storica della meccanica. La interpreta come sforzo di sintetizzare nel modo più economico i fatti noti sul movimento rivelati dalle sensazioni.
La conoscenza non è quindi vista da Mach come dedurre o indovinare un’ipotetica realtà al di là delle sensazioni, ma come la ricerca di un’organizzazione efficiente del nostro modo di organizzare queste sensazioni. Il mondo che ci interessa, per Mach, è costituito da sensazioni. Qualunque assunzione su cosa si nasconda «dietro» le sensazioni è sospetta di «metafisica».
La nozione di «sensazione» in Mach è tuttavia ambigua. È la sua debolezza, ma anche la sua forza: Mach prende questo concetto dalla fisiologia delle sensazioni fisiche e lo fa diventare una nozione universale indipendente dalla sfera psichica. Usa il termine «elementi» (in un senso simile alle dhamma della filosofia buddhista). «Elementi» non sono solo le sensazioni che prova un essere umano o un animale. Sono qualunque fenomeno che si manifesti nell’universo. Gli «elementi» non sono indipendenti: sono legati da relazioni, che Mach chiama «funzioni», e sono queste che la scienza studia. Anche se imprecisa, quella di Mach è dunque una vera e propria filosofia naturale che sostituisce il meccanicismo della materia che si muove nello spazio con un insieme generale di elementi e funzioni.85
L’interesse di questa posizione filosofica è che elimina tanto ogni ipotesi su una realtà dietro le apparenze, quanto ogni ipotesi sulla realtà del soggetto che ha esperienza. Per Mach non vi è distinzione fra mondo fisico e mondo mentale: la «sensazione» è egualmente fisica e mentale. È reale. Così descrive Bertrand Russell la stessa idea: «Il materiale primo di cui è fatto il mondo non è di due tipi, materia e mente; è soltanto arrangiato in strutture differenti dalle sue inter-relazioni: alcune strutture le chiamiamo mentali, altre fisiche».86 Sparisce l’ipotesi di una realtà materiale dietro ai fenomeni, sparisce l’ipotesi di uno spirito che conosce. Chi ha conoscenza, per Mach, non è il «soggetto» dell’idealismo: è la concreta attività umana, nel concreto corso della storia, che impara a organizzare in forma via via migliore i fatti del mondo con cui interagisce.
Questa prospettiva storica e concreta entra facilmente in risonanza con le idee di Marx e Engels, per i quali la conoscenza è pure calata nella storia dell’umanità. La conoscenza viene svestita di ogni carattere astorico, di ogni ambizione di assoluto o pretesa di certezza, e calata nel processo concreto dell’evoluzione biologica, storica e culturale dell’uomo sul nostro pianeta. Viene interpretata in termini biologici ed economici, come strumento per semplificare l’interazione con il mondo. Non è acquisizione definitiva, ma processo aperto. Per Mach il sapere è la scienza della natura, ma la sua prospettiva non è lontana dallo storicismo del materialismo dialettico. La consonanza fra le idee di Mach e quelle di Engels e Marx è sviluppata da Bogdanov e trova consensi nella Russia prerivoluzionaria.
La reazione di Lenin è tagliente: in Materialismo ed empiriocriticismo attacca violentemente Mach, i suoi discepoli russi, e implicitamente Bogdanov. Lo accusa di fare filosofia «reazionaria», il peggiore degli insulti. Nel 1909 Bogdanov è espulso dal comitato editoriale del «Proletario», il giornale underground dei bolscevichi, e poco dopo dal Comitato Centrale del Partito.
La critica di Lenin a Mach e la risposta di Bogdanov87 ci interessano. Non perché Lenin sia Lenin, ma perché la sua critica è la reazione naturale alle idee che hanno portato alla teoria dei quanti. La stessa critica viene naturale anche a noi e la questione dibattuta da Lenin e Bogdanov ritorna nella filosofia contemporanea ed è una chiave per comprendere la valenza rivoluzionaria dei quanti.
Lenin accusa Bogdanov e Mach di essere «idealisti». Un idealista, per Lenin, nega l’esistenza di un mondo reale fuori dallo spirito e riduce la realtà al contenuto della coscienza.
Se esistono solo «sensazioni», argomenta Lenin, allora non esiste una realtà esterna, vivo in un mondo solipsistico dove ci sono solo io con le mie sensazioni. Assumo me stesso, il soggetto, come unica realtà. L’idealismo è per Lenin la manifestazione ideologica della borghesia, il nemico. All’idealismo Lenin oppone un materialismo che vede l’essere umano, la sua coscienza, lo spirito, come aspetti di un mondo concreto, oggettivo, conoscibile, fatto soltanto di materia in moto nello spazio.
Comunque si giudichi il suo comunismo, Lenin è stato senza dubbio un politico straordinario. Anche la sua conoscenza della letteratura filosofica e scientifica è impressionante; se oggi eleggessimo politici così colti, forse sarebbero più efficaci anche loro. Ma come filosofo Lenin non è un granché. L’influenza del suo pensiero filosofico è dovuta più al suo lungo dominio della scena politica che alla profondità dei suoi argomenti. Mach merita di meglio.88
Bogdanov risponde a Lenin che la sua critica sbaglia il bersaglio. Il pensiero di Mach non è idealismo, ancor meno solipsismo. L’umanità che conosce non è un soggetto trascendente isolato, non è l’«io» filosofico dell’idealismo: è l’umanità reale, storica, parte del mondo naturale. Le «sensazioni» non sono «dentro la nostra mente». Sono fenomeni del mondo: la forma nella quale il mondo si presenta al mondo. Non arrivano a un io separato dal mondo: arrivano alla pelle, al cervello, ai neuroni della retina, ai percettori dell’orecchio, tutti elementi della natura.
Lenin nel suo libro definisce «materialismo» la convinzione che esista un mondo fuori dalla mente.89 Se è questa la definizione di «materialismo», Mach è certo materialista, siamo tutti materialisti, anche il papa è materialista. Ma poi per Lenin l’unica versione del materialismo è l’idea che «non c’è null’altro nel mondo che materia in moto nello spazio e nel tempo», e che noi possiamo arrivare a «verità certe» nel conoscere la materia. Bogdanov mette in luce la debolezza tanto scientifica quanto storica di queste affermazioni perentorie. Il mondo è fuori dalla nostra mente, certo, ma è più sottile di questo materialismo ingenuo. L’alternativa non è soltanto fra l’idea che il mondo esista solo nella mente, oppure che sia fatto unicamente di particelle di materia in moto nello spazio.
Mach non pensa certo che non ci sia nulla fuori dalla mente. Al contrario, gli interessa proprio ciò che sta fuori dalla mente (qualunque cosa sia la «mente»): la natura, nella sua complessità di cui siamo parte. La natura si presenta come un insieme di fenomeni, e Mach raccomanda di studiare i fenomeni, costruire sintesi e strutture di concetti che ne rendano ragione, non postulare soggiacenti realtà.
La proposta radicale di Mach è di non pensare ai fenomeni come manifestazioni di oggetti, ma pensare agli oggetti come nodi di fenomeni. Non è una metafisica dei contenuti della coscienza, come la legge Lenin: è un passo indietro rispetto alla metafisica degli oggetti-in-sé. Mach è sferzante: «La concezione del mondo [meccanicista] ci appare mitologia meccanica [come] la mitologia animistica delle religioni antiche».90
Einstein ha riconosciuto più volte il suo debito verso Mach.91 La critica all’assunzione (metafisica) dell’esistenza di uno spazio fisso reale «entro cui» si muovono le cose ha aperto le porte alla sua relatività generale.
Nello spazio aperto dalla lettura della scienza che fa Mach, che non dà per scontata la realtà di qualcosa se non nella misura in cui ci permette di organizzare i fenomeni, si infila Heisenberg, per togliere all’elettrone la sua traiettoria e reinterpretarlo solo nei termini delle sue manifestazioni.
In questo stesso spazio si apre la possibilità dell’interpretazione relazionale della meccanica quantistica, in cui gli elementi utili per descrivere il mondo sono manifestazioni di sistemi fisici gli uni agli altri, non proprietà assolute di ciascun sistema.
Bogdanov rimprovera Lenin di fare della «materia» una categoria assoluta e astorica, «metafisica» nel senso di Mach. Gli rimprovera soprattutto di dimenticare la lezione di Engels e Marx: la storia è processo, la conoscenza è processo. La conoscenza scientifica cresce, scrive Bogdanov, e la nozione di materia propria della scienza del nostro tempo potrebbe rivelarsi solo una tappa intermedia nel cammino della conoscenza. La realtà potrebbe essere più complessa dell’ingenuo materialismo della fisica settecentesca. Parole profetiche: pochi anni dopo Werner Heisenberg apre le porte al livello quantistico della realtà.
Altrettanto impressionante è la risposta politica di Bogdanov a Lenin. Lenin parla di certezze assolute. Presenta il materialismo storico di Marx ed Engels come qualcosa di acquisito per sempre. Bogdanov osserva che questo dogmatismo ideologico non solo non coglie la dinamica del pensiero scientifico, ma porta anche al dogmatismo politico. La Rivoluzione russa – argomenta Bogdanov nei turbolenti anni che seguono questa Rivoluzione – ha creato una struttura economica nuova. Se la cultura è influenzata dalla struttura economica, come ha suggerito Marx, allora la società post-rivoluzionaria deve poter produrre una cultura nuova, che non può più essere il Marxismo Ortodosso concepito prima della Rivoluzione.
Il programma politico di Bogdanov era lasciare potere e cultura al popolo, per nutrire la cultura nuova, collettiva, generosa auspicata dal sogno rivoluzionario. Il programma politico di Lenin, al contrario, era rafforzare l’avanguardia rivoluzionaria, depositaria della verità, che doveva guidare il proletariato. Bogdanov predice che il dogmatismo di Lenin congelerà la Russia rivoluzionaria in un blocco di ghiaccio che non evolverà più, soffocherà le conquiste della Rivoluzione, diventerà sclerotico. Parole profetiche, anche queste.
«Bogdanov» è uno pseudonimo. Uno dei tanti che ha usato per nascondersi alla polizia dello Zar. Nasce come Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij, secondo di sei fratelli, figlio di un maestro di scuola di un paesino. Indipendente e ribelle fin da piccolissimo, la leggenda vuole che le prime parole che pronuncia, a 18 mesi, durante una lite in famiglia, siano: «Papà è scemo!».92
Grazie a una promozione del padre (che non era scemo) a professore di fisica in una città con una scuola più grande, il piccolo Aleksandr ha accesso a una biblioteca e a un rudimentale laboratorio di fisica. Ha una borsa di studio per frequentare il ginnasio, di cui ricorda: «La chiusura mentale e la malizia dei professori mi hanno insegnato a diffidare dei potenti e rifiutare ogni autorità».93 La stessa viscerale insofferenza all’autorità che guida la formazione di Einstein, di pochi anni più giovane di lui.
Finita la scuola brillantemente, si iscrive all’Università di Mosca per studiare scienze naturali. Aderisce a un’organizzazione di studenti che aiuta compagni delle province lontane. Si fa coinvolgere in attività politiche. È arrestato più volte. Traduce Il Capitale di Marx in russo. Lavora nella propaganda politica, scrive testi di economia per gli operai. Studia medicina in Ucraina, viene arrestato ancora ed esiliato. A Zurigo entra in relazione con Lenin. È uno dei leader del movimento bolscevico, un po’ il vice del capo. Negli anni successivi alla polemica con Lenin viene allontanato dalla dirigenza e dopo la Rivoluzione è tenuto lontano dai centri del potere. Resta universalmente rispettato, continua a esercitare una forte influenza culturale, morale e politica. Negli anni Venti e Trenta è il riferimento dell’opposizione sotterranea «di sinistra» che cerca di difendere i successi della Rivoluzione dall’autocrazia bolscevica, fino a che questa dissidenza è schiacciata da Stalin.
Il concetto chiave della produzione teorica di Bogdanov è la nozione di «organizzazione». La vita sociale è organizzazione del lavoro collettivo. La conoscenza è organizzazione dell’esperienza e dei concetti. Possiamo comprendere la realtà come organizzazione, struttura. L’immagine del mondo che Bogdanov propone è nei termini di una scala di forme di organizzazione via via più complesse: da elementi minimi che interagiscono direttamente, attraverso l’organizzazione della materia nel vivente, lo sviluppo biologico dell’esperienza individuale organizzata in individui, fino alla conoscenza scientifica, che è, per Bogdanov, esperienza organizzata collettivamente. Attraverso la cibernetica di Norbert Wiener e la teoria dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, queste idee avranno un’influenza poco riconosciuta ma profonda sul pensiero moderno, sulla nascita della cibernetica, sulla scienza dei sistemi complessi, fino al realismo strutturale contemporaneo.
Nella Russia sovietica, Bogdanov è professore di economia all’Università di Mosca, dirige l’Accademia Comunista, scrive un romanzo di fantascienza, Stella Rossa, che diventa un clamoroso successo editoriale. Il romanzo descrive una società utopica libertaria su Marte, che ha superato ogni distinzione fra maschi e femmine, e usa un efficiente apparato statistico per elaborare dati economici capaci di indicare alle fabbriche cosa serve produrre e ai disoccupati in che fabbrica trovare lavoro, e così via, lasciando però ognuno libero di scegliere come vivere.
Si occupa di organizzare centri per la cultura proletaria, dove una cultura nuova, solidale, sia libera di fiorire autonomamente. Allontanato da Lenin anche da questa attività, si dedica alla medicina. Medico di formazione, aveva servito al fronte durante la Grande Guerra. Fonda un istituto di ricerca medica a Mosca e diventa uno dei pionieri delle tecniche di trasfusione del sangue. Nella sua ideologia rivoluzionaria e collettivista, le trasfusioni del sangue erano simboliche della possibilità degli uomini di collaborare e condividere.
Medico, economista, filosofo, scienziato naturale, scrittore di fantascienza, poeta, insegnante, politico, anticipatore della cibernetica e della scienza dell’organizzazione, pioniere delle trasfusioni del sangue, rivoluzionario per tutta la vita, Aleksandr Bogdanov è uno dei personaggi più complessi e affascinanti del mondo intellettuale di inizio Novecento. Le sue idee, troppo radicali per entrambi i lati della cortina di ferro, si sono diffuse sotterraneamente e lentamente. Solo l’anno scorso è stata pubblicata in inglese la sua opera in tre volumi che ha dato origine alla critica di Lenin. Curiosamente se ne trovano più tracce nella letteratura: a lui sono ispirati il romanzo Proletkult di Wu Ming,94 e il grande personaggio di Arkady Bogdanov nella splendida trilogia Red Mars, Green Mars, Blu Mars di Kim Stanley Robinson.95
Fedele ai suoi ideali di condivisione, Aleksandr Bogdanov morirà in maniera incredibile, in un esperimento scientifico in cui scambia il proprio sangue con un giovane malato di tubercolosi e malaria, nel tentativo di curarlo.
Fino all’ultimo, il coraggio di sperimentare, il coraggio di condividere, il sogno della fratellanza.
Ho un po’ divagato. La prospettiva di Mach che ha permesso a Heisenberg di fare il passo cruciale è importante per comprendere cosa abbiamo scoperto del mondo, con i quanti. La polemica fra Lenin e Bogdanov mette in luce il punto che genera i malintesi.
Lo spirito «antimetafisico» che Mach ha promosso è un atteggiamento di apertura: non cerchiamo di insegnare al mondo come debba essere. Stiamo piuttosto ad ascoltare il mondo, per farci insegnare da lui come meglio pensarlo.
Quando Einstein obietta alla meccanica quantistica che «Dio non gioca a dadi», Bohr gli risponde: «Smettila di dire a Dio cosa deve fare». Fuori di metafora: la Natura è più ricca dei nostri pregiudizi metafisici. Ha più fantasia di noi.
Uno dei filosofi che più acutamente ha esaminato la teoria dei quanti, David Albert, mi ha chiesto una volta: «Carlo, come puoi pensare che esperimenti fatti con pezzetti di metallo e di vetro in un laboratorio possano avere tanto peso da mettere in dubbio le nostre più radicate convinzioni metafisiche su come è fatto il mondo?». La domanda mi ha a lungo inseguito. Alla fine però la risposta mi sembra semplice: «E cosa sono “le nostre più radicate convinzioni metafisiche” se non anch’esse solo qualcosa che ci siamo abituati a creder vero, appunto maneggiando sassi e pezzi di legno?».
I nostri pregiudizi su come sia fatta la realtà sono il risultato della nostra esperienza. La nostra esperienza è limitata. Non possiamo prendere per oro colato le generalizzazioni che ne abbiamo fatto in passato. Nessuno lo dice meglio di Douglas Adams con la sua ironia: «Il fatto che noi viviamo sul fondo di un profondo pozzo di potenziale gravitazionale, sulla superficie di un pianeta ricoperto di gas che gira intorno a una palla di fuoco nucleare appena 90 milioni di miglia più in là, e pensiamo che questo sia “normale”, è una certa indicazione di quanto distorte tendano a essere le nostre prospettive».96
Aspettiamoci di doverle modificare, le nostre provinciali prospettive metafisiche, se impariamo qualcosa di più. Prendiamo sul serio le novità che impariamo sul mondo, anche se cozzano contro i nostri pregiudizi su come sia fatta la realtà.
Questo mi sembra un atteggiamento di rinuncia all’arroganza del sapere, e insieme di fiducia nella ragione e nella sua capacità di imparare. La scienza non è Depositaria della Verità, ma si appoggia sulla consapevolezza che non ci sono Depositari della Verità. Il percorso migliore per imparare è interagire con il mondo cercando di comprenderlo, riadattando i nostri schemi mentali a quanto troviamo. Questo rispetto per la scienza come sorgente del nostro sapere sul mondo è cresciuto fino al radicale naturalismo di filosofi come Willard Quine, per il quale la nostra stessa conoscenza è uno dei tanti processi naturali e come tale va studiata.
Molte «interpretazioni» della meccanica quantistica come quelle elencate nel capitolo II mi sembrano sforzi per comprimere le scoperte della fisica fondamentale dentro i canoni di pregiudizi metafisici. Siamo convinti che il mondo sia deterministico, il futuro e il passato siano univocamente determinati dallo stato presente del mondo? Allora aggiungiamo quantità che determinino il passato e il futuro, anche se sono inosservabili. Ci disturba vedere sparire una componente di una sovrapposizione quantistica? Allora aggiungiamo un universo parallelo inosservabile, dove questa componente vada a nascondersi. E così via. Penso che dobbiamo adattare la nostra filosofia alla nostra scienza, non viceversa.
Niels Bohr è stato il padre spirituale dei giovani turchi che hanno fatto la teoria dei quanti. Ha spinto lui Heisenberg a occuparsi del problema, lo ha accompagnato dentro al mistero degli atomi. Lui ha mediato il litigio fra Heisenberg e Schrödinger. Lui ha formulato il modo di pensare la teoria che è finito nei libri di testo di fisica di tutto il pianeta. È stato lo scienziato che forse si è sforzato più di ogni altro di capire cosa tutto ciò implicasse. La leggendaria discussione fra lui e Einstein sulla ragionevolezza della teoria è durata anni, spingendo entrambi i giganti a chiarire le loro posizioni, a indietreggiare.
Einstein ha sempre riconosciuto che la meccanica quantistica è un passo avanti nella comprensione del mondo: è stato lui a proporre Heisenberg, Born e Jordan per il Premio Nobel. Ma non è mai stato convinto della forma che ha preso la teoria. L’ha accusata, in periodi diversi, di essere inconsistente, di essere implausibile, di essere incompleta.
Bohr ha difeso la teoria dalle critiche di Einstein, talvolta a ragione, talvolta addirittura vincendo discussioni con argomenti errati.97 Il pensiero di Bohr non è limpido, è sempre un po’ oscuro. Ma le sue intuizioni sono acutissime e hanno costruito buona parte della comprensione attuale della teoria.
L’intuizione chiave di Bohr è sintetizzata in questa osservazione, cui ho già fatto cenno:
«Mentre nell’ambito della fisica classica le interazioni fra un oggetto e l’apparato di misura possono essere trascurate – o se necessario possiamo tenerne conto e compensarle –, nella fisica quantistica questa interazione è una parte inseparabile dal fenomeno. Per questo la descrizione non ambigua di un fenomeno quantistico richiede in linea di principio di includere la descrizione di tutti gli aspetti rilevanti dell’arrangiamento sperimentale».98
Queste parole colgono l’aspetto relazionale della meccanica quantistica, ma nell’ambito circoscritto di un fenomeno misurato in un laboratorio da strumenti di misura. Per questo si prestano a un equivoco: pensare che si parli solo di una situazione in cui c’è un essere particolare che usa strumenti per misurare. Pensare che un essere umano, la sua mente, o i numeri che usa, giochino un ruolo speciale nella grammatica della natura è una sciocchezza.
Quello che è necessario aggiungere al paragrafo di Bohr è la consapevolezza, cresciuta nel corso di un secolo di successi della teoria, del fatto che tutta la natura è quantistica e non esiste nulla di speciale in un laboratorio di fisica con un apparato di misura. Non ci sono fenomeni quantistici in laboratorio e fenomeni non quantistici altrove: tutti i fenomeni sono in ultima analisi quantistici. Estesa a qualunque fenomeno naturale, l’intuizione di Bohr diventa:
«Mentre prima pensavamo che le proprietà di ogni oggetto fossero determinate anche se trascuriamo le interazioni in corso fra questo oggetto e gli altri, la fisica quantistica ci mostra che l’interazione è parte inseparabile dei fenomeni. La descrizione non ambigua di qualunque fenomeno richiede di includere tutti gli oggetti coinvolti nell’interazione in cui il fenomeno si manifesta».
E questo è radicale, ma chiaro. I fenomeni sono azioni di una parte del mondo naturale su un’altra parte del mondo naturale. Confondere questa scoperta con qualcosa che abbia a che vedere con la nostra mente è l’errore di Lenin: nella polemica con Mach il dualista è lui, che non sa concepire fenomeni se non relativi a un soggetto trascendente.
La mente non c’entra niente. «Osservatori» speciali non giocano alcun vero ruolo per la teoria. Il punto centrale è più semplice: non possiamo separare le proprietà degli oggetti dagli oggetti interagendo con i quali queste proprietà si manifestano. Tutte le proprietà (variabili) di un oggetto, in ultima analisi, sono tali solo rispetto ad altri oggetti.
Un oggetto isolato, preso in sé stesso, indipendente da ogni interazione, non ha uno stato particolare. Al massimo possiamo attribuirgli una specie di disposizione probabilistica99 a manifestarsi in un modo o nell’altro. Ma anche questa non è che un’anticipazione di fenomeni futuri e un riflesso di fenomeni passati, ed è comunque solo e sempre relativa a un altro oggetto.
La conclusione è radicale. Fa saltare l’idea che il mondo debba essere costituito da una sostanza che ha attributi100 e ci forza a pensare tutto in termini di relazioni.
Questo, io credo, è quello che abbiamo scoperto del mondo con i quanti.
Questo modo di comprendere la scoperta centrale della meccanica quantistica è radicato nelle intuizioni originarie di Heisenberg e Bohr, ma ha cominciato a chiarirsi a metà degli anni Novanta, con la nascita della «interpretazione relazionale della meccanica quantistica».101 Il mondo della filosofia ha reagito a questa interpretazione della scoperta dei quanti in modo variegato. Scuole di pensiero diverse hanno cercato di inquadrarla in diversi termini filosofici. Bas van Fraassen, uno dei più brillanti filosofi contemporanei, ne ha fatto un’analisi acuta nel quadro del suo «empirismo costruttivo».102 Michel Bitbol ne ha dato una lettura neokantiana.103 F.-I. Pris una lettura nell’ambito di un realismo contestuale.104 Pierre Livet l’ha letta in termini di un’ontologia di processi.105 Mauro Dorato, in un penetrante articolo che ne analizza diversi aspetti filosofici,106 l’ha inserita nel Realismo Strutturale, secondo il quale la realtà è costituita di strutture.107 Laura Candiotto ha difeso con ottimi argomenti la stessa tesi.108
Qui non mi addentro nel dibattito fra le correnti della filosofia contemporanea. Aggiungo però qualche cenno, e racconto una storia personale.
La scoperta che quantità che pensavamo assolute sono invece relative è un filo che attraversa la storia della fisica. La relatività della velocità discussa da Galileo ne è un esempio. Le scoperte di Einstein si situano sulla stessa scia. La differenza fra un campo elettrico e un campo magnetico è relazionale: dipende da come ci muoviamo. Il valore del potenziale elettrico è relativo al potenziale altrove. E così via.
Al di là della fisica, il pensiero relazionale lo si ritrova in tutte le scienze. In biologia le caratteristiche dei sistemi viventi sono comprensibili in relazione all’ambiente, formato da altri esseri viventi. In chimica le proprietà degli elementi sono il modo in cui questi interagiscono con altri elementi. In economia si parla di relazioni economiche. In psicologia la personalità individuale esiste in un contesto relazionale. In questi e tanti altri casi capiamo le cose (vita biologica, vita psichica, composti chimici…) nel loro essere in relazione ad altre cose.
Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione di «entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si ritrova nelle tradizioni filosofiche più disparate,109 dal «tutto scorre» di Eraclito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo nell’ultimo anno sono usciti libri di filosofi come Un approccio formale alla metafisica delle prospettive110 e Il relativismo dei punti di vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di punto di vista.111
Nella filosofia analitica, il realismo strutturale112 è basato sull’idea che le relazioni vengano prima degli oggetti: per Ladyman, ad esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è pensarlo come un insieme di relazioni senza oggetti che siano in relazione.113 In una prospettiva neokantiana Michel Bitbol ha scritto Dall’interno del mondo: per una filosofia e una scienza delle relazioni.114 In Italia, Laura Candiotto ha pubblicato con Giacomo Pezzano un libro intitolato Filosofia delle relazioni.115
Ma l’idea è antica. In Occidente la si trova già negli ultimi dialoghi di Platone. Nel Sofista Platone si interroga sul fatto che le Idee atemporali debbono pur entrare in relazione con la realtà fenomenica per avere senso, e arriva a mettere in bocca al personaggio centrale del dialogo, lo Straniero di Elea, questa famosa definizione completamente relazionale – e terribilmente poco eleatica – di realtà: «Dico dunque che ciò che per natura può agire su altro o patire anche la minima azione da parte di altro, per insignificante che esso sia, e sia pure una volta sola, questo solo si può dire veramente reale. Propongo dunque questa definizione dell’essere: che esso non sia se non azione (δύναμις)».116 Come al solito, potrebbe sussurrare qualcuno, in una frase Platone aveva già detto tutto quanto c’era da dire…
Anche solo questa minima e frammentaria carrellata basta a mostrare come l’idea che siano relazioni e interazioni a tessere il mondo, più che oggetti, è ricorrente.
Prendiamo un oggetto, la sedia che vedo davanti a me. È reale e di fatto sta davanti a me: non c’è dubbio. Ma cosa significa esattamente che quell’insieme sia un oggetto, un’entità, una sedia, reale?
La nozione di sedia è definita dalla sua funzione: un mobile costruito perché ci si possa sedere. Presuppone l’umanità, che si siede. Non riguarda la sedia in sé: riguarda il modo in cui la concepiamo. Questo non intacca il fatto che la sedia esista lì, come oggetto, con le sue ovvie caratteristiche fisiche, colore, durezza, eccetera.
Anche queste caratteristiche, d’altra parte, sono relative a noi. Il colore nasce dall’incontro tra le frequenze della luce riflessa dalla superficie della sedia con i particolari recettori nella retina. La maggior parte delle altre specie animali non vede i colori come noi. Le frequenze stesse emesse dalla sedia nascono dall’interazione fra la dinamica dei suoi atomi e la luce che la illumina.
La sedia, comunque, è un oggetto indipendente dal suo colore. Se la muovo, si muove tutta insieme… In effetti, neppure questo è proprio vero: la sedia è fatta di un sedile appoggiato a un telaio, che si solleva se lo prendo in mano. È un’unione di pezzi. Cosa fa sì che questa unione costituisca un oggetto, un’unità? Non molto più che il ruolo che quest’insieme ha per noi…
Se andiamo a cercare la sedia in sé, indipendente dalle sue relazioni con l’esterno, e in particolare con noi, non la troviamo.
Non c’è nulla di misterioso in questo: il mondo non è diviso in entità a sé stanti. Siamo noi che lo separiamo in oggetti per nostra convenienza. Una catena di montagne non è separata in singole montagne: siamo noi che la dividiamo in parti che ci colpiscono. Innumerevoli – se non tutte le – nostre definizioni sono relazionali: una madre è tale perché c’è un figlio, un pianeta è tale perché gira intorno a una stella, un predatore è tale perché ci sono le prede, una posizione è tale in relazione a qualcos’altro. Anche il tempo è definito da relazioni.117
Tutto questo non è nuovo. Ma alla fisica si è chiesto di fornire una base ferma su cui appoggiare queste relazioni: una realtà che soggiacesse a, o sostenesse, questo mondo di relazioni. La fisica classica, con la sua idea di materia che si muove nello spazio, caratterizzata da qualità primarie (la forma) che soggiacciono alle qualità secondarie (il colore), sembrava poter svolgere questo ruolo: fornire gli ingredienti primi del mondo, che possiamo concepire come esistenti di per sé, alla base del gioco delle combinazioni e delle relazioni.
La scoperta delle proprietà quantistiche del mondo è la scoperta che la materia fisica non è in grado di svolgere questo ruolo. La fisica fondamentale descrive sì una grammatica elementare e universale, ma non è una grammatica costituita di semplice materia in moto, con qualità primarie proprie. La relazionalità che permea il mondo scende fino a questa grammatica elementare. Non possiamo descrivere nessuna entità elementare se non nel contesto di ciò con cui è in interazione.
Questo ci lascia senza un punto di appoggio. Se la materia portatrice di proprietà definite e univoche non costituisce la sostanza elementare del mondo, se il soggetto della conoscenza è una parte della natura, qual è la sostanza elementare del mondo?
A cosa ancorare la nostra concezione del mondo? Da cosa partire? Cosa è fondamentale?
La storia della filosofia occidentale è in larga misura un tentativo di rispondere alla domanda di cosa sia fondamentale. Una ricerca del punto di partenza da cui derivare il resto: la materia, Dio, lo spirito, gli atomi e il vuoto, le forme platoniche, le forme a priori della conoscenza, il soggetto, lo Spirito Assoluto, i momenti elementari di coscienza, i fenomeni, l’energia, l’esperienza, le sensazioni, il linguaggio, le proposizioni verificabili, i dati scientifici, le teorie falsificabili, i circoli ermeneutici, le strutture… Un lungo elenco di proposte di fondamento, nessuna delle quali è mai arrivata a convincere tutti.
Il tentativo di Mach di prendere le «sensazioni», o «elementi», come fondamento ha ispirato scienziati e filosofi, ma alla fine non mi sembra più convincente di altri. Mach tuona contro la metafisica, ma di fatto elabora una sua metafisica, più leggera, più flessibile, ma pur sempre una metafisica: elementi e funzioni. Un realismo dei fenomeni, o un «empirismo realista».118
Nei miei tentativi di trovare un senso ai quanti, mi sono aggirato fra i testi di filosofi alla ricerca di una base concettuale per comprendere la strana immagine del mondo offerta da questa incredibile teoria. Ho trovato suggestioni molto belle, critiche acute, ma nulla di totalmente convincente per me.
Un giorno poi mi sono imbattuto in un testo che mi ha lasciato stupefatto, e chiudo questo capitolo, che non può avere conclusioni, con il racconto di questo incontro.
Non ci sono arrivato per caso: mi era successo ripetutamente, parlando di quanti e della loro natura relazionale, di parlare con persone che mi dicevano: «Hai letto Nāgārjuna?».
All’ennesima volta che mi sono sentito chiedere: «Hai letto Nāgārjuna?», ho deciso di leggerlo. È un testo poco noto in Occidente ma non è un testo minore: è uno dei capisaldi della filosofia indiana, ed è solo per la mia penosa ignoranza del pensiero asiatico, caratteristica di un occidentale, che non lo conoscevo. Si intitola con una di queste impossibili parole indiane: Mūlamadhyamakakārikā, tradotta in molti modi, per esempio Le stanze del cammino di mezzo. L’ho letto in una traduzione commentata di un filosofo analitico americano.119 Mi ha lasciato un’impressione profonda.
Nāgārjuna è vissuto nel II secolo. Sul suo testo esi stono innumerevoli commenti e si sono stratificate interpretazioni ed esegesi. L’interesse dei testi così antichi è proprio la stratificazione di letture che ce li consegna arricchiti di livelli di significato. Quello che ci interessa davvero dei testi antichi non è cosa volesse inizialmente dire l’autore: è quello che il testo può suggerire oggi a noi.
La tesi centrale del libro di Nāgārjuna è semplicemente che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. La risonanza con la meccanica quantistica è immediata. Ovviamente Nāgārjuna non sapeva e non poteva sapere nulla di quanti, non è questo il punto. Il punto è che i filosofi ci offrono modi originali di pensare il mondo, e noi possiamo servircene se ci risultano utili. La prospettiva che offre Nāgārjuna ci rende forse un po’ più facile pensare il mondo dei quanti.
Se nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. Il termine tecnico usato da Nāgārjuna per descrivere la mancanza di esistenza indi pendente è «vacuità» (śūnyatā): le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro.
Se guardo un cielo nuvoloso – per fare un esempio ingenuo – posso vedervi un castello e un drago. Esistono veramente là nel cielo un drago e un castello? Ovviamente no: il castello e il drago nascono dall’incontro fra l’apparenza delle nubi e sensazioni e pensieri nella mia testa; di per sé sono entità vuote, non ci sono. Fin qui è facile. Ma Nāgārjuna suggerisce che anche le nubi, il cielo, le sensazioni, i pensieri, e la mia stessa testa siano egualmente cose che nascono dall’incontro fra altre cose: entità vuote.
E io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi vede la stella allora? Nessuno, dice Nāgārjuna. Vedere la stella è una componente di quell’insieme che convenzionalmente chiamo il mio io. «Quello che articola il linguaggio non esiste. Il cerchio dei pensieri non esiste».120 Non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. «Io» non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di speculazione occidentale sul soggetto e sulla coscienza svaniscono come brina nell’aria del mattino.
Nāgārjuna distingue due livelli, come fa tanta filosofia e tanta scienza: la realtà convenzionale, apparente, con i suoi aspetti illusori o prospettici, e la realtà ultima. Ma porta questa distinzione in una direzione inaspettata: la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è.
Se ogni metafisica cerca una sostanza prima, un’essenza da cui tutto dipenda, il punto di partenza da cui poi derivare il resto, Nāgārjuna suggerisce che la sostanza ultima, il punto di partenza… non c’è.
Ci sono timide intuizioni in direzioni simili nella filosofia occidentale. Ma la prospettiva di Nāgārjuna è radicale. L’esistenza convenzionale quotidiana non è negata; al contrario, è affermata in tutta la sua complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può essere studiata, esplorata, analizzata, ridotta a termini più elementari. Ma non ha senso, suggerisce Nāgārjuna, cercarne il sostrato ultimo. La differenza dal realismo strutturale contemporaneo, per esempio, mi sembra chiara: si può immaginare Nāgārjuna che aggiunge oggi al suo libello un capitoletto intitolato «Anche le strutture sono vuote». Esistono solo in quanto pensate per organizzare altro. Nel suo linguaggio: «Non sono né precedenti agli oggetti, né non precedenti agli oggetti, né entrambe le cose, né, infine, né l’una né l’altra cosa».f
L’illusorietà del mondo, il saṃsāra, è tema generale del Buddhismo; riconoscerla è raggiungere il nirvāṇa, la liberazione e la beatitudine. Per Nāgārjuna saṃsāra e nirvāṇa sono la stessa cosa: entrambi vuoti di esistenza propria. Non esistenti.
Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive Nāgārjuna nel capitolo più vertiginoso del suo libro, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, e questo vale anche per la prospettiva di Nāgārjuna: anche la vacuità è vuota di essenza, è conven zionale. Nessuna metafisica sopravvive. La vacuità è vuota.
Nāgārjuna ci regala uno strumento concettuale formidabile per pensare la relazionalità dei quanti: si può pensare l’interdipendenza senza essenze autonome che entrino poi in relazione. Anzi, l’interdipendenza – questo è l’argomento chiave di Nāgārjuna – richiede di dimenticare essenze autonome.
La lunga ricerca della «sostanza ultima» della fisica, passata attraverso materia, molecole, atomi, campi, particelle elementari… è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della relatività generale.
Può essere che un antico pensatore indiano ci offra uno strumento concettuale per districarci?
È sempre dagli altri che si impara, dal diverso. Nonostante millenni di dialogo ininterrotto, Oriente e Occidente hanno forse ancora cose da dirsi. Come nei migliori matrimoni.
Il fascino del pensiero di Nāgārjuna va al di là del le questioni della fisica moderna. La sua prospettiva ha qualcosa di vertiginoso. Risuona con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con lo smascheramento delle domande mal poste che ci permette il pensiero di Wittgenstein. Ma Nāgārjuna mi sembra non cadere nella trappola in cui si impiglia tanta filosofia postulando punti di partenza che finiscono sempre per rivelarsi poco convincenti a lungo andare. Parla della realtà, della sua complessità e della sua comprensibilità, ma ci difende dalla trappola concettuale di volerne trovare un fondamento ultimo.
La sua non è stravaganza metafisica: è sobrietà. Riconoscere che la domanda di cosa sia il fondamento ultimo di tutto è una domanda che, semplicemente, potrebbe non avere senso.
Questo non chiude la possibilità di indagare. Al contrario, la libera. Nāgārjuna non è un nichilista che nega la realtà del mondo, e neppure uno scettico che dice che della realtà non possiamo sapere nulla. Il mondo dei fenomeni è un mondo che possiamo indagare e comprendere sempre meglio. Trovarne caratteristiche generali. Ma è un mondo di interdipendenze e di contingenze, non un mondo che valga la pena cercare di derivare da un Assoluto.
Credo che uno dei grandi errori che fanno gli esseri umani quando tentano di capire qualcosa sia volere certezze. La ricerca della conoscenza non si nutre di certezze: si nutre di una radicale assenza di certezze. Grazie all’acuta consapevolezza della nostra ignoranza, siamo aperti al dubbio e possiamo imparare sempre meglio. Questa è sempre stata la forza del pensiero scientifico, pensiero della curiosità, della rivolta, del cambiamento. Non c’è un cardine, un punto fisso finale, filosofico o metodologico, a cui ancorare l’avventura del conoscere.
Esistono tante interpretazioni diverse del testo di Nāgārjuna. La molteplicità di possibili letture testimonia della vitalità e della capacità di parlarci che ha un testo antico. Quello che ci interessa, di nuovo, non è cosa effettivamente pensasse il priore di un monastero in India di quasi due millenni or sono – quelli sono affari suoi. Ciò che interessa noi è la forza delle idee che emana oggi dalle righe che ha lasciato; quanto queste, arricchite da generazioni di commenti, possano aprirci nuovi spazi di pensiero, intersecandosi con la nostra cultura e il nostro sapere. La cultura è questo: un dialogo interminabile che ci arricchisce nutrendoci di esperienze, sapere e, soprattutto, scambi.
Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A questo vile meccanico, che si occupa di quanti, Nāgārjuna insegna che posso pensare le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi chiedere cosa sia l’oggetto fisico indipendentemente dalle sue manifestazioni.
Ma la vacuità di Nāgārjuna nutre anche un atteggiamento etico profondamente rasserenante: comprendere che non esistiamo come entità autonome ci aiuta a liberarci dall’attaccamento e dalla sofferenza. Proprio per la sua impermanenza, per l’assenza di ogni Assoluto, la vita ha senso ed è preziosa.
A me come essere umano Nāgārjuna insegna la serenità, la leggerezza e la bellezza del mondo: non siamo che immagini di immagini. La realtà, inclusi noi stessi, non è che un tenue e fragile velo, al di là del quale… non c’è nulla.