1. Semplice materia?

So, however mysterious the mind-body problem may be for us, we should always remember that it is a solved problem for nature.121

 

È con tristezza che ogni tanto passo qualche ora su internet leggendo o ascoltando la montagna di stupidaggini che si ammantano del nome di «quantistico». Medicina quantistica, teorie olistiche quantistiche di tutti i tipi, spiritualismi quantici misticheggianti, e via e via, una incredibile sfilata di sciocchezze.

 

Le peggiori sono quelle mediche. Mi capita di ricevere qualche mail allarmata: «Mia sorella si fa curare da un medico quantistico, cosa ne pensa, professore?». Ne penso tutto il male del mondo, cerchi di mettere sua sorella in salvo più presto che può. Quando c’è di mezzo la medicina dovrebbe intervenire la legge. Ognuno ha diritto di curarsi come gli pare, ma nessuno ha diritto di imbrogliare il prossimo con cialtronerie che possono costare la vita.

 

Qualcuno mi scrive: «Ho la sensazione di avere già vissuto questo istante, è un effetto quantistico, professore?». Santi numi, no! Cosa c’entra la complessità della nostra memoria e dei nostri pensieri con i quanti? Nulla, proprio nulla! La meccanica quantistica non ha nulla a che vedere con fenomeni paranormali, medicine alternative, onde che ci portano e misteriose vibrazioni.

 

Per carità, adoro le buone vibrazioni. Avevo anch’io capelli lunghi tenuti da una fascia rossa, e da ragazzo ho cantato OM seduto a gambe incrociate proprio accanto ad Allen Ginsberg. Ma la delicata complessità del rapporto emotivo fra noi e l’universo ha a che vedere con le onde ψ della teoria quantistica tanto quanto una cantata di Bach ha a che vedere con il carburatore della mia automobile.

 

Il mondo è sufficientemente complesso per rendere conto della magia della musica di Bach, delle buone vibrazioni e della nostra profonda vita spirituale senza alcun bisogno di ricorrere alle stranezze dei quanti.

 

O viceversa, se volete, la realtà dei quanti è molto più strana di tutti i delicati, misteriosi, incantevoli, intricati aspetti della nostra realtà psicologica e della nostra vita spirituale. Trovo anche per nulla convincenti i tentativi di usare la meccanica quantistica per spiegare fenomeni complessi che capiamo poco, come il funzionamento della mente.

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Tuttavia, anche se remota dalla nostra diretta esperienza quotidiana, la scoperta della natura quantistica del mondo è troppo radicale per non avere alcuna rilevanza per i grandi problemi aperti, come appunto la natura della mente. Non perché la mente o altri fenomeni che capiamo ancora poco siano fenomeni quantistici, ma perché la scoperta dei quanti cambia i termini della questione, perché modifica la nostra concezione del mondo fisico e della materia.

 

La convinzione su cui questo libro si appoggia è che noi creature umane siamo parte della natura. Siamo un caso particolare fra tanti fenomeni naturali, nessuno dei quali sfugge alle grandi leggi naturali che conosciamo. Ma chi non si è mai chiesto: «Se il mondo è fatto di semplice materia, particelle in moto nello spazio, come è possibile che esistano i miei pensieri, le mie percezioni, la mia soggettività, il valore, la bellezza, il significato?». Come fa la «semplice materia» a produrre colori, emozioni, la sensazione viva e bruciante che ho di esistere? Come fa a conoscere e imparare, commuoversi, meravigliarsi, leggere un libro, e arrivare a chiedersi come funziona la materia stessa?

 

La meccanica quantistica non ci dà risposte dirette a queste domande. Non vedo alcuna spiegazione quantistica per soggettività, percezioni, intelligenza, coscienza, o altri aspetti della vita mentale. Fenomeni quantistici intervengono nella dinamica degli atomi, dei fotoni, degli impulsi elettromagnetici e delle tante altre strutture microscopiche che danno luogo al nostro corpo, ma non c’è nulla di specificamente quantistico che ci aiuti a capire cosa siano pensieri, percezioni o soggettività. Questi sono aspetti che coinvolgono il funzionamento del cervello a larga scala: cioè proprio là dove l’interferenza quantistica si perde nel rumore della complessità. La teoria dei quanti non ci aiuta direttamente a capire la mente.

 

Però indirettamente ci insegna qualcosa di rilevante, perché altera i termini della questione.

 

Ci insegna che la sorgente della confusione potrebbe anche risiedere in intuizioni errate che abbiamo non solo sulla natura della coscienza (dove le nostre intuizioni sono fuorvianti di sicuro), ma anche, e in maniera cruciale, su cosa sia e come funzioni la «semplice materia».

 

È difficile immaginare come noi esseri umani possiamo essere fatti solo di piccoli sassi che rimbalzano l’uno sull’altro. Ma, guardando da vicino, un sasso è un vasto mondo: una galassia di entità quantistiche rutilanti dove fluttuano probabilità e interazioni. Quello che chiamiamo «sasso», d’altro canto, è una stratificazione di significati nei nostri pensieri, evocati dall’interazione fra noi e quella galassia di puntiformi eventi fisici relativi. La «semplice materia» si sfalda in strati complessi e d’un tratto ci sembra meno semplice. Lo iato fra la semplice materia e l’evanescente dipanarsi del nostro spirito appare forse un po’ meno invalicabile.

 

Se la grana fine del mondo è fatta di particelle materiali che hanno solo massa e moto, sembra difficile ricostruire da questa grana amorfa la complessità che siamo noi, che percepiamo e pensiamo. Ma se la grana fine del mondo è meglio descritta in termini di relazioni, se nessuna cosa ha proprietà se non in relazione ad altre, forse in questa fisica possiamo meglio trovare elementi capaci di combinarsi in maniera comprensibile per fare da base a quei fenomeni complessi che chiamiamo le nostre percezioni e la nostra coscienza. Se il mondo fisico è tessuto dalla trama sottile di immagini di specchi che si specchiano in altri specchi, senza il fondamento metafisico di una sostanza materiale, forse è più facile riconoscerci come parte di esso.

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Qualcuno ha suggerito che ci sia qualcosa di psichico in ogni cosa. L’argomento è che siccome noi siamo coscienti, e siamo fatti di protoni ed elettroni, allora elettroni e protoni dovrebbero avere già una specie di proto-coscienza.

 

Io non trovo convincente un simile «panpsichismo» e un simile argomento. È come dire che, siccome una bicicletta è fatta di atomi, allora ciascun atomo deve essere proto-ciclistico. La nostra vita mentale necessita dell’esistenza di neuroni, degli organi di senso, del nostro corpo, della complessa elaborazione di informazione che avviene nel nostro cervello: con ogni evidenza, senza tutto questo la nostra vita mentale non c’è.

 

Ma non c’è bisogno di attribuire una proto-coscienza ai sistemi elementari, per aggirare il gelo della semplice materia. È sufficiente aver osservato come il mondo sia meglio descritto da variabili relative e dalle loro correlazioni. Questo ci permette forse di uscire dalla prigione della radicale opposizione fra oggettività della materia e vita mentale. La rigida distinzione fra mondo mentale e mondo fisico si attenua. Possiamo provare a considerare fenomeni mentali e fenomeni fisici, entrambi, come fenomeni naturali: entrambi prodotti da interazioni fra parti del mondo fisico.

 

In questo, che è l’ultimo capitolo del libro prima della conclusione, provo, a bassa voce, a proporre alcuni suggerimenti in questa difficile direzione.

2. Cosa significa «significato»?

Noi bestiole umane viviamo in un mondo di significati. Le parole della lingua «significano». «Gatto» significa un gatto. I nostri pensieri «significano»: accadono nel nostro cervello, ma se pensiamo a una tigre, ci riferiamo a qualcosa che non sta nel nostro cervello – la tigre può stare nel mondo. Se tu lettore stai leggendo questo libro, vedi le immagini delle linee bianche e nere sulla carta o su uno schermo. «Vedere» è qualcosa che accade nel tuo cervello, eppure le linee le vedi «fuori» da te. Nel tuo cervello si svolge un processo che si riferisce alle linee sulla carta. Queste a loro volta hanno significato: si riferiscono ai miei pensieri mentre scrivo, che a loro volta si riferiscono a un immaginario te che stai leggendo…

 

Un nome tecnico per il «riferirsi a qualcosa» dei nostri processi mentali (promosso dal filosofo e psicologo tedesco Franz Brentano) è «intenzionalità». L’intenzionalità è un aspetto importante della nozione di significato e di gran parte della nostra vita mentale. C’è una relazione stretta fra quanto avviene nei pensieri e ciò che avviene in qualche senso «fuori» dai pensieri, e che i pensieri possono significare. C’è una relazione stretta fra la parola «gatto» e un gatto. Fra un cartello stradale e ciò che il cartello significa.

 

Non sembra esserci nulla di tutto ciò nel mondo naturale. Un evento fisico di per sé non significa nulla. Una cometa viaggia rispettando le leggi di Newton, ma senza leggere segnali stradali…

 

Se siamo parti della natura, questo mondo di significati deve poter emergere dal mondo fisico. Come? Cos’è il mondo dei significati, in termini puramente fisici?

 

Due concetti ci avvicinano a una risposta, anche se nessuno dei due basta da solo per comprendere cosa sia il significato in termini fisici: informazione e evoluzione.

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Nella teoria dell’informazione di Shannon, informazione è solo contare il numero di possibili stati di qualcosa. Una chiavetta USB ha una quantità di informazione, espressa in bit o gigabyte, che ci dice in quanti modi diversi si può disporre la sua memoria. Il numero di bit non sa cosa significhi quello che c’è nella memoria, non sa neppure se quanto c’è in memoria significhi qualcosa o sia rumore.

 

Shannon definisce anche la nozione di «informazione relativa», che è quella che ho usato nei capitoli precedenti: una misura della correlazione fisica tra due variabili. Due variabili, ricordo, hanno «informazione relativa» se possono stare in meno stati che non il prodotto del numero di stati in cui può stare ciascuna. Il verso delle due monete incollate sullo stesso foglietto di plastica rigida è correlato: le due monete «hanno informazione una sul verso dell’altra».

 

Questa nozione di «informazione relativa» è puramente fisica. È anche centrale per la descrizione del mondo fisico, se teniamo conto della sua struttura quantistica: l’informazione relativa è la conseguenza diretta delle interazioni che tessono il mondo. L’informazione relativa collega due cose diverse come fa il significato. Ma non basta a farci comprendere in termini fisici cosa sia il significato: il mondo pullula di correlazioni, ma la grande maggioranza di queste non significa niente. Per capire cosa sia il significato manca qualcosa.

 

La scoperta dell’evoluzione biologica, d’altra parte, ci ha permesso di gettare dei ponti fra concetti che usiamo quando parliamo di cose animate e concetti che usiamo per il resto della natura. In particolare, ha chiarito l’origine biologica, e in ultima analisi fisica, di nozioni come «utilità» e «rilevanza».

 

La biosfera è formata da strutture e processi utili alla continuazione della vita: abbiamo polmoni per respirare e occhi per vedere. La scoperta di Darwin è che capiamo perché ci sono queste strutture ribaltando l’ordine di causa-effetto fra la loro utilità e la loro esistenza: la funzione (vedere, mangiare, respirare, digerire… contribuire alla vita) non è lo scopo delle strutture. È il contrario: gli esseri viventi sopravvivono perché esistono queste strutture. Non amiamo per vivere: viviamo perché amiamo.

 

La vita è un processo biochimico che si dipana sulla superficie della Terra e dissipa l’abbondante energia libera (bassa entropia) di cui trabocca la luce del Sole che inonda il pianeta. È costituita da individui che interagiscono con ciò che li circonda, formati da strutture e processi che si autoregolano, mantenendo equilibri dinamici che persistono nel tempo. Ma strutture e processi non sono lì affinché gli organismi sopravvivano e si riproducano. È il contrario: gli organismi viventi sopravvivono e si riproducono perché è accaduto che sono cresciute gradualmente queste strutture, a cui avviene di sopravvivere e riprodursi. Si riproducono e popolano la Terra perché sono funzionali.

 

L’idea risale almeno a Empedocle, come Darwin sottolinea nel suo bellissimo libro.122 Aristotele ci racconta, nella Fisica, che Empedocle ha suggerito che la vita sia il risultato del formarsi casuale di strutture, dovuto al normale combinarsi delle cose. La maggior parte di queste strutture perisce rapidamente, eccetto quelle che hanno caratteristiche tali da sopravvivere: queste sono gli organismi viventi.123 Aristotele obietta che vediamo i vitelli nascere ben strutturati: non ne vediamo nascere di ogni forma e sopravvivere solo quelli adeguati.124 Ma oggi è diventato chiaro che, spostata dagli individui alle specie e arricchita da quanto abbiamo imparato su eredità e genetica, l’idea di Empedocle è sostanzialmente corretta.

 

Darwin ha chiarito l’importanza capitale della variabilità delle strutture biologiche, che permette di continuare a esplorare lo sterminato spazio delle possibilità; e della selezione naturale, che permette di accedere a regioni via via più estese di questo spazio, dove si trovano strutture e processi ancor meglio capaci, insieme, di persistere. La biologia molecolare illustra il meccanismo concreto con cui ciò accade.

 

Il punto che qui mi interessa è che avere compreso tutto questo non toglie senso a nozioni come «utilità» e «rilevanza». Al contrario, ne chiarisce l’origine, il modo in cui sono radicate nel mondo fisico: sono le caratteristiche di quei fenomeni naturali che di fatto danno luogo alla sopravvivenza.

 

Queste idee sono bellissime, ma neanche queste ci spiegano come dal mondo naturale possa emergere la nozione di «significato». «Significato» ha connotazioni intenzionali che non sembrano collegate a variabilità e selezione. Il significato di «significato» deve essere fondato su qualcos’altro.

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Un piccolo miracolo avviene però quando le due idee, informazione e evoluzione, si combinano.

 

L’informazione svolge diversi ruoli in biologia. Strutture e processi si riproducono eguali a sé stessi per centinaia di milioni, talvolta miliardi, di anni, alterati solo dalla lenta deriva dell’evoluzione. Il tramite principale di questa stabilità sono le molecole di DNA, che restano largamente simili alle loro antenate. Questo implica che esistono correlazioni, cioè informazione relativa, attraverso eoni di tempo. Le molecole di DNA codificano e trasmettono l’informazione. Questa stabilità informatica è forse l’aspetto caratteristico della materia vivente.

 

Ma c’è un secondo modo in cui l’informazione è rilevante in biologia: nelle correlazioni fra interno e esterno di un organismo. La maggior parte di queste correlazioni non ha rilevanza per l’organismo. Lo stato di una molecola nel mio cervello è correlato a una stella lontana per un raggio cosmico assorbito: questa correlazione è irrilevante per la mia vita. Esistono però correlazioni rilevanti per la vita nel senso, ricordato sopra, in cui la teoria di Darwin permette di definire la rilevanza: favoriscono la sopravvivenza e la riproduzione.

 

Vedo un sasso che sta cadendo verso di me.125 Se mi sposto sopravvivo. Il fatto che mi sposti non è misterioso, è spiegato dalla teoria di Darwin: quelli che non si spostavano sono morti schiacciati, io sono un discendente di quelli che si spostano. Ma per potermi spostare, il mio corpo ha bisogno di sapere in qualche modo che il sasso mi sta venendo addosso. Perché lo sappia deve esistere una correlazione fisica fra una variabile fisica dentro di me e lo stato fisico del sasso. Questa correlazione c’è, ovviamente, perché il sistema visivo fa esattamente questo: correla l’ambiente circostante con processi neurali nel cervello. Fra esterno e interno esistono correlazioni di ogni tipo, ma questa ha una caratteristica particolare: se non ci fosse, o non fosse appropriata, morirei ucciso dal sasso. La correlazione fra interno e esterno che lega lo stato del sasso ai neuroni del mio cervello è direttamente rilevante in senso darwiniano: la sua presenza o assenza influisce sulla mia sopravvivenza.

 

Un batterio dispone di una parete cellulare capace di rilevare gradienti di glucosio di cui il batterio si nutre, ciglia capaci di farlo nuotare, e un meccanismo biochimico che lo indirizza nella direzione in cui c’è più glucosio. La biochimica della parete determina una correlazione fra la distribuzione di glucosio e lo stato biochimico interno, che a sua volta determina la direzione verso cui il batterio nuota. La correlazione è rilevante: se si interrompe, diminuisce la possibilità di sopravvivenza del batterio, che resta senza nutrimento. È una correlazione fisica con valore di sopravvivenza.

 

L’esistenza di tali correlazioni rilevanti indica la possibile sorgente fisica della nozione di significato: l’informazione relativa rilevante. Informazione relativa nel senso (fisico) di Shannon, rilevante nel senso (biologico, quindi in ultima analisi ancora fisico) di Darwin. Questo è un senso preciso in cui possiamo dire che la sua informazione sulla concentrazione di zucchero ha significato per il batterio. Oppure che il significato del pensiero della tigre nel mio cervello, cioè della corrispondente configurazione neuronale, significa proprio la tigre.

 

Così definita, la nozione di informazione rilevante è puramente fisica, ma è intenzionale nel senso di Brentano. È una connessione fra qualcosa (di interno) e qualcos’altro (generalmente esterno). Porta con sé naturalmente una nozione di «verità» o «correttezza»: in ogni situazione particolare, lo stato interno del batterio può codificare il gradiente di glucosio correttamente o meno. Ci sono dunque molti degli ingredienti necessari per caratterizzare il «significato».

 

Ovviamente noi parliamo di «significato» in contesti molto vari, che in generale non hanno rilevanza diretta per la sopravvivenza. Una poesia è piena di significato, ma leggerla non sembra aiutare le mie probabilità di sopravvivere o riprodurmi (magari qualcuna sì: una fanciulla si potrà innamorare del mio animo romantico…). L’intero spettro di ciò che chiamiamo «significato» in logica, psicologia, linguistica, etica, eccetera, non si riduce all’informazione direttamente rilevante. Però questo ricco spettro si è sviluppato nella storia biologica e culturale della nostra specie a partire da qualcosa che ha radici fisiche, a cui si sono aggiunte le articolazioni proprie della nostra enorme complessità neurale, sociale, linguistica, culturale, eccetera. Questo qualcosa è l’informazione relativa rilevante.

 

La nozione di informazione rilevante, in altre parole, non è l’intera catena fra la fisica e il significato nel mondo mentale: ma è il primo anello, quello difficile. È il primo passo fra il mondo fisico, dove non esiste nulla che corrisponda alla nozione di significato, e il mondo della mente, la cui grammatica è fatta di significati e segnali che hanno significato. Aggiungendo le articolazioni e i contesti che ci caratterizzano – il cervello e la sua capacità di manipolare concetti, cioè processi che hanno significato, le sue integrazioni emozionali, la sua capacità di correlarsi a processi mentali altrui, e ricorsivamente ai propri, il linguaggio, la società, le norme, eccetera – otteniamo qualcosa che si avvicina via via sempre più alle diverse nozioni, più complete, di significato.

 

Una volta trovato il primo collegamento tra nozioni fisiche e significati, infatti, il resto segue ricorsivamente: qualunque correlazione che contribuisca all’informazione direttamente rilevante è anch’essa significativa, e così via in maniera ricorsiva. L’evoluzione si è evidentemente servita di tutto ciò.

 

Da un lato queste osservazioni chiariscono perché si possa parlare di significato solamente nell’ambito di processi biologici o di origine biologica. Dall’altro radicano la nozione di significato nel mondo fisico: ne è uno dei tanti aspetti. Ci mostrano che la nozione di significato non è esterna al mondo naturale. Si può parlare di intenzionalità senza uscire dall’ambito del naturalismo. Il significato correla qualcosa a qualcos’altro, è un vincolo fisico, e svolge un ruolo biologico. È quanto fa di un elemento della natura un segno di qualcos’altro, rilevante per noi.

 

E vengo finalmente al punto: se pensiamo al mondo fisico nei termini di semplice materia con proprietà variabili, le correlazioni fra queste proprietà sono fatti accessori. Sembra necessario aggiungere qualcosa di estraneo alla materia per poterne parlare. Ma la scoperta della natura quantistica della realtà è la scoperta che la natura del mondo fisico è essa stessa comprensibile come una rete di correlazioni: come informazione reciproca, precisamente nel senso fisico di correlazione. Le cose della natura non sono insiemi di elementi isolati che hanno ciascuno le sue proprietà, in sdegnoso individualismo. Significato e intenzionalità, intesi come sopra, sono solo casi particolari, in ambito biologico, dell’ubiquità delle correlazioni. C’è continuità fra il mondo dei significati della nostra vita mentale e il mondo fisico. L’uno e l’altro sono relazioni.

 

La distanza fra il modo in cui pensiamo il mondo fisico e il modo in cui pensiamo questo aspetto del mondo mentale diminuisce.

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Il fatto che un oggetto abbia informazione su un altro oggetto può voler dire cose distinte, a seconda del contesto. L’esistenza di informazione relativa fra due oggetti significa che se osservo i due oggetti, trovo correlazioni: «Tu hai informazione sul colore del cielo di oggi» significa che se ti chiedo il colore del cielo e poi guardo il cielo, trovo che quanto mi hai detto combacia con quanto vedo, c’è dunque correlazione fra te e il cielo. Che due oggetti (te e il cielo) abbiano informazione relativa è quindi in ultima analisi qualcosa che riguarda un terzo oggetto (me che vi osservo). L’informazione relativa, ricordo, è una danza a tre, come l’entanglement.

 

Ma se un oggetto (tu) è sufficientemente complesso per fare calcoli e previsioni (come un animale, un essere umano, una macchina costruita dalla nostra tecnologia…), il fatto di «avere informazione» nel senso detto implica anche avere risorse per poter fare previsioni sul risultato di successive interazioni: se hai informazione sul colore del cielo e chiudi gli occhi, puoi prevedere cosa vedrai riaprendo gli occhi, prima ancora di guardare. Hai informazione sul colore del cielo in un senso molto più forte della parola «informazione»: sai cosa vedrai prima di vedere.

 

In altre parole, la nozione elementare di informazione relativa è la struttura fisica su cui si appoggiano tutte le nozioni di informazioni più complesse, che hanno, adesso sì, valenza semantica.

 

Fra queste c’è la nozione di informazione che si riferisce al nostro studiare il resto del mondo fisico, essendo noi stessi parti di quel mondo.

 

Una visione del mondo, una teoria del mondo, per essere coerente, deve poter giustificare e dare conto dei modi in cui gli abitanti di quel mondo arrivano a quella visione, a quella lettura.

 

Questa condizione, che è spesso vista come la difficoltà del materialismo ingenuo, è soddisfatta immediatamente se ripensiamo la materia come interazioni e correlazioni.

 

La mia conoscenza del mondo è un esempio del risultato di interazioni che generano informazioni significative. È una correlazione fra il mondo esterno e la mia memoria. Se il cielo è blu, nella mia memoria c’è l’immagine di un cielo blu. La mia memoria ha quindi le risorse per permettermi di prevedere il colore del cielo se chiudo gli occhi e li riapro subito dopo. In questi termini, ha informazione sul cielo anche in senso semantico. Sappiamo cosa significa che il cielo sia blu: lo riconosciamo riaprendo gli occhi.

 

Questo è il senso di «informazione» usato nei postulati della meccanica quantistica alla fine del capitolo IV.

 

È il doppio significato di «informazione» che dà al concetto il suo carattere ambiguo. La base che abbiamo per comprendere il mondo è la nostra informazione sul mondo, che è una correlazione, di cui ci serviamo, fra noi e il mondo.

3. Il mondo visto dall’interno

La nozione di informazione significativa congiunge il mondo fisico con alcuni aspetti del mondo mentale, ma non colma l’impressione di distanza fra questi due mondi. C’è altro, però, che ci viene in aiuto grazie al radicale ripensamento della realtà a cui ci forza la teoria quantistica.

 

Il problema della distanza fra il mondo mentale e il mondo fisico talvolta ci appare intuitivamente chiaro, ma è difficilissimo da delineare con precisione. Il nostro mondo mentale ha tanti aspetti diversi – significato, intenzionalità, valori, finalità, emozioni, senso estetico, senso morale, intuizione matematica, percezioni, creatività, coscienza… La nostra mente fa tante cose – ricorda, anticipa, riflette, deduce, si emoziona, si indigna, sogna, spera, vede, si esprime, fantastica, riconosce, conosce, si accorge di esistere… Prese una a una, molte delle attività del nostro cervello non appaiono poi così distanti da quello che può più o meno facilmente fare un congegno fisico sufficientemente complicato. C’è anche qualcosa che invece non può emergere dalla fisica che conosciamo?

 

In un articolo divenuto celebre, David Chalmers ha distinto il problema della coscienza in due parti, che ha chiamato il problema «facile» e il problema «difficile» (questi sono spesso designati con i termini inglesi anche in italiano: the easy and the hard problems of consciousness).126 Il problema che Chalmers chiama «facile» è tutt’altro che facile: è come funzioni il nostro cervello; come cioè dia luogo agli svariati comportamenti che associamo alla nostra vita mentale. Il problema che chiama «difficile» è comprendere cosa sia la sensazione soggettiva che accompagna tutto ciò.

 

Chalmers giudica plausibile che il problema «facile» sia risolto nell’ambito dell’attuale concezione fisica del mondo, ma mette in dubbio la possibilità di fare lo stesso con il problema «difficile». Per chiarire questo punto, ci chiede di immaginare una macchina, che chiama uno «zombie», in grado di riprodurre tutti i comportamenti di un essere umano che possono essere osservati (anche con un microscopio); che sia insomma indistinguibile da un essere umano per qualunque osservazione esterna, ma che non abbia esperienza soggettiva. «Dentro la quale» come dice Chalmers «non ci sia nessuno». Il solo fatto che possiamo concepire questa possibilità mostrerebbe che esiste un «in più» che distingue un essere che sente da un ipotetico zombie che ne riproduce ogni comportamento osservabile. Tale «in più» individua, secondo Chalmers, la difficoltà di rendere conto dell’esperienza soggettiva nei termini dell’attuale concezione del mondo fisico. Questo sarebbe il vero problema della coscienza, per Chalmers.

 

Le neuroscienze stanno facendo passi notevoli nel comprendere come funzionano i sensi, la memoria, la capacità del cervello di localizzarsi nello spazio, la produzione di linguaggio, la formazione delle emozioni, il loro ruolo, eccetera. Tutto questo e altro sarà probabilmente chiarito. Resterà qualcosa che sfugge? Chalmers sostiene di sì, perché il «problema difficile» non è capire come funzionano le attività cerebrali: è capire perché queste attività siano accompagnate dalla corrispondente sensazione soggettiva che noi percepiamo quando esse avvengono. In altre parole, per capire la relazione fra la nostra vita mentale e il mondo fisico è essenziale tenere conto del fatto che il mondo fisico lo descriviamo dall’esterno, mentre le nostre attività cerebrali/mentali le sperimentiamo in prima persona.

 

Il ripensamento del mondo a cui ci forzano i quanti cambia i termini della questione. Se il mondo è relazione, se capiamo la realtà fisica in termini di fenomeni che si manifestano a sistemi fisici, allora non esiste descrizione del mondo dall’esterno. Le descrizioni del mondo possibili sono, in ultima analisi, tutte dal suo interno. Sono tutte, in ultima analisi, «in prima persona». La nostra prospettiva sul mondo, il nostro punto di vista di esseri situati dentro il mondo («situated self» come argomenta Jenann Ismael),127 non è speciale: si appoggia sulla stessa logica che ci suggerisce la fisica.

 

Se immaginiamo la totalità delle cose, stiamo immaginando di essere fuori dall’universo e guardare «da là». Ma non esiste un «fuori» dalla totalità delle cose. Il punto di vista dall’esterno è un punto di vista che non c’è.128 Ogni descrizione del mondo è dal suo interno. Il mondo visto dal di fuori non esiste: esistono solo prospettive interne al mondo, parziali, che si riflettono a vicenda. Il mondo è questo reciproco riflettersi di prospettive.

 

La fisica dei quanti ci mostra che questo avviene già per le cose inanimate. L’insieme delle proprietà relative a uno stesso oggetto forma una prospettiva. Se facciamo astrazione da ogni prospettiva, non ricostruiamo la totalità dei fatti: ci ritroviamo in un mondo senza fatti, perché i fatti sono solo fatti relativi. Questa è proprio la difficoltà dell’interpretazione a Molti Mondi della meccanica quantistica: descrive solo cosa un osservatore esterno al mondo dovrebbe aspettarsi se interagisse con il mondo, ma non ci sono osservatori esterni al mondo, quindi non descrive i fatti del mondo.

 

Thomas Nagel, in un articolo famoso,129 propone la domanda «Cosa si prova a essere un pipistrello?» per sostenere che domande come questa sono ben poste, ma sfuggono alla scienza naturale. L’errore è assumere che la fisica sia la descrizione delle cose in terza persona. È il contrario: la prospettiva relazionale mostra che la fisica è sempre descrizione della realtà in prima persona, da una prospettiva. Qualunque descrizione è implicitamente dall’interno del mondo, da un punto di vista associato a un sistema fisico.

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Le idee sulla natura della mente si limitano generalmente a tre sole alternative: il dualismo, secondo cui la realtà della mente è del tutto diversa da quella delle cose inanimate; l’idealismo, secondo cui la realtà materiale esiste solo nella mente; e il materialismo ingenuo, secondo cui tutti i fenomeni mentali sono riconducibili al moto della materia. Dualismo e idealismo sono incompatibili con quanto abbiamo imparato sul mondo negli ultimi secoli, in particolare con la scoperta che noi esseri senzienti siamo una parte della natura come le altre. Sono incompatibili con l’evidenza sempre crescente che tutto ciò che conosciamo, noi compresi, segue le leggi naturali già note. Il materialismo ingenuo, d’altro canto, sembra intuitivamente difficile da conciliare con la realtà dell’esperienza soggettiva.

 

Ma non ci sono solo queste alternative. Se le qualità di un oggetto nascono dall’interazione con qualcos’altro, la distinzione fra fenomeni mentali e fenomeni fisici si attenua molto. Sia le variabili fisiche, sia quelli che i filosofi della mente chiamano «qualia», cioè fenomeni mentali elementari come «vedo rosso», sia le une che gli altri possono essere fenomeni naturali più o meno complessi.

 

La soggettività non è un salto qualitativo rispetto alla fisica: richiede una crescita di complessità (Bogdanov direbbe di «organizzazione»), ma sempre in un mondo che è fatto di prospettive, già dal livello più elementare.

 

A me sembra quindi che, quando ci interroghiamo sulla relazione fra l’«io» e la «materia», stiamo usando due concetti entrambi confusi, ed è questa l’origine della confusione attorno alle domande sulla natura della coscienza.

 

Chi è l’«io» che prova la sensazione di sentire, se non l’insieme integrato dei nostri processi mentali? Certo, abbiamo un’intuizione di unità quando pensiamo a noi stessi, ma questa è giustificata semplicemente dall’integrazione del nostro corpo e dal modo di funzionare dei processi mentali, dove la parte che chiamiamo cosciente fa una cosa alla volta. Il primo termine del problema, l’«io», è, credo, il residuo di una metafisica errata: il risultato dell’errore frequente di scambiare un processo per un’entità. Mach è apodittico: «Das Ich ist unrettbar»: l’«io» non può essere salvato. Chiedersi cosa sia la coscienza dopo averne dipanato i processi neurali è come chiedersi cosa sia un temporale dopo averne capito la fisica: una domanda senza senso. Aggiungere un «possessore» delle sensazioni è come aggiungere Giove al fenomeno del temporale. È come dire che, dopo aver capito la fisica del temporale, resta ancora, nel linguaggio di Chalmers, il «problema difficile» di connetterla con la rabbia di Giove.

 

È vero che abbiamo l’«intuizione» di un’entità indipendente che è l’io. Ma se è per questo avevamo anche l’«intuizione» che dietro ai temporali ci fosse Giove… E che la Terra fosse piatta. Non è su «intuizioni» acritiche che costruiamo un’efficace comprensione del mondo. L’introspezione è il peggior strumento di indagine, se ci interessa la natura della mente: è andare a cercare i propri pregiudizi più radicati e sguazzarci dentro.

 

Ma è ancor più il secondo termine della questione, la «semplice materia», a essere il residuo di una metafisica errata, la metafisica basata su una concezione troppo ingenua di materia: la materia come sostanza universale definita solo da massa e moto. È una metafisica errata perché è contraddetta dalla fisica quantistica.

 

Se pensiamo in termini di processi, eventi, in termini di proprietà relative, di un mondo di relazioni, lo iato tra fenomeni fisici e fenomeni mentali è molto meno drammatico. Possiamo vederli entrambi come fenomeni naturali generati da complesse strutture di interazioni.

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Il nostro sapere sul mondo si articola in scienze diverse, più o meno collegate fra loro. In questo rapporto fra le componenti della nostra conoscenza la fisica gioca un ruolo che i quanti hanno in parte svuotato, in parte arricchito. La pretesa del meccanicismo settecentesco di chiarire la sostanza fondamentale alla base di tutto è svanita; per converso è cresciuta una comprensione della grammatica del reale forse sconcertante, ma più ricca e sottile, che ci permette di pensare il mondo in maniera più articolata.

 

Il mondo è una rete di reciproca informazione al livello fisico più elementare. L’informazione che diventa significativa nell’ambito del meccanicismo darwiniano ha senso per noi. Ὁ κóσμος ἀλλοίωσις, ὁ βίος ὑπóληψις. Il cosmo è cambiamento, la vita è discorso, recita il frammento 115 di Democrito. Il cosmo è interazione, la vita organizza informazione relativa. Siamo un ricamo delicato e complesso della rete di relazioni di cui, al meglio che comprendiamo oggi, è costituita la realtà.

 

Se guardo una foresta di lontano vedo un velluto verde scuro. Avvicinandomi il velluto si sgrana in tronchi, rami e fronde. La corteccia degli alberi, il muschio, gli insetti, brulicano di complessità. In ciascun occhio di ogni coccinella c’è una struttura elaboratissima di cellule, connesse a neuroni che la guidano a vivere. Ogni cellula è una città, ogni proteina un castello di atomi; nel nucleo di ogni atomo si agita un inferno di dinamica quantistica, vorticano quark e gluoni, eccitazioni di campi quantistici. E non è che un piccolo bosco di un piccolo pianeta che ruota intorno a una stellina, fra cento miliardi di stelle di una fra mille miliardi di galassie costellate di eventi cosmici abbacinanti. In qualunque angolo dell’universo troviamo vertiginosi pozzi di strati di realtà.

 

In questi strati siamo riusciti a riconoscere regolarità, sulle quali abbiamo raccolto informazione rilevante per noi, che ci permette di farci un’immagine coerente dei singoli strati. Ciascuno è un’approssimazione. La realtà non è divisa in livelli. I livelli in cui la scomponiamo, gli oggetti in cui la dividiamo, sono i modi in cui la natura si correla in noi, in quelle configurazioni dinamiche di eventi fisici nel nostro cervello che chiamiamo concetti. La separazione della realtà in livelli è relativa al nostro modo di interagire con essa.

 

La fisica fondamentale non fa eccezione. La natura segue sempre le sue leggi semplici, ma la complessità delle cose rende le leggi generali irrilevanti. Sapere che la mia ragazza obbedisce alle equazioni di Maxwell non mi aiuta a farla contenta. Per imparare come funziona un motore è meglio ignorare le forze nucleari fra le sue particelle elementari. C’è un’autonomia e indipendenza dei livelli di comprensione del mondo che giustifica l’autonomia dei saperi. In questo senso, la fisica elementare è molto più inutile di quanto ami pensare un fisico.

 

Ma non ci sono vere fratture: le basi della chimica sono comprensibili in termini di fisica, le basi della biochimica in termini di chimica, le basi della biologia in termini di biochimica, e via via. Alcune articolazioni le capiamo bene, altre meno. Le fratture sono le nostre lacune di comprensione. È questo il senso della domanda sulle basi fisiche della nozione di significato.

 

La prospettiva relazionale ci allontana dai dualismi soggetto/oggetto, materia/spirito, e dall’apparente irriducibilità del dualismo realtà/pensiero o cervello/coscienza. Se arriviamo a dipanare i processi che si svolgono all’interno del nostro corpo e le loro relazioni con il mondo esterno, cosa resta da comprendere? Questi processi coinvolgono il nostro corpo e l’esterno, sono reazioni ed elaborazioni di correlazioni fra il nostro corpo e l’ambiente. Sono processi a cavallo fra l’esterno e l’interno (e fra l’interno e l’interno) del nostro corpo. Cos’altro può essere la fenomenologia della nostra coscienza se non il nome che questi processi assegnano a sé stessi, nel gioco di specchi delle informazioni rilevanti contenute nei segnali portati dai nostri neuroni?

 

Questo ovviamente non risolve il problema di comprendere come funzioni la mente. Resta quello che Chalmers chiama il problema «facile», che è tutt’altro che facile, e tutt’altro che risolto. Capiamo ancora pochissimo del funzionamento del cervello. Ma ne stiamo capendo di più, senza uscire dalle leggi naturali note. E non c’è motivo per sospettare che nella nostra vita mentale ci debba essere qualcosa che non sia comprensibile nei termini delle leggi naturali note.

 

Le obiezioni contro la possibilità di comprendere la nostra vita mentale nei termini delle leggi naturali note, a ben guardare, si riducono soltanto a un generico ripetere «mi sembra implausibile», basato su intuizioni senza argomenti a sostegno.g Se non alla trista speranza di essere costituiti di una qualche fumosa sostanza immateriale che resti viva dopo la morte: prospettiva che, oltre che (questa sì!) del tutto implausibile, trovo agghiacciante.

 

Come scrive il filosofo americano Erik Banks nell’epigrafe che apre questo capitolo, «per quanto misterioso sia il problema corpo-mente per noi, dobbiamo sempre ricordarci che per la natura è un problema risolto. Tutto quello che ci resta da fare è capire come ha fatto».