Intorno al 300 a.C., dopo avere abbandonato l’Accademia platonica, l’ex mercante Zenone di Cizio fa del Portico dipinto (Stoá poikíle) di Atene la sede di quella che sarebbe divenuta la più importante scuola filosofica dell’età ellenistica. Nell’arco della sua evoluzione il pensiero stoico è soggetto a diversi mutamenti, che toccano svariati aspetti del profilo originariamente conferitogli da Zenone, trasformandolo in modo anche radicale. In particolare le trasformazioni che la dottrina stoica attraversa nel periodo compreso tra il II ed il I secolo a.C. sono così incisive che si suole suddividere lo stoicismo ellenistico in due fasi. La prima fase, denominata stoicismo antico, percorre il III ed il II secolo, e ha come principali esponenti, oltre a Zenone, Aristone di Chio, Cleante di Asso, Crisippo di Soli, Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso. La seconda fase, detta stoicismo medio, è compresa, appunto, fra il II ed il I secolo, quando la scuola è guidata da Panezio di Rodi prima e da Posidonio di Apamea poi. Vi sono, tuttavia, almeno due aspetti dello stoicismo ellenistico che si sono conservati nei secoli: si tratta, da un lato, delle radici socratiche della scuola, e, dall’altro, della natura sistematica del pensiero stoico.
ESERCIZIO
E7: Stoicismo
Gli stoici si considerano gli unici veri eredi del socratismo e ritengono, con la loro dottrina, di farsi custodi e interpreti autentici dell’insegnamento socratico trasmesso dalla tradizione. D’altra parte, tutte le scuole filosofiche a cui Zenone aderisce prima di fondare la Stoá, a partire da quella cinica, rivendicano una discendenza socratica.
Uno degli aspetti più interessanti del socratismo della Stoá riguarda la radicalizzazione del cosiddetto “intellettualismo etico”: la tesi filosofica, attribuita a Socrate, secondo cui la conoscenza del bene implica necessariamente la conduzione di una vita virtuosa. Virtù (areté) e conoscenza (epistéme), per Socrate come per gli stoici, si identificano, ma per i filosofi del Portico esse sono dominio del solo sapiente (sophós), che il possesso di un abito mentale virtuoso distingue nettamente dall’uomo ordinario (pháulos).
Sapiente è chi ha imparato a vivere secondo natura, ovvero a fare un uso appropriato degli strumenti cognitivi di cui la natura stessa ha dotato l’uomo, unico fra le creature viventi a possedere la capacità di comprendere gli eventi cosmici e di adeguare la propria esistenza al loro corso. Sapiente è appunto colui che, con grande fatica e costanza, ha attuato appieno tali potenzialità divenendo, fra gli uomini, l’unico vero conoscitore e interprete dei meccanismi divini che governano l’universo, e che alla maggior parte dei suoi simili appaiono oscuri e misteriosi.
L’intellettualismo etico degli stoici consiste quindi nella teorizzazione di un legame necessario fra la conoscenza degli eventi cosmici e la conduzione di una vita pratica appropriata. Il sapiente stoico è necessariamente virtuoso in quanto la conoscenza degli eventi lo conduce inevitabilmente ad adeguare a essi la propria esistenza. Ma in tale adeguamento si manifesta al contempo la libertà che qualifica il sapiente stoico. L’adattamento al corso degli eventi non corrisponde affatto a una passiva accettazione di ciò che il destino ha riservato all’uomo. Il sapiente non si costringe ad essere virtuoso. Al contrario, egli ha compreso che il compiersi del destino individuale, e quindi anche del proprio destino, è funzionale alla realizzazione di un progetto che coinvolge l’intero universo e che, inevitabilmente, è indirizzato al bene. La libertà, dunque, consiste nella adesione consapevole al progetto stabilito dalla provvidenza divina. Aderendovi, il sapiente stoico sa di contribuire attivamente all’attuazione di tale progetto.
Gli stoici, facendo propria una partizione risalente all’accademico Senocrate, suddividono la filosofia in tre parti: logica, fisica ed etica. Essi usano paragonarla a un orto, le cui mura di cinta corrispondono alla logica, la terra e gli alberi alla fisica, e i frutti all’etica. L’analogia mostra quello che è l’aspetto essenziale della concezione stoica della filosofia: la necessità e la mutua dipendenza delle varie parti nella determinazione del tutto. La filosofia si configura, quindi, come un sistema, un tutto organico costituito da parti necessarie ed interdipendenti.
Tale partizione ha un riflesso immediato sul piano metodologico. Nell’analogia, infatti, la logica è assimilata a una componente strutturale (la cinta muraria): la filosofia deve prendere le mosse dalla logica. Se dunque dal punto di vista teoretico la filosofia equivale ad un sistema, dal punto di vista metodologico la logica viene prima delle altre due parti.
Uno dei problemi con cui gli studiosi della filosofia e della scienza antica si devono confrontare è la ricostruzione delle fonti. Delle opere originali spesso possediamo solo frammenti o versioni parziali, tramandate grazie a dossografi ed eruditi di epoca posteriore. Un caso esemplare, in questo senso, è quello degli stoici antichi. Non è giunta sino a noi nessuna opera completa dei tre esponenti più importanti dello stoicismo di età ellenistica (Zenone, Cleante e Crisippo). Benché alcuni di loro siano stati molto prolifici (a Crisippo si attribuiscono 165 opere), di questa produzione che sappiamo essere stata vasta si possiedono soltanto frammenti. Gli unici testi completi di filosofi stoici risalgono all’età imperiale e sono quelli di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Per la ricostruzione della filosofia stoica dobbiamo dunque ricorrere a fonti indirette e posteriori, come le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, o le raccolte di Aezio, Ario Didimo e il Contro i logici dello scettico Sesto Empirico; o come i testi di autori quali gli apologisti cristiani, che hanno discusso e contestato le teorie stoiche, difendendo appunto le posizioni della fede cristiana (così che si pone anche il problema dell’attendibilità di testimoni in molti casi apertamente ostili ai testi che riportano).
Si deve al filologo tedesco Hans von Arnim la raccolta di tutti i frammenti stoici (Stoicorum Veterum Fragmenta), pubblicata nel 1903.
La logica è, per gli stoici, la sezione della filosofia che ha per oggetto specifico il lógos, inteso come principio razionale che governa l’intero universo. Come tale, essa comprende una serie di ambiti disciplinari che oggi tendiamo a tenere separati.
Gli stoici suddividono la logica in due parti. Da un lato troviamo la retorica, definita come la “scienza del parlar bene”. L’altra parte della logica, invece, è costituita dalla dialettica, definita come la “scienza di ciò che è vero, di ciò che è falso, e di ciò che non è né vero, né falso”. Questa definizione dà conto della vastità del campo d’indagine che gli stoici assegnano alla dialettica. In effetti, si può affermare che al centro della dialettica stoica vi sia la nozione di verità (alétheia), considerata in tutte le sue sfaccettature.
ESERCIZIO
E9: Stoicismo
La verità è analizzata, anzitutto, sotto il profilo semantico. La semantica è la sezione della dialettica che studia i significati, coincidenti con quelle entità di natura incorporea che gli stoici denominano dicibili (lektón). Con il termine lektón si intende uno stato di cose che è significato, in forma ellittica, più sintetica, dai predicati linguistici (kategorémata), cioè i termini, e, nella forma completa, dalle proposizioni (axiómata).
Una proposizione è, appunto, una entità incorporea passibile di essere vera o falsa. In particolare, il vero coincide con “ciò che è”, mentre il falso corrisponde alla proposizione che “non è”. “Ciò che è” corrisponde, a un tempo, al vero e alla realtà che il vero ritrae. Allo stesso modo, “ciò che non è” coincide, a un tempo, con il falso e con l’inesistente che chi pensa o proferisce una proposizione falsa crede o immagina come esistente.
BOX
Paradossi e antinomie
Mentre la semantica ha per oggetto le proposizioni che riflettono (nel caso in cui siano vere) o distorcono (quando sono false) l’esistente, al centro della teoria della conoscenza degli stoici vi sono le rappresentazioni (phantasíai) che riproducono più o meno fedelmente, nella mente del soggetto che conosce, gli oggetti esistenti da cui provengono. La mente è identificata con la parte dominante (hegemónikon) dell’anima, che gli stoici concepiscono come una sostanza aeriforme, consistente cioè in una mescolanza di aria e fuoco denominata pnéuma, e divisa in sette parti (i cinque sensi, lo sperma e la fonazione) che la mente controlla e governa come sue propaggini. All’atto della nascita, la mente è completamente vergine. Gli stoici la paragonano a un foglio di bianco sul quale si inscrivono, attraverso l’esperienza, le singole rappresentazioni, imprimendosi nel pnéuma come vere e proprie impronte (secondo la definizione di Zenone), o affezioni (conformemente alla definizione di Crisippo). A partire dalle rappresentazioni sensibili o materiali, il soggetto elabora poi il patrimonio concettuale di cui si serve per interpretare la realtà che lo circonda. Tale patrimonio consiste nell’insieme di quelle rappresentazioni concettuali che gli stoici chiamano prenozioni (prólepseis). La teoria della conoscenza stoica, quindi, ha un carattere spiccatamente empirista e materialista.
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Scuole socratiche minori
A partire dal settimo anno di età, sostengono gli stoici, nell’anima umana si sviluppa la ragione, che progressivamente permea di sé tutta la mente, la quale diviene, così, totalmente razionale. La tesi stoica della totale razionalità della mente umana – che però Panezio e Posidonio rifiutano, riproponendo la classica tripartizione platonica – è foriera di conseguenze sotto il profilo etico oltre che teorico. Da un lato, essa implica che la mente contribuisce alla formazione delle rappresentazioni (o impressioni), concettualizzandone il contenuto che, così, è sempre esprimibile sotto forma di proposizioni. Dall’altro lato, il possesso della ragione conferisce al soggetto la capacità di discernere fra le rappresentazioni, scegliendo quelle a cui conferire il proprio assenso (sunkatáthesis). A meritare la concessione dell’assenso sono le sole rappresentazioni che gli stoici denominano catalettiche o apprensive (da katálepsis, cioè l’atto dell’afferrare, da cui il termine italiano “apprensione”), le quali, non solo sono vere, ma portano bene impresso il segno della propria verità. E il soggetto razionale possiede tutti gli strumenti per poter riconoscere tale segno.
L’accoglimento delle rappresentazioni nell’anima determina nel soggetto la costituzione di un “abito mentale” (nel senso di habitus, cioè modo di essere): se l’abito mentale è determinato dalla concessione dell’assenso alle sole rappresentazioni catalettiche, allora coincide con la conoscenza, che – come si è visto – è patrimonio del solo sapiente. Poiché tutte le rappresentazioni che popolano la sua mente, essendo catalettiche, sono necessariamente vere, il sapiente possiede la verità, che dal punto di vista conoscitivo coincide, appunto, con la conoscenza.
Gli stoici, come Aristotele, suddividono la loro ricerca sul segno in due aree distinte. In primo luogo essi elaborano una teoria del linguaggio verbale, che comporta un’analisi delle relazioni tra il linguaggio, il pensiero e la realtà; in secondo luogo producono una teoria del segno non linguistico.
Per gli stoici le immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni danno origine a percezioni vere se riproducono in maniera esatta le configurazioni di quegli stessi oggetti. Così uno dei modi di identificare un “particolare” è quello di identificarlo linguisticamente. Lo scettico Sesto Empirico presenta lo schizzo fondamentale della teoria del linguaggio degli stoici: “Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa ‘significata’ (to semainómenon), altri nella voce, altri infine nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati portabandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata, quella significante, e quella che si trova a esistere, e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola ‘Dione’); quella significata è lo stesso stato di cose indicato dalla voce pronunciata, che noi percepiamo come coesistente con il nostro pensiero (diánoia), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo comprendono; infine, ciò che si trova a esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò che si trova a esistere, e una è incorporea, cioè l’oggetto significato o ‘detto’ (lektón), e proprio quest’ultimo è vero o falso”. (Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 11-12)
La nozione espressa dal termine lektón è normalmente interpretata come il giudizio che un enunciato esprime in relazione a un oggetto. Così la traduzione più appropriata di lektón è “ciò che è detto”, e in quanto tale l’espressione copre sia quella di “giudizio”, sia quella di “stato di cose che è significato da una parola o da una serie di parole”.
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Paradossi e antinomie
Per gli stoici i segni sono soprattutto dei lektá. Gli stoici sentono il bisogno di tradurre linguisticamente i fatti rappresentati dai segni non verbali in termini di proposizioni, al fine di inquadrarli all’interno di schemi logici per testarne la validità. Gli stoici, come Aristotele, ritengono i segni uno strumento per raggiungere la conoscenza e/o per ampliarla. Da questo punto di vista i segni dovevano essere tali da offrire la massima garanzia di sicurezza. Questo fatto si può accertare testando la tenuta logica dei ragionamenti entro i quali i segni possono essere impiegati. Posta tale convergenza rispetto ad Aristotele su questo argomento, devono essere sottolineate le differenze di procedimento filosofico. Aristotele usa una logica dei termini per il suo sillogismo, mentre gli stoici introducono una logica di tipo proposizionale. Nelle scuole filosofiche post aristoteliche la posizione del segno cambia radicalmente: si sposta dalla retorica e dialettica, dove essa era collocata inizialmente, alla scienza in generale e raggiunge i livelli più alti della filosofia. Gli stoici vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. È proprio nel quadro della scienza che il segno deve fornire una conoscenza affidabile e vera.
In Aristotele questo conduce alla distinzione tra un alto grado di forza probativa (che caratterizza l’inferenza segnica che può essere ricostruita in un sillogismo di prima figura, basato su un segno sicuro o prova) e il basso grado di certezza che distingue le inferenze in sillogismi basati su segni insicuri. Nella filosofia del segno proposta dagli stoici sparisce la distinzione tra segni sicuri e segni insicuri. Poiché il segno deve fornire una conoscenza affidabile, solo i segni sicuri sono presi in considerazione. La dottrina scientifica degli stoici è basata proprio sui procedimenti inferenziali che assicurano il passaggio dalle cose evidenti a quelle non evidenti. La semiotica diviene centrale nel procedimento filosofico e la stessa dimostrazione viene considerata un procedimento semiotico. La definizione stoica di “segno” che ci viene testimoniata da Sesto Empirico è la seguente:
“Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione che è l’antecedente in un condizionale vero, e che è rivelatore del conseguente. E dicono che la proposizione è un lektón completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce nel falso […]. Essi chiamano antecedente la prima proposizione di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione “essa ha latte” sembra essere rivelatrice di quest’altra “essa ha concepito”.
LETTURE
Teorie del linguaggio e del segno
La fisica corrisponde, per gli stoici, alla conoscenza dei fenomeni naturali. In quanto tale essa, come la dialettica, appartiene soltanto al sapiente, al quale la conoscenza delle leggi che regolano l’universo in cui si trova immerso conferisce la capacità di condurre una vita conforme a natura. Nella filosofia stoica, il termine “natura” (phýsis) è usato in accezioni diverse, a seconda dell’ambito a cui ci si rivolge: di fatto, ciascuna accezione riflette una particolare applicazione del termine all’universo dei fenomeni studiati dalla fisica.
ESERCIZIO
E10: Stoicismo
Una delle definizioni stoiche del termine “natura” è quella di forza di coesione del pnéuma, il principio generatore di cui l’intero universo è permeato. Gli stoici classificano le entità che popolano l’universo secondo una scala gerarchica che prevede quattro livelli. Al primo livello della scala naturale si collocano gli oggetti inorganici, come i bastoni o le pietre, mentre all’ultimo livello troviamo gli esseri razionali (gli uomini, ma anche gli dèi). Ciascun livello è caratterizzato da un crescente grado di coesione dei due elementi (aria e fuoco) che compongono il pnéuma. Si può affermare, quindi, che a ogni livello corrisponda una diversa manifestazione della natura.
A determinare il livello di coesione pneumatica è l’incidenza dell’elemento igneo del pnéuma: le entità razionali sono le più intelligenti perché le loro anime sono le più rarefatte; in esse, cioè, il livello di concentrazione del fuoco nel pnéuma è massimo.
Alla base della scala naturale stoica sta il principio dell’intelligenza cosmica, secondo il quale Dio, che per gli stoici è puro intelletto, è diffuso in tutto l’universo, manifestandosi come semplice coesione degli elementi negli oggetti inorganici e come puro intelletto (nóus) nell’etere. Ciò significa che qualsiasi entità pneumatica, inclusi i bastoni e le pietre, è per gli stoici, in maniera più o meno elevata a seconda del livello della scala cui appartiene, intelligente. Inoltre l’etere coincide con la parte dominante dell’anima dell’universo, che gli stoici concepiscono come un essere vivente e razionale. In questo senso, il lógos umano riflette il lógos cosmico, ossia il microcosmo riflette il macrocosmo: lo stesso principio razionale che governa l’universo, governa anche l’uomo.
L’anima individuale e l’anima cosmica hanno entrambe, per gli stoici, una natura corporea. L’universo, dunque, è popolato di entità corporee: per questo i corpi sono i soli oggetti esistenti. La loro caratteristica è quella di essere in grado di agire e di subire l’azione di altri corpi. La corporeità dell’universo esclude l’esistenza del vuoto, che infatti, per gli stoici, sta fuori dal cosmo ed è incorporeo.
Altre entità, oltre al vuoto, possiedono una natura incorporea: i dicibili, di cui abbiamo già parlato, ma anche il tempo e lo spazio.
L’universo stoico è limitato, sferico, immobile, molteplice (composto, cioè, da una moltitudine di pianeti) e generato da Dio, puro intelletto ma anche “fuoco artefice” con cui, secondo un’altra delle definizioni stoiche, coincide la natura. In quanto generato, l’universo è destinato a corrompersi e quindi a perire, come accade a ogni entità animata: è questo un altro aspetto interessante del parallelo fra macrocosmo e microcosmo istituito dagli stoici.
La fine del cosmo è determinata da una conflagrazione, che ne causa la dissoluzione, ma che al contempo prelude alla generazione di un nuovo universo. L’intero universo trae la propria origine dal fuoco e nel fuoco si dissolve, in un ciclo eterno. Per questo gli stoici sostengono insieme la finitezza e l’eternità dell’universo: l’universo è finito in quanto limitato e perituro, ma è eterno perché tale è il ciclo della sua generazione e del suo declino. In ogni ciclo si ripetono gli stessi eventi, che hanno luogo nello stesso identico modo: Sofronisco genererà di nuovo Socrate, che il tribunale di Atene condannerà di nuovo a morte. È la cosiddetta “teoria del ritorno ciclico”, o “dei periodi cosmici”, che gli stoici mutuano, con alcune varianti, dal Timeo platonico. Si tratta, peraltro, di una tesi nettamente rigettata da Panezio, per il quale l’universo è eterno e indistruttibile.
Una conseguenza importante della dottrina del ritorno ciclico è data dal ferreo determinismo che anima la filosofia stoica. L’universo è governato da leggi divine a cui ogni singolo evento è riconducibile e che si ripetono identiche per l’eternità. Le leggi eterne che governano il mondo sono, comunque, le migliori possibili: esse, infatti, sono dettate dalla provvidenza (prónoia), ovvero dallo stesso Dio, che impartisce al mondo un ordine ottimale. L’uomo virtuoso, dunque, non può che accettare spontaneamente il proprio destino, comprendendo che esso è parte dell’ordine universale.
Per gli stoici il determinismo non è in contraddizione con la responsabilità individuale, dal momento che la natura ha concesso all’uomo lo strumento dell’assenso. La facoltà di stabilire a quali rappresentazioni concedere o negare l’assenso fa dell’uomo la causa principale delle proprie scelte e delle proprie azioni, anche se queste sono già inscritte nel destino.
Non è un caso che, nell’orto allegorico a cui gli stoici paragonano la filosofia, l’etica corrisponda ai frutti: la crescita dei frutti e degli erbaggi costituisce, infatti, il fine della realizzazione e della coltivazione di un orto. In tal senso, logica e fisica non fanno che preparare il terreno all’etica, costituendone una sorta di preludio. Per questo, Zenone e Crisippo ritengono che lo studio dell’etica debba seguire quello delle altre parti della filosofia.
ESERCIZIO
E11: Stoicismo
Al centro dell’etica stoica sta la nozione di virtù, contrapposta a quella di vizio: come la virtù costituisce il solo bene, così il vizio è il solo male. Tutto ciò che non è virtù né vizio (i beni materiali, il nutrimento, la salute ecc.) è, dal punto di vista morale, indifferente (adiáphoron). Gli stoici distinguono fra indifferenti preferibili e indifferenti inopportuni: i primi sono quelli conformi a natura, ossia volti al conseguimento della virtù. Un’azione secondo natura è detta “dovere” (kathékon).
Nessuna azione, però, è classificabile come un dovere a prescindere dalle circostanze in cui ha luogo. Ad esempio, la vita coincide, di per sé, con un indifferente preferibile. Tuttavia, se le circostanze impediscono perentoriamente a chi vive di spendersi per divenire virtuoso, o anche, nel caso in cui questi sia sapiente, di manifestare la propria virtù, allora la morte è preferibile alla vita. In questo caso, per gli stoici il suicidio non solo è legittimo, ma coincide, a tutti gli effetti, con un atto dovuto.
Poiché la virtù coincide con il bene, chi la persegue non deve avere altro scopo che il suo stesso conseguimento: essa, infatti, è un fine, e non un mezzo volto all’ottenimento di un presunto bene superiore. Il sapiente, che unico fra gli uomini, è riuscito a conseguire la virtù, può dirsi felice: la felicità, infatti, consiste nel vivere secondo virtù.
L’anima del sapiente stoico si trova a essere in sintonia con quella degli dèi. L’anima divina, infatti, è razionale come quella umana, ma a differenza dell’anima umana essa è incorruttibile e immortale, in quanto gli dèi sopravvivono, unici fra tutti gli esseri, alla conflagrazione finale: ciò consente loro di rivelare il futuro agli uomini. A questo proposito, però, Panezio, che – come si è visto – rigetta la tesi del ritorno ciclico, critica duramente gli stoici che lo hanno preceduto anche per aver dato credito alla divinazione.
Contrariamente al sapiente, l’uomo ordinario, che ignora il corso degli eventi cosmici e la natura del bene e del male, e quindi della virtù e del vizio, compie necessariamente errori di valutazione di carattere sia teorico sia pratico. Gli errori pratici, che appunto hanno a che vedere con la natura del bene e del male, corrispondono a ciò che gli stoici chiamano passioni (páthe).
Dal punto di vista fisiologico le passioni corrispondono ad affezioni della parte dominante dell’anima, coincidenti con moti di contrazione o espansione del pnéuma. Dal punto di vista psicologico, esse sono, di fatto, giudizi, ovvero opinioni relative a beni o mali presunti, attuali o futuri. Per Posidonio, invece, le passioni sono semplicemente moti irrazionali dell’anima, espressione di quella istintività la cui sussistenza è invece caparbiamente negata dagli stoici antichi, e in particolare da Crisippo.
ESERCIZIO
E12: Stoicismo
TESTO
T9: Passioni negative e positive I
Si distinguono quattro generi principali di passioni: il dolore è l’opinione relativa a un presunto male attuale, mentre la paura è l’opinione relativa a un presunto male futuro. Il piacere è l’opinione relativa a un presunto bene attuale, ed infine il desiderio è l’opinione relativa a un presunto bene futuro.
I giudizi passionali sono falsi, perché il bene e il male presunti non sono mai effettivamente tali, ovvero il presunto male avvertito o temuto dal passionale (ad esempio, il decesso di una persona cara, o anche la propria morte) non è il vizio, e quindi non è effettivamente un male, così come il presunto bene di cui egli gode o che desidera (ad esempio il piacere o la ricchezza) non è la virtù, e quindi non è effettivamente un bene. Le passioni, poi, inducono il soggetto a comportamenti negativi che, se reiterati nel tempo, rischiano di consolidare i giudizi passionali, generando una vera e propria attitudine mentale al vizio.
Per questo, chi intenda perseguire la virtù deve, prima di tutto, liberarsi dalle passioni allo scopo di considerare i beni e i mali presunti che le muovono per quello che essi sono realmente, ossia oggetti indifferenti di cui vale la pena preoccuparsi nella misura in cui contribuiscono o meno al raggiungimento della virtù.
La liberazione dalle passioni, in ogni caso, non implica affatto l’apatía, se con questo termine intendiamo l’incapacità di provare emozioni. Il sapiente stoico non è insensibile; piuttosto, nella sua anima, le passioni sono state scalzate da stati emozionali conformi a natura (le cosiddette eupathéiai: gioia, cautela, buona volontà).
VIDEO
Stoicismo ed epicureismo
Alla fine del IV secolo a.C. il paesaggio filosofico di Atene si arricchisce di due nuove scuole filosofiche destinate a dominare l’età ellenistica e parte dell’età imperiale: all’Accademia platonica e al Liceo aristotelico si aggiungono il Giardino, cioè la scuola di Epicuro, e la Stoá, la scuola stoica di Zenone di Cizio.
Epicuro fonda la sua scuola nel 307-306 a.C. nei pressi dell’Accademia platonica, nel quartiere Ceramico della città di Atene fuori dalla porta del Dipylon. Acquista una casa che comprende insieme un giardino e un orto, donde la denominazione di képos, che in greco significa appunto sia giardino, sia orto o frutteto. La comunità epicurea, ospite del Giardino, è una comunità di amici aperta anche alle donne e agli schiavi, i cui membri si dedicano non tanto a seguire un corso di studi quanto a praticare uno stile di vita ispirato ai principi fondamentali della dottrina del maestro, senza lasciarsi coinvolgere dalla vita politica ateniese. Il filosofo romano Seneca dirà nelle Lettere che “le grandi anime epicuree non le fece la dottrina ma l’assidua compagnia di Epicuro”, e segnalerà come precetto fondamentale della scuola il seguente: “sic fac omnia tamquam spectet Epicurus” (“comportati sempre come se ti vedesse Epicuro”).
I principi che guidano la vita nel Giardino sono ispirati a un’etica individuale della libertà dal dolore, sia corporeo (aponía) sia mentale (atarassía), e a un’etica collettiva dell’amicizia come bene indispensabile alla felicità. Per i seguaci di Epicuro la felicità è il fine ultimo della vita e coincide con il raggiungimento del piacere “statico” o assenza di dolore, cioè dell’aponía corporea e dell’atarassía mentale. La filosofia è considerata una terapia sia dei mali dell’anima (per esempio il timore degli dèi o la paura della morte) sia dei dolori del corpo e, insieme alla saggezza pratica (phrónesis), il modo di conseguire tale felicità umana. Scrive Epicuro in una lettera indirizzata a Idomeneo in punto di morte: “Ti scrivo questa lettera mentre vivo il giorno beato e insieme ultimo della mia esistenza: ho dolori alla vescica e al ventre tali che non ce ne possono essere di maggiori; ma a tutto questo si oppone la gioia dell’anima nel ricordo dei nostri discorsi filosofici di un tempo”. Alla sua morte, nel 271-270, Epicuro è venerato come un dio o un eroe nell’ambito della scuola; gli succede come scolarca uno dei suoi più antichi allievi, Ermarco di Mitilene.
Fondatore della scuola è Zenone di Cizio (l’odierna Làrnaca a Cipro), di origini fenicie. Secondo alcune fonti antiche giunge ad Atene intorno al 311 a.C. all’età di 22 anni e lì riceve la sua educazione filosofica presso l’accademico Polemone e il cinico Cratete. In seguito, alla fine del IV secolo, inizia a insegnare lui stesso nella Stoá poíkile, il Portico dipinto (così detto per le pitture di Polignoto) nell’agorà dell’antica Atene dal quale prende nome la sua scuola. Essa sorge nel lato settentrionale dell’agorá e quindi, a differenza del Giardino di Epicuro, nel luogo per eccellenza della vita pubblica ateniese. Alla morte di Zenone, nel 262-261, gli succede Cleante di Asso e dopo di lui Crisippo di Soli, quest’ultimo considerato il secondo fondatore della Stoá per la sistemazione della dottrina stoica da lui compiuta; per cui, come scrive Diogene Laerzio, “non ci fosse stato Crisippo, non ci sarebbe la Stoá”.