Il grande comico Danny Kaye fece una battuta che mi accompagna fin dall’adolescenza. Parlando di una donna che non gli piaceva, disse: «La sua posizione preferita è fuori di sé, e il suo sport preferito è saltare alle conclusioni». Quella battuta mi tornò in mente, ricordo, quando cominciai a parlare con Amos Tversky della razionalità delle intuizioni statistiche, e oggi credo costituisca una descrizione calzante del modo in cui funziona il sistema 1. Saltare alle conclusioni è efficace se le conclusioni tendono a essere corrette, il costo di un occasionale errore è accettabile e il salto fa risparmiare tempo e fatica. Saltare alle conclusioni è rischioso quando la situazione è ignota, la posta in gioco è alta e non c’è il tempo di raccogliere maggiori informazioni. Queste sono le circostanze in cui sono probabili gli errori intuitivi, che possono essere prevenuti da un intervento deliberato del sistema 2.
Disattenzione per l’ambiguità e repressione del dubbio
Che cosa hanno in comune le tre scritte della figura 7.1? La risposta è che sono tutte ambigue. Leggiamo quasi sicuramente il contenuto del primo box come A B C e quello a destra come 12 13 14, ma gli item intermedi in entrambi i box sono identici. Li si sarebbe potuti benissimo leggere come A 13 C o 12 B 14, ma non l’abbiamo fatto. Perché? La stessa forma è letta come una lettera in un contesto di lettere e come un numero in un contesto di numeri. L’intero contesto contribuisce a determinare l’interpretazione di ciascun elemento. La forma è ambigua, ma saltiamo alle conclusioni in merito alla sua identità, e non ci rendiamo conto dell’ambiguità che è stata risolta.
Quanto ad Ann, ci siamo probabilmente immaginati una donna che, pensando ai suoi soldi, si avvicina a un palazzo con sportelli e caveau blindati. Ma questa interpretazione plausibile non è l’unica possibile; la frase è ambigua. Se una frase precedente fosse stata: «Procedevano leggeri sul fiume», avremmo immaginato una scena completamente diversa. Quando si è appena pensato a un fiume, il termine «banca» non evoca i soldi, ma il terrapieno di rinforzo dell’argine.* In mancanza di un contesto esplicito, il sistema 1 ha generato da solo un contesto probabile. Sappiamo che è il sistema 1, perché non eravamo consapevoli della scelta o della possibilità di un’interpretazione alternativa. A meno che non siamo andati in canoa di recente, di solito passiamo più tempo andando in banca che avvicinandoci al terrapieno di un fiume, e abbiamo risolto l’ambiguità di conseguenza. Quando è incerto, il sistema 1 scommette su una risposta, e le scommesse sono guidate dall’esperienza. Le regole della scommessa sono intelligenti: gli eventi recenti e il contesto attuale hanno il peso maggiore nel determinare un’interpretazione. Quando non viene in mente nessun evento recente, assumono il controllo i ricordi più lontani. Tra le nostre esperienze infantili più memorabili c’era cantare l’ABC; non cantavamo A13C.
L’aspetto più importante di entrambi gli esempi è che è stata presa una decisione precisa senza che ne fossimo consapevoli. Ci è venuta in mente una sola interpretazione e non ci siamo mai resi conto dell’ambiguità. Il sistema 1 non conserva il ricordo delle alternative che scarta e nemmeno del fatto che vi fossero alternative. Il dubbio conscio non rientra nel repertorio del sistema 1, in quanto comporta che si conservino simultaneamente nella mente interpretazioni incompatibili, impresa che comporta uno sforzo mentale. L’incertezza e il dubbio sono appannaggio del sistema 2.
Bias di credenza e conferma
Lo psicologo Daniel Gilbert, divenuto famoso con il libro Stumbling on Happiness, scrisse una volta un articolo intitolato How Mental Systems Believe (Come giungono a credere i sistemi mentali), in cui avanzava una teoria del credere e del non credere che risaliva a Baruch Spinoza, il famoso filosofo del XVII secolo. Gilbert ipotizzava che per capire un’asserzione si deve provare innanzitutto a credervi: bisogna sapere fin dall’inizio che cosa significherebbe se fosse vera, e solo allora si può decidere se credervi o non credervi. Il tentativo iniziale di credere è un’operazione automatica del sistema 1, che consiste nell’elaborare la migliore interpretazione possibile della situazione. Anche un enunciato assurdo, sostiene Gilbert, evoca una credenza iniziale. Riporto il suo esempio: «I lavarelli mangiano le caramelle». Probabilmente abbiamo una vaga impressione di pesci e caramelle, mentre un processo automatico della memoria associativa cerca eventuali nessi tra le due idee che possano conferire un senso al nonsenso.
Gilbert ritiene che quella di non credere sia un’operazione del sistema 2, e descrive un elegante esperimento a sostegno della sua tesi.1 I volontari leggevano enunciati assurdi, come «la dinca è una fiamma», seguiti pochi secondi dopo da un’unica parola, «vero» o «falso». Poi venivano testati per vedere se si ricordavano quali frasi avessero definito «vere». In una versione dell’esperimento si chiedeva loro di tenere a mente dei numeri durante il compito. Mantenere così impegnato il sistema 2 aveva un effetto selettivo: rendeva difficile ai soggetti «non credere» alle frasi false. In un successivo test di memoria, i volontari che avevano dovuto ricordare i numeri finivano per pensare che molte delle frasi false fossero vere. La morale della storia è significativa: quando il sistema 2 è impegnato in altro, crediamo pressoché a tutto. Il sistema 1 è sprovveduto e tende a credere, il sistema 2 ha il compito di dubitare e non credere, ma a volte è indaffarato e spesso è pigro. In effetti, da alcune prove risulta che le persone si facciano più influenzare da messaggi persuasivi inconsistenti, come gli spot pubblicitari, quando sono stanche e deconcentrate.
Le operazioni della memoria associativa contribuiscono a un generale «bias di conferma». Quando si chiede: «Sam è cordiale?», vengono in mente esempi del comportamento di Sam che sono diversi da quelli che verrebbero in mente se si fosse chiesto: «Sam è sgarbato?». Il sistema 2 verifica un’ipotesi anche con una specifica ricerca di prove a conferma, chiamata «strategia di test positivo». Contrariamente alle regole dei filosofi della scienza, i quali consigliano di verificare un’ipotesi provando a confutarla, le persone (e molto spesso anche gli scienziati) cercano dati che siano compatibili con le loro credenze del momento. L’inclinazione alla conferma del sistema 1 induce la gente ad accettare acriticamente ipotesi e a esagerare le probabilità che si verifichino eventi estremi e improbabili. Quando qualcuno ci chiede se è probabile che uno tsunami colpisca la California nei prossimi trent’anni, le immagini che ci vengono in mente tendono a essere immagini di tsunami, così come venivano in mente immagini di lavarelli e caramelle quando Gilbert proponeva enunciati assurdi come «i lavarelli mangiano le caramelle». Si è inclini a sopravvalutare la probabilità di un disastro.
Coerenza emozionale esagerata (effetto alone)
Se ci piace la politica del presidente, ci piacciono anche, probabilmente, la sua voce e il suo aspetto. La tendenza ad apprezzare (o detestare) tutto di una persona, comprese cose che non si sono osservate, è definita «effetto alone». Benché sia utilizzata in psicologia da un secolo, l’espressione non è diventata di uso comune nel linguaggio quotidiano. È un peccato, perché «effetto alone» è una buona definizione per un bias molto comune che svolge un ruolo importante nel forgiare la nostra visione degli altri e delle situazioni. È uno dei modi grazie ai quali la rappresentazione del mondo che il sistema 1 genera risulta più semplice e coerente di quanto non sia nella realtà.
A una festa si incontra una donna di nome Joan e la si giudica di bell’aspetto e ottima conversatrice. Ora il suo nome compare tra quelli di persone cui si potrebbe chiedere un contributo per un istituto di beneficenza. Che cosa sappiamo della sua generosità? La risposta corretta è che non sappiamo praticamente nulla, perché non c’è motivo di credere che le persone che risultano simpatiche in un contesto mondano siano anche inclini a versare generosi contributi a istituti di beneficenza. Ma Joan ci piace, e proviamo un moto di simpatia ogniqualvolta pensiamo a lei. Ci piacciono anche la generosità e le persone generose. Per associazione d’idee, siamo ora predisposti a credere che Joan sia generosa. E adesso che la riteniamo generosa, forse proviamo per lei ancora più simpatia di quella che provavamo prima, perché abbiamo aggiunto la generosità alle sue caratteristiche positive.
Vere prove di generosità mancano nella storia di Joan, e la lacuna è colmata da un’ipotesi che si adatta alla nostra risposta emozionale nei suoi confronti. In altre situazioni, le prove si accumulano gradualmente e l’interpretazione è forgiata dall’emozione annessa alla prima impressione. In un classico esperimento che ha conservato la sua attualità, Solomon Asch presentò ai soggetti la descrizione di due individui e chiese commenti sulla loro personalità.2 Che cosa pensare di Alan e Ben?
Alan: intelligente - industrioso - impulsivo - critico - ostinato - invidioso
Ben: invidioso - ostinato - critico - impulsivo - industrioso - intelligente
Se sei come la maggior parte delle persone, avrai visto Alan in una luce più positiva di Ben. Le caratteristiche iniziali dell’elenco modificano il significato stesso delle caratteristiche che appaiono in seguito. Si tende a giustificare e a provare addirittura rispetto per l’ostinazione di una persona intelligente, mentre si ha l’impressione che l’intelligenza renda ancora più pericolosa una persona invidiosa e ostinata. L’effetto alone è anche un esempio di soppressione dell’ambiguità: come la parola «banca», l’aggettivo «ostinato» è ambiguo e viene interpretato in un’accezione coerente con il contesto.
Vi sono state diverse variazioni sul tema di questa ricerca. I volontari che partecipavano a una di esse lessero innanzitutto i primi tre aggettivi attribuiti ad Alan, poi gli ultimi tre, che, fu detto loro, appartenevano a un’altra persona. Quando ebbero immaginato i due individui, si sentirono chiedere se era plausibile che tutti e sei gli aggettivi descrivessero la stessa persona e la maggior parte di loro lo ritenne impossibile.3
La sequenza nella quale osserviamo le caratteristiche di una persona è spesso determinata dal caso. Tuttavia, l’ordine in cui quelle caratteristiche sono disposte conta, perché l’effetto alone accresce il peso delle prime impressioni, a volte al punto di oscurare completamente un’informazione successiva. All’inizio della mia carriera di professore, davo i voti ai compiti scritti degli studenti seguendo un metodo convenzionale. Prendevo un fascicolo alla volta e leggevo tutte le risposte al test di quello studente in immediata successione, dando i voti a mano a mano che procedevo; poi calcolavo il totale e passavo allo studente successivo. Alla fine notai che le mie valutazioni delle risposte scritte di ciascun fascicolo erano straordinariamente omogenee. Cominciai a sospettare che il mio criterio di assegnazione del voto risentisse dell’effetto alone e che la prima domanda alla quale assegnavo un voto avesse un effetto sproporzionato sul voto complessivo. Il meccanismo era semplice: se avevo assegnato un voto alto al primo compito scritto, davo allo studente il beneficio del dubbio quando in seguito incontravo un’affermazione vaga o ambigua. Mi pareva ragionevole: uno studente che si era dimostrato così brillante nel primo compito non avrebbe certo commesso un errore così sciocco nel secondo! Ma il mio modo di procedere presentava una seria falla. Se uno studente aveva fatto due compiti, uno buono e uno meno buono, finivo per dare voti finali diversi a seconda di quale delle due prove avessi letto per prima. Avevo garantito agli studenti che i due saggi avevano uguale peso, ma non era vero: il primo aveva un’influenza molto maggiore del secondo sul voto complessivo. Era inaccettabile.
Adottai una nuova procedura. Invece di leggere i fascicoli uno dopo l’altro, lessi e diedi il voto a tutte le risposte degli studenti alla prima domanda, poi alla seconda e così via. Ebbi cura di annotare tutti i voti sul retro di ciascun fascicolo, in maniera da non essere influenzato (anche se inconsciamente) quando avessi letto il secondo compito scritto. Poco tempo dopo essere passato al nuovo metodo, feci un’osservazione sconcertante: la mia fiducia nella mia capacità di dare voti era assai inferiore a prima. Il motivo era che spesso provavo un disagio del tutto inedito. Quando ero deluso del secondo compito scritto di uno studente e mi accingevo a scrivere un brutto voto, ogni tanto scoprivo di avere dato un voto massimo al primo compito di quello stesso studente. Notai anche che ero tentato di ridurre la discrepanza modificando il voto che non avevo ancora scritto e trovai difficile seguire la semplice regola del non cedere mai a quella tentazione. I voti che davo ai compiti di un singolo studente spesso variavano parecchio. La mancanza di coerenza mi lasciava incerto e frustrato.
Adesso ero meno felice e meno sicuro dei miei voti di quanto non lo fossi stato in precedenza, ma riconobbi che era un buon segno, un indizio del fatto che la nuova procedura era migliore. Il senso di coerenza che avevo sperimentato prima era falsato: produceva una sensazione di fluidità cognitiva e il mio sistema 2 era felice di accettare pigramente la valutazione finale. Lasciandomi fortemente influenzare dalla prima domanda nella correzione di quelle successive, mi risparmiavo di scoprire un’incongruenza, ovvero che lo stesso studente dava risposte eccellenti in un tipo di questionario e cattive in un altro. L’imbarazzante incoerenza che il mio passaggio alla nuova procedura aveva rilevato era reale: rispecchiava il fatto che le singole domande erano inadeguate a misurare le conoscenze dello studente e che il mio stesso metodo di assegnazione del voto era inaffidabile.
La procedura che adottai per tenere sotto controllo l’effetto alone è conforme al principio generale di «decorrelare» l’errore. Per capire come funzioni questo principio, immaginiamo che a un gran numero di osservatori vengano mostrati vasetti di vetro contenenti dei penny, e che questi osservatori siano invitati a valutare il numero di monete di ciascun vasetto. Come spiegò James Surowiecki nel suo best seller La saggezza della folla,4 è il tipo di compito in cui i singoli individui sono molto poco bravi, mentre i pool di giudizi individuali funzionano molto bene. Alcune persone sovrastimano parecchio il numero di monete, altre lo sottostimano, ma quando si calcola la media di numerosi giudizi, questa tende a essere assai precisa. Il meccanismo è semplice: tutti guardano lo stesso vasetto e tutti i giudizi hanno una base comune. Invece gli errori che i singoli individui commettono sono indipendenti dagli errori commessi dagli altri e (in mancanza di un bias sistematico) tendono ad avere come media zero. Tuttavia la magia della riduzione dell’errore funziona bene solo quando le osservazioni sono indipendenti e gli errori non sono correlati. Se gli osservatori condividono un bias, l’aggregazione dei giudizi non lo riduce. Permettere agli osservatori di influenzarsi a vicenda riduce parecchio le dimensioni del campione e con esso la precisione della stima di gruppo.
Per ricavare le informazioni più utili da multiple fonti di prove, bisognerebbe sempre cercare di rendere tali fonti indipendenti l’una dall’altra. Questa regola è parte integrante delle buone procedure di indagine poliziesca. Quando vi sono diversi testimoni di un evento, non è loro permesso parlarne prima di rendere testimonianza. Lo scopo non è solo impedire la collusione di testimoni ostili, ma anche evitare che testimoni privi di preconcetti si influenzino a vicenda. I testimoni che si confidano le loro esperienze tenderanno a commettere errori analoghi nella loro testimonianza, riducendo il valore complessivo delle informazioni che forniscono. Eliminare la ridondanza dalle proprie fonti di informazioni è sempre una buona idea.
Il principio dei giudizi indipendenti (e degli errori decorrelati) trova applicazioni immediate nella gestione delle riunioni, un’attività alla quale i dirigenti d’azienda dedicano gran parte delle loro giornate lavorative. Esiste una regola semplice e molto utile: prima di discutere un argomento, si dovrebbe far scrivere a tutti i membri della commissione un brevissimo riassunto del loro punto di vista. Una simile procedura sfrutta al meglio il valore della varietà delle conoscenze e delle opinioni del gruppo. La pratica comune di aprire il dibattito dando troppo peso alle opinioni di coloro che parlano per primi o in maniera assertiva induce gli altri ad allinearsi a loro.
WYSIATI: quello che si vede è l’unica cosa che c’è
Uno dei miei ricordi preferiti dei primi anni di collaborazione con Amos è un’imitazione scherzosa a cui spesso indulgeva. Facendo la perfetta caricatura di uno dei professori con cui aveva studiato filosofia all’università, borbottava in un ebraico dal forte accento tedesco: «Non devi mai dimenticare il primato dell’è». Che cosa intendesse esattamente dire il suo insegnante con quella frase non mi fu mai chiaro (e credo neanche ad Amos), ma le battute di Amos erano sempre molto divertenti. Gli veniva in mente quella vecchia sentenza (e alla fine veniva in mente anche a me) ogniqualvolta ci imbattevamo nella grande asimmetria tra i modi in cui la nostra mente tratta le informazioni immediatamente disponibili e quelle che non lo sono.
Una caratteristica strutturale essenziale del meccanismo associativo è di rappresentare solo idee attivate. Le informazioni che non sono recuperate (nemmeno inconsciamente) dalla memoria potrebbero anche non esistere. Il sistema 1 è abilissimo nell’elaborare la miglior storia possibile con le idee attivate al momento, ma non tiene (non può tenere) conto delle informazioni che non ha.
Per il sistema 1, la misura del successo è la coerenza della storia che riesce a costruire. La quantità e la qualità dei dati su cui si basa la storia sono in gran parte irrilevanti. Quando le informazioni sono scarse, cosa che accade spesso, il sistema 1 funziona come una macchina per saltare alle conclusioni. Consideriamo la frase: «Mindik sarà una buona leader? È intelligente e forte…». Ci viene subito in mente una risposta: sì. Abbiamo scelto la migliore risposta che potessimo scegliere basandoci sulle pochissime informazioni disponibili, ma siamo saltati alle conclusioni. E se gli aggettivi seguenti fossero stati «corrotta» e «crudele»?
Prendi nota di quello che non hai fatto mentre pensavi per breve tempo a Mindik come a una leader. Non hai cominciato col chiederti: «Che cosa avrei bisogno di sapere prima di farmi un’opinione della qualità della leadership di qualcuno?». Il sistema 1 si è messo a lavorare per proprio conto fin dal primo aggettivo: «intelligente» va bene, e «intelligente e forte» va ancora meglio. È la storia migliore che si possa elaborare a partire da due aggettivi e il sistema 1 l’ha sfornata con estrema fluidità cognitiva. La storia verrà sottoposta a revisione se arriveranno nuovi dati (come che Mindik è corrotta), ma non c’è attesa e non c’è disagio soggettivo. Inoltre, rimane un bias che privilegia la prima impressione.
La combinazione di un sistema 1 in cerca di coerenza con un sistema 2 affetto da pigrizia fa sì che il sistema 2 avalli molte credenze intuitive, le quali rispecchiano fedelmente le impressioni generate dal sistema 1. Certo, il sistema 2 è capace anche di considerare le prove in maniera più sistematica e attenta, e di controllare e verificare un elenco di caselle prima di prendere una decisione: si pensi all’operazione di comprare casa, quando si cercano con cura informazioni di cui non si è in possesso. Eppure pare che il sistema 1 influenzi anche le decisioni più oculate e che il suo input non si interrompa mai.
Saltare alle conclusioni sulla base di prove limitate è talmente importante per comprendere il pensiero intuitivo, e si presenta così spesso in questo libro, che userò la brutta sigla WYSIATI, che sta per what you see is all there is (quello che si vede è l’unica cosa che c’è). Il sistema 1 è radicalmente insensibile sia alla qualità sia alla quantità delle informazioni che generano impressioni e intuizioni.
Con due suoi laureandi di Stanford, Amos descrisse uno studio strettamente collegato al WYSIATI, che consisteva nell’osservare la reazione di soggetti cui venivano fornite prove unilaterali.5 I volontari, che sapevano che le prove erano unilaterali, erano esposti a scenari legali come questo:
Il 3 settembre il ricorrente David Thornton, rappresentante sindacale di quarantatré anni, fece una visita sindacale di routine al drugstore Thrifty # 168. A dieci minuti dal suo arrivo, il direttore del negozio lo affrontò dicendogli che non poteva più parlare con i dipendenti all’interno dell’area di vendita, ma doveva incontrarli nel retrobottega durante la loro pausa pranzo. Tale clausola era ammessa dal contratto sindacale con il Thrifty, ma non era mai stata applicata. Quando il signor Thornton rifiutò, gli dissero che poteva scegliere tra accettare la richiesta, lasciare il negozio o venire arrestato. A quel punto il signor Thornton disse al direttore che gli era sempre stato permesso di parlare per una decina di minuti con gli impiegati nell’area di vendita, purché questo non ostacolasse il commercio, e che preferiva essere arrestato che modificare la procedura della sua visita di routine. Il direttore allora chiamò la polizia e lo fece ammanettare nel negozio, accusandolo di violazione della proprietà privata. Dopo che il signor Thornton fu arrestato e messo in cella per breve tempo, tutte le accuse furono ritirate. Il signor Thornton ha sporto denuncia contro il drugstore Thrifty per arresto illegale.
Tutti i volontari lessero questo materiale di base, e gruppi specifici ascoltarono le arringhe iniziali degli avvocati delle due parti. Naturalmente l’avvocato del sindacalista definiva l’arresto un tentativo di intimidazione, mentre il difensore del Thrifty sosteneva che discutere con gli impiegati nel negozio era eversivo e che il direttore aveva agito correttamente. Come una giuria, alcuni volontari udirono entrambe le arringhe. Gli avvocati non aggiungevano ulteriori informazioni utili che non si potessero inferire dalla storia di base.
I volontari erano perfettamente edotti sulla situazione, e quelli che avevano udito una sola campana avrebbero potuto facilmente argomentare a favore della parte avversa. Tuttavia la presentazione di prove unilaterali ebbe un effetto molto pronunciato sui giudizi. I soggetti cui erano state presentate prove unilaterali erano più sicuri del loro giudizio di quelli che erano stati esposti a entrambi i punti di vista. È proprio quello che ci si aspetterebbe di vedere se la sicurezza di giudizio fosse determinata dalla coerenza della storia che si riesce a elaborare a partire dalle informazioni disponibili. È la coerenza, non la completezza delle informazioni, che conta per una buona storia. Anzi, si scopre spesso che sapere poco rende più facile integrare tutte le informazioni in un modello coerente.
Il WYSIATI facilita la realizzazione della coerenza e della fluidità cognitiva che ci induce ad accettare un’affermazione come vera. Spiega perché siamo in grado di pensare in fretta, e in che modo riusciamo a trarre un significato da informazioni parziali in un mondo complesso. La maggior parte delle volte, la storia coerente che mettiamo insieme è sufficientemente simile alla realtà da consentire un’azione ragionevole. Tuttavia invocherò il WYSIATI anche per spiegare un lungo e variegato elenco di bias di giudizio e di scelta, di cui questi sono alcuni degli esempi:
• Eccessiva sicurezza: come implica la regola del WYSIATI, né la quantità né la qualità delle prove contano molto per la sicurezza soggettiva di sé. La sicurezza con cui gli individui si affidano alle loro credenze dipende perlopiù dalla qualità della storia che essi si raccontano in merito a ciò che vedono, anche se vedono pochissimo. Spesso noi non ci curiamo del fatto che manchino prove potenzialmente essenziali al nostro giudizio: quello che vediamo è l’unica cosa che c’è. Inoltre, il nostro sistema associativo tende a stabilire un modello coerente di attivazione e a reprimere il dubbio e l’ambiguità.
• Effetti framing o effetti di formulazione: modi diversi di presentare le stesse informazioni spesso suscitano emozioni diverse. La frase «le probabilità di sopravvivenza un mese dopo l’intervento chirurgico erano del 90 per cento» è più rassicurante della frase equivalente «la mortalità a un mese dall’intervento chirurgico è del 10 per cento». Analogamente, arrosti freddi descritti come «esenti al 90 per cento da grassi» attirano più di arrosti freddi «con il 10 per cento di grassi». L’equivalenza della formulazione alternativa è potente, ma un individuo di norma ne vede solo una, e quella che vede è l’unica cosa che c’è.
• Disattenzione per la probabilità a priori: ti ricordi di Steve, l’anima mite e ordinata che molti ritenevano fosse un bibliotecario? La descrizione della personalità è saliente e vivida, e anche se sappiamo per certo che ci sono più agricoltori maschi che bibliotecari maschi, il dato statistico quasi sicuramente non ci viene in mente quando consideriamo la questione per la prima volta. Ciò che vediamo è l’unica cosa che c’è.
A proposito del saltare alle conclusioni
«Non sa niente delle competenze manageriali di questa persona. Si basa solo sull’effetto alone derivante da una buona presentazione.»
«Prima di qualsiasi discussione, decorreliamo gli errori raccogliendo giudizi separati sul tema. Otterremo più informazioni dalle singole valutazioni indipendenti.»
«Hanno preso quell’importante decisione sulla base di un rapporto positivo fornito da un unico consulente. WYSIATI: quello che si vede è l’unica cosa che c’è. A quanto pare non si sono resi conto di che informazioni esigue avessero.»
«Non desideravano altri dati, che avrebbero rischiato di rovinare la loro storia. WYSIATI.»
* L’esempio è fondato sul termine inglese bank, che significa sia «banca» sia «riva».