Introduzione | I problemi e i metodi |
Il problema che ci proponiamo di studiare è uno dei piú impor tanti, ma nello stesso tempo dei piú difficili, della psicologia infantile: quali sono le rappresentazioni dell’universo che i fanciulli si creano spontaneamente durante i vari stadi del loro sviluppo intellettuale?
Questo problema si presenta sotto due aspetti essenziali. Da una parte v’è la questione della modalità del pensiero infantile: quali sono i piani di realtà su cui si muove questo pensiero? In altre parole: possiede il bambino, come noi, la credenza in un mondo reale, e la distingue dalle diverse finzioni del suo giuoco e della sua immaginazione? In qual misura distingue il bambino il mondo esterno da un mondo interno e soggettivo, e quali confini stabilisce fra l’io e la realtà oggettiva? Il complesso di tali questioni costituisce il primo problema, quello della realtà per il fanciullo.
Un secondo interrogativo, fondamentalmente legato al primo, è il criterio di spiegazione per il fanciullo. Quale uso fa il fanciullo delle nozioni di causa e di legge? Qual’è la struttura della causalità infantile? Si sono già studiati i criteri di spiegazione presso i primitivi, nelle scienze e nei diversi tipi di spiegazioni filosofiche. Ci offrirà il bambino un tipo originale di spiegazione? Domande queste che costituiscono un secondo problema: quello della causalità infantile.
È appunto della realtà e della causalità nel fanciullo che intendiamo occuparci in questo e in un altro libro.1 È facile rendersi conto come questi problemi siano distinti da quelli già da noi studiati in un’opera precedente.2 Allora ci proponevamo l’analisi della forma e del meccanismo del pensiero infantile, ora ci interesseremo dell’analisi del suo contenuto. I due problemi si toccano, ma si possono distinguere senza eccessivo arbitrio. La forma e il meccanismo del pensiero infantile si rivelano ogni volta che il fanciullo entra in contatto con i suoi simili e con l’adulto: è un modo di comportamento sociale, che può essere osservato dal di fuori. Il contenuto, invece, si manifesta o non si manifesta secondo i fanciulli e secondo gli oggetti della rappresentazione. È un sistema di credenze intime, e occorre una tecnica speciale per giungere a individuarle. È soprattutto un sistema di tendenze, di orientamenti spirituali, dei quali il fanciullo stesso non ha mai avuto coscienza e non ha mai parlato.
Non è quindi soltanto utile, ma è indispensabile intendersi anzitutto sui metodi che ci proponiamo di usare per lo studio delle credenze infantili. Per dare un giudizio sulla logica dei fanciulli, spesso basta parlare con loro o anche solo osservarli quando sono insieme. Ma per dare un giudizio sulle loro credenze, occorre un metodo speciale, che, diciamolo subito, è difficile e faticoso, ed esige una prontezza che presuppone almeno uno o due anni di allenamento. Gli alienisti, abituati alla clinica, comprenderanno immediatamente perché. Per apprezzare nel suo giusto valore un discorso di un fanciullo, occorre infatti prendere precauzioni minuziose, circa le quali vorremmo dire subito alcune cose, perché, ignorandole, il lettore rischierebbe di falsare completamente il senso delle pagine che seguiranno, e soprattutto di snaturare le esperienze da noi fatte, nel caso decidesse, come speriamo, di riprenderle e controllarle a propria volta.
1.Il metodo dei reattivi, l’osservazione pura e il metodo clinico |
Il primo metodo che si è tentato di adoperare per risolvere il nostro problema è quello dei reattivi (tests), che consiste nel sottoporre il fanciullo a prove che soddisfino a due condizioni: da una parte, le domande restano identiche per tutti i soggetti, e vengono poste sempre nelle stesse condizioni; dall’altra, le risposte dei soggetti sono riportate su una tabella o su una scala che permette di paragonarle qualitativamente o quantitativamente. I vantaggi di questo metodo per la diagnosi individuale dei fanciulli sono indiscutibili. Per la psicologia generale, le statistiche ottenute dànno spesso ragguagli utili. Tuttavia, per i problemi che ci interessano, questo metodo presenta due inconvenienti notevoli. Esso infatti non permette un’analisi sufficiente dei risultati ottenuti: operando sempre in condizioni identiche, si ottengono solo risultati grezzi, interessanti per la pratica, ma sovente inutilizzabili per la teoria, data la mancanza di un contesto sufficiente. Ma questo è l’inconveniente minore, poiché, variando i reattivi con sufficiente ingegnosità, si possono mettere in evidenza anche tutte le componenti di un dato atteggiamento psicologico. Il difetto essenziale dei reattivi nelle nostre ricerche è di falsare l’orientamento mentale del fanciullo che si interroga, o per lo meno di rischiare di falsarlo.
Ad esempio: vorremmo sapere come il fanciullo concepisce il movimento degli astri, e domandiamo: «Che cosa fa muovere il sole?» Il bambino risponderà, per esempio: «È il buon Dio», oppure «È il vento che lo spinge», ecc. Con ciò avremo dei risultati che non bisogna ignorare, anche se sono dovuti alla fabulazione, cioè alla tendenza che i fanciulli hanno a inventare dei miti quando sono imbarazzati da una domanda. Ma, se si fossero interrogati in questo modo i fanciulli di tutte le età, non si sarebbe fatto alcun progresso, perché è possibile che un fanciullo non si sia mai posto in questo modo la domanda, o anche che non se la sia posta affatto. Può darsi benissimo che il fanciullo concepisca il sole come un essere vivente, padrone dei propri movimenti. Domandando: «Chi fa muovere il sole?», si suggerisce subito l’idea di una forza esterna e si provoca il nascere di un mito. Domandando invece: «Come cammina il sole?», si può suggerire la preoccupazione del «come», che prima non c’era, e si provocano altri miti: «il sole cammina soffiando», «col calore», «il sole rotola», e cosí via. Il solo mezzo per evitare queste difficoltà è di variare le domande e alternare i suggerimenti; in poche parole, di rinunciare a un questionario fisso.
Lo stesso caso si ritrova nel campo della patologia mentale. Un demente precoce può avere dei barlumi o delle reminiscenze che gli permettono d’indicare la propria famiglia, benché di solito si creda di origini piú illustri. Ma il vero problema consiste nel sapere come la questione si presenti al suo spirito, e se gli si presenti. L’abilità del clinico consiste, non nel far rispondere il soggetto, ma nel farlo parlare liberamente e scoprirne le tendenze spontanee, invece di incanalarle e di arginarle; nel collocare ogni sintomo in un contesto mentale, invece di astrarlo dal contesto.
Insomma, il reattivo è utile sotto molti punti di vista, ma per il nostro scopo rischia di falsare le prospettive deviando l’orientamento mentale del fanciullo, e di trascurare questioni essenziali, interessi spontanei e iniziative originarie.
Ricorriamo dunque all’osservazione pura. Ogni ricerca sul pensiero infantile deve partire dall’osservazione, e ritornarvi per controllare le esperienze che l’osservazione può avere ispirate. Ora, per ciò che riguarda i problemi che ci porremo nelle nostre ricerche, l’osservazione offre una fonte di documentazione di capitale importanza: lo studio delle domande spontanee dei fanciulli. L’esame particolareggiato del contenuto di tali domande rivela l’interesse dei fanciulli nelle diverse età e ci mostra una quantità di problemi che il fanciullo si pone, e ai quali noi non avremmo mai pensato o che non avremmo mai formulato cosí. Lo studio della forma stessa delle domande, soprattutto, rivela le soluzioni implicite a cui i fanciulli giungono, perché quasi ogni domanda contiene la propria soluzione, secondo il modo con cui è formulata. Cosí, quando il fanciullo domanda: «Chi fa il sole?», è chiaro che egli concepisce il sole come dovuto a un’attività fabbricatrice. Oppure, quando un fanciullo domanda perché vi sono due monti Salève,3 uno grande e uno piccolo, ma non due Cerviní, è chiaro che concepisce le montagne come disposte secondo un piano che esclude il caso.
Eccoci dunque in grado di stabilire una prima regola del nostro metodo. Iniziando uno studio su un dato gruppo di spiegazioni infantili, è necessario, per orientare la ricerca, partire da qualche domanda spontanea fatta da fanciulli della medesima età o piú giovani, e applicare la stessa formulazione alle domande da porre ai fanciulli scelti come soggetti. Occorre, soprattutto, quando si voglia trarre una conclusione dai risultati di una inchiesta, cercare una controprova attraverso lo studio delle domande spontanee dei fanciulli. Allora ci si rende conto se le rappresentazioni che si suppongono proprie dei fanciulli corrispondano o no alle domande che essi si pongono e al come se le pongono.
Prendiamo un esempio. In questo volume, studieremo l’animismo infantile. Vedremo che, alla domanda se il sole, ecc., è vivente, dotato di conoscenza, di sentimento, e cosí via, i fanciulli di una certa età rispondono affermativamente. Ma è un’idea spontanea, o una risposta suggerita direttamente o indirettamente dalla domanda? Scorrendo una collezione di domande infantili, si troverà ad esempio che un fanciullo di 6 anni e ½, Del,4 vedendo una pallina rotolare nella direzione dell’osservatrice, domandò spontaneamente: «Dunque, sa che lei è lí?» Si scoprirà anche che Del pose un gran numero di domande per sapere quando un oggetto (ad esempio una foglia) sia vivo o morto. E si vedrà soprattutto che, per replicare all’affermazione che delle foglie morte erano morte davvero, Del ribatté: «Ma si muovano col vento!»5 Vi sono dunque fanciulli che, nel modo stesso di formulare le loro domande, sembrano identificare vita e movimento. Questi fatti rivelano che un interrogatorio sull’animismo, attuato in un determinato modo (ad esempio domandando, come Del, se un corpo in movimento «sa» di muoversi), non è artificioso, e che l’identificazione della vita e del movimento corrisponde nel fanciullo a qualcosa di spontaneo.
Ma, se è chiara la necessità dell’osservazione diretta, sono anche evidenti gli ostacoli che ne limitano forzatamente l’uso. Non soltanto il metodo d’osservazione pura è faticoso e pare non possa garantire la qualità dei risultati se non a danno della quantità (è impossibile, infatti, osservare un gran numero di fanciulli nelle stesse condizioni); ma sembra abbia anche alcuni inconvenienti sistematici. Eccone due principali.
Per cominciare, l’egocentrismo intellettuale del fanciullo costituisce un ostacolo serio per chi voglia conoscere il fanciullo mediante l’osservazione pura, senza interrogare in alcun modo il soggetto. Abbiamo già tentato altrove di dimostrare6 che il fanciullo spontaneamente non cerca, o non è in grado, di comunicare tutto il suo pensiero. Egli può trovarsi in compagnia dei suoi coetanei, dove la conversazione è legata alle azioni immediate e al giuoco, senza riferimento con quella frazione essenziale del pensiero che è staccata dall’azione e che si sviluppa in base alla contemplazione dell’attività degli adulti o della natura. Quindi la rappresentazione del mondo e la causalità fisica sembreranno prive di ogni interesse per il fanciullo. Oppure egli può trovarsi in compagnia di adulti, ma allora pone continuamente domande, senza rivelare le proprie personali spiegazioni. Dapprincipio le tace perché crede che tutti le conoscano, poi per pudore, per paura di sbagliare, per timore di delusioni. Ma le tace soprattutto perché tali spiegazioni, essendo sue, gli sembrano le piú naturali e anche le sole possibili. Insomma, anche ciò che potrebbe esternarsi in parole resta di solito implicito, semplicemente perché il pensiero del fanciullo non è socializzato come il nostro. Ma, a fianco di pensieri formulabili, per lo meno mediante il linguaggio interiore, quanti pensieri inesprimibili ci restano sconosciuti quando ci limitiamo a osservare il fanciullo senza parlargli? Per pensieri inesprimibili intendiamo gli atteggiamenti mentali, gli schemi sincretici, visuali e motorî, tutte quelle preconnessioni delle quali si sente l’esistenza quando si parla con un fanciullo. Occorre conoscere anzitutto queste preconnessioni e, per farle affiorare, è necessario applicare metodi speciali.
Il secondo inconveniente sistematico dell’osservazione pura è la difficoltà di distinguere nel fanciullo il giuoco dalla credenza. Ecco, ad esempio, un fanciullo che si crede solo e parla a un rullo compressore: «Hai schiacciato bene le pietre grosse?» Giuoca o personifica davvero la macchina? Impossibile dirlo, perché si tratta di un caso particolare. L’osservazione pura è impotente a distinguere la credenza dalla fabulazione. Gli unici criteri efficaci, e lo vedremo in seguito, sono quelli fondati sulla molteplicità dei risultati e sul confronto delle reazioni individuali.
Dunque, è necessario a tutti i costi superare il metodo della osservazione pura e, senza ricadere negli inconvenienti dei reattivi, assicurarsi i principali vantaggi dell’esperimento. Impiegheremo a tale scopo un terzo metodo, che tende a riunire le risorse dei reattivi e dell’osservazione diretta, evitando gli inconvenienti di entrambi: il metodo dell’esame clinico che gli psichiatri usano come mezzo di diagnosi. Ad esempio, si possono osservare per mesi determinate forme paranoidi senza veder mai affiorare l’idea di grandezza, che tuttavia s’intuisce in ogni reazione stravagante. D’altra parte, non si posseggono reattivi differenziali per le diverse sindromi morbose. Ma il clinico può: 1) parlare col malato seguendolo anche nelle risposte, cosí da non perder nessuna eventuale idea delirante; 2) condurlo dolcemente verso le zone critiche (la sua nascita, razza, fortuna, titoli militari, politici, talento, vita mistica ecc.), senza sapere dove affiorerà l’idea delirante, ma mantenendo costantemente la conversazione su un terreno fecondo. L’esame clinico partecipa cosí dell’esperimento, nel senso che il clinico si pone problemi, formula ipotesi, varia le condizioni, e infine controlla ogni ipotesi in base alle reazioni provocate dalla conversazione. Ma l’esame clinico partecipa anche dell’osservazione diretta, nel senso che il buon clinico, pur dirigendo, si lascia dirigere, e tien conto di tutto il contesto mentale, invece di cadere vittima di «errori sistematici» come spesso accade allo sperimentatore puro.
Poiché il metodo clinico ha reso grandi servizi in una zona in cui altrimenti tutto sarebbe disordine e confusione, lo studio della psicologia infantile farebbe molto male a privarsene. Non esiste, infatti, a priori una ragione per non interrogare i fanciulli sui punti dove l’osservazione pura lascia incompiuta la ricerca. Tutto ciò che si è detto sulla mitomania e sulla suggestionabilità del fanciullo, nonché sugli errori che esse implicano, non può impedire allo psicologo di interrogare il fanciullo, salvo appunto a definire esattamente, attraverso l’esame clinico, quanta parte delle risposte ottenute dipenda dalla suggestione o dalla fabulazione.
È inutile citare esempi, poiché questo studio si propone anzitutto di costituire una raccolta di osservazioni cliniche, anche se, per forza di cose, saremo obbligati a schematizzare i nostri casi, non riassumendoli (ciò che equivarrebbe a falsarli), ma staccando dalle conversazioni soltanto quei passi che presentino un interesse diretto. Delle molte pagine di annotazioni prese in certi casi, riporteremo qui solo poche righe. Ma ci sembra inutile dare un esempio completo di interrogatorio, perché il metodo clinico si impara solo attraverso una lunga pratica, e anche nella psicologia infantile – come in quella patologica – occorre almeno un anno di quotidiani esercizi per liberarsi dalle inevitabili incertezze del principiante. È cosí difficile non parlare troppo quando si interroga un fanciullo, specie se chi interroga è un pedagogo ! Cosi difficile non suggestionarlo, e soprattutto evitare la sistematizzazione dovuta alle idee preconcette e l’incoerenza dovuta all’assenza di qualsiasi ipotesi direttiva! Un bravo sperimentatore deve infatti riunire in sé due qualità spesso incompatibili: saper osservare, cioè lasciar parlare il fanciullo, non perdere nulla, non falsar nulla; e nello stesso tempo saper cercare qualcosa di preciso, avere in ogni momento qualche ipotesi di lavoro, qualche teoria – giusta o falsa – da controllare. Bisogna aver insegnato il metodo clinico per comprenderne le difficoltà vere. Talvolta i principianti suggeriscono al fanciullo ciò che desiderano trovare, oppure non suggeriscono nulla, ma solo perché non cercano nulla ed è perciò naturale che non trovino nulla.
In breve: le cose non sono affatto semplici, e conviene sottomettere a una critica serrata il materiale cosí raccolto. Infatti lo psicologo deve ovviare alle incertezze del metodo degli interrogatorî, affinando la propria sensibilità interpretativa. Qui, di nuovo, due pericoli contrari minacciano il principiante: infatti, a tutto ciò che il fanciullo ha detto, egli può attribuire il massimo o il minimo valore. I grandi nemici del metodo clinico sono coloro che prendono per oro colato ogni risposta infantile, e coloro che si rifiutano d’accettare qualsiasi risultato raggiunto attraverso un interrogatorio. Naturalmente, i primi sono i piú dannosi, ma tutti e due commettono lo stesso errore di credere che ciò che il fanciullo dice durante quel quarto d’ora, mezz’ora o tre quarti d’ora di conversazione, debba essere posto su uno stesso piano di coscienza: il piano della credenza meditata, oppure il piano della fabulazione, ecc. L’essenza del metodo clinico consiste, invece, nel dividere il grano dal loglio e sistemare ogni risposta nel proprio contesto mentale. Esistono contesti di riflessione, di credenza immediata, di giuoco o di psittacismo; contesti di sforzo e d’interesse o di stanchezza; e soprattutto esistono soggetti che ispirano fiducia a prima vista, che evidentemente riflettono e cercano, e altri invece di cui ci si accorge che si fanno giuoco di noi o non ci ascoltano neppure.
Ci è impossibile precisare qui le regole della diagnosi delle reazioni individuali. È questione di pratica. Ma, per rendere comprensibile il modo col quale abbiamo ottenuto le osservazioni che seguiranno, fra tutte quelle di cui disponiamo (per questo volume abbiamo effettuato personalmente piú di 600 osservazioni, e su molti argomenti i nostri collaboratori hanno esaminato da parte loro un gran numero di soggetti), conviene tentare di classificare in alcune grandi categorie i tipi di risposta che è possibile ottenere. Essendo questi tipi di valore molto ineguale, occorre poter aver presente uno schema chiaro di classificazione, che consenta di graduare le interpretazioni.
2.I cinque tipi di reazione osservabili all’esame clinico |
Quando la domanda posta annoia il fanciullo, o, comunque, non provoca alcuno sforzo d’adattamento, il fanciullo risponde a caso, non importa cosa né come, senza nemmeno cercare di divertirsi o di costruire un mito. Indicheremo questa reazione col termine comodo, sebbene barbaro, dovuto a Binet e Simon, di n’importequisme. Quando il fanciullo, senza curarsi di riflettere, risponde alla domanda inventando una storia a cui non crede, o alla quale crede soltanto per esservi trascinato dalle parole, diciamo che ci troviamo davanti a un caso di fabulazione. Quando il fanciullo fa uno sforzo per rispondere alla domanda, ma la domanda è suggestiva, o il fanciullo cerca semplicemente di accontentare l’esaminatore senza far appello alla propria riflessione, allora diciamo che si tratta d’un caso di credenza suggerita. Facciamo rientrare in questo caso anche la perseverazione, quando deriva dal fatto che le domande vengono poste in serie suggestive. Negli altri casi la perseverazione è una forma di n’importequisme. Quando il fanciullo risponde con riflessione, traendo la risposta dal proprio intimo, senza suggerimento esterno, ma la domanda è nuova per lui, diciamo che si tratta di un caso di credenza provocata. Tale credenza è influenzata necessariamente dall’interrogatorio, poiché il modo stesso in cui la domanda è posta e presentata al fanciullo lo costringe a ragionare in una determinata direzione e a sistematizzare le proprie cognizioni in una determinata maniera; eppure essa è un prodotto originale del pensiero del fanciullo, poiché né il ragionamento fatto dal fanciullo per rispondere alla domanda, né l’insieme delle nozioni anteriori utilizzate durante la riflessione sono influenzati direttamente dallo sperimentatore. La credenza suscitata non è dunque né propriamente spontanea né propriamente suggerita: è il prodotto di un ragionamento fatto su richiesta altrui, ma con materiali (cognizioni del fanciullo, immagini mentali, schemi motorî, preconnessioni sincretiche ecc.) e con strumenti logici (struttura del ragionamento, orientamenti di spirito, abitudini intellettuali ecc.) originali. Infine, quando il fanciullo non ha bisogno di ragionare per rispondere a una domanda, ma può dare una risposta pronta perché già formulata o formulabile, abbiamo la credenza spontanea. Si può dunque parlare di credenza spontanea, quando la domanda non è nuova per il fanciullo e la risposta è frutto di una riflessione anteriore e originale. Naturalmente escludiamo da questo tipo di reazione, come del resto da tutti i precedenti, le risposte influenzate dagli insegnamenti ricevuti prima dell’interrogatorio. Qui si presenta un problema distinto e naturalmente molto complesso, che consiste nel discernere nelle risposte ricevute ciò che proviene dal fanciullo e ciò che è stato ispirato dall’ambiente adulto. Riprenderemo questo punto in seguito; per ora limitiamoci a distinguere piú nettamente gli uni dagli altri i cinque tipi di reazione che abbiamo descritto, iniziando dagli ultimi.
Che con l’esame clinico si possa scoprire l’esistenza di credenze spontanee nel fanciullo, e che si giunga a farsele sviluppare dal fanciullo stesso, è un fatto incontestabile. Sono credenze rare, nel senso che sono le piú difficili a raggiungere, ma esistono. Vedremo, ad esempio, che i fanciulli di 8 anni (in media) sanno dare una spiegazione orale corretta e un disegno completo del meccanismo della bicicletta. Un simile risultato e questo sincronismo nelle risposte individuali indicano evidentemente un’osservazione e una riflessione anteriori all’interrogatorio, anche se non abbiamo registrato alcuna domanda infantile relativa ai particolari della bicicletta. Vedremo anche che basta domandare ai fanciulli dai 6 agli 8 anni: «Che cosa fa il sole quando tu vai a passeggio?», perché rispondano senz’altro che il sole e la luna li seguono, camminano e si fermano con loro. L’uniformità delle risposte e la spontaneità delle affermazioni, tenuto conto del carattere vago della domanda, indicano certamente una credenza spontanea, che è anteriore alla domanda.
D’altronde, per il lettore può costituire un problema non tanto l’ammettere l’esistenza di credenze spontanee, quanto lo stabilire il limite fra credenze spontanee e credenze suscitate. Infatti, si ha continuamente l’impressione di porre ai fanciulli domande alle quali essi non abbiano mai pensato, e ciò nonostante il carattere imprevisto e originale delle loro risposte sembra indicare una riflessione anteriore. Dov’è il limite? Chiediamo ad esempio ai fanciulli: «Da dove viene la notte?» Cosi posta, la domanda non suggerisce nulla. Il fanciullo esita, elude la domanda e finalmente risponde che la notte è fatta di grosse nubi nere. È una credenza spontanea, oppure la risposta denota che il fanciullo non si è mai posta la domanda e che, per rispondere, ricorre all’ipotesi piú semplice e piú economica per la sua immaginazione? Le due interpretazioni lasciano adito a discussioni, o meglio, tutte e due sono verosimilmente esatte. Infatti si trovano fanciulli che, interrogati perché le nubi avanzano, rispondono: «Per fare notte». In questo caso, la spiegazione della notte mediante le nubi è chiaramente spontanea. In altri casi, si ha l’impressione che il fanciullo inventi la propria spiegazione al momento. È interessante osservare che, nell’esempio dato, le credenze spontanee e le credenze provocate coincidono; è tuttavia evidente che in genere, e anche nel caso particolare, esse non hanno lo stesso valore per lo psicologo.
Domandare ai fanciulli se abbiano già riflettuto sulla domanda che si pone loro è naturalmente inutile. Essi non lo sanno, per mancanza di memoria e d’introspezione. Ma il potere o no distinguere in ogni caso le credenze spontanee dalle credenze provocate non è, infine, di grande importanza. Infatti, lo studio delle credenze provocate è già di per sé di notevole interesse. Occorre insistere su questo punto, capitale per lo scopo che ci proponiamo. Al di sopra di ogni argomentazione teorica, sta il dato di fatto che le credenze suscitate sono suscettibili della stessa uniformità delle credenze spontanee. Ad esempio, abbiamo fatto questo piccolo esperimento: immerso un sasso in un bicchiere per metà pieno d’acqua sotto gli occhi d’un fanciullo, abbiamo domandato al fanciullo perché il livello dell’acqua s’innalza. Le risposte ottenute rispecchiano, naturalmente, credenze provocate, almeno nella maggior parte dei casi, quelli cioè in cui il bambino ignorava precedentemente che il livello dell’acqua si sarebbe innalzato con l’immersione del sasso. Orbene, tutti i fanciulli (al di sotto dei 9 anni) affermano che l’acqua sale perché il sasso è «pesante», e il seguito dell’esperimento dimostra con chiarezza che essi non pensano al volume, ma soltanto al peso del corpo immerso. Ecco dunque una soluzione trovata al momento, ma che è straordinariamente uniforme da un fanciullo all’altro. Quest’opera ci fornirà molti altri esempi dell’uniformità delle credenze provocate. È dunque possibile constatare che, quand’anche una soluzione sia inventata dal fanciullo nel corso dell’esperimento, essa non nasce dal nulla, ma presuppone schemi anteriori, un particolare orientamento spirituale, determinate abitudini intellettuali, ecc. La sola regola eliminatoria sta nell’evitare la suggestione, cioè evitare di dettare una risposta particolare fra tutte le risposte possibili. Ma, supponendo di poter giungere a distinguere le credenze provocate dalle credenze suggerite, le prime meritano uno studio approfondito, perché rivelano per lo meno le impostazioni mentali del fanciullo.
Prendiamo un altro esempio. Un fanciullo ci ha chiesto: «Chi fa il sole?» Abbiamo ripreso la domanda ponendola a molti altri fanciulli nella seguente forma non suggestiva: «Come è cominciato il sole?» Tutti rispondono che l’hanno fatto gli uomini. Supponiamo pure che si tratti d’una semplice invenzione del momento e che i fanciulli non abbiano mai pensato al problema. Ma si tratta di risposta che da un lato il fanciullo ha trovato preferendola a molte altre, e che d’altro lato egli non abbandona anche sotto la pressione di nostre suggestioni in senso opposto. Esistono dunque alcune probabilità che la risposta del fanciullo, anche se provocata, si ricolleghi a un artificialismo latente, a un orientamento spirituale artificialistico. La cosa, naturalmente, resta da provare, ma la posizione stessa del problema non offre difficoltà. D’altra parte, il fanciullo non elimina la propria ipotesi nel proseguimento dell’interrogatorio, nonostante i nostri tentativi. Questo è un secondo indizio: esso dimostra come esistano poche tendenze antagonistiche a questo atteggiamento artificialistico. Se cosí non fosse, sarebbe facile far deviare il fanciullo, fargli inventare altre cose, ecc.
In poche parole, possiamo affermare che è lecito proporsi lo studio delle credenze provocate. Il metodo consiste nell’interrogare il fanciullo su tutto ciò che lo circonda. L’ipotesi consiste nell’ammettere che il modo con cui il fanciullo inventa la propria soluzione riveli qualcosa degli atteggiamenti spontanei del suo spirito. Perché questo metodo dia qualche risultato, va naturalmente regolato con un controllo severo, sia per quanto riguarda il modo di porre le domande, che per quanto riguarda l’interpretazione delle risposte. Cercheremo ora di stabilire queste norme.
Se però il limite che separa le credenze provocate da quelle spontanee possiede un’importanza relativa, è invece necessario distinguere nettamente le credenze provocate dalle credenze suggerite. Non bisogna credere che la suggestione sia facile da evitare. Occorre un lungo studio prima che si sia imparato a riconoscere e a evitare le numerose forme possibili di suggestione. Ce ne sono due particolarmente pericolose: la suggestione per mezzo della parola e la suggestione per perseverazione.
La prima è facile da delineare grosso modo, ma difficile da distinguere nei particolari. Il solo mezzo per evitarla consiste nell’imparare il linguaggio infantile e nel formulare le domande in quel linguaggio. Perciò, all’inizio di ogni nuova inchiesta, è necessario far parlare i fanciulli al solo scopo di costituirsi un linguaggio che eviti ogni suggestione. Senza di ciò è impossibile prevedere le probabili ripercussioni di questa o quella espressione in apparenza inoffensiva. Per esempio, le parole «avanzare», «camminare», «muoversi», per il fanciullo non sono affatto sinonimi. Il sole avanza, ma non si muove, ecc. Usando imprudentemente una di queste parole, inattesa dal fanciullo, si rischia di provocare, per pura suggestione, reazioni animistiche e antropomorfistiche, che poi possono essere ritenute spontanee.
La suggestione ottenuta con la perseverazione è ancora piú difficile da evitare, perché il solo fatto di continuare la conversazione, dopo la prima risposta del fanciullo, lo spinge a perseverare nella via che ha adottato. Inoltre, ogni questionario predisposto in serie provoca la perseverazione. Domandare, ad esempio, al fanciullo se un pesce, un uccello, il sole, la luna, le nuvole, i venti ecc. sono esseri viventi, significa spingerlo a rispondere sempre di si a tutto, per semplice assuefazione. In tal caso, le risposte sono naturalmente «suggerite», e non «provocate» nel senso da noi dato a questo vocabolo.
Ora, la credenza suggerita non ha alcun interesse per lo psicologo. Mentre la credenza provocata rivela abitudini mentali anteriori all’interrogatorio, per quanto sistematizzate sotto la sua influenza, la credenza suggerita non rivela che la suggestionabilità del fanciullo, la quale non ha nulla a che vedere con la sua rappresentazione del mondo.
Sarebbe desiderabile poter bandire con la stessa severità la fabulazione. Ma il problema della fabulazione è uno dei piú delicati fra quelli sollevati dallo studio clinico del fanciullo. Quando s’interrogano fanciulli, specialmente al disotto dei 7-8 anni, avviene spesso che, pur conservando un’aria di candore e di serietà, essi si divertano al problema posto e inventino una soluzione semplicemente perché essa piace loro. In questo caso, la soluzione non è suggerita, dato che è completamente libera e anche imprevedibile; eppure non può essere classificata fra le credenze provocate, per la semplicissima ragione che non è una credenza. Il fanciullo si limita a giocare, e se giunge a credere a ciò che dice, lo fa per assuefazione, cosí come crede ai propri giuochi per semplice desiderio di credere.
Il significato esatto della fabulazione è delicatissimo da precisare. Tre soluzioni si presentano possibili. La prima consisterebbe nell’assimilare la fabulazione a quella che, in un adulto normale, si può chiamare «mistificazione». Il fanciullo, dunque, inventerebbe per farsi giuoco dello psicologo e soprattutto per evitare di riflettere piú a lungo su una domanda che lo annoia e lo stanca. Questa è certamente l’interpretazione migliore per la maggioranza dei casi – del resto molto rari – che si osservano nei fanciulli al di sopra degli 8 anni. Ma nei bambini al di sotto dei 7-8 anni, essa non spiega tutto. Di qui le altre due soluzioni.
La seconda soluzione consiste nell’assimilare la fabulazione alla mitomania degli isterici. Il fanciullo inventerebbe, non tanto per farsi giuoco degli altri, ma perché tale invenzione costituirebbe un suo procedimento mentale, il procedimento piú comodo nel caso di problemi impegnativi. In questa seconda soluzione, lo stesso fanciullo sarebbe dunque in parte vittima, e in ogni caso inventerebbe, per cosí dire, anche a titolo privato, quando cioè egli risolve per proprio conto problemi che si pone nel suo intimo. Questo è certamente il caso di molti bambini verso i 4-5 anni. Si conoscono casi molto numerosi di domande oratorie che i bambini pongono ad alta voce, ma alle quali rispondono immediatamente da soli. Nagy cita questa domanda:7 «Perché gli orsi hanno quattro zampe?»; alla quale il bambino risponde immediatamente da solo: «Perché sono stati cattivi e il Buon Dio li ha puniti». È un semplice monologo; eppure si tratta di fabulazione.
Sotto quest’aspetto la fabulazione presenta qualche interesse, poiché mostra quali soluzioni il bambino scelga quando non può trovarne di migliori. È un indizio affatto negativo, ma spesso utile da conoscere. In questo senso citeremo talora, nel corso di questo lavoro, risposte per fabulazione di fanciulli fra i 4 e i 6 anni. Ma è chiaro che occorre evitare di trarre da tali fatti piú che indizi negativi. Per se stesso lo studio della fabulazione è lontano dal «rendere» quanto lo studio delle credenze provocate.
Infine, terza soluzione, la fabulazione può contenere residui di credenze anteriori o, piú raramente, prodromi di credenze future. Quando abbandoniamo una credenza alla quale tenevamo, e quando l’abbandono non è brusco, ci càpita di baloccarci con simpatia con la nostra credenza, ma senza piú credervi. Facendo le debite proporzioni, la fabulazione infantile ha talvolta una funzione analoga. A proposito dell’artificialismo (cap. XI, § 4), avremo modo di osservare il mito per metà frutto di fabulazione d’un malato di mente che pone i suoi genitori all’origine del mondo. C’è in questo mito un residuo della credenza infantile nella onnipotenza dei genitori.
La complessità del problema è evidente. Asteniamoci, al principio delle nostre ricerche, dal dare un qualsiasi giudizio anticipato sul carattere della fabulazione. Essa ci può interessare nella misura in cui non ha, nel fanciullo, gli stessi rapporti con la credenza propriamente detta che essa ha in noi. Perciò è opportuno studiarla. Ma, qualunque sia lo scopo che ci si prefigge studiandola, conviene distinguerla nettamente dalle credenze provocate. A tal fine cercheremo di stabilire qualche criterio nel paragrafo seguente.
Resta da discutere il n’importequisme. Quando si domanda a un malato di mente o a un bambino troppo piccolo: «Quanto fa 3+3?», si ottengono risposte del tutto casuali: 4 o 10 o 100. Infatti il bambino raramente sa tacere, e preferisce inventare una risposta piuttosto che star zitto. Qui non si tratta di fabulazione, perché non v’è alcuna sistematicità dell’invenzione, né è impegnato alcun interesse. Il bambino fa della fabulazione quando si diverte; il n’importequisme nasce dalla noia.
Di questo elenco dei diversi tipi di risposte possibili ricordiamo dunque quanto segue. Le credenze spontanee, cioè anteriori all’interrogatorio, sono le piú interessanti. Le credenze provocate sono istruttive nella misura in cui consentono di rilevare l’orientamento spirituale del fanciullo. La fabulazione può offrire qualche indicazione, del resto quasi sempre negativa, se interpretata con la prudenza dovuta. Infine le credenze suggerite e il n’importequisme vanno rigorosamente eliminate, le prime perché non rivelano se non ciò che lo sperimentatore ha voluto far dire al fanciullo, le seconde perché testimoniano solo l’incomprensione del soggetto esaminato.
3.Regole e criteri per la diagnosi dei precedenti tipi di reazione |
Sappiamo ora ciò che vogliamo cercare. Tentiamo dunque di fissare alcune regole destinate a selezionare le risposte interessanti. In altri termini, cerchiamo d’intenderci sui mezzi pratici per distinguere i cinque tipi di reazione caratterizzati in abstracto nel paragrafo precedente.
Per prima cosa, come riconoscere la credenza suggerita e il n’importequisme? La credenza suggerita è essenzialmente momentanea. Basta una controsuggestione, non immediata ma differita di poco, per farla crollare. Basta perfino lasciar parlare per alcuni istanti il fanciullo e quindi interrogarlo indirettamente ancora sugli stessi argomenti; la credenza suggerita è un elemento parassitario nel pensiero del soggetto, e il pensiero stesso tende a sbarazzarsene come d’un corpo estraneo.
Ma questo primo criterio non è sufficiente. Alcuni fanciulli particolarmente suggestionabili mutano opinione con facilità su tutto, senza che si possano usare queste oscillazioni come criterio univoco. Il metodo da seguire consiste, in tal caso, nel continuare l’interrogatorio in profondità. Le credenze suggerite sono caratterizzate dalla mancanza di connessioni con le altre credenze del soggetto e, d’altro canto, dalla mancanza di analogia con le credenze dei fanciulli della stessa età e dello stesso ambiente. Di qui nascono due regole supplementari. Per prima cosa, scavare attorno alla risposta ritenuta sospetta, per giudicare se abbia o no radici profonde; poi, moltiplicare le interrogazioni, variando l’enunciato delle domande. In questo modo, a forza di pazienza e di analisi, la suggestione può essere evitata.
Questi tre criteri valgono a fortiori per eliminare il n’importequisme, ch’è un tipo di risposta piú instabile della stessa credenza suggerita. Quanto alla distinzione fra n’importequisme e fabulazione, essa è ovvia indipendentemente dallo stesso contesto: la fabulazione è molto piú ricca e sistematica, il n’importequisme non costituisce che un punto morto, spoglio di ogni ramificazione.
Rese cosí riconoscibili le risposte suggerite e il n’importequisme, cerchiamo ora di definire i criteri della fabulazione. Delle precedenti tre regole, due sono inefficaci per rivelare la fabulazione. Da un lato, la controsuggestione non elimina la risposta fabulata, perché il fabulatore tien testa al proprio contraddittore e tanto piú persiste nella fabulazione quanto piú stringenti diventano le obiezioni. D’altra parte, l’analisi delle radici delle risposte date è difficile, proprio perché la risposta fabulata si ramifica e prolifica fino a sembrare solidamente inserita in un insieme di credenze sistematiche. Contrariamente alla suggestione, la fabulazione è dunque assai difficilmente riconoscibile in un individuo isolato. Il solo mezzo per rivelarla consiste nel moltiplicare le interrogazioni. Quando si possa disporre di un gran numero di soggetti, la fabulazione si distingue dalle credenze suscitate e dalle credenze spontanee per mezzo dei tre criteri seguenti.
Interrogando un gran numero di bambini della stessa età, si constata che la risposta incriminata o è assai diffusa o è limitata a uno o due fanciulli. Nel primo caso vi sono molte probabilità che non ci sia stata fabulazione. Infatti, essendo la fabulazione un’invenzione libera e individuale, essa offre un minimo di condizioni perché tutti i fanciulli inventino allo stesso modo nel rispondere alla medesima domanda. Ma questo primo criterio non basta, perché si può pensare che una data domanda sia del tutto incomprensibile a una determinata età e che perciò non possa determinare se non una fabulazione. Inoltre, potrebbe darsi che in tal caso la fabulazione si orienti verso la direzione piú comoda, il che ne spiegherebbe l’uniformità. Quest’interpretazione è particolarmente plausibile per quanto riguarda l’artificialismo infantile. Si chieda per esempio ai bambini dai 4 ai 6 anni come sia cominciata la luna. Supponiamo che la domanda sia per loro incomprensibile: allora inventeranno una favola e, poiché la cosa piú semplice è ricorrere all’uomo, diranno tutti che «un signore ha fatto la luna». Occorre dunque un criterio piú sottile.
Ci sembra che un secondo criterio possa rispondere a questa esigenza supplementare. Nell’interrogare molti fanciulli di età diverse, può accadere che la risposta incriminata (che per ipotesi abbiamo detto generale nelle età inferiori) scompaia d’un tratto, per cedere il campo a una risposta di tutt’altro tipo. Può dunque darsi che si debbano suddividere i fanciulli in due stadi, senza stadio intermedio. Può invece darsi che la risposta incriminata scompaia soltanto progressivamente, cedendo il passo a un ulteriore tipo di risposta solo mediante una lenta maturazione. In questo caso bisognerà suddividere i fanciulli in tre stadi, due estremi e uno intermedio. È evidente che nel secondo caso le probabilità di fabulazione sono meno forti che nel primo. Supponiamo infatti che su un dato argomento i fanciulli abbiano avuto opinioni sistematiche o un fermo orientamento mentale; quando l’esperienza o l’istruzione andranno smantellando queste opinioni, è chiaro che si tratterà di una rivelazione non improvvisa, ma progressiva. Viceversa, l’assenza di uno stadio intermedio tra due gruppi successivi di risposte sembra indicare chiaramente che il primo gruppo non aveva valore agli occhi del fanciullo, e giustifica cosí l’ipotesi di una fabulazione generale durante il primo stadio.
Esiste infine un terzo criterio ch’è utile osservare: il modo di giungere alla risposta esatta. Infatti, se le risposte dei piú piccoli fra gli esaminati non sono effetto di fabulazione, non soltanto si deve notare una loro scomparsa progressiva e non improvvisa passando via via ai fanciulli progressivamente piú grandi, ma si deve anche poter constatare che le rappresentazioni primitive continuano in qualche modo a trasparire nelle prime risposte ormai esatte. In altri termini, se in un dato processo si distinguono tre stadi, di cui uno intermedio, il tipo di risposta del primo stadio deve farsi sentire non solo durante il secondo, ma fino al principio del terzo. In tal caso si può essere praticamente certi che le risposte del primo stadio non sono fabulate.
Un esempio. I bambini di un primo stadio affermano che il lago di Ginevra è stato scavato da operai e che poi ci fu messa dentro acqua. I bambini del secondo stadio continuano ad affermare che il lago è stato scavato, ma che l’acqua viene dalle montagne e deriva dalla pioggia. Infine, durante un terzo stadio, il fanciullo ammette che il lago si è formato nel corso d’un processo interamente naturale; i fiumi l’hanno scavato e l’alimentano con l’acqua. Dunque, le risposte artificialistiche del primo stadio sono frutto di fabulazione? No, poiché non soltanto esse sono generali, non soltanto l’esistenza del secondo stadio prova che l’artificialismo non scompare tutt’a un tratto, ma si trovano, al principio del terzo stadio, fanciulli che continuano a credere che la città di Ginevra sia anteriore al lago e che il lago si trovi a fianco della città, «perché è necessaria una città prima del lago». L’inizio del terzo stadio dimostra dunque ancora il persistere d’un orientamento artificialistico dello spirito.
In conclusione, appare relativamente facile distinguere le credenze propriamente dette dalla fabulazione. La sorprendente somiglianza dei fanciulli tra di loro, almeno nei paesi civili, qualunque sia l’ambiente sociale, il paese o la lingua, consente infatti di stabilire abbastanza rapidamente se una data credenza è generale, duratura e resistente perfino alle prime lezioni dell’adulto.
Viceversa è difficile – e, per quanto strano, si tratta della sola vera difficoltà che abbiamo incontrata nell’applicazione del nostro metodo – distinguere nelle risposte ottenute le credenze spontanee dalle credenze provocate. Infatti, da quanto abbiamo visto fin qui: 1) entrambe resistono alla suggestione; 2) entrambe hanno radici profonde nel pensiero del soggetto esaminato; 3) entrambe presentano una certa generalità nei fanciulli della stessa età; 4) entrambe durano diversi anni e spariscono progressivamente invece di cedere bruscamente; e infine, 5) entrambe si fondono con le prime risposte esatte, cioè con le risposte dovute alla pressione dell’ambiente adulto.
Dovremmo dunque considerare tutte le risposte ottenute, soddisfacenti a queste cinque condizioni, come dovute alle credenze spontanee del fanciullo? In altri termini, dovremmo ammettere che tutto ciò che il fanciullo dice sia stato formulato nel suo pensiero anteriormente all’interrogatorio? È evidente che le cose non stanno cosí. Il solo mezzo per distinguere l’elemento spontaneo da quello provocato consiste nel ricorrere all’osservazione pura: con essa conviene terminare ogni inchiesta, cosí come conviene affidarsi all’osservazione per iniziare ogni ricerca. Lo studio delle domande dei fanciulli rappresenta per questo l’aiuto maggiore.
Ma, come abbiamo visto, tale procedimento è di uso molto ristretto. Su parecchi punti che provocano risposte che sembrerebbero molto sistematiche all’esame clinico, i fanciulli non pongono affatto domande, o ne pongono pochissime. Ciò dipende spesso dal fatto che le credenze rivelate a un esame clinico non sono mai state messe in dubbio dal fanciullo e pertanto non offrono materia a domande. Ma in tali casi non bisogna parlare di credenze: si tratta piuttosto di «tendenze» implicite nell’orientamento spirituale del fanciullo e che non si sono estrinsecate e non sono state discusse; atteggiamenti subcoscienti piú che formulati, attivi assai piú che rappresentativi. Come fare allora per distinguere la credenza o la tendenza spontanea dalla credenza provocata? La questione non riguarda piú le nostre regole d’esame clinico, ma piuttosto le regole generali d’interpretazione, di cui ora appunto vogliamo occuparci.
4.Regole destinate all’interpretazione dei risultati |
Tanto in psicologia quanto in fisica non esistono «fatti» puri, se per fatto s’intende un fenomeno presentato allo spirito dalla natura stessa, indipendentemente dalle ipotesi che hanno permesso di interrogarla, dai principî che regolano l’interpretazione dell’esperienza, e dal contesto sistematico di proposizioni anteriori, nel quale l’osservatore inserisce mediante una specie di preconnessione ogni constatazione nuova. È pertanto utile precisare almeno i principi generali che ci guideranno nell’interpretazione delle risposte dei nostri bambini, senza di che il lettore ci porrebbe immediatamente alcune domande pregiudiziali; ad esempio, qual è l’orientamento mentale che porta il fanciullo a dare certe risposte piuttosto che certe altre, nei casi in cui la sua reazione è del tipo «provocato»? Quale posto ha l’adulto nelle credenze del fanciullo? e cosí via.
Tuttavia, dobbiamo anche evitare il pericolo opposto: quello di formarci dei preconcetti sulla natura dei nostri risultati prima di averli esaminati in se stessi. Perciò, in definitiva, dobbiamo cercare un insieme di regole interpretative che combini la massima elasticità col massimo rigore, entro i limiti in cui queste due esigenze sono conciliabili. In parole piú semplici: occorre ricercare quali regole seguire per evitare il maggior numero di preconcetti.
A questo proposito, due punti sono particolarmente importanti. Il primo riguarda i rapporti tra la formula verbale, ossia la sistematizzazione cosciente che il fanciullo dà alle proprie credenze al momento dell’interrogatorio, e l’orientamento mentale precosciente che lo ha spinto, in tutto o in parte, a inventare una soluzione piuttosto che un’altra. Ecco il problema. Un fanciullo ci dà una risposta nettamente provocata, cioè noi vediamo, per cosí dire, la credenza prender forma sotto i nostri occhi. Bisogna tener conto di questa risposta come se fosse del tipo «spontaneo»? Oppure se ne deve fare l’esegesi e tener conto, piú che della risposta testuale, delle tendenze che hanno determinato la ricerca del fanciullo? Ma in quest’ultimo caso, come scegliere? Quale interpretazione dare alle tendenze del fanciullo, per non svisarle? Il problema è estremamente grave. Dalla sua soluzione dipende tutto il valore del metodo clinico.
Questo problema comporta due soluzioni estreme. La prima è quella di alcuni psicologi dell’infanzia che rigettano, come privi di senso, tutti i risultati di un interrogatorio propriamente detto (in quanto, naturalmente, l’interrogatorio sia destinato a rivelare le rappresentazioni e le credenze del fanciullo, e non semplicemente a sottoporre il fanciullo a prove scolastiche e mentali). Per questi autori, ogni interrogatorio falsa le prospettive, e soltanto l’osservazione pura permette una visione obiettiva delle cose. Ma a tali riserve si può sempre opporre il fatto che gli interrogatori dànno risultati costanti, almeno in media. Quando si domanda ai fanciulli che cos’è il pensiero o che cosa sono i nomi, tutti (o per lo meno un numero abbastanza alto da permetterci di dire «tutti») rispondono che si pensa con la bocca, che le parole e i nomi si trovano dentro le cose, ecc. Tale uniformità pone un problema ai critici degli interrogatori e autorizza senz’altro il proseguimento delle ricerche.
L’altra soluzione è quella degli psicologi che considerano ogni risposta, o per lo meno ogni risposta «provocata» (in opposizione alle risposte suggerite, frutto di fabulazione o date senza alcuna riflessione), come l’espressione del pensiero spontaneo del fanciullo. Ciò sembra ammesso, ad esempio, da parecchi collaboratori del «Pedagogical Seminary». Secondo questi autori, basta porre ai fanciulli un insieme di domande e raccogliere le risposte, per conoscere le «idee dei fanciulli» o le «teorie dei fanciulli», ecc. Senza voler misconoscere totalmente il valore e l’interesse di molte inchieste siffatte, pensiamo tuttavia che un tale valore sia spesso ben diverso da quel che credono gli autori. Noi consideriamo, cioè, molto sospetto il principio per cui qualunque risposta non suggerita e non frutto di fabulazione possederebbe lo stesso coefficiente di spontaneità di una risposta data da un adulto normale nel corso di un qualsiasi esame, o di una credenza originale infantile osservata all’infuori di ogni intervento e interrogatorio. Che con tale principio si possa giungere ad alcune conclusioni esatte, è pacifico. Ma ciò avviene per puro caso, cosí come il vero può scaturire dal falso. Tale principio, quando lo si generalizzi, è del tutto errato e ci spaventa l’idea delle esagerazioni che potrebbero essere commesse se s’interrogassero i fanciulli su ogni cosa, considerando i risultati cosí ottenuti come tutti egualmente validi e tutti egualmente rivelatori della mentalità infantile.
Eccoci infine sulla strada buona. La regola da osservare è quella del giusto mezzo: accordare a ogni credenza provocata un valore indicativo e cercare, per mezzo di quest’indizio, l’orientamento mentale che in tal modo si rivela. La ricerca può essere diretta dal principio seguente. L’osservazione dimostra che il fanciullo è poco sistematico, poco coerente, poco deduttivo, estraneo, in generale, al bisogno di evitare le contraddizioni, ama esprimere varie affermazioni piú che sintetizzarle, e si accontenta di schemi sincretici invece di approfondire l’analisi degli elementi. In altre parole, il pensiero del fanciullo è piú affine a un insieme di atteggiamenti che hanno a che fare con l’azione e la fantasticheria (e il giuoco difatti combina questi due processi, che sono i piú semplici per giungere alla soddisfazione organica), che non al pensiero, cosciente di sé e sistematico, dell’adulto. Quindi, per determinare l’orientamento mentale insito in una credenza provocata, occorre spogliare questa credenza d’ogni elemento sistematico.
Per far ciò, occorre per prima cosa eliminare l’influenza della domanda, cioè bisogna togliere alla risposta data dal fanciullo il suo carattere di risposta. Ad esempio, se si domanda: «Come è cominciato il sole?» e il fanciullo risponde: «L’hanno fatto degli uomini», bisogna servirsi soltanto dell’indicazione che per il bambino esiste un legame vago tra sole e uomini, o che gli uomini entrano per qualche verso nella natura del sole. Se si domanda: «Come sono cominciati i nomi delle cose?», o «Dove sono?», e il fanciullo risponde che i nomi vengono dalle cose stesse e si trovano dentro le cose, si deve semplicemente concludere che, per il fanciullo, i nomi partecipano piú delle cose che del soggetto pensante, e che il fanciullo ha un orientamento mentale realistico. Bisogna dunque guardarsi, in questi due esempi, dall’attribuire al fanciullo una spontanea preoccupazione di precisare l’origine degli astri (a meno che una tale preoccupazione non sia rivelata dall’osservazione pura) e quella di localizzare i nomi. Delle risposte va ritenuta soltanto la direzione, per cosí dire: direzione artificialistica nel primo esempio, realistica nel secondo.
Occorre poi spogliare le risposte ottenute d’ogni carattere logico e badare a non introdurre una coerenza artificiale là dove la coerenza è di specie piú organica che logica. Cosí i fanciulli rispondono che gli astri, il cielo, la notte ecc. sono di nuvole e che le nuvole sono di fumo; i lampi e gli astri sono fuoco uscito da quel fumo, e cosí via. Ammirevole sistema, per cui il fumo dei tetti è il principio della meteorologia e dell’astronomia. Soltanto, non è un sistema ! Si tratta invece di nessi parzialmente sentiti, parzialmente formulati e molto piú abbozzati che sviluppati. Per di piú, questi nessi non ne escludono altri, che a noi sembrano in contraddizione coi primi: in quanto il fanciullo concepisce questi stessi corpi come viventi, coscienti, ecc.
Infine, occorre anche cercare di spogliare le risposte del loro elemento verbale. Nel fanciullo esiste di certo tutto un pensiero intraducibile in parole, fatto di immagini e di schemi motorî combinati. Le idee di forza, di vita, di peso ecc. sono sorte da questo pensiero, almeno parzialmente, e i rapporti degli oggetti fra loro sono compenetrati di questi legami inesprimibili. Quando s’interroga un fanciullo, egli traduce il suo pensiero in parole, ma in parole necessariamente inadeguate. Ad esempio, dirà che il sole «fa» muovere le nuvole. Qual è il senso di quest’espressione? Che il sole attrae o respinge le nuvole, o le insegue come un gendarme insegue i ladri e cosí le «fa» fuggire? Tutto è possibile. Anche qui, quel che importa è l’atteggiamento piú che la formula, la direzione seguita piú che l’espressione trovata.
In poche parole, il principio dell’interpretazione delle risposte provocate, e in parte anche delle risposte spontanee, sta nel considerarle come sintomi piú che come realtà. Ma dove fermarsi, in questo lavorio di riduzione critica? Sta all’osservazione pura decidere. Basta esaminare un gran numero di domande infantili e confrontare le risposte ottenute nell’esame clinico con queste domande spontanee, per vedere fino a che punto un dato orientamento mentale corrisponde a domande poste sistematicamente. Cosi, a proposito dell’artificialismo, bastano poche osservazioni per comprendere che il legame fra cose e uomini prende spesso, nel fanciullo, l’aspetto di un rapporto di fabbricazione: il fanciullo si pone spontaneamente alcuni problemi di origine, e li pone in un modo tale da rendere senz’altro implicita l’idea che sono gli uomini che hanno fatto o hanno contribuito a fare le cose.
Ma le regole precedenti non bastano a risolvere tutti i problemi che l’interpretazione delle risposte presenta. Purtroppo lo studio del fanciullo comporta una difficoltà ancor piú grave. Come separare, nei risultati degli interrogatori, le trovate originali del fanciullo dalle influenze adulte anteriori?
Posto in questi termini, il problema è insolubile. Esso presenta infatti due interrogativi ben distinti. La storia dello sviluppo intellettuale del fanciullo è, in buona parte, la storia della progressiva socializzazione di un pensiero individuale, dapprima refrattario all’adattamento sociale, poi sempre piú penetrato dalle influenze adulte del suo ambiente. Sotto questo aspetto, tutto il pensiero infantile è destinato, dal momento in cui il fanciullo inizia a parlare, a fondersi gradualmente col pensiero dell’adulto. Di qui un primo problema: qual è il processo che questa socializzazione segue? Per il solo fatto che esiste una socializzazione progressiva, occorre distinguere, in ogni momento dello sviluppo del fanciullo, due parti del contenuto del pensiero infantile: una parte dovuta all’influenza degli adulti, e una dovuta alla reazione originale del fanciullo. In altre parole, le credenze infantili sono il prodotto di una reazione influenzata, ma non dettata dagli adulti. Ci si può proporre lo studio di questa reazione, ed è ciò che faremo nel corso di quest’opera. Basta tener presente i tre termini del problema: il mondo al quale il fanciullo si adatta, il pensiero del fanciullo, e la società adulta che influisce su questo pensiero. Ma, d’altra parte, nelle credenze infantili si debbono distinguere due tipi assai diversi. Uno è, come abbiamo visto, influenzato ma non dettato dagli adulti; l’altro invece è semplicemente imposto dalla scuola, dalla famiglia, dalle conversazioni fra adulti udite dal fanciullo, ecc. Naturalmente, questo secondo tipo di credenze non ha alcun interesse. Di qui prende origine il secondo problema, che è il piú interessante dal punto di vista metodologico: come distinguere nel fanciullo fra credenze imposte dall’adulto e credenze che testimoniano una reazione originale del fanciullo stesso (influenzata, ma non dettata dall’adulto)? È evidente che occorre distinguere questi due problemi. Esaminiamoli dunque separatamente.
Per il primo problema ci si presentano due soluzioni estreme. Secondo l’una, le credenze propriamente infantili non esisterebbero affatto: nel fanciullo si troverebbero solo tracce sparse e incomplete di credenze ricevute dall’esterno, e per conoscere il suo pensiero bisognerebbe allevare degli orfanelli in un’isola deserta. Questa è, in fondo, la soluzione implicita di molti sociologi. L’idea che i primitivi ci diano piú ampi ragguagli che non i fanciulli sulla genesi del pensiero umano, e ciò benché coloro che sono in grado di studiarli scientificamente li conoscano soltanto di seconda o di terza mano, riposa in buona parte sulla tendenza a considerare il fanciullo come interamente modellato dalla costrizione sociale dell’ambiente. Ma potrebbe darsi benissimo che l’originalità dei fanciulli sia stata in modo singolare misconosciuta, solo perché il fanciullo, essendo egocentrico, non cerca di convincerci dell’esattezza dei suoi atteggiamenti mentali, né soprattutto di prenderne egli stesso coscienza per svilupparli. Perciò è probabile che nei fanciulli si vedano soltanto i dubbi e le incertezze, proprio perché ciò che per loro è evidente non costituisce oggetto né delle loro domande né della loro attenzione. È dunque legittimo rifiutarsi di ammettere a priori che le rappresentazioni infantili siano assolutamente conformi a quelle dell’ambiente adulto. Specie se la struttura logica del pensiero infantile differisce da quella dell’uomo maturo, come già abbiamo cercato di dimostrare, sembra probabile che anche il contenuto del pensiero sarà, nel fanciullo, almeno in parte originale.
Bisogna dunque adottare l’altra soluzione estrema, e fare del fanciullo una specie di schizoide vivente unicamente nel proprio «autismo», benché partecipante in apparenza della vita del corpo sociale? Ciò significherebbe misconoscere che il fanciullo è un essere la cui principale attività consiste nell’adattamento, e che cerca di adattarsi: sia agli adulti che lo circondano che alla natura.
La verità sta indubbiamente fra i due estremi. Stern, nello studio del linguaggio infantile, ha seguito una direttiva che possiamo far nostra, estendendola anche alla originalità del pensiero infantile. Nel fanciullo, infatti, il pensiero è assai piú originale del linguaggio; o perlomeno, ciò che Stern dice del linguaggio vale a fortiori per il pensiero.
Ammettiamo, dice Stern, che nel suo linguaggio il fanciullo si limiti a imitare l’adulto in tutto e per tutto. Ciò nonostante, questa copia conterrà molti elementi di spontaneità. Infatti il fanciullo non copia tutto, la sua imitazione è selettiva: certi tratti vengono copiati immediatamente e altri sono eliminati nel corso degli anni. Inoltre, l’ordine di successione di queste imitazioni si mantiene, in media, costante. Ad esempio, le categorie grammaticali si apprendono secondo un ordine fisso, ecc. Ora, chi dice imitazione selettiva e ordine fisso nelle imitazioni, dice reazione in parte spontanea. Perlomeno, fatti del genere indicano immediatamente l’esistenza di una struttura in parte indipendente da pressioni esterne.
Ma v’è di piú. Anche ciò che sembra copiato è in realtà trasformato e ricomposto. Le parole, ad esempio, sono le stesse nel fanciullo e in noi, ma hanno significati diversi, piú o meno elastici secondo i casi. Le congiunzioni sono diverse. La sintassi e lo stile originali.
Stern fa dunque, a ragione, l’ipotesi che il fanciullo digerisca ciò che riceve, e lo digerisca conformemente a una propria chimica mentale. Queste considerazioni sono a maggior ragione valide nel campo del pensiero, dove la parte dell’imitazione, come fattore formativo, è evidentemente minore. Infatti, nel campo delle rappresentazioni, incontreremo a ogni passo ciò che a proposito del linguaggio si osserva molto di rado: conflitti veri e propri tra pensiero del fanciullo e pensiero del suo ambiente, conflitti che sfociano nella sistematica deformazione dei discorsi degli adulti nella mente infantile. Bisogna aver visto sul vivo quante fra le migliori lezioni restino incomprese per poter misurare la portata di questo fenomeno.
Si può dire, è vero, che ogni linguaggio contiene una logica o una cosmologia, e che il fanciullo, imparando a parlare nello stesso momento o anche prima di imparare a pensare, pensa in funzione dell’ambiente sociale adulto. In parte ciò è esatto. Ma, per il fatto stesso che il linguaggio degli adulti non è per il fanciullo ciò che per noi è una lingua straniera che stiamo imparando (cioè un sistema di segni corrispondenti punto per punto a nozioni già acquisite), sarà possibile distinguere fra nozioni infantili e nozioni adulte semplicemente esaminando l’uso che il fanciullo fa delle nostre parole e delle nostre nozioni. Ci si accorgerà allora che il linguaggio adulto costituisce, per il bambino, una realtà spesso «opaca», e che una delle attività del pensiero infantile consiste nell’adattarsi a questa realtà, proprio come deve adattarsi alla realtà fisica. Ora, quest’adattamento che caratterizza il pensiero verbale del fanciullo, è originale e presuppone degli schemi sui generis di assimilazione mentale. Cosi, anche quando il fanciullo si costruisce una data nozione per una parola del linguaggio adulto, questa nozione può essere interamente infantile, nel senso che inizialmente il vocabolo era, per il suo intelletto, opaco quanto quel determinato fenomeno fisico, e che, per comprenderlo, egli l’ha deformato e assimilato secondo una propria struttura mentale. Troveremo un eccellente esempio di questa legge studiando la nozione infantile di «vita». La nozione di «vivente» è stata costruita dal fanciullo in occasione di un vocabolo del linguaggio degli adulti. Ma questa nozione contiene tutt’altra cosa che la nozione adulta di «vita», e attesta una rappresentazione del mondo affatto originale.
Il principio al quale ci atterremo consiste dunque nel considerare il fanciullo non come un essere di pura immaginazione, ma come un organismo che assimila le cose a se stesso, le scompone, le assorbe secondo la propria struttura. In questo modo, anche ciò che è influenzato dall’adulto può essere originale.
Tuttavia è logico che siano anche frequenti le imitazioni o le riproduzioni pure e semplici. Spesso una credenza infantile non è che la replica passiva di un discorso che è stato inteso. Inoltre, man mano che il fanciullo si sviluppa, la sua comprensione dell’ambiente adulto aumenta, ed egli diventa suscettibile di assimilare le credenze ambientali senza piú deformarle. Come distinguere dunque, nei risultati dell’esame clinico, la parte dovuta al fanciullo e la parte dovuta a discorsi ascoltati in precedenza e incorporati? Tutte le regole prima indicate (§ 3) per distinguere le risposte spontanee o suscitate dalle risposte suggerite durante le esperienze, ci sembrano valide per risolvere questo nuovo problema.
Anzitutto l’uniformità delle risposte di un gruppo di soggetti della stessa età media. Se, infatti, tutti i fanciulli di eguale età mentale sono giunti all’identica rappresentazione di un dato fenomeno, nonostante i casi fortuiti delle loro esperienze personali, del loro incontri, dei discorsi uditi ecc., abbiamo una prima garanzia in favore dell’originalità di questa credenza.
In secondo luogo, a mano a mano che la credenza del fanciullo si evolve con l’età, secondo un processo continuo, ci si presentano nuovi elementi che suffragano l’originalità di questa credenza.
In terzo luogo, se la credenza è realmente formata dalla mentalità infantile, la sua sparizione non sarà brusca: si constaterà invece un insieme di combinazioni o di compromessi fra essa e la nuova credenza che tende ad affermarsi.
Quarto punto: una credenza consentanea a una data struttura mentale resiste alla suggestione. Infine, quinto, questa credenza presenta molteplici proliferazioni e agisce su un complesso di rappresentazioni vicine.
Questi cinque criteri, applicati simultaneamente, bastano a mostrare se una data credenza sia semplicemente presa a prestito dall’adulto, per imitazione passiva, o se sia in parte il prodotto della struttura mentale del fanciullo. Certo questi criteri non consentono di identificare i prodotti dell’insegnamento adulto, quando il bambino ha raggiunto ormai l’età in cui comprende tutto ciò che gli vien detto (cominciando dagli 11-12 anni). Ma allora il fanciullo non è piú un fanciullo e la sua struttura mentale diventa quella dell’adulto.