I

La riconfigurazione del Mediterraneo all’indomani della peste nera avvenne attraverso un lento processo. Oltre ai mutamenti politici in corso al suo interno, in particolare l’espansione della potenza ottomana, nel lungo termine gli abitanti delle sue coste e delle sue isole avrebbero visto cambiare profondamente la propria vita a causa degli eventi che ebbero luogo al di là dello stretto di Gibilterra. L’apertura dell’Atlantico era iniziata già nel decennio che precedette l’arrivo della peste nera, durante il quale erano stati effettuati viaggi lungo la costa africana, fino a raggiungere le isole Canarie. L’esplorazione proseguì con la scoperta e la colonizzazione di Madeira e delle Azzorre da parte dei portoghesi, nel XV secolo.1 L’avvio delle colture di zucchero a Madeira rese possibile far arrivare direttamente dall’Atlantico alle Fiandre e alle altre regioni dell’Europa settentrionale uno dei costosi prodotti che fino ad allora dovevano essere importati dal Mediterraneo. Nel 1482, con la costruzione della fortezza portoghese di São Jorge da Mina (cioè «della miniera») nell’Africa occidentale, poco sopra l’equatore, l’oro iniziò ad affluire in Europa senza bisogno di attraversare il Sahara e transitare dai porti musulmani del Maghreb. L’apertura di questo canale mercantile con la Guinea compensò la delusione per il fatto che Ceuta non ripagava più i costi del suo mantenimento. Per i padroni del Mediterraneo l’Atlantico divenne anche una fonte di schiavi, presi tra gli abitanti delle Canarie e tra i berberi della costa antistante, cui si aggiunsero, in misura crescente, i neri inviati a nord da São Jorge da Mina. Via Lisbona, molti di questi schiavi finivano a Valenza, a Maiorca e in altri porti del Mediterraneo.2

Con l’ingresso di Colombo nell’arcipelago dei Caraibi, nell’ottobre 1492, anche la Castiglia poté mettere le mani su una fonte di metallo prezioso, che non esitò a sfruttare senza riguardi, imponendo agli indigeni, teoricamente liberi sudditi della Corona spagnola, gravose esazioni in oro. I genovesi, nonostante la loro impopolarità in terra di Spagna, riuscirono a insediarsi a Siviglia con l’approvazione del re e si lanciarono in operazioni commerciali transatlantiche. Contemporaneamente si diedero da fare anche sul fronte finanziario. La pressione turca sui possedimenti di Genova nel Mediterraneo orientale era aumentata e ciò aveva spinto i genovesi a stringere un’alleanza sempre più salda con la Spagna, la potenza che sembrava maggiormente in grado di contrastare i turchi. Quando le acque del Mediterraneo si fecero troppo insicure, anche i veneziani rividero le loro strategie. Verso la metà del XV secolo Venezia si era invischiata nelle tormentate vicende politiche dell’Italia rinascimentale, conquistando in terraferma, sotto il doge Francesco Foscari, domini molto più estesi degli esigui territori posseduti solo un secolo prima. La signoria veneziana si spinse fino a Bergamo, dove il leone di San Marco entrò in contatto con il biscione di Milano. Non che Venezia avesse abbandonato i suoi interessi nel Mediterraneo, ma la Serenissima Repubblica stava iniziando ad acquisire nell’Italia continentale quello spazio che nel XVI e nel XVII secolo, quando si vide progressivamente sottrarre dagli Ottomani i suoi presidi orientali, l’avrebbe messa in condizione di volgersi alla terraferma.3 Venezia si sentiva sempre più minacciata e i suoi governanti si rendevano conto che la riluttanza a utilizzare la loro marina contro gli Ottomani li esponeva in Europa all’accusa di ipocrisia e opportunismo.

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L’impressione che i mari fossero meno sicuri non era frutto di un’illusione. Dalla fine del XV secolo in poi si erano riaffacciati in forze nel Mediterraneo i pirati, che prendevano d’assalto navi, coste e isole, rapendo ogni anno migliaia di persone da ridurre in schiavitù.4 Fra le terre cristiane maggiormente colpite dalla pirateria musulmana c’erano la Calabria, la Sicilia e Maiorca, regioni in cui il fenomeno non si era ripresentato con questa intensità dalle incursioni saracene del IX e del X secolo. La pirateria divenne endemica, e lo storico controllo dei mari da parte degli italiani e dei catalani si trasformò in un semplice ricordo. C’erano pirati musulmani e pirati cristiani, e tra questi ultimi i più attivi erano i Cavalieri di San Giovanni dell’isola di Rodi, i quali, fedeli all’ideale della guerra santa contro l’islam, attingevano ai loro patrimoni in Europa occidentale per mantenere una flotta di forse 6 galee ben equipaggiate. Sul fronte opposto i corsari barbareschi minacciavano la cristianità da circa tre secoli, non senza l’appoggio della corte ottomana. Provvisti di basi sicure nel Nordafrica e con la guida di comandanti dotati e risoluti, portarono la guerra tra cristiani e musulmani fin dentro il cuore del Mediterraneo occidentale.5

Durante il primo quarto del XVI secolo il Mediterraneo orientale si trasformò in un lago ottomano. Uno dei moventi più chiari dell’espansione ottomana era il desiderio di diffondere la fede islamica: i sultani non avevano dimenticato che i loro antenati avevano combattuto contro i bizantini nella veste di ghazi, guerrieri consacrati all’islam. Nei Balcani, però, preferirono lasciare che la maggioranza dei sudditi restasse cristiana ed ebrea, tenendo in considerazione, come già i califfi arabi nell’antico Medio Oriente, che i «popoli del Libro» costituivano un’ottima fonte di entrate fiscali. Gli Ottomani cercarono altresì di tutelare il commercio, in parte per assicurare alla loro sfarzosa corte e alla loro affollata capitale la consueta fornitura di seta, gioielli, oro, oltre che di merci più modeste, come il grano, e in parte perché si rendevano perfettamente conto che tenere aperte le vie commerciali significava proteggere un’altra cospicua fonte di entrate. Di qui la decisione di favorire i ragusei e di offrire vantaggiosi trattati commerciali a veneziani e genovesi.6 Altrove, però, non esitarono a imporsi con la forza. Nel 1516 l’esercito ottomano annientò i mamelucchi di Siria, aprendo la via a una rapida e facile invasione dell’Egitto. I cristiani rimasero a presidiare un pugno di isole sparse: nell’arcipelago dell’Egeo vari signorotti italiani (spesso pirati anch’essi) divennero preda dei turchi per molti decenni. Cipro rimase in mano veneziana e Chio in mano genovese, mentre nel 1522 Rodi fu sottoposta a un lungo e duro assedio, durante il quale il nuovo sultano ottomano, Solimano, ebbe occasione di mettere in mostra tutto il suo talento militare. Solimano prese personalmente parte alle operazioni, per vendicare la sconfitta subita a Rodi nel 1480. In vista di un assedio turco il sistema difensivo della cittadella era stato notevolmente rafforzato, ma gli effettivi a sua disposizione erano pochi, solo 300 cavalieri, benché sostenuti da numerosi uomini di rango inferiore. Solimano non tolse l’assedio nemmeno quando le condizioni meteorologiche si fecero avverse, e alla fine costrinse Rodi a capitolare. I cavalieri si arresero nel dicembre 1522, a condizioni generose: a volte, infatti, gli Ottomani sapevano mostrare rispetto per chi si era battuto contro di loro valorosamente.7

Rimasti senza una sede, gli Ospitalieri decisero di riprendere la lotta contro l’islam. Ben presto, per loro fortuna, Carlo V, sacro romano imperatore e sovrano delle terre appartenenti alla Corona aragonese (compresa la Sicilia), venne loro incontro. Nel marzo 1530 offrì ai cavalieri uno splendido accordo, nel quale, dichiarando di avere visto come avessero «vagato per molti anni» in cerca di «una residenza stabile», si diceva disposto a offrire loro una serie di posizioni nel regno di Sicilia: Tripoli, sulla costa africana, nonché Malta e Gozo. In cambio non chiedeva altro che, in segno di riconoscimento della sovranità siciliana, nel giorno di Ognissanti i cavalieri donassero annualmente al viceré di Sicilia un falcone. Nel 1510 Ferdinando il Cattolico aveva insediato a Tripoli una guarnigione spagnola, ma difendere la città dai berberi, che la bersagliavano da terra su ogni lato, si stava rivelando alquanto problematico.8 E, per Carlo, tenere Tripoli era fondamentale. Così, quando nel 1551 la città venne persa, apparve chiaro che conservare il possesso di Malta non era meno importante.

A tutta prima i corsari barbareschi possono apparire molto diversi dagli organizzatissimi Ospitalieri. Ma in realtà si erano procurati fama di ottimi combattenti. Molti di loro erano rinnegati di origine greca, che avevano abbandonato spontaneamente la fede cristiana. Altri erano di origine calabrese, albanese, ebraica, genovese e persino ungherese.9 Non erano, almeno non tutti, vagabondi psicopatici in cerca di guadagno e divertimento. Fra loro si contavano anche abili navigatori, come Piri Reis, che nell’età delle scoperte geografiche offrì alla corte ottomana, con le sue accurate mappe del Mediterraneo e del mondo circostante, informazioni molto precise.10 Ma il corsaro più celebre fu Barbarossa, così chiamato in Occidente per il colore della barba. In realtà, a questo nome corrispondevano non uno, ma due pirati, Aruj, o Urug, e suo fratello minore Hizir. Intorno a questi personaggi sorse tutta una serie di storie, e non è sempre facile distinguere la realtà dalla leggenda. In genere si ritiene assodato che i fratelli nacquero a Lesbo nell’epoca in cui Mehmed il Conquistatore strappò l’isola al duca italiano Niccolò Gattilusio. Il padre dei due era di famiglia cristiana, ma aveva servito nell’esercito ottomano come giannizzero musulmano, dopodiché si era sposato con una cristiana e dedicato al commercio di ceramiche nell’Egeo, spingendosi fino a Costantinopoli. Fu grazie a questi viaggi, in cui spesso portava con sé i figli, che i fratelli Barbarossa divennero abili marinai. Una volta Aruj, dopo avere imbarcato legname sulle rive dell’Anatolia, si accorse che la sua nave era inseguita dalla Nostra Signora della Concezione, una galea ospitaliera salpata da Rodi. Fu catturato e mandato ai lavori forzati su un’altra galea. Un paio d’anni più tardi fu riscattato, secondo una pratica tutt’altro che insolita, anche se cominciò a circolare la leggenda di una sua eroica fuga. Aruj si rimise felicemente in mare, solcando per diverso tempo le acque tra la Spagna e il Maghreb insieme a Hizir, e pare che i due abbiano aiutato gli ebrei e i musulmani cacciati dalla Spagna nel 1492 a lasciare il paese.11

La loro dotazione iniziale fu una galea leggera, con un equipaggio di 100 volontari, tutti in cerca di bottino e di gloria. Verso il 1502 posero base a Gerba, da tempo covo di pirati e teatro di scontro tra assalitori cristiani e difensori musulmani. Strinsero legami con la corte di Tunisi, ponendo le loro azioni di pirateria sotto la protezione del sultano hafside. Nel 1504 fecero vela verso l’Elba, le cui profonde insenature offrivano ai corsari un ambiente ideale, e presero d’assalto due galee al servizio di papa Giulio II, oltre a una nave spagnola con a bordo 300 soldati e 60 nobili aragonesi diretti a Napoli. La facilità con cui riuscirono a impadronirsi delle tre imbarcazioni esaltò ulteriormente a Tunisi la loro fama di eroi e, a Roma, la loro nomea di pericolosi nemici. Nel 1506 possedevano otto navi, ma i loro successi li avevano resi così famosi che il sultano ottomano offrì loro il titolo onorifico di khayr-ad-din (protettore della fede), in turco Hairettin. Era ormai in corso una guerra di logoramento tra i corsari musulmani e i loro nemici cristiani. Questi ultimi non erano solo i navigatori genovesi e catalani (mercanti o corsari che fossero), ma anche quelli portoghesi e spagnoli, che bersagliavano con insistenza le postazioni fortificate delle coste marocchine, sia sul versante Mediterraneo sia su quello Atlantico. Nonostante i successi colti a Melilla e a Orano, ad Algeri gli spagnoli riuscirono a impadronirsi soltanto di alcuni forti isolati a custodia del porto, che, pur dotati nel 1510 di cannoni, non erano in grado di controllare la città.12

In questi scontri gli islamici avevano un grande vantaggio: potevano contare sull’appoggio dei capitribù guerrieri di Tetuan, nell’entroterra marocchino. Passavano l’estate sul mare, compiendo razzie ai danni della Spagna e catturando migliaia di schiavi da impiegare nei lavori di consolidamento delle difese di Tetuan. Si diceva che in un solo mese Hizir avesse catturato 21 navi mercantili e 3800 schiavi cristiani (fra cui donne e bambini). I due fratelli corsari flagellavano incessantemente con le loro incursioni Maiorca, Minorca, la Sardegna e la Sicilia. L’impatto del fenomeno è attestato dal numero di città e paesi che, edificati sui litorali pericolosamente esposti delle isole del Mediterraneo occidentale, furono abbandonati per essere ricostruiti parecchi chilometri più all’interno.13 Aruj si fece fama di mostro sanguinario, un uomo capace di azzannare le vittime alla gola come un mastino furioso, ma da astuto uomo di potere qual era seppe usare la sua reputazione per perseguire scopi politici. Diede vita a un suo regno, iniziando da Jijel, sulla costa algerina. Gli abitanti della città rimasero impressionati quando, in un periodo in cui le risorse locali erano molto scarse, il pirata riuscì a catturare una galea siciliana carica di grano, e lo invitarono a diventare loro signore. Di lì a poco Aruj si mise nelle condizioni di lanciare un colpo di Stato ai danni di Algeri, sfruttando una crisi di successione apertasi a Tlemcen, importante città situata a poca distanza dal mare, della quale nel 1517 si proclamò signore. Tutto questo destò profondo allarme negli spagnoli di Orano, che stavano cercando di instaurare rapporti di amicizia con i capitribù locali.14 Il nuovo re di Spagna, Carlo d’Asburgo, decise di mobilitare le truppe di stanza nei suoi possedimenti nordafricani. Fortunatamente, il problema di Tlemcen fu risolto dagli abitanti del luogo, che videro in Aruj un agente del sultano turco e lo cacciarono. Gli spagnoli poterono così intrappolarlo e ucciderlo in battaglia.

Il secondo Barbarossa, Hizir, chiamato dalle fonti italiane Ariadeno o Cairedino, si acquistò una nomea ancora più spaventosa di quella del fratello. Per sottolineare il suo ruolo di successore del Barbarossa maggiore, si tinse la barba di rosso. Hizir rafforzò il suo controllo sui centri costieri del Maghreb, riuscendo a strappare agli spagnoli, nel 1529, i forti e le isole all’ingresso di Algeri.15 Lo stesso anno sconfisse una flottiglia spagnola al largo di Formentera, nelle ormai facilmente raggiungibili isole Baleari, catturando 7 galee con i relativi capitani, che poi, avendolo fatto infuriare, fece tagliare a pezzi con affilatissime lame.16 Algeri divenne la capitale di Barbarossa, che tuttavia si mise cautamente sotto la protezione del sultano turco: era abbastanza lontano da Costantinopoli per conservare la propria autonomia ed era sufficientemente prezioso agli occhi del sultano da poter contare sull’appoggio concreto della Sublime Porta. L’attenzione dei sultani ottomani oscillava continuamente tra il Mediterraneo, i Balcani e la Persia; a distoglierla dalle questioni mediterranee erano in particolare gli scontri sul fronte orientale con gli scià safavidi. Del tutto sensato, quindi, avvalersi dell’opera di Ariadeno Barbarossa, anziché impegnare tutte le risorse in un unico teatro di guerra. Hizir fu perciò riconosciuto ufficialmente emiro di Algeri e prese il vezzo di farsi chiamare Qapudàn Pascià, cioè «Grand’Ammiraglio». Il sultano Selim I gli inviò uno stendardo turco, nonché cannoni, munizioni e 2000 giannizzeri.

Poco dopo il 1530 Ariadeno aveva conquistato la fiducia del successore di Selim, Solimano, al punto da essere chiamato alla corte di Costantinopoli per un consulto strategico sul Mediterraneo occidentale: la grande questione era infatti stabilire in che misura i turchi dovessero continuare a tenere sotto pressione il nemico spagnolo. Si tramanda che il gran visir, Ibrahim Pascià, invitasse Hizir a sferrare un ardito attacco contro Fondi, sulla costa italiana a sud di Roma, per catturare la bella vedova Giulia Gonzaga, il cui marito era stato signore della regione. La leggenda vuole che la donna fuggisse seminuda mentre i turchi erano ormai alle porte della città, ma in realtà quella notte Giulia non era nemmeno a Fondi.17 Nel viceré di Napoli si fece strada la cupa idea che l’Italia meridionale fosse la nuova Rodi, l’estremo baluardo contro l’avanzata turca.18 Quando nel 1534 il re di Tunisi, noto per il suo atteggiamento sospettoso nei confronti dei turchi, morì lasciando dietro di sé una guerra di successione, il comando della flotta inviata dal sultano ottomano contro la città fu, come prevedibile, affidato ad Ariadeno Barbarossa. Questi non esitò ad attaccare, scatenando però il contrattacco di Carlo V, che entrò senz’altro in azione nonostante Barbarossa avesse minacciato di sterminare i 20.000 schiavi cristiani presenti a Tunisi. Carlo riconquistò la città l’anno seguente, affidandone avvedutamente il comando al figlio minore del vecchio re, non senza esigere un pesante tributo: 12.000 pezzi d’oro, dodici falchi e sei splendidi corsieri.19 Ma se con la vittoria di Tunisi l’Asburgo pensava di essersi meritato la gratitudine e l’ammirazione dei sudditi, il suo ottimismo sarebbe stato presto smentito. Di lì a pochi mesi salpò da Algeri, diretta a Minorca, una flottiglia, sui cui alberi gli uomini di Barbarossa avevano impudentemente innalzato la bandiera spagnola: le navi entrarono nel grande porto naturale della città di Mahón, che fu messa a sacco, e ripartirono con un bottino di 1800 schiavi.20

II

Le reazioni cristiane all’espansione dell’influenza turca nel Mediterraneo occidentale assunsero due forme: quella del contrasto e quella del compromesso. Il re di Francia, Francesco I, si mostrò disponibile a collaborare con i turchi, scandalizzando molti dei suoi rivali. In Spagna, invece, il confronto con gli Ottomani fu percepito come una continuazione, e in forma accentuata, della grande e lunga crociata dei cristiani contro i mori. Carlo V invocò «il sostegno e la guida del Creatore», confidando che l’aiuto divino gli avrebbe permesso di mettere in atto «le iniziative più efficaci contro Barbarossa».21 Sotto la guida dell’ammiraglio genovese Andrea Doria fu lanciato un contrattacco cristiano.22 Nei secoli precedenti la famiglia Doria aveva dato molti dei grandi ammiragli genovesi. Andrea era uno spirito libero: dopo aver mostrato la propria indipendenza astenendosi dal partecipare a un attacco lanciato nel 1528 contro Napoli da Francesco I, abbandonò quest’ultimo per passare dalla parte di Carlo V, anche se la scelta fu probabilmente dettata più da istanze economiche che da questioni di principio. Comandava una propria flotta, ma aveva accesso all’arsenale navale di Genova. I suoi equipaggi erano formati da volontari, cui si aggiungeva una quota di galeotti. Grazie ai numerosi successi conseguiti godeva di grande popolarità tra i volontari, nonostante l’imposizione di una rigorosa disciplina morale che, per esempio, proibiva la bestemmia.23 Per molti aspetti la sua figura era speculare a quella di Ariadeno Barbarossa: in entrambi un certo grado di autonomia si combinava con la dedizione alla causa. Inviato a combattere in Grecia nel 1532, Doria dimostrò ampiamente al suo nuovo signore il proprio valore conquistando la base navale di Corone, sulla punta sudoccidentale del Peloponneso. Dopo aver oltrepassato la linea di difesa turca sbarcò le sue truppe, tra lo stupore del nemico. In tempi più felici, Corone e Modone erano stati «i due occhi dell’impero veneziano», posti a protezione delle rotte commerciali che dal mar Ionio portavano a est. Riprendere Corone strappandola ai turchi era una grande vittoria strategica. Solimano inviò 60 galee a riconquistare la città, ma Doria le respinse.24

L’apprensione del mondo occidentale crebbe nel 1537, quando Solimano inviò 25.000 uomini, sotto la guida di Ariadeno, ad assediare Corfù. La mossa era un’evidente minaccia per tutto l’Occidente: espugnando la città, gli Ottomani avrebbero acquisito una base da cui sferrare attacchi contro l’Italia e controllare il traffico nell’Adriatico. Nel febbraio 1538 fu costituita una Lega santa che, sotto il patronato del papa, riuniva Andrea Doria, gli spagnoli e Venezia, fino ad allora estremamente cauta nelle sue relazioni con la Sublime Porta. Ariadeno rispose con una serie di attacchi contro le basi veneziane nel Mediterraneo orientale, tra le quali Nauplia e Malvasia (Monemvasia), nel Peloponneso. Non era una semplice guerra di ritorsione: il complesso delle isole e delle postazioni costiere in mano a Venezia rappresentava per il traffico marittimo occidentale sia una catena di rifornimento sia un sistema di protezione. Gli Ottomani pretesero di avere strappato a Venezia venticinque isole, a volte mettendole a sacco e altre volte rendendole loro tributarie.25 Tuttavia, l’impressione che Doria facesse squadra a sé fu confermata dall’opaca condotta che egli tenne nella battaglia di Prevesa, al largo di Corfù, il 28 settembre 1538, quando l’insieme delle forze della Lega santa – 36 galee pontificie, 10 navi ospitaliere, 50 navi portoghesi, oltre a 61 navi genovesi – si scontrarono con il grosso della flotta ottomana, guidato da Ariadeno:26 vedendo che la flotta occidentale stava subendo considerevoli perdite, Doria preferì lasciare il campo. Da buon genovese, non era particolarmente ansioso di proteggere gli interessi veneziani, e sebbene percepisse chiaramente la minaccia rappresentata da Solimano e Ariadeno, la sua priorità restava la difesa del Mediterraneo occidentale. Un osservatore francese dell’epoca paragonò Doria e Barbarossa ai lupi, che non si mangiano tra loro, o ai corvi, «che non si beccano l’un l’altro negli occhi».27

III

Quanto al modo di relazionarsi con i turchi, il re di Francia optò per una soluzione diversa. Francesco I era impegnato in un conflitto con Carlo V per rivendicazioni storiche su alcune parti dell’Italia: il ducato di Milano, sul quale il suo predecessore Luigi XII vantava qualche titolo, e il regno di Napoli, già invaso sia da Carlo VIII sia da Luigi XII. Mentre Carlo aveva concepito la conquista di Napoli del 1495 come il primo passo di una crociata volta a riconquistare Costantinopoli e Gerusalemme, Luigi XII, re dal 1498 al 1515, si era posto obiettivi più limitati. Il disastro in cui si risolse la sua spedizione navale contro Lesbo ebbe l’effetto di spegnere in lui qualsiasi mira sul Mediterraneo orientale. Nel 1507 Luigi era intervenuto nelle perennemente convulse vicende di Genova soffocando una rivolta scoppiata nella città, ma il suo obiettivo, ancora una volta, era quello di consolidare la sua presenza nell’Italia nordoccidentale anziché lanciare una grande offensiva francese contro i turchi. Aveva però sottovalutato le forze che Ferdinando d’Aragona era in grado di mobilitargli contro nel Norditalia. Sconfitto a Ravenna nel 1511, aveva dovuto lasciarsi alle spalle anche l’Italia. Francesco I, suo successore, era però deciso a vendicare la Francia dei nemici Asburgo. Riconquistata Milano, si imbarcò in piani ancora più ambiziosi, per subire però nel 1525 l’umiliante sconfitta della grande battaglia di Pavia ed essere fatto prigioniero.28 Poco dopo essere stato rilasciato dal carcere di Madrid, si rimangiò la promessa di convivere in pace accanto ai vicini Asburgo: su ogni frontiera, infatti, la Francia era a contatto con territori in varia forma legati a Carlo V. Alcuni di tali vicini non erano poi troppo fedeli a Carlo e il senso di accerchiamento di Francesco era meno giustificato di quanto egli immaginasse. Il monarca francese sapeva, comunque, che il sogno di un impero in Italia si sarebbe potuto avverare solo tenendo gli Asburgo sotto pressione.29

Francesco tentò quindi di risolvere i suoi problemi in Europa occidentale intervenendo nelle guerre mediterranee tra spagnoli e turchi.30 In realtà, proponendosi un’alleanza con i turchi non mirava a ottenere la pace, ma a danneggiare l’avversario. Nel 1520 inviò un emissario a Tunisi, esortando i corsari a «moltiplicare i problemi dell’imperatore nel regno di Napoli», un piano che rivela ben scarso riguardo per gli interessi di quelle genti dell’Italia meridionale delle quali aspirava a diventare sovrano.31 In questa prima fase l’alleanza tra francesi e turchi doveva rimanere segreta, così l’azione di interferenza si concentrò soprattutto nei Balcani, dove agenti francesi incoraggiarono i signorotti cristiani a collaborare con i turchi mediante attacchi ai territori asburgici. Desideroso di vendicarsi di Andrea Doria e di punirlo per la sua defezione, nel 1529 Francesco inviò una serie di ambascerie a Solimano. Lo stesso anno i francesi fornirono i cannoni che vennero usati per neutralizzare il forte spagnolo all’ingresso del porto di Algeri. Sette anni dopo, Carlo V venne a sapere di un accordo tra la corte francese e quella ottomana per lanciare un attacco simultaneo contro i domini asburgici. Cercò quindi di mettere Francesco nell’angolo invocando l’istituzione di una Lega santa contro i turchi: il re francese, infatti, sarebbe stato costretto a scegliere pubblicamente tra l’unità delle forze cristiane e l’alleanza con i turchi. Per Francesco il punto essenziale era preservare l’equilibrio tra le potenze, perciò il suo intento era quello di usare gli Ottomani per controbilanciare gli Asburgo.32 E c’è da chiedersi come avrebbe reagito se l’attacco sferrato da Solimano a Vienna nel 1529 fosse andato a buon fine. In una comunicazione diplomatica inviata al sultano nel 1532 Francesco manifestò le sue priorità senza la minima reticenza: Solimano era invitato a concentrarsi sull’Italia, lasciando perdere l’Ungheria e l’Austria. Francesco era convinto che le truppe del sultano fossero in grado di cacciare gli Asburgo dalla penisola, sulla quale egli sarebbe poi calato impugnando il vessillo di Cristo per presentarsi come il suo salvatore investito da Dio. Ma essendo sempre più impegnato nello scontro con lo scià di Persia, Solimano lasciò che a gestire gli affari mediterranei fosse, dal Nordafrica, Ariadeno Barbarossa. Si può dire che le mosse del re di Francia fossero improntate a puro cinismo. Nel 1533 la sua alleanza con i turchi era ormai cosa nota: la Francia ricevette missioni diplomatiche di Ariadeno, e pochi mesi dopo giunsero undici eleganti galee turche con a bordo gli emissari del sultano: i negoziati si conclusero con un trattato commerciale, le «Capitolazioni», sotto cui si celava una vera e propria alleanza politica.33

L’appoggio francese ai turchi si fece spudorato. Nel 1537, dodici galee francesi si misero in mare per portare rifornimenti a cento navi turche, battendo il Mediterraneo centrale in cerca della flotta di Ariadeno e cercando nel contempo di eludere le navi dei Cavalieri di Malta. Nel 1543, a bordo di una delle navi con cui Ariadeno saccheggiò le coste dell’Italia meridionale e rapì la figlia del governatore di Reggio Calabria c’era anche un ambasciatore francese. Il sultano offrì persino di mettere a disposizione del re di Francia la flotta di Barbarossa, che fu accolta a Marsiglia tra fanfare e pubblici festeggiamenti. Francesco non esitò a provvedere al supporto alimentare, non solo per allietare la grande festa in onore della marina turca, ma anche per rifornire la flotta militare di Ariadeno, in modo che questi potesse diventare «padrone del mare». I turchi si divertirono poi a razziare la costa francese orientale, che non apparteneva alla giurisdizione del re di Francia, bensì a quella di un vassallo imperiale, il duca di Savoia: Nizza fu assediata e le monache di Antibes deportate come schiave.

A questo punto si verificò l’evento più straordinario occorso nella strana storia dell’alleanza franco-turca. Francesco aprì alle navi turche la città di Tolone, invitando gli uomini di Ariadeno a trascorrervi l’inverno. Fece poi dono a Barbarossa di un orologio e di un piatto d’argento. Fu così che 30.000 turchi si sparpagliarono nella cittadina francese e nella limitrofa area rurale, e la cattedrale venne trasformata in una moschea. Fu istituito un mercato degli schiavi, perché i turchi non cessarono di rapire uomini e donne nelle campagne circostanti, costringendo alcuni dei maschi catturati a prestare servizio sulle galee. La moneta turca soppiantò quella francese, e il consiglio cittadino lamentò che i soldati turchi stavano consumando troppe olive e che le scorte di cibo e combustibile della regione, già scarsamente dotata di risorse naturali, si stavano esaurendo. Consapevole delle controversie che la sua presenza in Francia aveva innescato e preoccupato dallo scarseggiare delle provviste, Barbarossa convinse il re a dargli 800.000 scudi d’oro e nel maggio 1544 prese il largo. Dopo la sua partenza da Tolone, le razzie proseguirono, feroci e numerose, dato che Ariadeno era riuscito a persuadere la flotta francese a seguirlo. Talamone, sulla costa toscana, fu saccheggiata, e Ischia, essendosi rifiutata di consegnare agli aggressori denaro, ragazzi e ragazze, venne devastata. Tutto ciò accadde sotto lo sguardo imbarazzato dell’ambasciatore di Francesco I, Antonio Paulin.34 Più tardi, nel 1544, Francesco concluse spudoratamente la pace con Carlo V, promettendo di unirsi alla lotta della Spagna contro i turchi. In realtà, sia lui sia il suo successore, Enrico II, non si fecero alcuno scrupolo di compiere con la marina turca, e persino con la flotta dei corsari barbareschi, incursioni sul territorio del comune nemico asburgico. Nei tardi anni Cinquanta del XVI secolo, per esempio, la flotta francese e quella algerina effettuarono attacchi congiunti contro Minorca, sempre esposta e vulnerabile, e Sorrento, a ridosso di Napoli.

Carlo V non aveva dei princìpi così rigidi da rinunciare a qualche occasionale collaborazione con i sovrani musulmani del Mediterraneo, soprattutto con quelli di Tunisi. Venezia, poi, conservava la tradizione di tenersi buoni gli Ottomani per tutelare i propri interessi commerciali. E Ragusa di Dalmazia garantiva la propria neutralità pagando tributi alla Sublime Porta. Ma re Francesco perseguiva i propri interessi con un cinismo sconosciuto ai suoi rivali cristiani, nella speranza di procurarsi territori in Italia e fama di grande condottiero. Carlo V, figura più austera, prediligeva strategie prudenti, per lo più giocate sul piano del contrattacco. Vedeva l’islam espandersi nel Mediterraneo e il protestantesimo avanzare in Europa, e nello stesso tempo la Francia sfidare la supremazia del Sacro romano impero e dei regni spagnoli, dei quali era divenuto sovrano. La sensibilità politica di Carlo era segnata dagli scontri con Solimano il Magnifico e con Martin Lutero e i suoi successori. Quando abdicò nel 1556, poco prima di morire, l’equilibrio delle forze all’interno del Mediterraneo era ancora precario. Nei sedici anni che seguirono, tuttavia, la divisione del grande mare in un settore occidentale parzialmente cristiano e un settore orientale principalmente islamico sarebbe stata confermata da tre eventi: l’assedio di Malta, la conquista ottomana di Cipro e la battaglia di Lepanto.

IV

Uno sguardo alle forze navali che dominavano il Mediterraneo nel XVI secolo rivela che l’arrivo degli Ottomani aveva dato luogo a un nuovo ordine, che rimandava per certi aspetti alla prima stagione dell’islam. Ancora una volta un impero musulmano cercava di espandere il proprio dominio per terra e per mare, in ogni direzione, e dopo aver acquisito il controllo del Mediterraneo orientale la sua marina si preparava a sfidare le flotte cristiane del Mediterraneo occidentale, avvalendosi dei suoi fiduciari, i governanti degli Stati barbareschi. Era un mutamento di scenario impressionante. Dopo secoli in cui le flotte musulmane avevano cercato di porre sotto il loro controllo le acque prossime agli Stati islamici (così le flotte mamelucche in Egitto e in Siria, le navi marocchine in Occidente e quelle degli emiri turchi nell’Egeo), la potenza marittima dell’islam si era sviluppata enormemente.35 Costantinopoli era diventata il centro di comando di una flotta imponente, a differenza di quanto era accaduto in epoca bizantina, quando la forza navale era progressivamente finita nelle mani dei genovesi e dei veneziani. C’erano abili ammiragli, veri esperti di guerra in mare, ma non si trattava soltanto di combattere: i sultani erano oltremodo interessati a reperire grano per la popolazione sempre più numerosa della capitale e articoli di lusso per la corte imperiale.36 Nel frattempo, a ovest, la potenza navale spagnola doveva affidarsi alle risorse provenienti dall’Italia. La maggior parte delle navi «spagnole» di cui parleremo nel prossimo capitolo, quelle che affrontarono i turchi a Malta e a Lepanto, provenivano dalla Napoli e dalla Sicilia legate alla Corona di Spagna.37 L’arsenale di Messina era in attività da secoli, ma il ruolo della Sicilia e dell’Italia meridionale nello scontro per la supremazia navale nel Mediterraneo non era mai stato tanto rilevante da quando Carlo d’Angiò, nel XIII secolo, si era proposto di creare un impero marittimo.

Accanto a questi mutamenti c’erano però delle costanti. Uno degli aspetti che più colpiscono nella storia del Mediterraneo è, per esempio, la longevità della galea. Come nave – specie se costruita al modo dei turchi, con legno non stagionato o «verde» – non aveva certo la durata delle grandi navi granarie dell’antica Roma. Ma nel suo schema essenziale la galea aveva conosciuto ben poche modifiche, a parte il caso delle enormi galeazze costruite a Venezia, vascelli lenti e ingombranti che dovevano essere trainati a rimorchio nei loro ricoveri e costituivano uno sviluppo delle grandi galee mercantili usate in età medievale sulle rotte commerciali delle Fiandre e del Levante.38 La lunghezza di una galea spagnola poteva raggiungere i 40 metri, per una larghezza di soli 5 o 6: il rapporto era quindi di circa 8 a 1. Come in epoca antica, c’era un ponte rialzato, che si sviluppava longitudinalmente. Più in basso c’erano le panche dei rematori: in un’imbarcazione di questa stazza ce n’erano circa venticinque per lato, in genere pensate per ospitare cinque rematori affiancati.39 Quando la situazione lo richiedeva, venivano usate anche le vele, in genere più piccole in area veneziana e ottomana e più grandi nel Mediterraneo occidentale, forse perché qui si tendeva a navigare in mare aperto, mentre nell’Adriatico, nello Ionio e nell’Egeo le galee si spostavano per lo più di isola in isola o procedendo lungo la frastagliata linea costiera (nell’Egeo ottomano le galee coprivano una rete di comunicazione piuttosto fitta).40 Quando si ricorreva alle vele, la velocità era considerevole e poteva raggiungere i 10 o anche i 12 nodi, ma a remi la normale velocità di crociera era di appena 3 nodi, anche se poteva essere più che raddoppiata allorché si richiedeva un rapido scatto in caso di inseguimento o di fuga. Ovviamente, agli uomini non era possibile mantenere velocità elevate per lunghi lassi di tempo: un ritmo di ventisei vogate al minuto poteva essere sostenuto al massimo per una ventina di minuti. Restavano insoluti i vecchi punti deboli: le fiancate basse, incapaci di opporsi alle onde d’alto mare, e la difficoltà di fornire ai rematori acqua e cibo sufficienti senza effettuare soste frequenti.41 Entrambi i problemi venivano risolti evitando di navigare troppo al largo, fuori dal contatto visivo con la terraferma, e nelle burrasche: le galee, insomma, si muovevano ancora seguendo la costa. Se avevano il vantaggio dell’elevata manovrabilità, al punto che un equipaggio ben addestrato poteva girare la nave anche in uno spazio angusto, era proprio perché si sottraevano ai capricci dei venti mediterranei.

Gli equipaggi erano di norma un miscuglio di forzati e uomini liberi. Saperli gestire significava in primo luogo inculcare in loro l’imprescindibile importanza del lavoro di gruppo. Era prassi comune porre a sedere gli uni accanto agli altri liberi e non liberi. I primi potevano contare su vari privilegi e potevano essere usati per vigilare sui loro vicini non liberi, che in genere erano incatenati. Le flotte ottomane, in ogni caso, erano composte da una combinazione di navi, alcune con equipaggio di schiavi, altre di volontari. In un documento del XVI secolo viene menzionata una flotta di 130 navi, delle quali 40 erano affidate a rematori forzati, 60 a reclute musulmane stipendiate e altre 30 a volontari cristiani, anch’essi pagati; il documento fa peraltro notare che in tempo di guerra si aveva cura di arruolare solo uomini liberi e di religione islamica, perché erano gli unici affidabili. Le popolazioni dei villaggi erano tenute a fornire reclute e a pagare per il loro mantenimento, in ragione di un rematore ogni venti o trenta famiglie.42 A Venezia c’era la «Milizia da mar», un’agenzia fondata nel 1545 con il compito di organizzare le coscrizioni nella città lagunare e nei suoi domini. Le corporazioni e le confraternite veneziane avevano circa 4000 rematori, mentre nei registri di leva c’erano stabilmente più di 10.000 coscritti, tra i quali venivano estratti a sorte gli equipaggi delle galee.43 Sulle navi cristiane come su quelle musulmane i marinai, liberi e forzati, erano sottoposti a dura disciplina. Ovviamente era essenziale che tutti remassero a tempo e fossero in grado di reggere il peso del remo (alcune galee prevedevano remi gestiti da rematori singoli, anche se molte erano quinqueremi, dove ogni remo, enorme, era azionato da cinque uomini). Durante la navigazione le condizioni a bordo erano ben poco piacevoli: i rematori dovevano fare i loro bisogni restando seduti alla postazione, e un buon capitano si assicurava che le feci e il resto fossero sciacquati via ogni due giorni, ma nel frattempo l’aria diventava fetida. Sotto le panche e nei corridoi lo spazio dove stoccare materiale o passare, raggomitolati, la nottata era ben poco. Quando la galea veniva invasa dall’acqua e affondava, i forzati, costretti in catene, non avevano scampo: fu il destino di moltissimi uomini dei due schieramenti nella grande battaglia di Lepanto del 1571. Durante la navigazione la maggior parte dei rematori era praticamente nuda, e nelle torride estati mediterranee la disidratazione costituiva un grave problema: alcuni morivano nel loro cantuccio, ma un capitano con un briciolo di buonsenso sapeva di non potersi permettere perdite tra i rematori. Si ricorreva quindi a un sistema di turni, grazie al quale gli uomini potevano recuperare le forze. Coloro che si dimostravano più collaborativi venivano promossi a posizioni superiori nella catena di comando della nave, e potevano lasciarsi alle spalle la noia e lo squallore della vita sotto il ponte per aiutare a dare il tempo o svolgere altre funzioni vitali. In una certa misura, insomma, l’infelice quadro della vita a bordo delle galee dev’essere corretto, anche se sarebbe ugualmente sbagliato cercare di presentare il regime riservato agli schiavi, ma anche ai volontari, come un trattamento benevolo e premuroso. Regnava, infatti, una disciplina ferrea.

Sulle galee della flotta ottomana gli schiavi erano resi riconoscibili dalla testa rasata, sebbene ai forzati musulmani venisse lasciata una ciocca pendente. Avevano inoltre un anello di ferro al piede, segno della loro condizione di prigionieri. Era dunque facile identificarli anche a terra, dove trascorrevano gran parte del loro tempo. Benché i viaggi invernali non fossero rari (per portare ambascerie, compiere incursioni lampo, ecc.), d’inverno i forzati delle galee venivano per lo più lasciati a terra, impiegati in mansioni che con il mare non avevano nulla a che fare, come manodopera ausiliaria negli orti o nelle officine. Alcuni si dedicavano al commercio in proprio, un’attività teoricamente non consentita dalla legge (almeno a Venezia), ma assai utile per raccogliere il denaro con cui riacquistare la libertà. Anche durante la stagione della navigazione i forzati trascorrevano un certo tempo sulla terraferma, in attesa di ricevere l’ordine d’imbarcarsi. Per sistemarli venivano predisposti degli alloggiamenti, i bagni*, spesso anfratti o celle scavati nelle mura cittadine, a formare una zona riservata, con propri negozi e propri mercati. Le condizioni di vita nei bagni* erano tutt’al più tollerabili, spesso miserevoli: lo stupro omosessuale, per esempio, era all’ordine del giorno. Non di rado, però, ospitavano anche spazi riservati al culto, come la moschea del bagno* di Livorno o la stanza per l’ufficio liturgico cristiano nel bagno* di Algeri. In certe aree, come nel Nordafrica, la tolleranza delle diverse religioni si accompagnava alle conversioni finalizzate a ottenere la libertà: così nelle flotte degli Stati barbareschi c’erano numerosi cristiani rinnegati, spesso in ruoli di comando.44

Per consentire ai rematori di svolgere il loro duro lavoro era necessario nutrirli adeguatamente, il che imponeva approdi frequenti. Come nei secoli precedenti, le varie flotte fornivano diverse combinazioni di alimenti: sulle galee siciliane della marina spagnola, nel 1538 la razione per un rematore, o uomo della «ciurma», consisteva in circa 700 grammi al giorno di pan biscotto, oltre a 100 grammi di carne tre giorni alla settimana, sostituiti da cibo bollito (principalmente a base di vegetali) negli altri quattro giorni. A bordo delle navi che partivano dalla Spagna si dispensavano di preferenza ceci, e durante il XVI secolo l’offerta di carne andò scemando: in quel periodo, infatti, si costruivano galee sempre più grandi, mentre in tutta l’Europa occidentale il costo dei prodotti alimentari stava crescendo. Così, alla fine del Cinquecento le spese per il vettovagliamento delle galee si fecero proibitive: «Come quello del Tyrannosaurus rex, l’appetito delle galee da guerra del Mediterraneo era andato oltre la capacità dell’ambiente di saziarlo».45 Gli ingenti costi delle spedizioni di terraferma lanciate dai turchi nei Balcani e in Persia e dagli spagnoli nei Paesi Bassi (insorti sotto il figlio e successore di Carlo V, il severo Filippo II) lasciarono ben poco denaro alle flotte mediterranee delle due potenze, obbligandole allo stallo.

* In italiano nel testo.