Leggo sul dizionario Sabatini Coletti che «machiavellico» vorrebbe dire «falso» e non sono affatto d’accordo: se c’è stato un uomo che non ha mai detto una bugia costui è Niccolò Machiavelli. Che io sappia ha sempre scritto tutto quello che pensava e non ha mai finto di essere un sant’uomo. A voler essere proprio critici lo si potrebbe definire un cinico. Nel suo capolavoro, Il Principe, tenta di dare dei consigli pratici a un capo di Stato affinché possa mandare avanti la baracca alla meno peggio. Attenzione: ho detto «meno peggiore dei modi» non ho detto «migliore dei modi», proprio per sottolineare il fatto che quello del Principe è un mestiere difficile. «È indispensabile» sostiene il Machiavelli «che sia un gran simulatore, dal momento che chi è ingannato è quasi sempre disposto a lasciarsi ingannare.»1

Niccolò Machiavelli nacque nel 1469, a Firenze, e morì d’infarto nel 1527. Non aveva ancora trent’anni quando, nel 1498, pochi giorni dopo la condanna al rogo di Savonarola, venne nominato Segretario dei Dieci, carica a quei tempi molto ambita dai giovani fiorentini. In quel periodo, a Firenze, c’era ancora la Repubblica, sennonché, una volta tornati i Medici, per il povero Machiavelli cominciarono i guai. Nel 1512 venne trovata in tasca a un avversario della famiglia dominante una lista con una ventina di nomi di congiurati e tra questi, purtroppo, c’era anche quello di Niccolò. Vera o non vera che fosse la partecipazione al complotto, venne arrestato, condannato a un anno di confino e multato per mille fiorini d’oro. Poi, come se tutto questo non bastasse, fu appeso per le mani e torturato.

Una volta terminata questa terribile esperienza, si ritirò a vita privata, a San Casciano in Val di Pesa, e lì, nella quiete più assoluta della campagna toscana, non avendo niente altro da fare, scrisse, oltre al Principe, le sue opere migliori e cioè i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, le Istorie fiorentine, l’Asino d’oro, la Mandragola, la Vita di Castruccio Castracani, il Belfagor arcidiavolo, l’Arte della guerra, e la commedia Clizia. Scrisse anche alcune canzonette tra cui una intitolata Perché la vita è breve.

Era solito definirsi: «storico, comico e tragico», ma in realtà avrebbe voluto essere ricordato come poeta. In una lettera indirizzata a Ludovico Alamanni scrive:

Ho letto l’Orlando furioso dello Ariosto et veramente il poema è bello tutto, et in molti luoghi è mirabile. Se si trova costì, raccomandatemi a lui, et ditegli che io mi dolgo solo che, havendo ricordato tanti poeti, mi habbi lasciato indietro come un cazzo.2

A sottolineare la vena poetica e teatrale del Machiavelli sono soprattutto l’Asino d’oro, un poema di oltre mille versi, e la Mandragola, una commedia dove una bella donna, che non può avere figli dal marito, viene convinta a tradirlo con uno stratagemma. Le si dice: «Tu prima farai bere a un uomo che noi ti presenteremo un decotto miracoloso (la mandragola) e poi farai l’amore con lui. Dopodiché lui morirà e tu avrai il figlio che tanto desideri».

Mah? Tutta questa messa in scena solo per portarsela a letto mi sembra alquanto esagerata! Resta il fatto, però, che, a sentire le malelingue, Machiavelli sarebbe stato un grande sciupafemmine. Citando Boccaccio, era solito dire: «Meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi lo stesso». Ebbe molte amanti, tra cui la Riccia, la Maliscotta e la Barbara Raffacani Salutati. E, sempre in tema di sesso, ecco alcuni versi tratti dal suo poema l’Asino d’oro.

...a lei mi accostai

stendendo fra lenzuol la fredda mano.

E come poi le sue membra toccai

un dolce sì soave al cor mi venne

quand’io credo non gustar giammai.

Non in un loco la man si ritenne,

ma, discorrendo tutte le membra sue,

la smarrita virtù tosto rinvenne.

Insomma, non si deve credere che fosse unicamente dedito al suo lavoro di studioso e di scrittore. Gli piaceva anche fare il perdigiorno, «uccellare» con le donne e «ingaglioffirsi» con gli uomini. Questi due verbi facevano parte del suo modo di parlare.

Ecco qui di seguito una giornata del Machiavelli raccontata da lui medesimo in una lettera inviata a Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede:

Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante, o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili; leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori… Transferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, domando delle nuove de’ paesi loro… Vienne in questo mentre l’hora del desinare… Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai. Con questi io mi ingaglioffo per tutto il dì giocando a criccha, a triche-tach.

E finisce dicendo:

Venuta poi la sera, torno in casa et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto... e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte.

Fondamentale, però, per il Machiavelli l’incontro con Cesare Borgia. E qui occorre riepilogare vita morte e miracoli di una delle famiglie più rappresentative del nostro Rinascimento.

Cominciamo con il bisnonno: Alonso Borja, in arte Callisto III. Il suo papato durò appena tre anni, sufficienti, però, per nominare come suo successore il nipote Rodrigo, ovvero il famoso Alessandro VI. Ebbene, se si facesse una gara fra tutti i Papi per stabilire chi è stato il più dissoluto non ci sarebbero dubbi: vincerebbe Alessandro a mani basse. Appena eletto Papa, sfruttò il soglio per sistemare i suoi quattro figlioli, Giovanni, Cesare, Lucrezia e Gioffredo, tutti avuti da donne diverse. Quindi si costruì un harem su misura, nel quale sembra figurasse anche la figlia Lucrezia. «Questo uomo» si diceva di lui «ha nel medesimo tempo un grande talento e un’altrettanta grande cattiveria: è come una spada nelle mani di un pazzo.»

Lucrezia, a sua volta, sempre per ragioni di potere, fece fuori uno dopo l’altro tre mariti, il secondo dei quali soffocato con un cuscino mentre stava dormendo. Bella e affascinante come nessun’altra donna di quel periodo, era quanto di più pericoloso si possa immaginare. Andarci a letto significava volersi suicidare. E anche lei, salute a noi, scese nella tomba a soli trentanove anni.

Non parliamo poi del giovane Cesare, il famigerato duca Valentino. Nel giro di pochissimi anni tutti quelli che ebbero la sfortuna d’incontrarlo fecero una brutta fine. Cito a memoria, così come mi vengono in mente, i principi di Forlì e di Imola, Vitellozzo Vitelli, Pandolfo Malatesta, Astorre Manfredi, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini, Guidobaldo da Montefeltro e tanti altri che al momento mi sfuggono. Chi ucciso in battaglia, chi annegato nel Tevere, chi a casa sua, chi strangolato da un sicario e chi avvelenato mentre stava celebrando la propria festa di compleanno. Nessuno, dico nessuno, che sia riuscito a raggiungere la vecchiaia.

Ebbene, cosa ne pensò Machiavelli di un individuo simile? Niente di male per carità. Quel modo di agire, a suo giudizio, era l’unico in grado di mettere in piedi uno Stato sovrano in Italia. «Tanto è vero» precisò «che ha unito la Romagna facendola diventare un paese tranquillo che ora vive in santa pace.» Non è così importante, aggiungeva, che il Principe sia leale, magnanimo e rispettoso della religione, ma che tale appaia agli occhi dei sudditi. Come dire che «il fine giustifica i mezzi». Anche se, a quanto pare, questa frase il Machiavelli non l’ha mai pronunciata: gli fu solo attribuita da un gesuita del Settecento in segno di disprezzo. Certo è che quando fu istituito l’Indice dei libri proibiti, il suo Principe figurò in cima alla lista, come opera, secondo un cardinale, scritta con il «dito del diavolo».

1 Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII.

2 Per saperne di più, si consiglia di leggere il saggio di Lucio Villari intitolato Niccolò Machiavelli, Piemme.