5. Filosofia e scienza in Leonardo da Vinci

di Giorgio Stabile

5.1 Un uomo “sanza lettere”

La grandezza di Leonardo da Vinci (1452-1519) è stata quella di aver riassunto e reinterpretato in una sintesi non sistematica, ma aperta, quello che alle soglie del Cinquecento era ormai un accumulo di esperienze maturate da secoli nel mondo delle cosiddette arti meccaniche o “illiberali”. Nella sua opera troviamo un mondo variegato di pratiche tecniche, di tradizioni corporative e artigiane, di attività di cantiere e di bottega, certamente diffuse e in crescente sviluppo sotto la spinta della civiltà urbana, e tuttavia ancora prive di un linguaggio tecnico comune e, ancor più, di una consapevole riflessione teorica attorno ai propri fondamenti.

L’incontro di Leonardo con le macchine è l’incontro di un “omo sanza lettere” che, uscito non dalle accademie ma dal laboratorio di una bottega d’arte, muove i primi decisivi passi verso la legittimazione teorica delle arti meccaniche, tentandone una prima fondazione dall’interno, meditando sia sui classici della geometria e dell’ingegneria antica, Euclide e soprattutto Archimede (cercati e studiati già dagli architetti e dai curiosi di macchine del Quattrocento), sia sulla filosofia platonica di Luca Pacioli (1445 ca.-1517 ca.) e dell’ambiente fiorentino.

Artigiano e ingegnere

Le indagini di storia della tecnica fanno emergere un panorama sempre più ricco e complesso intorno a Leonardo, tanto che risulta difficile valutare se certi suoi progetti siano vere e proprie invenzioni o rivisitazioni di qualcosa che esisteva già. Il recupero di album da disegno, lo studio sistematico dei “teatri di macchine”, il confronto tra le varie documentazioni rendono infatti sempre più problematica la datazione o l’attribuzione certa di un’invenzione.

L’artigiano e l’ingegnere, prima che inventare, copiano e imitano e, secondo una linea costante nel Cinquecento, danno prova del loro ingenium meccanico combinando congegni e parti di macchine secondo la retorica dell’artificio, del “macchinoso”, in esatta opposizione alla semplificazione razionale della meccanica moderna.

Leonardo fissa nella memoria della pagina per accumulo casuale quegli arnesi, argomenti, dispositivi o macchine che gli capita di trovare (inventio) e che possono prestarsi, con opportuni aggiustamenti, ai casi futuri. L’ingegnere fa tesoro di questa memoria accumulata, pronto a cercare in questo catalogo di esempi quello che meglio si presta al caso concreto. Egli incrementa il proprio catalogo di esperienze, raccontate in disegno piuttosto che dimostrate o misurate. La genialità di Leonardo risiede nella molteplicità di proposte tecniche che egli è in grado di suggerire e a cui i suoi tempi non sono ancora in grado di rispondere.

Leonardo artista e ingegnere

A bottega dal Verrocchio

Leonardo da Vinci comincia la sua carriera a Firenze come apprendista presso la bottega di Andrea del Verrocchio e la conclude come ingegnere e pittore al servizio del re di Francia Francesco I. La sua maturazione intellettuale sul piano scientifico si completa con il tentativo di elaborare una nuova meccanica a partire da un’integrazione tra i teoremi dei filosofi e le esigenze costruttive degli artigiani.

Nella bottega del Verrocchio, Leonardo si afferma come pittore e apprende tutti i segreti che costituiscono il bagaglio tecnico di un abile artigiano. Il primo riferimento di un interesse di carattere tecnico da parte di Leonardo si ha in occasione della realizzazione e messa in opera, da parte del Verrocchio, dell’enorme sfera di rame che sovrasta la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1472. Da un riferimento più tardo alla tecnica utilizzata per la saldatura delle enormi lastre di rame che costituiscono la sfera, attraverso specchi ustori e macchine progettate da Filippo Brunelleschi, veniamo a conoscenza della presenza nel cantiere dell’Opera del duomo del giovane Leonardo.

Gli anni milanesi

Nel 1482 Leonardo lascia Firenze per trasferirsi a Milano al servizio di Ludovico il Moro, dove rimane per quasi vent’anni. Il periodo milanese è caratterizzato, oltre che dall’attività pittorica (Cenacolo, Vergine delle rocce, Dama con l’ermellino), anche dai preparativi per la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza, che, però, a causa dell’invasione francese di Milano, non viene portato a termine. Sempre in questi anni Leonardo si impegna anche in studi di natura tecnologica e architettonica. Intorno al 1487 sembrano risalire i suoi disegni relativi alla città ideale a due livelli, così concepita per far fronte ai problemi di sovraffollamento urbano. Le città devono essere progettate secondo un’organizzazione razionale degli spazi, separando le aree destinate all’attività produttiva e commerciale dagli spazi destinati alla vita sociale. Durante questo periodo formula anche il progetto di un trattato sull’acqua, che per Leonardo costituisce una premessa necessaria per la risoluzione di problemi di carattere idraulico, come la costruzione e la manutenzione dei canali.

Con l’invasione francese del 1499 Leonardo abbandona Milano insieme all’amico e maestro Luca Pacioli, che lo aveva introdotto allo studio della matematica e della geometria. Dopo aver soggiornato a Venezia e a Firenze, nel 1502 entra al servizio di Cesare Borgia come ingegnere militare. Per lui esegue rilievi topografici e piante di città e regioni dell’Italia centrale, come lo splendido disegno della pianta di Imola. Nel 1503 è nuovamente a Firenze, dove offre prestazioni di consulenza e assume incarichi ingegneristici nella guerra contro la città di Pisa, proponendo alla magistratura fiorentina uno studio per la deviazione del corso dell’Arno così da tagliare fuori dal corso del fiume la città nemica (progetto che poi risulterà inattuabile).

LETTURE

Il sapere anatomico da Mondino de’ Luzzi a Leonardo da Vinci

Nel 1508 torna nuovamente a Milano, per entrare al servizio, con la qualifica di “peintre et ingénieur ordinaire”, del governatore francese, per il quale studierà il sistema idrico lombardo. Dal 1513 al 1516 è a Roma, dove alterna gli studi di anatomia a progetti di carattere idraulico per la bonifica dell’Agro Pontino e per il porto di Civitavecchia. Nel 1516 Leonardo si trasferisce in Francia, alla corte di Francesco I, al servizio del quale resterà fino alla morte.

Andrea Bernardoni

5.2 Artificio, inventiva e utopia

Certamente in Leonardo si trovano esaltate al massimo, e dispiegate con maestria, le doti comunemente richieste a un ingegnere o un architetto dell’epoca. L’architetto non è solo chi disegna o progetta manufatti e fortificazioni, ma anzitutto è il capocantiere in senso forte, colui che “comanda le attività del costruire” nella totalità delle competenze che il costruire in cantiere comporta.

Leonardo, sulle pagine dei suoi codici, riflette e riassume la somma di attività tecniche delle diverse corporazioni operaie e artigiane, molte delle quali convivono assieme nell’impresa di cantiere. Così come richiesto a un ingegnere, Leonardo interviene per risolvere problemi e suggerire soluzioni, che egli detta con genialità incomparabile in tutti i campi della tecnica e delle costruzioni, dall’ingegneria civile e idraulica a quella militare, dalla meccanica di precisione alla progettazione di macchine utensili o di cantiere. Di qui il dispiegamento di una quantità di proposte tecniche come la macchina automatica per incidere lime o molare gli specchi, il laminatoio per profilati conici, la macchina filatrice con meccanismo per la torcitura, meccanismi per la fresatura e l’alesaggio, sistemi antiattrito e per la compensazione dell’usura degli alberi. Proposte tecniche che in molti casi, per l’epoca, vanno al di là della possibilità della loro materiale realizzazione. La macchina nell’età preindustriale è un prototipo che nasce ogni volta nel luogo e per la specifica funzione cui è destinata, legata alla natura dei materiali disponibili e alle usanze locali, e che pone limiti in termini di invenzione e innovazione. Perciò, rispetto alle condizioni oggettive e alla tradizione tecnica assestata su queste condizioni, a Leonardo non rimane che innovare per via di artificio inventivo o di utopia.

Ottica, prospettive e teorie della visione

Le teorie ottiche: l’eredità greca e araba

Il Rinascimento eredita una lunga tradizione di studi sull’ottica, di carattere filosofico, matematico e sperimentale. L’ottica geometrica raggiunge importanti risultati nella scienza greca e in quella araba.

I Greci elaborano varie teorie della visione. La visione avviene tramite un processo secondo il quale i raggi visivi sono emessi dall’occhio e “catturano” l’oggetto; oppure grazie alla trasmissione di immagini emesse dagli oggetti che entrano nell’occhio dell’osservatore; o ancora per contatto: la visione è prodotta da un mezzo (l’aria) attraverso il quale si ha il contatto tra l’oggetto e l’occhio.

Gli arabi assimilano le teorie greche della visione, fornendo originali contributi con Alhazen (965-1039), cui si deve una nuova teoria della visione, basata sul principio dell’intromissione. Alhazen descrive il meccanismo della visione in termini geometrici: i raggi che da ciascun punto dell’oggetto raggiungono l’occhio formano una piramide o un cono avente come base l’oggetto e il centro dell’occhio come vertice. In questo modo i raggi riproducono la forma dell’oggetto.

Luce e colori

Nel Cinquecento la propagazione della luce è ancora generalmente spiegata in base alla teoria della propagazione delle immagini sensibili (species) a partire dagli oggetti colpiti dalla luce. Francesco Maurolico (1494-1575) propone una teoria alternativa, secondo la quale da ogni punto del corpo luminoso (e del corpo illuminato) partono infiniti raggi rettilinei, capaci di illuminare, di riflettersi e di rifrangersi.

La teoria dei colori, nel Cinquecento, diventa oggetto d’indagine di filosofi e di artisti che cercano di stabilire rapporti quantitativi tra i colori semplici e quelli composti. Per spiegare come riconosciamo i diversi colori si adotta generalmente l’idea che esista una scala in cui i colori si dispongono – in base alla loro differente luminosità – tra i due estremi, costituiti dal bianco e dal nero. Non mancano tuttavia alcune significative innovazioni. Leonardo da Vinci individua sei colori semplici e stabilisce una relazione tra colori e elementi, espressa nel Codex Urbinas: il bianco è dato dalla luce, senza la quale nessun colore può essere visto, il giallo dalla terra, il verde dall’acqua, il blu dall’aria, il rosso dal fuoco e il nero dalle tenebre che sono situate sopra l’elemento del fuoco.

Prospettiva

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Ottica, prospettiva,teoria della visione

Nel medioevo, la perspectiva è la scienza che studia la percezione visiva, e indica anche lo studio delle tecniche (basate sulla geometria euclidea) per determinare la grandezza o la distanza di un determinato oggetto. Dal Quattrocento in poi, si parla di perspectiva naturalis per indicare l’ottica o la scienza della visione, di perspectiva artificialis per indicare la tecnica di simulazione, su un piano bidimensionale, dello spazio tridimensionale, attraverso l’applicazione di regole per la diminuzione della dimensione degli oggetti in funzione della distanza.

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Filippo Brunelleschi e la prospettiva

L’introduzione della “prospettiva” è dovuta a Filippo Brunelleschi e Masaccio, mentre è oggetto di trattazione teorica nel De

pictura di Leon Battista Alberti, composto nel 1435. Il trattato che maggiormente influenza gli sviluppi successivi della prospettiva è il De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, terminato intorno al 1474. Quello di Piero è il primo trattato interamente dedicato alla prospettiva ed è corredato di disegni esplicativi. Piero è un esponente di quel ceto medio di artigiani e artisti educati nelle scuole d’abaco (rivolte alla formazione tecnica e basate sullo studio della matematica e della geometria) e rivela non comuni conoscenze matematiche. Il trattato di Piero sulla prospettiva è un manuale a uso dei pittori: contiene una raccolta di esercizi prospettici, ciascuno accompagnato da una figura che mostra il suo procedimento costruttivo. È attraverso l’uso della proporzione di triangoli simili che Piero realizza la riduzione prospettica: nella prospettiva lineare, il piano pittorico interseca la piramide formata dai raggi visivi, il cui vertice è l’occhio dell’osservatore e la cui base l’oggetto da rappresentare. Nella prospettiva centrale con un solo punto di fuga, tutte le perpendicolari al piano pittorico devono convergere in un unico punto di fuga, mentre le parallele devono succedersi l’una dopo l’altra ad intervalli progressivamente e proporzionalmente più ridotti.

Contributi originali alla prospettiva lineare provengono da Leonardo da Vinci, che prende in esame i mutamenti che si hanno quando mutano le posizioni relative dell’oggetto, del piano pittorico e dell’osservatore. A Leonardo si devono anche i primi studi della prospettiva aerea, che determina le variazioni di intensità luminosa e di gradazioni di toni in rapporto alle distanze e alla posizione della sorgente luminosa (come nel celebre dipinto della Vergine delle rocce).

Le innovazioni introdotte in Italia sono adottate e perfezionate oltralpe: nel 1525 esce, a opera di Albrecht Dürer, un manuale di geometria per i pittori. Dürer vuol fare della prospettiva una tecnica realmente alla portata degli artisti e per questa ragione inserisce alla fine del suo trattato la descrizione di alcuni strumenti meccanici che consentono di rappresentare in prospettiva un oggetto, come il “velo”, dispositivo ideato da Alberti come ausilio per il pittore. Questo strumento, che Alberti descrive nel De pictura, consiste in un reticolo di fili fissato su un telaio attraverso il quale il pittore vede l’oggetto da raffigurare. La griglia formata dai fili costituisce un comodo sistema di riferimento, per trasferire ogni punto individuato dall’incrocio delle maglie su un foglio ugualmente quadrettato.

Antonio Clericuzio

Organicismo e astrazione geometrica: due visioni della macchina

Nel disegno di macchine convivono in Leonardo le sue esperienze di anatomista, di insaziabile indagatore della natura organica, e di ingegnere speculatore di meccanica e di geometria. La sua maestria di pittore e disegnatore si risolve in una straordinaria capacità di rendere il messaggio visivo. Leonardo sa che l’artigiano realizza a occhio e con sguardo d’assieme. Egli non disegna gli edifici o le macchine sotto forma di progetto (in pianta, prospetto e lato, o scomponendone le parti), ma conserva organicamente l’insieme, scegliendo il punto di vista che offra il massimo d’informazione, cioè la veduta di scorcio e in assonometria, con un eccellente dominio della prospettiva.

LETTURE

La cultura delle macchine:principi, ingegneri, umanisti

Come per un corpo vivente, ritrarre una macchina significa riprodurre la sua unità organica, compresi i suoi più minuti connotati, anche se meccanicamente irrilevanti. La macchina non è ancora modello di serie, ma un individuo di una specie di cui vanno definiti non solo i tratti specifici, ma anche la realtà fisica, gli attributi individuali. Di essa Leonardo non dà quasi mai misure, inutili nel variare babelico di sistemi e linguaggi metrici locali.

Le misure vanno calcolate a occhio, ricavandole per proporzione dal modello, la cui integrità è indispensabile per collocare ogni membro nel tutto e ricavarne la proporzione per via di rapporti, mediante il canone di proporzioni. L’atlante di macchine è del tutto simile a un atlante di anatomia, come emerge bene dal muscolarismo antropomorfico ed erculeo delle sue macchine belliche. Ma Leonardo speculatore di meccanica e di geometria sa dare alla forma anche l’eidos, la forma essenziale della macchina, la struttura fine e soggiacente del suo schema geometrico. Con grande economia grafica, Leonardo specializza il suo disegno a due livelli, a seconda che ritragga corposamente la macchina come realtà fisica, nei suoi attributi materici, o che miri all’astrazione del suo schema geometrico, smaterializzandola in un tratto fine e omogeneo. L’astrazione e la generalizzazione delle forme sono volte alla determinazione delle condizioni costanti e assolute della macchina, agli aspetti deducibili solo per via di analisi mentale.

Leon Battista Alberti: filosofo e architetto

La travagliata biografia e il contesto storico in cui si colloca Leon Battista Alberti (1404-1472) sono fondamentali per comprenderne la produzione. Da un lato egli assorbe, nelle sue lunghe peregrinazioni, le diverse anime dell’umanesimo, conoscendo tutti i suoi più importanti esponenti, tra Bologna, Firenze e Roma (Filelfo, Panormita, Bruni, Bracciolini, Biondo, Valla ecc.); dall’altro la sua estrazione borghese e mercantile fiorentina, che lo induce ad accostarsi ai temi dell’umanesimo civile, rende problematico il suo rapporto con i regimi principeschi e autocratici italiani. Alberti è sospeso tra una vocazione civile e cittadina e una condizione cortigiana necessitata dalla storia e dalle sue personali vicende.

L’opera dell’Alberti moralista

Alberti dà vita a una produzione vasta, stravagante, difforme: in latino e in volgare, dialogata e trattatistica, tecnica e speculativa, seria e giocosa, amorosa e misogina, occasionale e sistematica. Da un lato egli opera calchi testuali da autori antichi (Cicerone, Seneca, Aristotele, Senofonte, Luciano ecc.), dall’altro preannuncia temi e toni della più importante letteratura moralistica moderna, da Erasmo a Bruno, da Rabelais a Montaigne.

Probabilmente l’opera albertiana tra le più originali e travagliate nella composizione e nella fortuna è costituita dalle Intercoenales, la cui stesura ha inizio negli anni Venti per protrarsi fino agli anni Quaranta, e la cui diffusione è stata frammentaria e probabilmente sotterranea: si tratta di componimenti latini dal carattere conviviale e dalla forma oscillante tra la narrativa e il dialogo. Raccolte in 11 libri e dedicate a diversi amici dell’autore, esse mettono in scena vizi e virtù, tipi umani e allegorie, incarnati ora da divinità, ora da personaggi storici o mitologici, ora da personificazioni o animali. Alternando i registri della favola, del dialogo morale, del paradosso, dell’apologo, Alberti dà vita a un’opera aperta da cui emerge una visione del mondo e dell’uomo profondamente pessimistica e improntata a scetticismo e amara ironia: la società è dominata, più che da virtù e razionalità, dal gioco delle maschere e delle apparenze.

Quasi un capovolgimento stilistico, di toni e contenuti, si riscontra invece nei celebri Libri della Famiglia, dialogo volgare in quattro libri composto tra il 1433 e il 1436. Alberti adotta un approccio teorico e pragmatico ai problemi della società in cui vive, affrontando questioni che vanno dal matrimonio alla sessualità, dalla

paternità alla pedagogia, dall’igiene alla gestione della “masserizia”, dall’arricchimento all’amicizia, dagli stili di vita alle relazioni politiche. Il tutto in un quadro teorico stoicheggiante in cui è recuperato il valore umanistico della virtù razionale e della vita attiva, atte a contrastare le avversità, e in cui si afferma l’interdipendenza degli interessi individuali, familiari e sociali.

Di poco più tardo (intorno al 1440) è il Theogenius, dialogo in volgare in due libri, che tuttavia nuovamente ribalta l’orientamento della Famiglia, traendo a modello un “eroe” cinico-stoico, Genipatro, esaltato dal protagonista narrante, Theogenius, che si ritira a sua volta dalla vita cittadina per il venir meno della “facile fortuna”. Il rovesciamento della Famiglia è radicale: le avversità sono costanti, e l’animo umano può reggerle soltanto ritirandosi dalla vita attiva nella contemplazione della natura e nel dialogo letterario con i sapienti; l’uomo è naturalmente malvagio, e la sua intelligenza serve soltanto a renderlo peggiore delle bestie. Antisociale dunque, e misantropico, il dialogo si apre sulla quiete della villa, dove Theogenius, al riparo dalle tempeste politiche, compone ragionamenti sulle vicissitudini della repubblica cittadina da cui si è allontanato: nel contesto fiorentino dell’ascesa medicea alla signoria, Alberti vede un decadimento e una corruzione dettati dalla “seconda fortuna”, una negazione irreparabile di quella operosa partecipazione alla cosa pubblica che l’umanesimo civile aveva innalzato a modello morale e politico.

Il Momus

I ragionamenti pessimistici sulla repubblica evocati da Theogenius-Alberti riemergono, assumendo una forma inattesa, un decennio più tardi, quando Alberti si trova a confrontarsi in modo critico, nella posizione di curiale-cortigiano, con il progetto di accentramento del potere politico da parte del papa Niccolò V. Tale critica si esprimerà in un capolavoro letterario, il lungo romanzo mitologico allegorico intitolato Momus seu de principe (Momo ovvero sul principe, 1450 circa). Momo è il dio della critica, e assume qui i tratti distruttivi del buffone di corte, del Catilina, del Prometeo e addirittura dell’Anticristo apocalittico, per mettere a repentaglio l’ordine del mondo convincendo il “tiranno” Giove a distruggere il mondo per costruirne uno nuovo secondo i disegni dei migliori filosofi – progetto che, com’è ovvio, fallirà miseramente. Il romanzo è un’opera allegorica che rispecchia un duplice livello di senso, insieme cosmico e politico, offrendo una visione quanto mai desolata della condizione umana e del potere e della sua spietata indifferenza verso l’uomo.

Stefano Simoncini

5.3 Dalla tecnica alla meccanica come scienza

Ricercare l’originalità inventiva di Leonardo solo nella capacità di immaginare e creare macchine nuove o diverse finisce per falsare il senso della novità del suo apporto. La sua vera originalità è proprio quella di essere nello stesso tempo un artigiano e un teorico di meccanica e di geometria; in modo mai prima tentato Leonardo unisce insieme pratica ed esperimento in vista di una teoria delle macchine, che diventa anche teoria della natura, teoria fisica.

In quel tempo l’artigiano acquisisce le proprie abilità manuali per imitazione ripetuta degli atti e conforma le proprie operazioni e procedure a un sistema di regole acquisite sotto forma di precetti e segreti del mestiere. Egli sa ripetere per uso abitudinario e irriflesso i semplici precetti e sa attuarli di fatto, ma non sa darne una ragione necessaria e tanto meno una teoria. Leonardo invece passa dalla condizione di artigiano e ingegnere a quella di scienziato, meditando sulle condizioni di lavoro delle macchine e delle procedure artigiane. Egli ricerca la necessità delle ragioni che fondano il precetto, cioè le leggi universali e necessarie che sottostanno alle regole pratiche e irriflesse.

La genialità inventiva di Leonardo non sta dunque nella sua capacità “estensiva” di trovare congegni, quanto piuttosto in quella “intensiva” e analitica di meditare sugli elementi della macchina e scoprire le ragioni del loro funzionamento. Leonardo non complica, ma scompone e semplifica le macchine, selezionandone gli organi alla ricerca di una prima grammatica degli elementi che le compongono e di una loro prima teoria. La visibilità e l’analisi geometrica delle parti diventano un requisito indispensabile dell’intelligenza scientifica, come principale via alla scoperta di regole generali. Regole che egli individua in una geometria delle forme e nella proporzione dei pesi e delle forze, accertabili razionalmente attraverso le dimostrazioni matematiche.

Il primato delle scienze matematiche

ESERCIZIO

E5: Salutati, Valla, Leonardo

Per Leonardo la meccanica rappresenta “il paradiso delle scienze matematiche”, poiché è nel giardino fecondo della meccanica che si gusta a pieno il frutto della matematica, sia come conoscenza delle ragioni ultime e dei fondamenti, sia come scienza produttrice dei principi del costruire. Solo chi sa conoscere sa fabbricare; conoscere però è anche sperimentare, vale a dire spiegare le ragioni di un’esperienza. E per Leonardo le ragioni sono quelle matematiche, possedute le quali si possiede la stessa legge della natura. Con il primato della spiegazione matematica prende avvio quel processo di trasformazione delle arti in tecnica e della tecnica in scienza che troverà sbocco in Galilei e nella nascita della fisica moderna. E poiché per Leonardo tra macchina e natura c’è analogia di struttura e, dunque, comunanza di leggi, non rimane che riconoscere che la stessa natura è meccanica. L’indagine dell’ingegnere finisce così per coincidere con quella del fisico e dello scienziato. Solo che per Leonardo l’aspetto meccanico e matematico delle cose non è ancora esclusivo; se la macchina è lo scheletro della natura, alla natura rimane tuttavia la carne, la concreta bellezza dell’ornato. Se l’universo mentale delle ragioni è ormai dominio dello scienziato, all’artista rimane quello delle forme concrete che restano, per Leonardo, il tesoro nascosto e inesauribile della natura.

Le meravigliose macchine: l'eredità leonardesca

L'opera Le diverse et artificiose macchine (Parigi, 1588) di Agostino Ramelli è un ricco repertorio di immagini che descrivono macchine e vari dispositivi meccanici, tra i quali ruote per mulini a vento, leve per il sollevamento di oggetti pesanti e la celebre “ruota dei libri”.

Jacques Besson (1500 ca. - 1569), matematico e meccanico, è autore di Théâtre des instruments mathématiques et méchaniques, che in 60 bellissime tavole riproduce strumenti e macchine, tra le quali è assai notevole un tornio per tagliare viti cilindriche e coniche.