3. Friedrich Wilhelm Nietzsche

di Giuliano Campioni

3.1 Il giovane Nietzsche

Nietzsche nasce a Röcken, villaggio della Sassonia prussiana, il 15 ottobre del 1844. Il padre, Karl Ludwig, pastore protestante, e la madre Franziska Oehler – anche lei, come il marito, figlia di un pastore – abitano nella canonica con i figli Friedrich, Elisabeth e il piccolo Joseph fino a quando, nel luglio del 1849, una malattia diagnosticata come “rammollimento cerebrale” non conduce Karl Ludwig alla morte. Dopo la traumatica perdita, Franziska e i figli si trasferiscono a Naumburg, dove Nietzsche trascorre parte dell’infanzia e riceve la prima istruzione classica e musicale.

Della fanciullezza di Nietzsche rimane molto materiale postumo: disegni, drammi, poesie, poemi, composizioni musicali, riflessioni autobiografiche e critiche sui più vari argomenti. Il giovane subisce il forte fascino delle figure di eroi di primitiva e selvaggia grandezza che caratterizza, nei suoi scritti, con il termine “sovrumano” e con metafore che esprimono vigore animale. Intorno alle figure degli eroi, con la predilezione delle saghe nordiche, si unifica l’attività multiforme del giovane, sorretta da un’analisi critica, storica e filologica. In particolare, Nietzsche si occupa a lungo della prima figura della storia germanica, il re degli Ostrogoti Ermanarico, alla cui leggenda dedica alcune composizioni poetiche, abbozzi di una tragedia e un poema sinfonico.

Nell’ottobre del 1858 Nietzsche ottiene un posto gratuito nella rigorosa scuola di Pforta dove sono coltivati in particolare gli studi di latino e greco che lo avviano al mestiere di filologo. Gli impulsi verso la libertà dalla tradizione e dalla fede sono nutriti da letture dedicate a figure prometeiche e addirittura sataniche: dal Manfred di Byron ai Masnadieri di Schiller, dal Prometeo di Goethe all’Empedocle di Hölderlin. Matura sempre di più la ribellione radicale alle tradizioni familiari, alla severa e ristretta fede luterana ereditata da generazioni di pastori.

Nei primi saggi filosofici dell’aprile 1862 (Fato e storia e Libertà della volontà e fato), si avverte la crisi della fede tradizionale cristiana – considerata una scelta di debolezza, “un’incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino” – e la necessità che il cammino dell’umanità trovi nella storia e nella scienza guide sicure. Temi feuerbachiani s’intrecciano a suggestioni derivate dal filosofo e poeta statunitense Ralph Waldo Emerson (1803-1882), privilegiato interlocutore per tutto il percorso di Nietzsche. Il tema è il dominio del passato da parte della volontà umana, determinata e nello stesso tempo attiva: “la volontà libera non è nient’altro che il potenziamento supremo del fato”.

Gli studi universitari

Congedatosi da Pforta con un lavoro sul poeta greco Teognide, dal 1864 Nietzsche frequenta l’università di Bonn. Dapprima iscritto a teologia, per compiacere la madre, si dedica poi agli studi filologici. Già in questo periodo, accanto all’intensa frui-zione artistica della musica e del teatro, la filologia acquista un’importanza decisiva contro il “vagabondare senza meta in tutti i campi dello scibile”. Nietzsche si occupa dell’aspetto filologico della critica dei Vangeli, legge La vita di Gesù di David Strauss e mette definitivamente in crisi i fondamentali della fede dogmatica: “A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga”, come scrive alla sorella. La musica resta interesse centrale per Nietzsche che vorrebbe conciliare la ricerca filologica con l’attività di critico musicale.

Dall’ottobre 1865 Nietzsche si trasferisce all’università di Lipsia: si apre il periodo in cui esercita in modo sempre più sicuro il mestiere di filologo, occupandosi tra gli altri di Teognide, Omero ed Esiodo, con validi risultati. I suoi appunti mostrano come per lui la filologia sia una via privilegiata verso la filosofia. I suoi lavori sulle fonti di Diogene Laerzio (“il goffo guardiano di tesori di cui non conosce il valore”) stanno alla base di scritti come la Filosofia nell’epoca tragica dei greci, in cui la storia della filosofia greca è presentata da Nietzsche come storia di singolari personalità.

Nietzsche valorizza nei filosofi presocratici la lotta contro il mito, la posizione favorevole alla scienza e alla conoscenza contro le religioni del tempo. In loro trova le possibilità di una vita superiore che sa fare a meno del mito che limitava la pólis: ciò vale in particolare per Democrito, “l’uomo più libero”, che per primo ha creduto alla scienza come “principio di vita”, e che paga con l’infelicità la sua “passione della conoscenza”, un impulso al sapere libero da ogni teologia e teleologia. Accanto a Democrito Nietzsche valorizza anche la figura di Eraclito, che afferma l’innocenza del divenire, considerando il mondo come “il gioco dell’artista e del fanciullo”.

Il rapporto con Schopenhauer

La pratica filologica si accompagna in questi anni alla profonda ammirazione per la filosofia di Schopenhauer, maestro di saggezza e di vita. Benché giunga ben presto a criticarne la metafisica, Nietzsche considera Schopenhauer il “filosofo più vero”, capace di “uno stile”, espressione “di una Germania rigenerata” e nemico della filosofia universitaria, il cui pensiero permette una considerazione estetica dell’antichità, patrimonio di pochi, contro un approccio meramente storico, proprio dei “dotti”. Ciò riflette il duro giudizio di Nietzsche sugli studi filologici della sua epoca, sulla loro confusione metodica, sulla loro angustia e incapacità di cogliere lo spirito dell’antichità. La validità dei lavori filologici di Nietzsche induce il filologo Friedrich Ritschl a procurargli una cattedra all’università di Basilea dove tiene la prolusione su Omero e la filologia classica, proponendo una nuova pratica della filologia fondata sulla filosofia schopenhaueriana.

3.2 Dalla metafisica dell’arte al distacco da Wagner

LETTURE

Richard Wagner

Nel 1872 Nietzsche pubblica La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Ovvero: grecità e pessimismo, in cui propone un nuovo approccio al mondo greco, e nello stesso tempo si schiera con il musicista Richard Wagner per la rinascita della cultura tragica e della società tedesca. Il tema filologico (la nascita della tragedia e la sua morte) è quasi travolto da una più generale prospettiva metafisica, nella quale Nietzsche inquadra l’intero pensiero occidentale a partire da Socrate che, con il suo razionalismo e il suo ottimismo, è considerato il principale nemico del tragico. L’ottimismo socratico ha infatti affermato il valore dell’illusione fenomenica, ha portato la distruttiva riflessione del singolo nella bella comunità greca; Socrate, cioè, ha contribuito al dissolversi di quell’unità del singolo col tutto, unità che la tragedia greca consentiva di raggiungere permettendo all’individuo di uscire dallo schopenhaueriano “principio di individuazione” e di farsi tutt’uno con la natura – e proprio in questa sorta di “estasi” consiste l’importanza del tragico. Sullo sfondo di questa sua concezione c’è la contraddizione teorizzata da Schopenhauer tra l’unità metafisica originaria e l’individuazione fenomenica (l’apparenza): questa contraddizione rappresenta una vera e propria colpa, che ha bisogno per Nietzsche di una redenzione estetica.

Apollineo e dionisiaco

All’origine di questa contraddizione troviamo, secondo Nietzsche, l’opposizione di due elementi all’interno della natura, l’elemento dionisiaco e quello apollineo. Apollo divinizza il principio di individuazione, della forma, della bella apparenza; incarna un principio di armonia e di equilibrio, che si ritrova soprattutto nell’architettura e nella scultura greca; è una sorta di “sogno”, che libera dalla sofferenza. Dioniso è invece l’espressione immediata della forza primitiva che abbatte l’individuo e lo riassorbe nell’unità originaria. Egli riproduce continuamente la contraddizione come dolore dell’individuazione, ma la risolve in un piacere superiore in quanto l’individuo stesso partecipa della sovrabbondanza dell’uno originario. Sua espressione tipica, nella grecità, sono i culti orfici e orgiastici.

ESERCIZIO

E14: Nietzsche

In realtà, infatti, Dioniso e Apollo non sono gli estremi di una contraddizione: tutta la cultura apollinea si presenta come una maschera per sopportare la tragicità dell’esistenza, come un tentativo di velare, attraverso la costruzione di forme stabili e rassicuranti, il fondo dionisiaco. Le due dimensioni si richiamano l’una all’altra, perché proprio la paura degli aspetti più orribili dell’esistenza è la fonte dell’illusione apollinea, mentre il puro “dionisiaco” è barbarie distruttiva o pura letargia. È su questa base che, nella Nascita della tragedia, si sviluppa una sorta di filosofia della storia giocata sui due principi che cercano l’unità.

TESTO

T7: Friedrich Nietzsche, Apollineo e dionisiaco

ESERCIZIO

E15: Nietzsche

Necessità dell’arte

Questa struttura metafisica di fondo rende necessaria l’arte, intesa come prodotto culturale che fonde in sé apollineo e dionisiaco e che serve non solo all’individuo ma alla stessa natura. L’eterno soggetto creatore trova nell’arte la sua consolazione e la sua necessità, mentre l’artista (il “genio”) è a sua volta “opera d’arte” per la natura, la sua realizzazione più alta. La creazione artistica nasce infatti dall’inconscia identità con l’uno originario; d’altro canto il postulato dell’impossibilità pratica della negazione della vita, della noluntas teorizzata da Schopenhauer, comporta l’accettazione di meccanismi di illusione che sono finalizzati alla costruzione di una civiltà superiore. La volontà si esprime direttamente nell’istinto, considerato da Nietzsche un’illusione che perpetua la volontà di vivere, un inganno da parte del “genio della specie” a spese dell’individuo.

Si spiega così la scelta della civiltà greca come modello di una costruzione piramidale che ha al suo culmine la realtà del genio, saldamente vincolata alla vitalità dell’istinto. La civiltà greca mantiene un rapporto non distruttivo con il “fondo tragico” presente nel genio, anzi si subordina a esso in modo assoluto, adeguandosi all’inconscia finalità della natura. Nel mondo germanico un tale genio, capace di dare un nuovo senso alla civiltà, per Nietzsche è Richard Wagner.

Il nichilismo

Il termine “nichilismo” (dal latino nihil, “niente”) compare per la prima volta tra Settecento e Ottocento, per affermarsi poi come problema centrale nel dibattito filosofico del Novecento grazie alla fortuna che avrà il concetto all’interno dell’opera di Nietzsche. Il filosofo tedesco, in un frammento del 1887, pone la questione del nichilismo come diretta conseguenza del crollo, a suo avviso imminente, della morale cristiana e del suo ideale ascetico: “Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?”

Il nichilismo, dunque, sarebbe la condizione dell’umanità contemporanea, che si muove in una generale mancanza di senso dell’esistenza. La sua prima forma, giudicata da Nietzsche “imperfetta”, è quella del nichilismo psicologico, che subentra quando le categorie di “fine”, “unità” e “verità” con cui si era spiegato il mondo vengono sospettate di rappresentare, in realtà, una semplice autoillusione dell’uomo. Esso è imperfetto perché non fa che sostituire a quelli vecchi dei valori nuovi, nei quali sopravvive tuttavia il bisogno antico di credere in un ideale, benché esso si sia rivelato illusorio: è il nichilismo che si esplica nella forma del positivismo e della spiegazione causale e meccanicistica della realtà. Ma si tratta solo di un momento di passaggio che conduce all’affermazione di quello che Nietzsche definisce “nichilismo completo”. Quest’ultimo conosce due momenti: il nichilismo passivo (di cui sono esempio i romantici e Schopenhauer), che si limita a nutrirsi dello spettacolo del nulla e a idealizzarlo, e il nichilismo attivo o “estremo”, con la sua potenza deliberatamente distruttiva nella quale tutti i valori tradizionali scompaiono, e con loro qualunque verità: “Che non ci sia verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una ‘cosa in sé’; – ciò stesso è nichilismo, è anzi il nichilismo estremo”.

Da qui parte per Nietzsche la possibilità di volgere in positivo la forza del nulla attraverso la volontà di potenza, la quale conduce sino in fondo il nichilismo. Esso prende dunque la forma dell’eterno ritorno: il nulla e la mancanza di senso ritornano eternamente, e solo l’individuo che sappia pensare tale divenire e accoglierlo – il “superuomo” – sarà in grado di reggerne il peso e farne il principio di una nuova umanità.

Graziella Rotta

Le Considerazioni inattuali: Nietzsche e Wagner

Dopo l’esperienza traumatica della guerra franco-prussiana e l’impressione destata dalla Comune di Parigi (“senso dell’autunno della civiltà”), Nietzsche si impegna, con le Considerazioni inattuali, in una critica del mondo moderno e della civilizzazione alla luce dei progetti culturali di Richard Wagner, legati alla speranza di una “rinascita” dello spirito tragico in Germania. Le Considerazioni inattuali sono quattro scritti, pubblicati tra il 1873 e il 1876, dedicati a diversi argomenti: il primo rappresenta una dura critica al filosofo e teologo David Strauss, considerato il rappresentante emblematico di una cultura filistea e apologetica, “senza senso, senza sostanza e senza scopo”; la seconda considerazione verte Sull’utilità e il danno della storia per la vita; la terza è dedicata a Schopenhauer come educatore, mentre l’ultima, dal titolo Richard Wagner a Bayreuth, rappresenta un confronto diretto col musicista e una presa di distanza di Nietzsche dalle sue stesse posizioni giovanili.

Sull’utilità e il danno della storia per la vita è forse la più problematica tra le Considerazioni inattuali: presenta un intreccio di tematiche e argomentazioni eterogenee, dietro cui trapela una posizione sostanzialmente contraddittoria di Nietzsche sulla storia. Nel contesto di una critica radicale della cultura del proprio tempo, egli considera infatti la conoscenza storica utile alla vita, all’attività degli individui; ma riconosce anche la tendenza a una vuota erudizione, che rende passivi nei confronti della storia stessa. Nietzsche conduce in questo scritto una polemica nei confronti dello storicismo, nella convinzione che la consapevolezza storica, la coscienza che il presente sia destinato a svanire nel flusso del divenire storico, finisca per disgregare l’individuo: è questa la “malattia storica”, contro la quale è ancora necessaria una terapeutica della vita attraverso l’elemento antistorico e soprastorico.

TESTO

T8: Friedrich Nietzsche, La vita astorica

Nietzsche e Burckhardt

In questo periodo la presenza di Jacob Burckhardt, storico di Basilea, agisce su Nietzsche come contrappeso critico all’ideologia germanica di Wagner. I due professori di Basilea hanno visto nella guerra franco-prussiana una lotta “zoologica” tra nazioni, un minaccioso pericolo per la cultura. “Il più delle volte, il vincitore diventa stupido, il vinto diventa malvagio. La guerra semplifica [...]. È un letargo invernale della civiltà”, come scrive Nietzsche. Attraverso Burckhardt egli delinea i tratti dell’individualità libera che si afferma contro il peso del nazionalismo germanico, trionfante dopo la vittoria prussiana. Il suo modello assume ora i caratteri dell’“uomo del Rinascimento”, capace di incorporare e trasformare in nuova forma di vita il passato. Anche la valorizzazione da parte di Burckhardt della società greca come caratterizzata dall’agone e dalla pluralità di individui superiori diventa per Nietzsche motivo di critica alla posizione tirannica del “genio” wagneriano che si afferma come esclusivo.

Tramonta il mito della rinascita dell’antichità

La considerazione su Wagner, del 1876, mette radicalmente in crisi la metafisica dell’arte e rappresenta un definitivo congedo dalle illusioni giovanili e dal mito del “genio”. Ora Nietzsche riflette in modo nuovo sul ruolo del filologo fino a prendere congedo dal mito di una “rinascita” dell’antichità: “dalla civiltà antica noi siamo separati per sempre, in quanto le sue fondamenta sono per noi diventate completamente fradicie”. Il mito, il pensiero “impuro”, la religione e anche l’arte, che sostituisce la religione – in quanto “narcotici” e “medicine inferiori” – non possono essere i fondamenti della nuova civiltà. Per questo compito, ai tradizionali educatori della gioventù tedesca, Nietzsche ritiene si debbano sostituire “il medico, il naturalista, l’economista”. La parola “rinascita” con i suoi vari sinonimi, sparisce dal vocabolario concettuale di Nietzsche. La miseria della Germania ha avuto bisogno di riempire il vuoto della sua realtà con il mito dell’antichità classica. Sempre, comunque, la volontà di recuperare il mondo classico è vana: “non può sussistere alcuna imitazione. […] Una cultura che corra dietro a quella greca non può produrre nulla”.

Liberatosi dalle pastoie wagneriane e schopenhaueriane, Nietzsche vedrà nei francesi del XVII secolo gli eredi più genuini della grecità, un importante anello nella “grande catena del Rinascimento”. Il greco, come l’“uomo del Rinascimento”, resta la cifra ideale di un’umanità più chiara e affermatrice, di un’anima più vasta. La solarità del Sud, a cui tendere, significa la possibilità di diventare gradualmente “più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovraeuropei, più orientali, infine più greci”.

3.3 La filosofia dello spirito libero

Nel 1878 Nietzsche pubblica Umano, troppo umano, che rappresenta l’evento decisivo della “grande separazione” da tutto ciò che era stato venerato in precedenza e l’inizio della sperimentazione di nuove possibilità di vita. Contro le pretese intuizioni immediate del genio metafisico si impone la necessità di un cammino verso la conoscenza e la continuità del lavoro. Umano, troppo umano è caratterizzato dal gelo e dal disincanto della terapia antiromantica. Nietzsche ritiene ora necessaria la “filosofia storica” (non separabile dalle scienze naturali) e con essa la “virtù della modestia”: non vi sono realtà eterne né verità assolute, tutto è in divenire. La storia è necessaria anche contro la falsa immediatezza dell’introspezione per ricostruire la complessità dell’io: “giacché il passato continua a scorrere in noi in cento onde”. Da malattia che era nel suo pensiero precedente, la storia, riportando alla genesi e al percorso, illumina insomma la complessità che sta dietro la menzogna della metafisica, va contro l’opinione di “un’origine miracolosa” per le cose stimate superiori “che scaturirebbero immediatamente dal nocciolo e dall’essenza della ‘cosa in sé’”. Per questo è necessaria “una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi, estetici” che mostri come “i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati”.

In Umano, troppo umano si apre una dialettica tra lo “spirito libero” e il progresso della totalità. Il “progredire intellettuale” di una comunità è legato non alla forza e all’energia di un “eroe” che ne confermi o potenzi i valori, ma agli “individui più liberi, molto più insicuri e moralmente più deboli”: i malati, le “nature degeneranti” che “ammolliscono l’elemento stabile di una comunità” e attraverso le ferite inoculano qualcosa di nuovo. Il malato, rispetto a una società “sana” – cioè certa di se stessa e dei suoi valori – rappresenta la possibilità del movimento. La comunità forte è quella tollerante, che non esclude e che riesce a sopportare questa inoculazione senza dissolversi. Per Nietzsche il carattere demistificante della scienza e della storia, è, in questo periodo, in primo piano: si tratta di imparare a fare a meno dei dogmi idea-li, delle religioni che hanno bloccato e impedito lo sviluppo sociale e umano sulla base di menzogne antivitali. Di questo deve essere capace lo spirito libero al quale Nietzsche si rivolge, e che potrà così liberarsi dai pregiudizi e dalle ristrettezze della sua stirpe, della sua nazione, del suo Stato.

ESERCIZIO

E16: Nietzsche

Zarathustra maestro dell’eterno ritorno

Nell’estate del 1881, Nietzsche presenta come rivelazione improvvisa il pensiero dell’eterno ritorno. In realtà – come mostrano i suoi appunti di lettura – questo concetto nasce da un confronto ravvicinato con il dibattito sulla morte termica dell’universo e sulla dissipazione dell’energia. Secondo Nietzsche, se il mondo è composto da un numero finito di elementi o centri di forza, deve in un tempo infinito ripetere le medesime combinazioni per un numero infinito di volte. In tal modo non è più possibile dare un senso etico o di qualsiasi altro genere alla storia, e in generale alla vicenda dell’uomo su questa terra, mentre è possibile affermare l’eternizzazione e la pienezza dell’attimo.

ESERCIZIO

E19: Nietzsche

Nietzsche associa all’eterno ritorno una nuova forma di comunicazione e un nuovo scritto: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883-1885). L’eterno ritorno, secondo Nietzsche, è la più scientifica delle ipotesi, ma per modificare la vita degli uomini è necessario che essa sia “incorporata”: “intere generazioni debbono lavorare a essa e divenire fertili per essa – affinché diventi un grande albero che proietti la sua ombra su tutta l’umanità avvenire”. Lo Zarathustra vuole trovare nuovi interlocutori superando il linguaggio tecnico della filosofia e portando alle estreme conseguenze il linguaggio simbolico, e lo fa mediante una serie di discorsi del profeta e saggio iranico, Zarathustra appunto: il fondatore dello zoroastrismo che impersona in realtà lo stesso Nietzsche.

Nell’opera, la parodia giullaresca dei valori cristiani si accompagna alla proposta di un nuovo ascetismo visto non come valore in sé ma come uno strumento necessario di potenziamento e arricchimento, mediante il quale affrancarsi dai valori e dalle verità tradizionali, che possono soddisfare solo l’“ultimo uomo”. Questi resta ancorato al mero benessere materiale, e gli si contrappone l’“uomo superiore”, che al contrario, dopo la morte di tutti gli dèi, dopo il crollo della morale tradizionale, è in grado di rinunciare a quei valori, per darne a se stesso di originali e personali.

“Dio è morto!”, dunque, ma l’“ombra di Dio” (la metafisica e un ordinamento dato della realtà) permane anche dopo la sua morte e costituisce il pericolo più insidioso per l’uomo superiore. A lui Zarathustra rivolge il suo messaggio. Deve tenersi lontano dalla piazza del mercato, dall’istrionismo dei gesti, mentre la sincerità verso se stesso e la propria sofferenza deve diventare sofferenza per l’uomo, fino a desiderarne la fine. L’educazione dell’uomo superiore ad assimilare il pensiero dell’eterno ritorno senza andare in rovina comporta la sua profonda e radicale trasformazione nella direzione del “superuomo”.

La gaia scienza

Nel 1882 Nietzsche pubblica La gaia scienza, un’opera centrale nel suo pensiero, che riprende tutti i temi trattati fino ad allora e prepara la fase matura della sua filosofia, in particolare Così parlò Zarathustra, anticipando i temi della morte di Dio e dell’eterno ritorno dell’identico. È un’opera per aforismi, composta di quattro libri (un quinto viene aggiunto da Nietzsche nella seconda edizione, del 1887), ed è aperta e chiusa da due cicli di poesie. Questa commistione della forma per aforismi, caratteristica del Nietzsche di questi anni, con la poesia non è casuale: scopo dell’opera è infatti anche quello di rimediare alla frattura tra arte e scienza che contraddistingue il pensiero di Nietzsche e che riflette la sua lotta interna tra due opposte inclinazioni. Ciò a cui il filosofo aspira con questo scritto è l’affermazione di una scienza, la “gaia scienza” appunto, che non sia, come nelle opere precedenti, il risultato della condanna dell’arte, ma piuttosto una sintesi tra arte e scienza: una scienza che racchiuda in sé “il riso e la saggezza”, che non sia “né imbronciata né impettita” – come ha scritto un importante interprete di Nietzsche, Giorgio Colli –, e che sappia guardare al futuro dell’uomo dopo la morte della morale, della metafisica, della religione.

Il contesto de La gaia scienza è ancora quello della critica alla cultura del suo tempo; Nietzsche è radicale nell’interpretare i concetti di fondo della tradizione filosofica e culturale come “travestimenti inconsapevoli” di semplici bisogni fisiologici, che si sono “avvolti nel manto dell’oggettivo, dell’ideale, dello spirituale puro”. La filosofia passata deriva da un “fraintendimento del corpo” e, a partire da Platone, pone come postulato una ragione “nemica dei sensi”. Nietzsche esprime in questo modo una concezione del conoscere analoga a quella dell’agire: la conoscenza, così come l’azione morale, è il risultato di un rapporto tra impulsi, tra istinti, e proprio come l’azione morale non è mai disinteressata. Si tratta di una concezione che, come ha osservato sempre Colli, riflette il “tormento”, l’“angoscia”, lo “sbigottimento” dell’esperienza della conoscenza in Nietzsche, un’esperienza che per il filosofo è stata sostanzialmente “dispensatrice di sofferenza”: nell’adolescenza egli aveva sperimentato la frattura tra il rigore della filologia e l’“estasi” dell’esperienza musicale; con La nascita della tragedia la conoscenza si identificava con la “sconvolgente intuizione dionisiaca della radice orrenda della nostra esistenza”; la conoscenza storica serviva, infine, a dare consapevolezza degli errori del passato, facendolo pesare come un macigno sul presente.

Da questa concezione della conoscenza discende in particolare il ridimensionamento, rispetto alla tradizione filosofica, di due concetti-chiave della storia del pensiero: il concetto di coscienza e quello di verità. La prima è stata sopravvalutata nella storia della filosofia, che ha confuso il “pensiero consapevole” con il pensiero in generale, quando invece – afferma Nietzsche – “la maggior parte del nostro produrre spirituale si svolge senza che ne siamo coscienti”. La verità, di conseguenza, si trova fortemente minacciata dalla presenza nel conoscere di questo elemento inconscio, così come della componente istintiva: non esiste una verità univoca, data, che il filosofo possa trovare; la verità è invece il risultato, sempre fluttuante, del gioco di forze tra i diversi impulsi dell’individuo.

Il risultato è che l’uomo si trova solo, senza certezze, per nulla rassicurato da quel concetto dell’eterno ritorno con cui si conclude La gaia scienza: ciò che è stato, con tutti gli errori e le sofferenze conseguenti, è destinato a ripetersi in eterno, vanificando la stessa gioia che la scienza ci potrebbe procurare. Una condizione che Nietzsche si prepara a indagare in una prospettiva diversa: la prospettiva profetica di Zarathustra.

In un celebre aforisma, dal titolo “Il peso più grande”, Nietzsche esprime tutta l’angoscia presente in questa condizione dell’uomo: “Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: ‘Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!’ Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?” Nello stesso frammento però Nietzsche lancia anche un segnale di speranza, indica un possibile rimedio contro quell’angoscia: basterebbe aver vissuto, infatti, un “attimo immenso” perché il peso dell’eterno ritorno risulti alleviato, sopportabile.

TESTO

T9: Friedrich Nietzsche, La morte di Dio

Volontà di potenza e dionisiaco

Nietzsche approda negli anni Ottanta a una considerazione dinamica del reale che rappresenta la base per una critica distruttiva di ogni residuo dogmatico-metafisico; individua centri di forza in perpetuo movimento che pongono in crisi anche ogni concezione dualistica della realtà, che aveva come conseguenza la condanna del mondo dei sensi, dell’aldiqua. E poiché 1’essenza di ogni forza sta nel suo manifestarsi, al di là della forza non esiste una sostanza che ne sia sede, avente la capacità di esprimerla come di non esprimerla: detto in altri termini, “tutto è forza”, anche se, nell’essere organico, la relazione con le forze passa necessariamente attraverso la mediazione del corpo.

A partire dall’epoca di ZarathustraNietzsche ricorre all’espressione “volontà di potenza” per designare un’interpretazione alternativa della realtà capace di creare nuovi valori e coerente col pensiero dell’eterno ritorno. La “volontà di potenza” è quell’impulso che spinge a superare la prospettiva ristretta dell’ego, ma non per raggiungere un’impossibile impersonalità, una fredda “oggettività”, anzi l’ampiezza della prospettiva, la capacità di vedere con più occhi, rimarrà una costante dei gradi più alti della volontà di potenza. Il momento primario della potenza è l’esercizio del dominio su un caos da plasmare, una forma da dare attraverso gerarchizzazioni e funzionalizzazioni e, nei gradi più alti, consiste in un allontanamento dalla prospettiva ristretta e violenta del singolo centro di forza. Nella storia può avvenire la realizzazione casuale di individui capaci di impersonare la volontà di potenza e di arrivare alla “giustizia”: tra i modelli più vicini che Nietzsche propone vi è quello di Goethe, “l’uomo più vasto possibile ma non perciò caotico”.

Il superuomo

Un altro importante concetto che Nietzsche elabora negli anni Ottanta è quello di “superuomo”. Il superuomo è colui che supera la parzialità di ogni prospettiva vitale, non negandola ma incorporandola in una forma piena, colui che ha la forza di assimilare se stesso a tutta la realtà, e tutta la realtà a se stesso, attraverso l’affermazione del ciclo eterno. In lui agisce l’amor fati (letteralmente l’“amore del destino”), l’espressione più alta e più ricca della volontà di potenza (“devi divenire quello che sei”), che gli permette di raggiungere una nuova libertà: “un tale spirito divenuto libero sta al centro del tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede che soltanto sia biasimevole quel che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi nel tutto – egli non nega più. Ma una fede siffatta è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho battezzata col nome di Dioniso”.

Nietzsche e la morale

Un’opera nella quale Nietzsche affronta esplicitamente il tema della morale, con lo scopo dichiarato di “scalzare la nostra fiducia” in essa e di provocarne la “autosoppressione”, è Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (1881). Con questo libro egli inizia la sua “campagna contro la morale”. “Espertissima – fin dai tempi più antichi – in ogni diavoleria dell’arte della persuasione”, la morale viene definita nella prefazione dell’opera la “Circe di filosofi” che, sedotti da essa, a partire da Platone fino a Rousseau e Kant, hanno “costruito sulla sabbia” i loro sistemi, spacciandoli per assoluti. Non esistono invece, per Nietzsche, valori assoluti, e anzi la morale risulta sostanzialmente fondata su errori.

Aurora è un libro di aforismi, nei quali questi errori vengono smascherati, a partire dal primo e più grave, ovvero quello di credere che le azioni morali siano possibili, in quanto azioni – come vuole la loro stessa definizione – consapevoli. Il primo “profondissimo errore” denunciato da Nietzsche è l’intellettualismo etico di Socrate e Platone, la cui “follia e presunzione” consisteva nel credere che “alla retta conoscenza dovesse seguire la retta azione”. A Platone e Socrate sembrava una “cosa orribile” che alla cognizione di una azione retta non seguisse l’azione stessa, mentre a Nietzsche sembra vero proprio il contrario: quanto sappiamo di un’azione, infatti, non basta mai a compierla.

Questo significa sostanzialmente due cose: innanzi tutto che la volontà umana non è libera, se chi compie un’azione non ha per primo piena consapevolezza di ciò che la sua azione rappresenta e da quale movente proviene; e secondariamente che dell’azione morale non è possibile alcuna valutazione (persino il cristianesimo ammette che le azioni umane possono essere in definitiva valutate solo da Dio).

L’agire umano proviene per Nietzsche prevalentemente dall’istinto di conservazione e dalla ricerca del piacere, ma ciò non significa che esso sia comprensibile in maniera esauriente (nemmeno dal filosofo in sede di scienza morale) né che possa essere considerato, deterministicamente, il frutto di un semplice meccanismo. Anche laddove sembra che la morale consenta all’uomo di compiere azioni del tutto disinteressate, puramente non egoistiche, come il sacrificio della propria vita, esse dipendono sempre da un movente egoistico, e si basano su una “autoscissione” dell’uomo. Questi proietta al di fuori di sé una parte del suo essere (“un pensiero, un’aspirazione, una creatura”), quella che ama di più, e a essa ne sacrifica un’altra; ma questo sacrificio è sempre dettato dall’egoismo, dal desiderio di soddisfare l’amor proprio identificato con la parte che si è oggettivata.

La morale non favorisce la naturale ricerca della felicità, che “sgorga da leggi sue proprie”, e che proprio nella morale trova anzi un ostacolo: “Le prescrizioni, che vengono dette “morali”, sono in verità dirette contro gli individui e non vogliono in alcun modo la loro felicità”, né la “felicità e prosperità” dell’uomo come specie. L’uomo non ha affatto come “meta inconscia” una suprema felicità, e neppure si può affermare che “la moralità, come vuole il pregiudizio, sia più favorevole allo sviluppo della ragione di quanto lo sia l’immoralità”.

Perché, allora, la morale? E come definirla? La risposta di Nietzsche non è univoca; innanzi tutto la morale è vista come un processo, i cui valori sono “divenuti”; essa è nata per “conservare in genere” la comunità, e si è articolata in un insieme di precetti che nelle sue opere per aforismi (Aurora e Umano, troppo umano) il filosofo analizza da punti di vista sempre diversi.

Nella Genealogia della morale (1887), invece, l’argomento è trattato in forma più articolata, mediante un’analisi della genesi dei principali concetti morali, analizzati dal punto di vista storico, psicologico ed etimologico. L’opera è divisa in tre parti, e presuppone due tipi fondamentali di morale: la “morale dei signori” e la “morale degli schiavi”. La prima asseconda i principi egoistici dell’individuo forte, dominante, mentre la morale degli schiavi eleva a principio supremo la debolezza dell’individuo oppresso, il suo “risentimento”, propagando valori quali l’uguaglianza, la compassione e l’ascesi.

Nella prima parte dell’opera, attraverso l’analisi delle due coppie di concetti “buono e malvagio” e “buono e cattivo” – solo apparentemente identiche – Nietzsche propone una “psicologia del cristianesimo”, nato dalla morale degli schiavi; nella seconda offre una “psicologia della coscienza” mediante un esame dei concetti di “colpa” e di “cattiva coscienza”, alimentati in maniera particolarmente crudele dal cristianesimo stesso; nella terza parte dell’opera infine, dedicata al significato degli ideali ascetici, Nietzsche individua le ragioni della loro potenza nella denigrazione della vita e della corporeità che permette di tollerare e dare un senso alla sofferenza.

L’ideale ascetico si trova in primo luogo nel cristianesimo, ma si nasconde anche nell’arte, nella scienza e in alcuni valori di fondo della società moderna, e storicamente ha trovato un grande alleato nella filosofia: questo ideale è insomma il rifugio di chi, per combattere il dolore, fa della rinuncia il proprio credo. Si tratta però di una dinamica per la quale Nietzsche prevede un crollo imminente, che è il crollo dello stesso cristianesimo non solo come dogma ma anche come sistema morale: un crollo al quale subentrerà un’epoca di “non volere” e di nuovi valori.

ESERCIZIO

E17: Nietzsche

ESERCIZIO

E18: Nietzsche

La sorte postuma

ESERCIZIO

E20: Nietzsche

Il 3 gennaio del 1889, a Torino, Nietzsche (secondo un’incerta tradizione orale) getta il suo grido di compassione abbracciando un cavallo malmenato dal vetturino e manifesta il suo crollo psichico. Il suo nome è conosciuto solo in ristrette cerchie culturali. Dalla primavera del 1879, egli ha abbandonato l’insegnamento di filologia a Basilea per le preoccupanti condizioni di salute che gli impediscono spesso di leggere e lavorare. Da allora, vivendo con una modesta pensione, soggiorna tra la Svizzera, varie località italiane e Nizza, alla ricerca di luoghi consoni alle sue precarie condizioni fisiologiche e alla sua fragilità psicologica. Pochi anni dopo l’episodio di Torino, mentre il filosofo è ridotto dalla paralisi progressiva a un corpo senza coscienza, cresce impetuosa la sua fama che arriverà, soprattutto dopo la morte avvenuta il 25 agosto del 1900, alle forme deteriori del culto.

La leggenda stravolge la sua filosofia, che assume i caratteri del mito eroico-germanico e antilatino fino a ridursi a una serie di slogan: la “bionda bestia”, il “superuomo”, la “volontà di potenza” perdono il loro senso filosofico e problematico per mantenere un residuum volgare e brutale. Già nell’ultimo anno della sua vita cosciente ricca di energia produttiva (tra il maggio 1888 e il 2 gennaio 1889 Nietzsche scrive Il caso Wagner, Il crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner e i Ditirambi di Dioniso), non mancano i primi segni di riconoscimento. Nuovi interlocutori europei sembrano aver rotto l’emarginazione del filosofo e avergli mostrato la possibilità di incidere col suo pensiero nella storia. Nietzsche per primo coglie però i segni di pericolosi fraintendimenti e mitizzazioni già nella devozione di alcuni seguaci in cerca di nuove fedi, nella lettura germanica, idealistica, “eroica”, addirittura antisemita, e in quella biologico-darwiniana, del superuomo. Da tempo il lavoro storico e filologico sugli scritti e sui carteggi di Nietzsche fornisce strumenti per una collocazione sempre più articolata e complessa del suo pensiero, per una migliore definizione di categorie filosofiche centrali della sua riflessione, dei movimenti interni al suo percorso. E tuttavia, ancor oggi, si ripresentano nuove letture strumentali e ideologiche, e addirittura quella cruda semplificazione che lega un Nietzsche “eroico” al nazismo.

La volontà di potenza: breve storia del testo, del concetto, delle interpetazioni

L’invenzione di un’opera

Il 19 gennaio 1889 Davide Fino, il proprietario della casa torinese in cui Nietzsche aveva affittato una stanza nell’autunno del 1888, e dove aveva avuto il crollo psichico che lo avrebbe condotto alla demenza, spedì ai familiari del filosofo un baule contenente i suoi effetti personali, i libri, e i quaderni di appunti. Tutti pensarono che nel baule torinese ci fosse la sua opera La volontà di potenza. Non trovando altro che appunti, i curatori del lascito di Nietzsche supposero che l’opera dovesse trovarsi da qualche altra parte, o che fosse andata persa.

Progetti e appunti per un’opera intitolata La volontà di potenza cominciano ad accumularsi tra le carte di Nietzsche intorno alla metà degli anni Ottanta, in seguito all’esperienza di Così parlò Zarathustra. Dopo il tentativo di fare filosofia in versi, Nietzsche sente la necessità di un’opera teorica in cui sia esposto il suo pensiero. Il concetto di “"volontà di potenza"” e quello, correlato, di “trasvalutazione di tutti i valori”, affiora in libri come Al di là del bene e del male (1886) e la Genealogia della morale (1887). Nietzsche cercherà, tra il 1887 e il 1888, di venire a capo dell’opera, ma senza successo.

Nell’autunno del 1888 presenta il fallimento come un cambio di strategia. Adopera parte del materiale accumulato per realizzare brevi pamphlet a effetto (Il crepuscolo degli idoli, L’anticristo) destinati, nella sua ipotesi, a garantirgli una notorietà internazionale che avrebbe spianato la via a una risonanza della Volontà di potenza ben diversa dal silenzio che aveva accolto lo Zarathustra. Peter Gast, l’allievo e copista di Nietzsche, ed Elisabeth, la sorella, pensarono di ordinare una scelta di appunti basandosi su uno dei piani elaborati da Nietzsche, in una prima versione nel 1901, poi in una più che raddoppiata nel 1906, cui ne seguirono diverse altre di varia estensione. L’opera ebbe un enorme successo, sino a diventare l’emblema stesso del pensiero nietzschiano.

Il concetto centrale di Nietzsche

Se l’opera intitolata Volontà di potenza non fu mai scritta da Nietzsche, il concetto di “volontà di potenza” costituisce il centro del suo pensiero, seguendo un filo conduttore che risale sino agli studi filologici giovanili. Comunque, a voler tracciare per sommi capi le basi scientifiche e filosofiche della volontà di potenza avremmo all’incirca questo: il mondo come tale è apparenza, noi conosciamo solo dei fenomeni, non delle cose in sé. Era l’insegnamento di Kant, che, dopo Kant e dopo Schopenhauer avevano ripreso un po’ tutti i fisici, biologi, fisiologi e psicologi dell’epoca di Nietzsche, oltre che i neokantiani. Ma che cos’è l’essenza di cui tutto il resto è apparenza?

L’essenza è forza, è fatta di monadi, di particelle cariche di energia. Questi punti di forza si articolano su scale differenti: gli atomi nella fisica, le molecole nella chimica, le cellule nella biologia. Ognuna di queste monadi è carica di energia, e il livello inferiore opera costantemente su quello superiore, dando all’insieme dell’universo non l’immagine armoniosa di un grande animale dotato di un’anima e di un fine ma piuttosto una lotta volta alla sopraffazione in cui l’unico dato evidente è il desiderio della potenza di affermarsi anche a proprio discapito. Nietzsche rilegge alla luce della volontà di potenza anche l’evoluzionismo di Darwin, considerato come un pensatore troppo ottimistico e finalistico.

LETTURE

Charles Darwin

La lotta tra le potenze nel mondo non ha per fine l’affermazione del più adatto ma, proprio al contrario, è fine a se stessa. La potenza non vuole prevalere, vuole semplicemente affermarsi, anche al costo di una distruzione totale. Per illustrare questo concetto, Nietzsche si avvale di esempi tratti dalla biologia. Al classico esempio per cui la morte dell’individuo è funzionale alla sopravvivenza della specie, Nietzsche oppone il modello degli organismi unicellulari, che di fatto si autodistruggono quando si dividono in due per creare due nuovi organismi. In questo atto suicida avrebbe luogo la vera manifestazione della potenza, che vuole se stessa anche al di là delle intenzioni del suo portatore.

Oltre alle influenze scientifiche e della gnoseologia neokantiana, nella nozione di “volontà di potenza” non è difficile trovare l’eco di Schopenhauer, che pone il volere al centro della propria metafisica. Ma nel caso di Nietzsche il pessimismo non è una dottrina di rassegnazione, e ambisce a trasformarsi in un principio attivo, nella esaltazione della potenza e di quello che comporta.

Nazismo e denazificazione

Sotto questa prospettiva, non stupisce che Nietzsche abbia potuto diventare un filosofo di riferimento per il Terzo Reich. Ma il punto ovviamente non è chiedersi se Nietzsche sia stato nazista. Il punto è piuttosto domandarsi come mai quella che si chiama tanto ingenuamente “falsificazione” sia avvenuta proprio sulle sue opere; e perché l’unica istituzione d’insegnamento che abbia avuto la tentazione di richiamarsi a Nietzsche sia stata quella nazista. Questo problema divenne, come è naturale, molto sentito quando, dopo la seconda guerra mondiale, ci si chiese se fosse legittimo restituire Nietzsche al dibattito filosofico in un mondo che aveva visto il tragico trionfo della volontà di potenza. In merito si possono osservare due strategie fondamentali. La prima è il metodo allegorico proposto dal filosofo americano di origine tedesca Walter A. Kaufmann (1921-1980) in Nietzsche. Filosofo, psicologo, anticristo (1950), il quale afferma, per esempio, che quando Nietzsche parla di “belva bionda” non allude ai Germani antichi, e risorti nell’opera wagneriana, bensì al leone, quello che si trova allo zoo. Ma più che attraverso questi espedienti, la più potente riabilitazione filosofica di Nietzsche viene attuata dalla pubblicazione, nel 1961, dei due volumi del Nietzsche di Heidegger, che propongono una lettura allegorica di ben diversa potenza. I seminari di Heidegger strappavano Nietzsche all’attualità collocandolo in un pantheon di filosofi come Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel. Sostenere che bisogna leggere lo Zarathustra con la stessa deferenza testuale che va dedicata alla Metafisica aristotelica valeva più di mille ermeneutiche.

Il metodo storico-grammaticale è invece quello che consiste nel dire che il testo nietzschiano è stato falsificato e che a ripristinarlo nella sua autenticità ci restituirebbe un Nietzsche certo radicale, ma comunque politicamente accettabile. È la strategia che costituisce la motivazione fondamentale dell’edizione critica di Nietzsche avviata nella metà degli anni Sessanta dai due studiosi italiani Giorgio Colli (1917-1979) e Mazzino Montinari(1848-1986). Sebbene poggiando su un presupposto sbagliato, e cioè che ciò che in Nietzsche è ideologicamente irricevibile sia frutto di falsificazione, l’edizione Colli-Montinari (che si caratterizza per l’estrema accuratezza filologica) ha ottenuto un grande risultato culturale: restituire alla discussione pubblica e filosofica Nietzsche, al prezzo di un non meno grande equivoco culturale, sostenendo che il Nietzsche “autentico” degli anni Sessanta è tutt’altra cosa dal Nietzsche che era stato letto e commentato negli anni Trenta.

La volontà di potenza è stata falsificata?

L’operazione filologica suppone infatti una falsificazione dei testi di Nietzsche, solitamente attribuita a Elisabeth, che avrebbe operato a diversi livelli: (1) Pretendendo che Nietzsche avesse veramente e sino all’ultimo progettato un’opera intitolata Volontà di potenza. (2) Dando a intendere che il progetto incompiuto di Nietzsche consistesse proprio nel testo che veniva fornito ai lettori. (3) Interpolando affermazioni estremistiche, protonaziste e antisemite nel testo del fratello. (4) Commettendo gravi sviste di trascrizione. (5) Conferendo un andamento aforistico a dei frammenti che tali non erano. (6) Attribuendo a Nietzsche quelle che in realtà erano note di lettura da altri autori.

Le accuse (2) e (4) si smontano da sole. Se La volontà di potenza ha conosciuto tante edizioni (1901, 1906, 1911…), è difficile pensare che Elisabeth volesse dare a intendere, di volta in volta, che il testo procurato fosse in qualche modo definitivo. Più complicata, visto che verte sull’accertamento di intenzioni che non si possono verificare né in positivo né in negativo, è l’accusa (1). In effetti, non abbiamo la minima idea di che cosa avrebbe fatto Nietzsche se non fosse intervenuto il crollo torinese. Si può invece rispondere senza esitazione di no all’accusa (3). Elisabeth non ha interpolato affermazioni estremistiche o protonaziste o antisemite. Le falsificazioni materiali della sorella, che hanno avuto luogo, si sono esercitate nell’epistolario, per accreditarsi, contro la verità dei fatti, come una interlocutrice privilegiata del fratello, quale in realtà non fu mai, almeno nei termini che pretendeva.

Resta la circostanza che indubbiamente Nietzsche, ammesso che si fosse deciso a pubblicare La volontà di potenza, non lo avrebbe fatto nel modo (anzi, nei molti modi) che conosciamo. Appare anche plausibile ritenere che non avrebbe dato un andamento aforistico alla sua opera. Questo significa, dunque, che l’unica vera accusa ad Elisabeth che resta in piedi è la (5), sebbene anche in questo caso si possa sostenere che, se è probabilissimo che gli aforismi non sarebbero stati quelli che conosciamo proprio come l’opera non sarebbe stata quella che abbiamo sotto gli occhi, non è detto che a un certo punto Nietzsche non potesse propendere per la soluzione frammentaria, come ha fatto per Il crepuscolo degli idoli.

In questo quadro, infine, è indubbio che c’è del giusto nella accusa (6), cioè di non aver capito che in più casi i manoscritti di Nietzsche contenevano delle note di lettura, ma è una accusa che difficilmente può lasciar supporre una intenzione deliberata di Elisabeth, se è vero che a tutt’oggi la meritevolissima ricerca delle fonti è in corso, e periodicamente se ne trovano delle nuove.

Maurizio Ferraris