5. La filosofia neoscolastica

di Alessandro Ghisalberti

5.1 Le “24 tesi della filosofia di san Tommaso”

Con “neoscolastica” si intende un movimento di pensiero ispirato alla tradizione del pensiero filosofico e teologico della scolastica medievale, e che affonda le proprie radici nella neoscolastica ottocentesca. Per i suoi sviluppi nel Novecento occorre comprendere a pieno la portata dell’enciclica papale Aeterni Patris (1879): il genere letterario delle encicliche fu valorizzato al massimo proprio da Leo-ne XIII, che nel suo lungo pontificato (1878-1902) emanò ben sessanta encicliche: si apriva una stagione nuova del magistero pontificio, volta a superare l’emarginazione prodotta sul piano istituzionale dalla fine del potere temporale e dalla restrizione dei papi nel recinto del colle vaticano. Questi documenti si rivelano capaci di coinvolgere l’intero mondo cattolico, basti pensare alla vasta eco che ebbe la Rerum novarum (del 1891), la storica enciclica inaugurale del pensiero sociale della Chiesa, nella quale Leone XIII, in stretta continuità con il rilancio della filosofia di ispirazione cristiana, difende la proprietà privata come bisogno naturale dell’uomo contro il collettivismo socialista, e sottolinea l’importanza dello Stato contro l’individualismo liberista. L’invito all’impegno di ricerca di un pensiero cristiano organico e solidamente radicato nella storia trova grande accoglienza, sia nei territori europei sopra ricordati, dove il recupero della scolastica era già in atto, sia nei paesi del Nord e del Sud America.

La neoscolastica conosce la stagione di massima fioritura nei decenni della prima metà del XX secolo e vede dapprima la produzione di una linea di pensiero molto articolato ispirato al tomismo, per poi passare allo studio delle fonti dei principali maestri della scolastica, oltre Tommaso, con l’impegno nello studio dei testi originali, anche mediante l’attivazione di centri dedicati alle edizioni critiche degli autori medievali. La maturazione in campo filosofico di un pensiero tomistico sistematico avviene in molte istituzioni ecclesiastiche, soprattutto a opera dei gesuiti (principale riferimento fu l’Università Gregoriana di Roma) e dei domenicani (principale riferimento fu il collegio romano della Minerva, poi denominato Angelicum); la neoscolastica tomistica trova espressione in una nutrita manualistica, emblematicamente denominata “sintesi tomistica”, e viene sancita da un documento ufficiale autorevole, anche se ben presto molto discusso, denominato “Le 24 tesi della filosofia di san Tommaso”, redatto dal gesuita Guido Mattiussi e approvato da Pio X nel 1914.

Nel documento si enucleano alcune nozioni e coppie di termini considerate decisive in campo filosofico: la nozione di potenza e atto, quella di essere e di essenza, unitamente al principio di causalità, all’analogia dell’essere, all’imprescindibilità dei primi principi della tradizione aristotelico-tomista (principio di non-contraddizione, di identità e del terzo escluso). Gli sviluppi cui orientavano queste tesi di fondo erano fondamentalmente due: il realismo gnoseologico veniva proposto contro il soggettivismo che da Cartesio in poi aveva contrassegnato la filosofia moderna, sino a Kant; contemporaneamente l’ilemorfismo (la dottrina di origine aristotelica secondo cui tutte le sostanze, comprese quelle spirituali, sono composte di materia e forma) veniva assunto come chiave di lettura della metafisica aristotelica, imperniata sulla dottrina della sostanza in cui si fondono la natura potenziale della materia e quella attuale della forma, e questa lettura consentiva la spiegazione in termini filosofici dell’origine del mondo per creazione: l’atto di essere che stabilizza il sorgere degli enti mediante l’unione della potenza della materia con l’atto della forma non può derivare che da un essere che sia atto puro, privo di ogni potenzialità e dipendenza. Ogni essere la cui attualità sia fatta dipendere da altro da sé, non può spiegare come il mondo possa avere avuto inizio, perché innesca un meccanismo di regresso all’infinito, postula cioè una successione di enti che hanno ricevuto l’atto di esistere da altri esseri, a loro volta causati da altri. L’ilemorfismo metafisico inoltre apriva alla visione dell’uomo come composto di materia (corpo) e forma (anima razionale), aristotelicamente caratterizzato cioè oltre che dall’anima vegetativa e dall’anima sensitiva, costitutive di ogni animale vivente, dall’anima intellettiva, che distingue il vivente razionale dagli altri animali. Alcune operazioni proprie dell’intelletto umano, quali la conoscenza degli universali e il processo di autocoscienza che accompagna il soggetto conoscente, avvengono indipendentemente dagli organi corporei, e quindi sono indizi della natura immateriale dell’anima intellettiva.

LETTURE

Aristotele. Vol.1

LETTURE

Tommaso d'Aquino. Vol.1

Anche sul versante della filosofia della natura, si perveniva all’individuazione del dinamismo del divenire dell’universo come passaggio dalla potenza all’atto, e questo rappresentava un utile punto di partenza per costruire le prove dell’esistenza di Dio a posteriori, leggendo cioè i dati dell’esperienza sensibile secondo l’istanza metafisica del primato dell’atto sulla potenza, e valorizzando il principio egemone della filosofia aristotelico-scolastica, quello dell’intelligibilità del reale: la realtà è intrinsecamente permeabile dall’intelligenza dell’uomo, per cui ciò che non trova spiegazione razionale non può esistere nella realtà, data la fondamentale corrispondenza tra pensiero ed essere. Una successione di enti o di cause che siano tutti contingenti, ossia che ricevano da altri la spiegazione del loro venire all’essere, non soddisfa l’istanza di razionalità del reale, che per la filosofia neoscolastica rappresenta la grande cifra del pensiero filosofico classico; l’irrazionalità del reale è un’ipotesi contraddittoria, che porta a negare ogni valore della conoscenza umana, per cui si deve ammettere l’esistenza di un essere necessario, non contingente e non finito, che corrisponde a ciò che viene chiamato Dio.

La linea teoretica riconducibile alle 24 tesi è a lungo preminente nelle scuole della neoscolastica, ma col volgere del tempo essa mostra precisi limiti. Anzitutto finisce per includere tratti forti di dogmatismo, perché vincola a un testo di partenza e produce una limitazione nella ricerca, la quale deve fare i conti con il pluralismo dei problemi e degli orizzonti da cui prende avvio la speculazione filosofica. Inoltre, la presentazione del tomismo come un pensiero sistematico costruito “secondo la mente di S. Tommaso”, avulso dai testi dell’aquinate, tendeva a proporlo come un pensiero che poteva essere usato per dare risposte a tutte le domande e a tutte le istanze filosofico-scientifiche in modo atemporale, prescindendo cioè dalle novità storiche e dottrinali che di epoca in epoca segnano la riproposizione dei grandi problemi della filosofia e della scienza.

5.2 Il dibattito sulla natura della conoscenza e il contributo della neoscolastica milanese

Una svolta significativa negli sviluppi della neoscolastica del XX secolo si ha a opera di due personalità, il belga (poi cardinale) Désiré Mercier (1851-1926) e il francescano Agostino Gemelli (1878-1959), fondatore il primo dell’istituto di filosofia dell’Università Cattolica di Lovanio, mentre il secondo è il fondatore a Milano della “Rivista di filosofia neoscolastica” (1909) e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (1921). Comune ai due pensatori è l’istanza di sviluppare il recupero del pensiero scolastico medievale instaurando un dialogo aperto con la filosofia moderna e contemporanea.

A Mercier si deve l’insistenza sulla questione gnoseologica, considerata cruciale per un dialogo con la filosofia moderna, in particolare per un confronto tra il tomismo e il criticismo kantiano. Mercier pone l’accento sulla “criteriologia” (esposta nel trattato Criteriologia generale o teoria generale della certezza, 1918), che tratta del problema della conoscenza dal punto di vista logico-psicologico della certezza, e vede la posizione del problema critico come riflessione sulle condizioni spontanee delle nostre certezze. La criteriologia deve stabilire quale sia il rapporto tra i due termini che entrano nel giudizio, ossia la componente del soggetto giudicante e la cosa oggettiva giudicata, e trovare un principio capace di garantire l’esistenza della verità e l’accesso a essa; tale principio è quello criteriologico dell’evidenza. La sintesi a priori proposta da Kant va accolta positivamente, ma dando una lettura diversa della natura della sintesi che unisce i due termini del giudizio, e cioè riconoscendo che la sintesi è motivata dalla manifestazione obiettiva del rapporto, e non dalla legge soggettiva del pensiero. L’obiettività del rapporto tra i termini si impone da sé, è un’evidenza che si dà alla coscienza con il presentarsi dei termini stessi.

La linea di Mercier è tra le ispiratrici della rilettura del tomismo anche da parte di Agostino Gemelli e dei maestri che con lui danno vita al movimento neoscolastico milanese, in particolare Francesco Olgiati (1886-1962) e Amato Masnovo (1880-1955): movimento consolidatosi con l’apertura della facoltà di filosofia dell’Università Cattolica di Milano. La scuola milanese condivide la linea del dialogo con la filosofia e le scienze moderne della scuola di Lovanio, superando il tomismo monolitico delle 24 tesi, e dedica molta attenzione al tema gnoseologico, partendo dalla criteriologia di Mercier, analizzando il modo di intendere l’evidenza e le verità dette “di evidenza immediata”, evitando gli estremi del soggettivismo idealistico e del rea-lismo assoluto. La scuola milanese si è andata poi distinguendo per l’attivazione di un forte confronto critico prima con le tesi del positivismo, e successivamente con una forma compatta di filosofia che in quei decenni veniva riproposta soprattutto in Italia, ossia con l’idealismo di Croce e di Gentile.

La scuola milanese ritiene di poter esibire la superiorità della filosofia neoscolastica sul positivismo e sull’idealismo, anzitutto per il suo carattere di “filosofia perenne”, non in senso statico, ma per il suo essere un pensiero che recupera le tesi e i principi fondamentali della scolastica, in particolare l’oggettività e la realtà della conoscenza umana, respingendo il monismo positivista e idealista con l’affermazione della dualità di Dio e mondo, di spirito e corpo. In secondo luogo, il merito precipuo di Tommaso d’Aquino sta nell’aver mostrato come questi dualismi, che si presentano inevitabilmente alla mente del soggetto, possano essere composti: il mondo ha una sua struttura autonoma, ma il divenire degli enti è reso possibile dall’essere assoluto e indiveniente; la mente umana è legata alla conoscenza sensitiva, ma dispone di facoltà con cui si eleva alle verità dei primi principi; il corpo umano è un vincolo per l’anima, ma altresì uno strumento decisivo per raggiungere i fini ideali della vita e della convivenza civile. Terzo guadagno importante della neoscolastica è il suo afflato umanitario, che l’ha condotta a leggere l’uomo con uno sguardo profondamente ottimista, che punta sulle risorse dell’individuo per raggiungere le aspirazioni umane più alte. Accanto a Tommaso, sono stati proposti come figure di riferimento anche sant’Agostino e Dante Alighieri, quest’ultimo recuperato nella sua carica dottrinale totalmente permeata di dottrine scolastiche, e sottratto alla lettura in chiave nazionalistica dell’esule politico ribelle alla linea del curialismo guelfo.

5.3 Persistenze e sviluppi della neoscolastica oggi

Nel corso del XX secolo, alla preminente linea di ermeneutica e di apologetica comincia ad affiancarsi in tutti i Paesi anche la linea storico-filosofica, una linea cioè che situa in posizione centrale il testo dei pensatori medievali, la costituzione del testo, la sua trasmissione e la conseguente esigenza di una ricostruzione critica su basi documentarie.

Nell’ambito della speculazione filosofica della seconda metà del XX secolo, la persistenza di una consistente linea di pensiero legata alla neoscolastica è rinvenibile in alcune figure di rilievo internazionale come, in Francia, Etienne Gilson (1884-1978) e Jacques Maritain (1882-1973) autore quest’ultimo di un testo, Umanesimo integrale (1936), che ha avuto grande influenza nella tradizione filosofica cattolica per tutto il Novecento; Cornelio Fabro (1911-1995), Gustavo Bontadini (1903-1990) e Sofia Vanni Rovighi (1908-1990) in Italia; Eric Przywara (1889-1972), Romano Guardini (1885-1968) e Hans Urs von Balthasar (1905-1988) nei paesi di cultura germanica.

Le scuole filosofiche che oggi si mantengono nell’alveo della neoscolastica, spesso in collegamento con i maestri ora nominati, considerano come lascito da preservare l’adesione alle radici della metafisica classica, mantenendo un dialogo aperto con le discipline umanistiche e scientifiche, e garantendo la duplice istanza filosofica racchiusa nell’affermazione della trascendenza e nell’esibizione storica del suo senso. Perdura dunque l’interesse per la cifra metafisica della neoscolastica, criticamente rivisitata dal punto di vista teoretico e coinvolta nel confronto con tutte le forme aperte di razionalità sviluppate dalla filosofia contemporanea.

Gilson e il dibattito sulla filosofia cristiana

Negli anni Trenta del secolo scorso si svolge una discussione, che coinvolge molti intellettuali europei, sull’interpretazione dei pensatori medievali a partire dalla domanda se possa esistere una “filosofia cristiana”. La questione era stata aperta nel 1928 da un intervento del medievista Emile Bréhier che, in un ciclo di conferenze dal titolo: “Esiste una filosofia cristiana?”, aveva dato alla domanda una risposta negativa. Il grande storico della filosofia Etienne Gilson (1884-1978) riprende l’argomento nel 1931 (le sue riflessioni confluiscono poi nel volume Lo spirito della filosofia medievale del 1932). Anzitutto, egli precisa il senso dell’espressione “filosofia cristiana” come applicabile a quei sistemi filosofici, puramente razionali nei loro principi e nei loro metodi, la cui esistenza non si spiegherebbe senza l’esistenza della religione cristiana; inoltre, Gilson afferma che può dirsi cristiana “ogni filosofia che, pur distinguendo formalmente i due ordini, consideri la rivelazione cristiana come un ausiliario indispensabile della ragione”.

Una filosofia cristiana come quella ora delineata, per Gilson, non solo è possibile, ma si è realizzata storicamente nella filosofa di san Tommaso, come pure in quella di sant’Agostino, san Bonaventura, Duns Scoto. Nel diversificarsi delle formulazioni e dei linguaggi, ciò che funge da elemento unificatore dei filosofi cristiani è l’accoglimento della fede, che li colloca in una situazione nettamente distinta da quella dei filosofi non cristiani, perché la ragione è a conoscenza di determinati contenuti di cui cerca l’argomentazione razionale. Lo spirito della filosofia medievale è quello della filosofia cristiana; i maestri ricordati, pur avendo messo in atto percorsi differenti, sono stati d’accordo nel sostenere la verità della rivelazione cristiana ricevuta per fede.

Accanto ad autorevoli consensi, tra cui spicca quello del filosofo Jacques Maritain (1882-1973), le posizioni di Gilson raccolgono anche energici dissensi tra gli storici della filosofia. Emile Bréhier gli pone delle obiezioni di fondo: se per filosofia cristiana si vuole intendere una filosofia in armonia con il dogma e confermata dal magistero della Chiesa, si finisce col ricorrere a una denominazione teologica. In secondo luogo, Bréhier contesta l’esistenza storica di una filosofia cristiana: i pensatori cristiani hanno operato la scelta tra una filosofia autonoma, frutto della sola ragione, e una dottrina rivelata, raccolta negli articoli del credo cattolico, optando sempre per quest’ultimo; per i cristiani dunque la filosofia non ha mai avuto un’autonomia reale, essendo soggetta al supremo controllo del dogma.

Anche Léon Brunschvicg difende la tesi della non esistenza storica della filosofia cristiana: si è voluto battezzare Aristotele, ma non è stato lui a chiedere il battesimo, anzi, Aristotele resta irriducibilmente pagano.

Per conto suo, il filosofo Maurice Blondel critica Gilson, contestandogli nel modo più radicale la possibilità di decidere il problema della filosofia cristiana sul piano della storia: il metodo di chi ricerca affermazioni comuni ai filosofi e ai credenti (per esempio, l’esistenza di Dio e la creazione) porta a dimenticare la divergenza di prospettive tra filosofia e fede. Per Blondel, il cristianesimo agisce sulla filosofia obbligandola a rivedere le proprie posizioni, aiutandola a prendere coscienza della propria limitatezza congenita, strutturale, con il notevole risultato di far emergere un’esigenza di vita soprannaturale.

Pur prestando la massima attenzione a tutte queste critiche, Gilson è tuttavia rimasto fedele, nel corso degli anni, alla propria posizione, chiarendola nei punti controversi e potenziandola con nuove riflessioni e suggestioni: la filosofia è cristiana per quanto la rende possibile il cristianesimo e in quanto accetta l’azione regolatrice del dogma cristiano; la fede propone delle soluzioni, di cui la filosofia in seguito talvolta trova la dimostrazione. Esempio significativo è il nome rivelato di Dio, secondo le Scritture, come Qui est, fatto interagire con la ricerca razionale su Dio; su questo tema Gilson si è impegnato molto, anche nelle dense pagine della sua storia della Filosofia nel medioevo (1922); in uno scritto del 1960 così ha sintetizzato la propria prospettiva: “San Tommaso ha mostrato un ammirevole coraggio intellettuale conducendo la dialettica filosofica dell’essere, che si fermava spontaneamente alla sostanza e all’essenza, fino al punto in cui bisognava arrivare per incontrare la verità della parola divina. Poiché Dio si è rivelato come Colui che è, il filosofo sa che all’origine e nel cuore stesso degli enti bisogna porre l’atto puro di esistere: la parola divina resta irriducibilmente al di sopra di tutte le nozioni filosofiche concepite alla sua luce [...]. Non possiamo dire: ‘poiché la Scrittura l’afferma, i concetti filosofici di essere e di Dio si identificano, in fondo, con quello dell’atto di essere’; in effetti la Scrittura di per se stessa non lo dice; però dice: il nome proprio di Dio è: Qui est; e poiché essa lo dice, io lo credo; e mentre io aderisco così all’oggetto della fede, la mente, fecondata da questo contatto, penetra più profondamente nella comprensione del concetto primo di essere. In un solo e unico movimento, essa scopre nel significato filosofico del principio primo una insospettata profondità, e acquisisce una sorta di comprensione, imperfetta ma vera, dell’oggetto della fede”.

A. G.