Come suole il genere umano, biasimando le cose presenti, lodare le passate, così la più parte dei viaggiatori, mentre viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo, e lo preferiscono [...] a quelli dove si trovano.49
(Leopardi, P 37)
gioia barbarica per seggiole conquistate e forsennato trepestio di bipedi fra quadrupedi seggiole fecero impallidire i migliori brani descrittivi della Gerusalemme.
(Gadda, BCC 73)
Nel secondo esempio la sineddoche bipedi (per “uomini”) innesca il parallelo comico con quadrupedi, nell’allusione (cfr. più avanti 2.18:[23]) a cavalieri e cavalli del poema eroico. Animale bipede (e implume, pure) è certamente l’uomo, per autorevole definizione filosofica; ma qui il “trepestio” fa pensare piuttosto a pennuti starnazzanti, donde la carica metaforica dell’allusione; in quanto a “quadrupedi”, si noti lo sfruttamento rivitalizzante della catacresi ‘gambe, e piedi, delle seggiole’.
Sineddochi dovute all’uso del plurale per il singolare:
sì che dobbiam patire che lo straniero noti, come la patria di Dante, di Machiavelli e di Gino Capponi,50 resiste pertinacemente ai tentativi che mirano ad accrescervi la diffusione del sapere; e come gli Atto Vannucci fioriscano in un ambiente, che insieme riesce così contrario alla vegetazion dell’alfabeto.
(Ascoli, Pr 33)
In effetti i Lamy, i Du Marsais, i Fontanier, simili a tanti Linneo, hanno dedicato i loro sforzi migliori a recensire indefinitamente le “specie” retoriche, senza poter mai accordare le loro rispettive tassonomie dato che è sempre possibile scoprire o inventare nuove “specie”.
(Gruppo μ, RG 194-195)
Il secondo tipo di sineddoche è l’inverso del primo. Si nomina:
(a)la parte per indicare il tutto (tetto per “casa”; Russia per l’ex “Unione Sovietica”):
Così cominciò anche il mio silenzio. Con quelle orribili facce io non scambiavo parola mai; e non avevo bisogno di nulla.
(Merini, AV 57)
A scuola, in centro, si va su due ruote.51
(b)la specie per il genere (pane per “cibo”: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”):
È l’ora della zuppa! (scherzoso, per: “È l’ora del pranzo” / “È ora di mangiare”)
Calepino (il nome di Ambrogio dei conti di Calepio, autore del primo dizionario latino per le scuole, stampato nel 1502) è una metonimia se usato per indicare solo questo dizionario. È una sineddoche ‘species pro genere’ quando sta a significare un qualsiasi vocabolario. Ulteriori estensioni sineddochiche si hanno chiamando calepino un grosso volume, un registro o anche un taccuino.
(c)il singolare per il plurale: lo straniero per “gli stranieri” (come nell’ultimo degli esempi tratti dal Proemio dell’Ascoli); l’italiano per “gli italiani”:
Mi piace [...] che l’italiano sia portato alla confusione. Ma c’è altro modo per salvarsi dall’ordine?
(Flaiano, OSP 1334)
Quando agli elenchi delle espressioni che giudichiamo o metonimiche o sineddochiche (collocandole idealmente in un contesto adeguato) affianchiamo esempi che ne documentano l’uso in testi concreti, ci colpisce la fragilità dei confini tra metonimia e sineddoche e tra queste e la metafora. In certi casi sembra che tali designazioni siano intercambiabili, se adottiamo i criteri di riconoscimento imposti dalle varie classificazioni tradizionali (la difficoltà non si elimina anche restando ancorati a una sola di queste).
Si consideri il seguente esempio:
L’arte segue il denaro. Il sogno del pittore che vive a Roma è di controllare la sua ispirazione non tra le rovine del Foro, ma a New York.
(Flaiano, OSP 1328)
L’arte, metonimia per “gli artisti” (astratto per il concreto); il denaro, opinabile metonimia della ‘cosa posseduta’ per il ‘possessore’; più probabilmente sineddoche (singolare per il plurale), o meglio, catacresi di sineddoche, se vogliamo interpretare così l’uso del collettivo.
Se fosse in questione il vocabolo soldo, l’uso che passerebbe “inosservato”, per usare un’espressione perelmaniana, sarebbe quello del plurale: i soldi. Come si vede nell’esempio che segue (tratto dalla descrizione d’ambiente suggerita all’autore dalla Vocazione di Matteo del Caravaggio), è il singolare a essere retoricamente marcato: l’espressione il soldo può essere classificata come metonimia della cosa posseduta per il possessore (“chi ha soldi”) o come sineddoche del numero (singolare per il plurale):
Le voci son basse e concitate. Ma qualche finestra si apre e donne in camicia si danno a invocare la Madonna. Il soldo comanda e la spada lavora.
(Gadda, TeO 23)
Anche la spada, come il soldo, può essere considerata una metonimia oppure una sineddoche: le definizioni classiche consentono a pari diritto l’una e l’altra interpretazione. Si aggiunga che il soldo e la spada sono evidenti ‘personificazioni’ (cfr. 2.18:[25]), e che l’enunciato, nel suo insieme, ha carattere metaforico; come è metaforico il predicato segue nel precedente passo di Flaiano. Non giova molto classificare come “tropi composti” il risultato dell’incontro di usi figurati dagli incerti confini. Né basta il contesto ad assegnare identità. È ai congegni che bisogna badare: al loro funzionamento in diversi schemi del discorso.
Della metonimia e della sineddoche, come è stato osservato (cfr. Henry 1975:12), e come è apparso, del resto, dalla nostra rassegna, la retorica antica non ha dato definizioni vere e proprie: ha solo cercato di redigere cataloghi particolareggiati delle diverse specie dei due tropi senza mai riuscire a dare criteri di riconoscimento attendibili. Nominare la materia per l’oggetto (il ferro per “la spada”), ad esempio per alcuni è metonimia, per altri è sineddoche: né si vede quale delle due ipotesi abbia più titoli di credito, dal momento che entrambe poggiano su procedure puramente elencative.
Ma non è decisiva neppure la distinzione – stabilita da Esnault e ripresa da Henry (1975) – che pone alla base della metonimia un cambiamento nella comprensione semantica di uno o più termini (comprensione intesa come “l’insieme dei caratteri, generici o specifici, che definiscono un ente”) e alla base della sineddoche una modifica dell’estensione (l’insieme degli enti che hanno la stessa comprensione). Quando designo metonimicamente un’opera col nome dell’autore, modifico la comprensione di tale nome, attribuendogli anche il significato di “opera”; e quando uso una sineddoche (il soldo per “i soldi”), modifico l’ambito a cui il concetto può applicarsi: non un elemento singolo, ma molti; e ancora, non tutto un genere, ma solo una specie (mortali per “uomini”). Ma è proprio il carattere dialettico e correlativo dei due concetti a renderli inadatti a ‘separare’ le due figure, dal momento che modificando l’insieme dei tratti caratterizzanti si modifica anche il loro ambito di applicazione.
È stato notato da molti che metonimia e sineddoche, ma enormemente di più la prima che la seconda, modificano il lessico delle lingue; e diventano “catacresi di metonimie e di sineddochi”. Per rendersene conto basterebbe scorrere un dizionario, soffermarsi sulle etimologie (ai pochi esempi già dati aggiungiamo appena: assassino, attico, atlante, biro, cardano, mansarda, pantalone, stile...),52 verificare le varianti di significato (la polisemia) di singoli lemmi (lingua, per esempio). La polisemia ci mostrerebbe i meccanismi tropici ancora operanti, messi in evidenza, nei vocabolari, come usi ‘estensivi’ o come usi ‘figurati’.
“Ogni atto linguistico”, asseriva Henry (1975:17), “può essere spunto per una metonimia.” È importante parlare di “atto”, per uscire dalla concezione (comoda quando si vuole esemplificare, ma limitativa) della figura ridotta al gruppo del nome. E soprattutto per approssimarsi ai processi della sua produzione e interpretazione. In uno studio rimasto fondamentale, Jakobson (1966:22-45) individuava i due poli, metaforico e metonimico, tra i quali si svilupperebbe l’attività linguistica:
L’atto linguistico implica la selezione di certe entità linguistiche e la loro combinazione in unità linguistiche maggiormente complesse. Questo appare immediatamente al livello lessicale: il parlante sceglie le parole e le combina in proposizioni secondo il sistema sintattico della lingua che egli usa; le proposizioni, a loro volta, sono combinate in periodi.
(Jakobson 1966:24)
Le scelte vengono compiute all’interno del patrimonio linguistico comune al parlante e al destinatario del messaggio (o comunque, nel caso di neologismi, all’interno delle possibilità combinatorie della lingua e applicando regole di composizione compatibili con quelle già funzionanti):
la concorrenza di entità simultanee e la concatenazione di entità successive sono i due modi secondo i quali noi, soggetti parlanti, combiniamo gli elementi costitutivi del linguaggio.
(ivi, 25)
La selezione tra materiali alternativi, coesistenti nel sistema (o codice linguistico), implica che questi materiali possano essere sostituiti l’uno all’altro nel costruire un messaggio. I componenti di quest’ultimo si trovano fra loro in rapporto di contiguità, mentre i segni tra i quali è stata compiuta l’operazione di scelta e di sostituzione sono in rapporto di similarità (in vari gradi, “che oscillano dall’equivalenza dei sinonimi al nucleo comune degli antonimi”, ivi, 27). Studiando le varie manifestazioni dell’afasia, Jakobson arrivò a determinarne due tipi principali: il disturbo della contiguità (l’incapacità di combinare le parole in frasi) e il disturbo della similarità (la perdita della “capacità di denominare”). Le due direttrici secondo le quali si sviluppa un discorso furono da lui denominate, quella per contiguità “direttrice metonimica” e quella per similarità “direttrice metaforica”, perché ciascuna delle due figure rappresenta nel modo più sintetico il rispettivo rapporto: esterno, realizzato nel messaggio, il rapporto di contiguità; interno, relativo al codice, quello di similarità.
Nell’afasia l’uno o l’altro di questi due processi è indebolito o totalmente bloccato [...]. Nel comportamento verbale normale ambedue operano senza discontinuità, ma un’attenta osservazione rivelerà che, sotto l’influsso di un modello culturale, della personalità e dello stile, viene preferito ora l’uno ora l’altro processo.
(ivi, 40)
Che Jakobson trovi il principio di similarità alla base della poesia interessa per le deduzioni riguardanti il parallelismo (cfr. qui 2.17); interessa meno che egli caratterizzi la prosa come sede dei rapporti di contiguità. In ogni caso, è importante che il procedimento metonimico sia stato messo in relazione con quello metaforico sul fondamento di una teoria rigorosa della struttura linguistica.
A questo punto il problema di distinguere la metonimia dalla sineddoche perde consistenza: sono entrambe “figure di contiguità”, come le considera Henry (1975), fondate su un meccanismo di “focalizzazione” del pensiero. Il loro statuto stilistico si determina in relazione al contesto, ricorrendo alla considerazione di fattori cognitivi per descriverne il funzionamento e l’interpretazione:
La figura di contiguità non è semplicemente una figura di stile, un vano ornamento di scrittura. Può divenire un procedimento espressivo assai fecondo presso certi scrittori; svolge un ruolo considerevole nella vita del linguaggio e nella storia delle lingue; procede addirittura da un meccanismo fondamentale dell’intelletto umano.
(Henry 1975:58)
Il meccanismo, come si vedrà più avanti, generatore delle metafore.
Contro la “riduzione unilaterale” della sineddoche alla metonimia nella nozione unificante di (figure della) contiguità aveva protestato Genette (1976 [1972]): la metonimia si regge su “relazioni senza dipendenza” (cioè senza inclusione), mentre la sineddoche è governata proprio da rapporti di inclusione (iper- e iponimia). Sembrava strano, a Genette, che la seconda di queste figure potesse essere omologata alla prima, e per di più sotto una nozione (la contiguità) che ‘restringe’ la metonimia “a un effetto di contatto o di prossimità spaziale”. Questo equivale a “limitare il gioco di tali figure al loro aspetto fisico o sensibile”, sintomo, d’altra parte, dello “slittamento” che il discorso poetico ha avuto in epoca moderna “verso le forme più materiali della figurazione” (Genette 1976:25).
Nella semiotica di Eco (cfr. Eco 1975 e 1984) la distinzione fra “sineddoche particolarizzante in Π” (cfr. qui 3.2:C) e metonimia è giudicata “irrazionale”. La metonimia, infatti, è descritta da Eco come
la sostituzione di un semema con uno dei suoi semi (/ Bere una bottiglia / per “bere del vino”, perché la bottiglia sarà registrata fra le destinazioni finali del vino) o di un sema col semema a cui appartiene (/ Piangi o Gerusalemme / per “pianga il popolo d’Israele” perché fra le proprietà enciclopediche di Gerusalemme deve esistere quella per cui è la città santa degli ebrei)
(Eco 1984:179; corsivi nell’originale)
(Per le nozioni di sema e di semema si rimanda a 3.2:C.) L’unico tipo di sineddoche possibile è quello (generalizzante o particolarizzante) in ∑ (albero per “betulla” e viceversa). Perché, allora, si è continuato per secoli a distinguere gli altri tipi (presunti) di sineddoche dalla metonimia? Eco dà al quesito una soluzione “storico-fenomenologica” (che spiega, nello stesso tempo, perché si sia sempre faticato a separare le due figure e perché Jakobson abbia potuto unificarle):
Le cose vengono percepite anzitutto visivamente, e anche per le entità non visive ne vengono percepite principalmente le caratteristiche morfologiche (un corpo è rotondo o rosso, un suono è grave o forte [...] e così via). Solo a una ispezione successiva si è in grado di stabilire le cause, la materia di cui l’oggetto è fatto, i suoi fini o funzioni eventuali. Per questo la sineddoche particolarizzante (che si basa sul rapporto fra un ‘oggetto’ e le sue parti) ha ottenuto uno status privilegiato: che è lo status privilegiato della percezione rispetto ad altri tipi di conoscenza...
(ivi, 182)
Una volta conosciuti gli oggetti, questi vengono definiti in base a proprietà che non necessariamente denunciano le fasi ‘storiche’ attraverso le quali essi sono stati conosciuti, ed è così che troviamo, tra gli elementi che servono a definirli, la loro funzione, l’essere opera di qualcuno ecc.: elementi pertinenti, oltre a quelli ‘fisici’, in una rappresentazione enciclopedica.
La descrizione dei procedimenti per cui si producono variazioni di senso è compito di una teoria dell’interpretazione semantica degli enunciati. È solo perché non ne possediamo ancora una “sufficientemente ricca e articolata” che resistono, secondo Ruwet (1986:215), nozioni appartenenti a “categorie del senso comune, prescientifiche”, quali sarebbero quelle di sineddoche e di metonimia, quando vengono applicate
a meccanismi linguistici molto generali (l’anafora ad esempio),53 o a conseguenze inferite dall’uso letterale delle parole negli enunciati, oppure ad espressioni stereotipate, idiosincrasiche.
(Ruwet 1986:216)
Ciò non toglie che esistano effetti figurati, visibili particolarmente, ma non certo esclusivamente, nell’uso letterario. Analizzando la poesia di Baudelaire Le chat, Ruwet nota, tra l’altro:
i soggetti e gli oggetti non designano che parti del corpo, e i due protagonisti della poesia je e le chat (tu) non sono presenti che in maniera indiretta, sotto forma di possessivi, e nelle inferenze. C’è una sorta di focalizzazione sulle parti del corpo, e a questo proposito si può parlare, se si vuole, di uno stile “sineddochico”.
(ivi, 217; corsivo nostro)
certamente più dilettevole di tutte l’altre ingegnose figure sarà la metafora [...] Per ciò che se tu di’: “Prata amoena sunt”, altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati; ma se tu dirai: “Prata rident”, tu mi farai [...] veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto. Talché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, animo, riso, letizia. | |
(Tesauro) |
Possiamo fare commenti sulla metafora, ma la metafora di per sé non richiede né sollecita spiegazione o parafrasi. Il pensiero metaforico rappresenta un particolare modo di ottenere una maggiore comprensione e non è costruito come un sostituto ornamentale del pensiero semplice. | |
(Max Black) |
[3] Le tradizionali definizioni della metàfora (gr. metaphorá, da metaphérein “trasportare”; lat. metaphorá e il calco traduttivo translatio, da transferre “trasportare”; da cui deriva traslato) si possono compendiare nella seguente: sostituzione di una parola con un’altra il cui senso letterale ha una qualche somiglianza col senso letterale della parola sostituita.
Tale definizione (che ricalca quella di Lausberg 1969:127) è conforme alla concezione dei tropi come figure di sostituzione (immutatio) che vertono su parole singole (in verbis singulis). Il ‘luogo’ che viene applicato per trovare questo tropo è il locus a simili, la somiglianza, appunto; il procedimento è la contrazione di un paragone: si identifica un’entità con quella con cui essa viene ‘confrontata’; donde la definizione di metafora come similitudo brevior (paragone abbreviato): “Un’evidenza cristallina” < “chiara come il cristallo”; “Rommel era una volpe” < “astuto come una volpe”. Benché questa concezione sia dura a morire, in pratica non serve a spiegare la maggior parte delle metafore. In un’espressione come:
una bibbia fiorita di miniature gotiche54
è bensì implicito un confronto (le miniature sembrano fiori / la bibbia è ornata di miniature come di fiori ecc.), ma il procedimento per cui si arriva alla metafora non è semplicemente la soppressione degli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Questo si osserva anche in molte espressioni di uso comune:
è un pozzo di scienza / brillava per la sua disinvoltura /
il serpente monetario
a cui la riduzione sembra inapplicabile, nella forma proposta dalla manualistica tradizionale. Si noti infine che fu la retorica latina a intendere in tal modo il rapporto fra similitudine e metafora (l’espressione similitudo brevior è di Quintiliano).55 Per Aristotele, a cui si richiamano gli esempi (“leone” metafora di “guerriero” ecc.) che ricorrono nei vari trattati, il paragone è “una specie” della metafora.
I rapporti tra metafora e paragone non sono affatto semplici, e meno che mai si lasciano ricondurre alle dimensioni degli enunciati o alla presenza / assenza del segno esplicito del confronto, cioè la congiunzione come. Secondo una dimostrazione fra le più convincenti,
la differenza tra similitudine e metafora [...] non si regge su presupposti formali, bensì pragmatico-cognitivi in senso stretto. La prima figura è fondata sulla percezione statica delle affinità (e delle differenze) che legano due entità; mentre la seconda si basa su un meccanismo di natura eminentemente dinamica, che produce una qualche forma di fusione, o per meglio dire compresenza, tra i due enti raffrontati.
(Bertinetto 1979:160)
Inoltre, diverse specie di paragone non possono essere ‘condensate’ in metafore, come ha mostrato a sufficienza Henry (1975:71-76).
Eco (1984:142) ha osservato che le definizioni correnti (“trasferimento del nome di un oggetto a un altro oggetto per rapporto di analogia”; “sostituzione di un termine proprio con uno figurato” ecc.) sfiorano spesso la tautologia. E anche le secolari discussioni su quello che è stato considerato il tropo dei tropi, la figura fondante, il genere di cui le altre sono la specie, sembrano
una serie di variazioni intorno a poche tautologie, forse a una sola: “La metafora è quell’artificio che permette di parlare metaforicamente.”
Di tutti i fatti retorici, la metafora è quello che meglio si presta a essere riconosciuto intuitivamente, senza bisogno di nozioni teoriche preliminari. È noto che qualsiasi parlante è disposto ad accettare come ‘possibili’, a patto di intenderli in senso traslato, enunciati che egli giudica inaccettabili, addirittura dei non-sense,56 in situazioni linguistiche ‘normali’. Metafora e uso figurato diventano tutt’uno: la specie viene a coincidere col genere.
Il meccanismo metaforico, a quanto pare universale, ha resistito a migliaia di tentativi di spiegazione: ha resistito nel senso che nessuna delle spiegazioni proposte è stata senza residui, poiché il fenomeno, in ogni caso, ha travalicato i limiti e le competenze delle singole discipline che l’hanno affrontato.
Per Aristotele, che per primo indagò la natura della metafora, questa consiste “nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro” (Poet., 21, 1457b). Il trasferimento avviene:
(i) dal genere alla specie:
Quivi s’è ferma la mia nave
perché, dice Aristotele, l’“essere ancorato” è un modo speciale del generico “esser fermo”. Con che egli chiama metafora quella che poi sarà una sineddoche genus pro specie;
(ii) dalla specie al genere:
Ché mille e mille gloriose imprese / ha Odisseo compiute
dove la specificazione “mille e mille” vale il generico “molte”; ed è una sineddoche species pro genere;
(iii) da specie a specie:
poi che con l’arma di bronzo gli attinse la vita
dove il passaggio avviene da “togliere” ad “attingere”; ed è una metafora basata su una certa somiglianza tra l’atto di togliere e quello di attingere. I due significati hanno dei tratti, o proprietà, in comune (cfr. qui 3.2:C), rappresentabili come la zona di intersezione di due insiemi, il metaforizzante e il metaforizzato (cfr. la trattazione di Eco 1984:152-154);
(iv) per analogia; ed è la metafora a quattro termini, descritta nello schema proporzionale che è servito di fondamento alla maggior parte delle teorie successive:
si ha la metafora per analogia quando, di quattro termini, il secondo, B, sta al primo, A, nello stesso rapporto che il quarto, D, sta al terzo, C; perché allora, invece del secondo termine, B, si potrà usare il quarto, D, oppure invece del quarto, D, si potrà usare il secondo, B [...]. Esempio: la ‘vecchiezza’ (B) è con la ‘vita’ (A) nello stesso rapporto che la ‘sera’ (D) è col ‘giorno’ (C); perciò si potrà dire che la ‘sera’ (D) è la ‘vecchiezza del giorno’ (B+C), e [...] che la ‘vecchiezza’ (B) è la ‘sera della vita’ (D+A) o il ‘tramonto della vita’.
(Poet., 21, 1457b)
Questa formula permette di spiegare anche le catacresi, cioè le metafore il cui ‘metaforizzato’ non esiste nel lessico, dette anche metafore di denominazione, perché colmano vuoti del vocabolario di una lingua. Per esempio applicato alla catacresi il collo della bottiglia, lo schema proporzionale darà: “il collo sta alla testa (o alle spalle) come un oggetto innominato sta al tappo o al corpo della bottiglia” (cfr., in Eco 1984:155-157, la spiegazione di questa catacresi, in cui sarebbero in gioco somiglianze morfologiche, rispetto all’altra, le gambe del tavolo, che verterebbe su somiglianze funzionali; cfr. specialmente l’analisi critica delle metafore aristoteliche “coppa di Ares / scudo di Dioniso” da cui Eco muove per un’importante disamina della metaforologia posteriore).
Aristotele, nella Retorica, aveva rilevato il carattere conoscitivo della metafora (che “ci istruisce e ci dà una conoscenza per mezzo del genere”) e nella Poetica aveva notato che la capacità di costruire metafore è segno della dote naturale di “ben vedere le somiglianze”. Dopo di lui, quei settori della trattatistica che privilegiarono l’elocuzione a scapito delle altre parti della retorica insistettero sulla funzione decorativa della metafora.
Nel Medioevo, offuscato il valore conoscitivo del linguaggio dall’idea della Rivelazione divina delle verità, la metafora è assimilata all’allegoria (cfr. qui 2.18:[24]), o è confusa col simbolo; distinta dalla sineddoche e dalla metonimia, viene analizzata soprattutto come “abbellimento”.
Nel Seicento, E. Tesauro coglie nella metafora come “argutezza” soprattutto la “brevità”, cioè la concentrazione di più sensi in una stessa espressione: la brevità è motivo di novità e questa di “maraviglia, la quale è una riflessione attenta che t’imprime nella mente il concetto”. Al significato nuovo, nascosto sotto il senso letterale, consueto, si arriva con il lavoro e l’abilità del solutore di enigmi: la metafora, “enimmatica voce, oscuramente chiara e tacitamente parlante, per fare indovino l’ascoltatore”, è più “ingegnosa e acuta” quando “le nozioni son tanto più lontane che fia mestieri di scendere molti gradini in un attimo per arrivarci”.
Ma nei Princìpi di una scienza nuova (1725) G.B. Vico pone la metafora a fondamento della gnoseologia dei primitivi, intendendola come la forma originaria del linguaggio: il parlare figurato è anteriore all’espressione razionale del pensiero, è il risultato della trasposizione di caratteristiche umane alle cose inanimate.
I grandi retori del Settecento puntano sui caratteri ornamentale e creativo della metafora. Fontanier, nella sua analisi stilistica dei tropi, arriva a distinguere con chiarezza le “metafore d’invenzione” dalle “metafore d’uso”. Com’è stato notato, se si ignora tale distinzione si rischia di perdere di vista “ciò che la metafora è: o considerando tutto il linguaggio come metaforico, o considerando tutto il linguaggio, comprese le sue figure, come riducibile a grammatica” (Briosi 1985:37).
Nel mare magnum degli studi moderni sulla metafora si possono tentare raggruppamenti secondo idee-guida e secondo il tipo di approccio, linguistico, filosofico, semiotico. Con qualche approssimazione accomuneremo, pur nelle loro notevoli differenze, ricerche guidate dall’idea della metafora come ‘condensazione’ o fusione di concetti. Per Richards (1967 [1936]) la metafora non è solo un trasferimento di parole; è una ‘interazione’ di idee: l’una è il “tenore” (tenor, cioè meaning, la nozione: ad es. “la sporcizia”, quando diciamo, di un mare, che è una fogna); l’altra è il “veicolo” (vehicle, cioè il significato che il dizionario assegna, ad es. al termine fogna). La figura è data dall’unione tenor + vehicle; e spesso sono più importanti le differenze che le affinità fra i due componenti. Nella convergenza di due immagini, come nella visione binoculare, il filosofo del linguaggio e psicologo Karl Bühler (1983 [1934]) vede la genesi della metafora: due immagini di una stessa entità. Ancora di “fusione metaforica” (fra il tema e il foro) parlano Perelman e Olbrechts-Tyteca, nei termini già visti (cfr. qui 2.6:[6]), trattando la metafora all’interno dell’analogia. Henry (1975) concentra la sua indagine sul “meccanismo di creazione” della metafora. Nello schema proporzionale aristotelico egli vede rappresentato “un doppio meccanismo metonimico” (vecchiaia-vita; sera-giorno): un’operazione ‘prelinguistica’ o ‘sublinguistica’, che viene poi attualizzata e sostanziata nell’espressione verbale. Su tale meccanismo è fondata la metafora: che “è la sintesi di una doppia metonimia in corto circuito, è una identificazione metonimica che crea nel discorso una sinonimia soggettiva” (Henry 1975:81). Egli distingue: metafore a quattro termini, dove il metaforizzante (indicato dal rapporto a / b) e il metaforizzato (a’ / b’), cioè i quattro termini dell’equivalenza, sono tutti espressi:
La ferrovia (a’) tra due città (b’) è il trait-d’union (a) tra due parole (b);
metafore a tre termini (in cui è omesso più frequentemente b, perché anche gli altri termini, tranne a, possono essere assenti a turno in ognuna delle tre combinazioni possibili):57
Fra la città imperiale e la città elettorale (b’), la nostra civiltà ha gettato quel trait-d’union (a) che si chiama ferrovia (a’);
metafore a due termini, dove sono espressi: a-b’ oppure a-a’; il seguente esempio mostra entrambe le combinazioni:
Gli aironi (a) della tua voce (b’) [...] dal roveto ardente (a) delle tue labbra (a’)
dove sarebbero impliciti: nella prima metafora, b (uccello) e a’ (parole); nella seconda, b (splendore delle fiamme) e b’ (il rosso).
Secondo Henry non esistono metafore a un solo termine; il contesto, nello scritto, e la situazione nell’orale (quando, per esempio, uno dice di un parlatore vacuo: “Che trombone!”, oppure, riferendosi a uno scontroso inavvicinabile: “Ecco l’orso”) darebbero gli elementi per ripristinare almeno un termine dell’equazione analogica. L’interesse delle analisi stilistiche di Henry sta nel tentativo di spiegare, attraverso la fusione di più “schemi sublinguistici”, il carattere sintetico (di corto circuito concettuale) delle espressioni metaforiche.
Della metafora intesa come prodotto di due sineddochi, nella Retorica generale del Gruppo µ, si darà notizia in 3.2:C. In quest’ultima, come nelle altre teorie a cui si è finora accennato, permane come criterio basilare il confronto fra due entità, il metaforizzato e il metaforizzante. Perciò si è parlato (cfr. Ricoeur 1981 e Briosi 1985) di definizioni “comparatistiche”. Tali sarebbero anche quelle di una parte almeno della semantica strutturale, che spiega il processo metaforico come intersezione di uno o più “tratti” appartenenti a oggetti diversi. Ma lo schema coglie “solo il momento terminale del processo” (Briosi 1985:54), e infatti funziona per le metafore di denominazione, del tipo “il dente, la cresta, i piedi della montagna”.
Dal punto di vista linguistico sono stati esaminati gli aspetti sintattici, semantici, logici e pragmatici del discorso metaforico. Di tali studi esiste un’eccellente rassegna (Bertinetto 1977), le cui conclusioni metodologiche sono tuttora valide. Antesignana dell’analisi grammaticale dei tropi è la Poetria nova di Geoffroi de Vinsauf (XII secolo), la cui tipologia delle metafore aggettivali e verbali è stata seguita nell’accurato lavoro di Christine Brooke-Rose (1958). Ivi si mostra che le metafore verbali differiscono sostanzialmente dalle nominali perché non ‘sostituiscono’ un’azione, ma cambiano il significato dei nomi connessi al verbo (ad es. dicendo “il tempo vola”, “la macchina divora la strada”, tratto come esseri animati il tempo e la macchina, e la strada come qualcosa che si possa ingoiare). Analogo a quello del verbo, il comportamento di aggettivi e avverbi. Formalizzazioni di tipo logico-semantico (ad es. Bergmann 1979) non spiegano come funzionino le metafore: si limitano a trovare il modo di introdurre la rappresentazione del fatto metaforico (ammesso intuitivamente come tale) nella formalizzazione di una lingua naturale. Secondo Bertinetto, le possibilità di un’analisi puramente linguistica sarebbero confinate allo studio delle “pseudometafore”, che egli chiama metafore-similitudini (es.: “quella ragazza è un fiore”), sottoposte al processo di “riduzione concettuale” per cui esse vengono descritte come similitudini. Affermando che la metafora “affonda le proprie radici nei meccanismi cognitivi della psiche umana” (Bertinetto 1977:84), si torna sulla grande via indicata da Aristotele, per cui la metafora non è “ornamento”, belletto, ma strumento di conoscenza.
La spiegazione semiotica che Eco (1984:190-197) dà della metafora è fertile di spunti operativi: proposte “cinque regole” per l’interpretazione co-testuale, si passa all’interpretazione simbolica (attraverso la riformulazione di alcune ipotesi della metaforica del testo di Weinrich 1976), per concludere che “non esiste algoritmo per la metafora”; la sua riuscita “è funzione del formato socioculturale dell’enciclopedia dei soggetti interpretanti”; essa è “lo strumento che permette di capire meglio il codice (o l’enciclopedia)”. Darne una definizione sintetica è impresa illusoria: perché, se sembra semplice capirla, non è affatto semplice l’azione dei dispositivi mentali che permettono di produrla e di interpretarla.
Nell’ambito della filosofia del linguaggio, la funzione conoscitiva della metafora è stata il fulcro della cosiddetta “concezione interattiva” di Black (1983), opposta alle concezioni “sostitutiva” (il traslato sostituisce un’equivalente espressione letterale) e “comparativa” (la metafora è ‘presentazione’ di un’analogia sottostante). Riprendendo le tesi di Richards, Black sostiene che la metafora interattiva si costruisce mediante un sistema di implicazioni presenti nel senso letterale dell’espressione metaforica. Più che esprimere delle similarità, la metafora sembra crearle: “certe metafore ci mettono in grado di vedere aspetti della realtà che la creazione della metafora aiuta a costruire” (Black 1983:132). La metafora come ‘modello’, come meccanismo operante nel linguaggio di ogni giorno, che crea e manifesta nello stesso tempo il nostro modo di vedere la realtà: è la posizione “esperienziale” illustrata da Lakoff e Johnson (1982). Ricoeur (1981 [1975]) esamina in un’ottica ermeneutica le diverse “letture retoriche” della metafora per considerarla come “strategia linguistica” atta a “rivelare” significati nuovi. Briosi (1985), dopo avere ripercorso criticamente la storia, le concezioni filosofiche, la grammatica, la semantica, la psicologia e la semiotica della metafora, ne ha proposto un’interpretazione “fenomenologica”, applicando concetti della filosofia di Merleau-Ponty.58
Nei campi della teoria e della critica letterarie lo studio della metafora è strettamente congiunto a quello dell’allegoria e del simbolo (cfr. qui 2.18:[24]). In primo piano, il carattere sistematico che si riconosce al discorso metaforico della poesia:
il testo poetico è una catena di metafore coerenti quanto a struttura o, se non il singolo testo poetico, un gruppo di testi di un singolo autore, un canzoniere, un’opera poetica, l’intera opera poetica dell’autore stesso, anche le opere poetiche di un gruppo di autori che [...] tendano a costituire un linguaggio di “scuola”.
(Bàrberi Squarotti 1982:4)
D’altra parte, il riconoscimento della funzione principe della letteratura: quella di essere “creatrice e istitutrice di simboli” (ivi, 21). La preferenza accordata alla metafora rispetto all’allegoria a partire dal Romanticismo e teorizzata nella forma più radicale da Hegel coinciderebbe con “la riduzione voluta e calcolata della funzione della letteratura, spogliata dell’intento e degli strumenti conoscitivi a favore di quelli illusivi e decorativi” (ivi, 23).
Di fronte al troppo che rimane qui non registrato a proposito delle concezioni e degli usi della metafora sembra opportuno rinviare, per indispensabili suggerimenti, alle utili pagine antologiche e alla relativa introduzione di Cacciari 1991, sulla metafora come “evento del linguaggio” e “fatto concettuale”, secondo psicologi, linguisti – specialisti di semantica e informatici – e antropologi: il tutto in vista di una tipologia delle funzioni del ‘tropo per eccellenza’ che, per dirlo con Lotman (1980:1055) è “isostrutturale alla coscienza creativa”.
Un tipo di metafora è la sinestesìa (dal gr. synáisthēsis “percezione simultanea”): trasferimento di significato dall’uno all’altro dominio sensoriale. Sinestesie di uso comune (per la maggior parte traducibili da una lingua all’altra) sono espressioni quali:
tinte calde / fredde; profumo fresco; voce chiara / cupa / profonda; colori chiassosi / stridenti; persona ruvida; è andato tutto liscio; paura nera / blu; parole acide; sorriso amaro; prezzi salati; colorito (nell’esecuzione musicale); calore / freddezza di voce; suono vellutato...
Era un suono più “vellutato”, più “morbido”, forse, quello che Liszt voleva ottenere, quando chiedeva alla sua orchestra di Weimar di fare “più blu” una certa nota, come narra Ullmann (1959:283). Secondo Ullmann (1966:361), “le impressioni acustiche e visive sono più spesso trascritte in termini di tatto o di calore che viceversa”. Morier (1961:311-338), a cui si rimanda per l’ampia trattazione della sinestesia nell’ambito delle “corrispondenze” (visive, uditive, analogiche, “sentimentali” ecc.), nota che
l’aggettivo dolce, applicato propriamente al gusto e al tatto [...] è un trasferente sensoriale generale; tutte le percezioni lo rivendicano: una pelle dolce, una luce dolce, una musica dolce, ecc. Non si vede come una lingua possa fare a meno di questo tipo di metafora: la più significativa è forse l’espressione tedesca Tonfarbe (“colore del suono”), per designare il timbro.
(Morier 1961:337)
Sono fatti sinestesici (abbondantemente documentati da Morier) quelli a cui si è accennato (in 2.12:A1) parlando di simbolismo fonico.
C’è qualcosa di strano nell’operazione di catalogare l’ironia secondo la tecnica quando l’ironia più sottile è intenta ad evitare di essere riconosciuta attraverso la tecnica. | |
(Muecke, trad. Almansi) |
Se, al modo stesso della verità la menzogna non avesse che un solo volto, noi ci troveremmo in termini migliori con lei. Infatti noi potremmo prendere per certo l’opposto di quello che direbbe il mentitore. Ma il contrario della verità ha centomila volti e un campo indefinito. | |
(Montaigne, trad. Almansi) |
[4] L’ironia (gr. eirōnéia “finzione”, da éirōn “colui che interroga” [fingendo di non sapere]; lat. simulatio “simulazione”; illusio “irrisione”, “inganno”; permutatio ex contrario ducta “cambiamento [di senso] ottenuto dal contrario”) è stata compresa fra i tropi nella trattatistica tradizionale (cfr. qui 2.16). Fontanier la considera uno dei tropi “impropriamente detti” in quanto costituiti di più parole, e Lausberg (1969) la descrive sia come “tropo di parola” (ivi, 128-129) sia come “tropo di pensiero” (ivi, 237-240), includendovi la simulazione e la dissimulazione. Il Gruppo µ (cfr. qui 3.2) la colloca fra i metalogismi “per soppressione-aggiunzione” (cfr. la fig. 2), soffermandosi specialmente sull’antifrasi (cfr. più avanti) e mostrandone le analogie e le intersezioni con la litote e l’eufemismo.
Mizzau (1984:13-16) dà una rassegna di definizioni, antiche e moderne: prevale la concezione dell’ironia come antifrasi, o “inversione semantica” (ironia è ‘dire l’opposto’ di ciò che si crede e che realmente è), ma non mancano riferimenti agli scopi (burlarsi di qualcuno o qualcosa, deridere), al carattere paradossale e allusivo dell’alterazione ironica, al vantaggio che essa offre (l’idea è di Freud) “di far aggirare facilmente le difficoltà delle espressioni dirette”, e alla parentela con il comico. Lausberg (1969:128) accenna al carattere di citazione (“l’ironia come tropo di parola è l’uso del vocabolario partigiano della parte avversa [...] nella ferma convinzione che il pubblico riconosca la incredibilità di questo vocabolario”): ciò che si intende per “fare l’eco” a un altro discorso (espressione isolata o insieme di enunciati). Sotto tale aspetto, le varie specie di ironia si potrebbero interpretare (la proposta è di Sperber e Wilson 1978) come “menzioni (generalmente implicite)”, eco di un enunciato o d’un pensiero di cui il parlante intende sottolineare l’errore, l’inammissibilità, l’inopportunità o l’inadeguatezza. Intesi come ‘modi di riportare’ la parola propria (autoironia) o altrui (sarcasmo, parodia, deformazione comica ecc.), i vari tipi di ironia possono essere spiegati, sempre secondo Sperber e Wilson, senza ricorrere alla nozione di senso figurato. Quest’idea è sviluppata da Mizzau, che, sulle tracce di Bachtin, considera l’ironia come
il caso limite, più evidente, di un fenomeno frequentissimo nel discorso: la dialogicità interna alla parola.
(Mizzau 1984:68)
Che significa “dialogo tra un enunciato presente e uno assente evocato”. L’ironia è distanziamento:
menzione di un enunciato cui si invita a non prestar fede. Ma come non tutte le menzioni sono distanziamenti (esiste la citazione partecipe, assenziente), così non ogni distanziamento è ironia.
(ivi)
L’accurata analisi di Mizzau isola gli aspetti semantici (l’antifrasi) e pragmatici dell’ironia, ne discute le ambiguità e i risvolti paradossali, descrive le intenzioni con cui viene prodotta, gli impliciti, le condizioni a cui viene compresa, i rapporti con l’umorismo, le funzioni che essa ha nell’interazione comunicativa. Un modo nitido e coerente di affrontare l’universo ironico; che però sembra beffarsi – ironicamente – di ogni strumento di misurazione. È il paradosso di cui parla Almansi, in un saggio il cui scopo dichiarato è dimostrare l’impossibilità di una “retorica dell’ironia”:
l’ironia non è definibile secondo modelli perché è basata sulla incompletezza dell’informazione, mentre l’analisi del discorso ironico non può procedere senza modelli.
(Almansi 1984:24)
La “zona di incertezza psicologica” (ivi, 22) in cui vive questa figura proteiforme è stata scandagliata da Jankélévitch (1987 [1964]): l’ironia è uno ‘sgonfiamento’ dell’enfasi, del prendersi sul serio; vuole indurci a ridimensionare il mondo e noi stessi, ma non è né superficialità né futilità, è piuttosto pudore, mescolanza di riso e di pianto. Prototipo dell’ironista è Socrate, che demolisce le vuote ostentazioni, ma aiuta mentre mette in difficoltà, è sfuggente, imprevedibile e saggio, sceglie la strada della riservatezza e non quella della tracotanza beffarda, che porta al sarcasmo.
Fra le multiformi specie di ironia di cui discorre Almansi, la tongue-in-cheek (che l’Oxford Dictionary definisce come “parlare in modo non sincero o con lieve ironia”) è la più sfuggente: come ogni volta che sono in gioco la sincerità e la buona fede, le intenzioni recondite di chi parla in modo e con tono volutamente ambigui, e il disorientamento o l’ingenuità di chi ascolta.
Un’esemplificazione eccellente si trova, com’è naturale, nei lavori citati; altri esempi sono disseminati in questo manuale, e si farebbe torto al lettore se si tentasse di elencarli ora. Si aggiunge appena il seguente, che mostra non poche variazioni (anche di registro) della figura, compresi la citazione ironica e il grottesco satirico:
Il poeta Prati, passati i cinquanta, invita la pupa, una bella notte, a romantico dondolamento sul mare. Le si rivolge con una interminabile stampita in sestine di quinari gèmini il cui ritornello [...] è tutto un programma: “dormi, fanciulla: meglio è sognare / su la stellata volta del mare”. L’idea di invitare in barca la ragazza, e una volta che ce l’ha in barca suggerirle per prima cosa “dormi”, è innegabilmente un’idea sublime: essa contribuisce in modo indubbio “a elevare il livello culturale degli italiani” che di solito propendono a fare un uso alquanto dialettale delle ragazze in barca.
(Gadda, TeO 73)
La citazione-allusione (“elevare il livello culturale...”) è da riferire al testo di un’inchiesta (del 1958) “sull’incerto futuro della lingua italiana”, ove si leggeva, tra l’altro: “L’uso del dialetto [...] giova alla diffusione della cultura e alla elevazione del gusto?” Donde lo scherzo allusivo del gaddiano uso alquanto dialettale (delle ragazze). Si noterà che la scrittura di Gadda, vivacemente ‘polifonica’ (più voci o echi di usi differenti in una stessa espressione) si presta particolarmente a illustrare la nozione bachtiniana di dialogismo o dialogicità interna alla parola, a cui si è accennato poco fa.
La forma “più aggressiva e più esplicita”59 dell’ironia è l’antifrasi, che si ha quando un’espressione viene usata per dire l’opposto di ciò che essa significa (“Bella giornata, oggi”, per dire “brutta, pessima”; “Bravo, bene!”, per rimproverare o disapprovare). L’antifrasi fu definita nella tarda antichità, e distinta dall’ironia. Secondo Isidoro di Siviglia, quest’ultima sarebbe rivelata dal tono con cui si pronuncia una data espressione, mentre l’antifrasi (sermo e contrario intellegendus: “enunciato da intendersi al contrario”) è manifestata dal significato dei termini; e il Venerabile Beda (VII-VIII secolo) aggiunge che essa è ironia limitata a una sola parola. L’ironia può servirsi dell’antifrasi, può manifestarsi nel ‘dire una cosa intendendo e facendo intendere l’opposto’, ma “il ribaltamento di senso non è condizione sufficiente dell’ironia” (Mizzau 1984:18).
Furono considerate antifrastiche espressioni come Ponto Eusino (“mare ospitale”), per il Mar Nero, situato in una regione e in un clima tutt’altro che accoglienti; Eumenidi (“benevole”), nome propiziatorio delle mitologiche Furie. Sono modi di dire apotropaici, scaramantici. Lepschy ha individuato e descritto un fenomeno già da altri delineato confusamente: l’enantiosemia (una manifestazione della polisemia), che si verifica quando una stessa parola ha due significati tra loro contrari, o contraddittori o conversi. Fra i contrari, avanti può significare “prima” (il giorno avanti) o “poi” (d’ora in avanti); feriale, “lavorativo” (giorni feriali, opposti ai festivi) e “di vacanza” (periodo feriale, cioè delle ferie); storia, “racconto veridico di fatti veri” e “fola, menzogna”. Fra i contraddittori, sbavare significa “emettere bave” e “togliere le bave” (dal metallo, in fonderia); sbarrare, “chiudere” e “spalancare” (gli occhi). Fra i conversi (o inversi), ospite: “chi ospita e chi è ospitato”; affittare: “dare e prendere in affitto”; pauroso: “che ha e che incute paura”. L’enantiosemia “è una proprietà semantica di singole parole” (Lepschy 1981:83; trad. nostra); l’antifrasi riguarda l’uso di espressioni in senso opposto al loro proprio.
la cosa fu raccontata con infiniti riguardi [...], e a quelle doloranti circonlocuzioni la contessa interrompeva il ricamo [...]: e guardava con disdegno muto la bocca dell’informatrice, tutta rugiadosa dallo sciroppo delle perifrasi. Nella penombra della gran sala, il racconto pareva un cavallo in un pantano. E le dabben perifrasi, come sospirose comari, si presentavano compunte agli orecchi della contessa... | |
(Gadda) |
[5] La perifrasi o circonlocuzione (gr. períphrasis, da periphrázō “parlo con circonlocuzioni”, di cui è calco il lat. circumloquium; altre denominazioni latine sono i sinonimi circumitio, circuitio, circuitus: “l’andare attorno”) è un “giro di parole” che sostituisce un unico termine, o definendolo (Colui che tutto move: definizione di Dio come motore dell’universo) o parafrasandolo (l’amor che move il sole e l’altre stelle).
La perifrasi può essere considerata come un ‘sinonimo a più termini’, poiché il principio che la governa è l’equivalenza di senso. Ha valore di figura e come tale si differenzia dalla definizione (cfr. 2.18:[5]) per il fatto di essere usata al posto di un’espressione già nota.
Perifrasi lessicalizzate sono le locuzioni fisse, avverbiali, preposizionali, verbali, nominali: di buon grado (volentieri), al di là di (oltre), far paura (impaurire), operatore ecologico (netturbino). Il parlare odierno, specie nelle frange burocratiche e pseudotecniche, sembra particolarmente incline alla perifrasi, che vuol essere eufemistica: ad es. i non udenti per “i sordi”, “i sordastri” ovvero “i deboli di udito”.
Anche deboli di udito è una perifrasi, ma meno fortunata della precedente, nell’uso ufficiale (burocratico e televisivo), forse per la maggiore lunghezza, certamente per l’analogia di non udenti con l’altra circonlocuzione: i non vedenti, che ha soppiantato il nobilissimo ciechi. Le due perifrasi vincitrici hanno avuto dalla loro il fatto d’essere litoti (cfr. più avanti all’ [8]), con parvenza di attenuazione, e participi insoliti (registrati ancora come rari dai lessici più recenti), con parvenza di sussiego ‘scientifico’.
La perifrasi eufemistisca60 ha una salda tradizione, radicata nella decenza, nella buona creanza e nel rispetto dell’altrui sensibilità: che sono le molle della censura verbale per le parole ritenute sconvenienti. Si sa che il giudizio umano, oltre a essere cosa che spesso erra, è volubilmente relativo in tale materia, come insegnano gli spostamenti progressivi dei confini imposti al “comune senso del pudore” e alle conseguenti inibizioni nell’uso di termini propri ed espliciti per ciò che riguarda, per esempio, la sfera sessuale. Nelle mani di uno scrittore di vaglia tali inibizioni possono diventare occasione e fonte di divertimento:
Più tardi ci trovammo in cortile (scendeva la sera) e passeggiando su e giù la Norma mi confidò la formula con cui ci si confessa. La imparai bene a memoria e a suo tempo la ripetei al prete: “Atinpùri”. [...] Finalmente don Antonio poneva la Domanda, che solo lui a Malo faceva a quel modo: “Hai mancato – contro la Santa Modestia?” Era una sua perifrasi personale per gli atinpùri; e la formula delicata permetteva risposte altrettanto delicate, uno scambio di idee tra gentiluomini.
(Meneghello, LNM 7)
Altro potente dispositivo che fa scattare la censura verbale è la paura, legata a concezioni sacrali del potere della parola: la paura di evocare influssi maligni nominando l’essere o l’evento temuti. Questi tipi di perifrasi appartengono, o sono strettamente connessi, allo scongiuro e all’imprecazione. Per convenzione o per vezzo si evita di pronunciare il nome dei presunti iettatori (colui che non si nomina, l’innominabile ecc.), dando luogo ad antonomasie o perifrasi sostitutive di nomi propri (cfr. più avanti, al [6] di questo paragrafo).
Si tende a non chiamare col loro nome fatti ed eventi sgradevoli, infausti, dolorosi; disgrazie, malattie, morte sono oggetto di perifrasi eufemistiche:
ha subìto un rovescio finanziario
ha un male incurabile
è passato a miglior vita
a cui talvolta non è estraneo un intento apotropaico (il desiderio di stornare influssi malefici; di qui gli scongiuri che accompagnano l’enunciazione di avvenimenti fausti o. infausti: “che il diavolo non ci senta!”, “che Dio ce ne guardi” ecc.).
Negli annunci mortuari i giri di parole si sprecano: pietà e dolore stendono metaforici veli, schermano lo sgomento dietro la convenzionalità di luoghi comuni giustificati dal pudore della propria o dell’altrui sofferenza: ed è anche il rispetto, o l’amore, per il morto a imporre la fuga da espressioni avvertite come brutali o troppo crude nella nudità della loro esplicitezza.
La perifrasi compare spesso come ‘tropo composto’: allusione mitologica:
il sacerdote di Temi (il giudice)
il regno di Plutone (l’oltretomba, per gli antichi)
la decima musa (il cinema)
metafora:
avere un cuore d’oro; le mani d’oro
sineddoche e metonimia:
non essere uno stinco di santo
non è quello che si dice una bellezza
perifrasi, le ultime due, in forma di litote e con effetto metaforico.
Tutto ciò induce a riflettere sul carattere essenziale del meccanismo perifrastico: l’essere, appunto, un dispositivo da riempirsi con figure diverse.
Qualche perifrasi di varia provenienza: formule burocratiche e di vieto cerimoniale:
il sottoscritto si pregia rivolgere a codesto ufficio la presente istanza al fine di ottenere...
Le esprimo i sensi della più profonda gratitudine
la prima delle quali ricorda l’“antilingua” esemplificata da Calvino nella parodia di un verbale d’interrogatorio:
Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico...
(Calvino, UPS 122)
serie di perifrasi per: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa...”
Altre sono riempitivi irridigiti in stereotipi:
di quelle che possono essere le lacune, di quelli che possono essere i ritardi, di quelle che possono essere le disfunzioni 61
resi più insopportabili dalla ripetizione nello schema dell’anafora.
Una fantasiosa perifrasi letteraria:
gesto che sarà registrato ad opera delle future Storie Universali tra i molti gesti che gli uomini hanno compiuto, nel corso della loro millenaria insistenza a voler rimanere abbarbicati alla meravigliosa crosta terrestre.
(Gadda, BCC 36)
Perelman e Olbrechts-Tyteca (che, come si ricorderà, prendono in considerazione le figure tradizionali solo nella loro funzionalità oratoria) riconoscono come funzione precipua alle perifrasi la “scelta” (TA 183), che consiste nel dare rilievo a una caratteristica, a un aspetto particolare degli individui, oggetti, fatti ecc. nominati. Una perifrasi è tanto più riuscita quanto più serve a mettere in luce le cose che contano in un dato discorso: è costruita, dunque, in base a una selezione dei caratteri, come si suol dire, pertinenti al tema e più adatti agli scopi di quel discorso. Su tali requisiti si misurano le valenze retoriche di una perifrasi, oltre che sulla percezione che gli ascoltatori / lettori ne hanno in relazione alle loro conoscenze del termine sostituito (si ritorna così al criterio dell’adeguatezza al tipo di pubblico già teorizzata da Aristotele e ripresa vigorosamente da Perelman). Non avrà alcun rilievo una perifrasi come furto di bestiame per ‘abigeato’, in un testo, orale o scritto, non specialistico e destinato a non specialisti, perché questa (furto di bestiame) è la designazione comune, perciò neutra, che passa inosservata non essendo generalmente noto il termine proprio.
Una perifrasi non è avvertita quando non coesiste con una denominazione alternativa (che sia ritenuta come propria e unica) nella memoria dei riceventi. L’ultima espressione citata sarà riconosciuta come circonlocuzione solo da chi abbia una qualche conoscenza del lessico legale.62
Un impiego sistematico e codificato della perifrasi si trova nel ciceronianesimo del latino moderno per evitare “termini (per esempio del latino cristiano) che non sono attestati in Cicerone” (Lausberg 1969:111); oppure per denominare nozioni che non hanno corrispondenti nella cultura antica, come avviene nel latino ecclesiastico e come è avvenuto molte altre volte nel latino usato quale lingua internazionale della scienza nel corso dei secoli postclassici.63
La linguistica testuale si occupa della perifrasi come procedimento sostitutivo, e perciò come elemento di coesione all’interno di un testo. Da un punto di vista pragmatico, una retorica della perifrasi interessa per i collegamenti con l’enciclopedia (l’insieme delle conoscenze riguardo al mondo) del parlante e del destinatario del discorso.
[6] L’antonomàsia (gr. antonomasía, composto di antí “invece di” e ónoma “nome”; lat. antonomasĭa, e il calco pronominatio: pro “al posto di” e nominatio “designazione”) consiste nell’usare al posto di un nome proprio, un epiteto (o un nome proprio usato come epiteto) o una perifrasi che esprimano una qualità caratterizzante l’individuo nominato: l’Onnipotente; lo Stagirita (Aristotele, nativo di Stagira), il Ghibellin fuggiasco (Dante); la capitale del cinema (Hollywood); e, fra le espressioni di consumo odierne legate all’attualità, l’Avvocato, l’Ingegnere, la (vecchia) Signora [del calcio].
L’antonomasia è perciò considerata una variante sia della perifrasi, sia della sineddoche (un rebus: un singolo gioco enigmistico diventa, con una sineddoche – species pro genere – “l’enigma” per eccellenza); spesso ha valore metaforico (il Cigno di Busseto; la tigre della Malesia) o è allusione-citazione: the day after.
Fontanier (FD 95-96) aveva classificato l’antonomasia come “sineddoche d’individuo”, stabilendone la seguente casistica:
(i) un nome comune sta per un nome proprio (il re, il musicista, il Maestro, il Filosofo). L’iniziale maiuscola ‘di riguardo’ non è specifica dell’antonomasia, anche se talvolta la sottolinea, come una sorta di marchio di qualità. Dal punto di vista grammaticale abbiamo a che fare con la sostituzione di un termine specifico (il nome proprio) con uno generico (il nome comune indicante la classe a cui l’individuo appartiene o una peculiarità di questo, odierno oggetto degli studi sull’anafora come procedimento sintattico-testuale (a cui si è accennato qui in 2.13);
(ii) un nome proprio sostituisce (funziona come) un nome comune: un Demostene (un grande oratore), un Otello (un geloso irriducibile), un Einstein (un genio); mecenate e anfitrione non sostituiscono soltanto, ma sono diventati nomi comuni64 per indicare rispettivamente un protettore e finanziatore di artisti e di arti, e un padrone di casa generoso e ospitale, meglio se splendido (si noterà che negli esempi di questo gruppo l’antonomasia è l’inverso della perifrasi). Nella tradizione retorica il tipo (ii) viene denominato antonomasia vossianica, dal nome del grammatico e retore G.I. Vossio (XVI-XVII secolo), che traspose sull’antonomasia la reversibilità della sineddoche (‘specie per il genere’ e ‘genere per la specie’). Diventato comune, il nome può acquistare un nuovo significato (cicerone, “guida turistica”) e può trovare concorrenti (sponsor, che oggi nell’uso comune sta soppiantando mecenate);
(iii) un nome proprio sta per un altro nome proprio (Ghino di Tacco per “Craxi”). L’antonomasia può originarsi da uno pseudonimo, ma non tutti gli pseudonimi producono un’antonomasia: solo quelli che originariamente erano nomi propri di personaggi così famosi o famigerati per loro qualità o imprese da diventarne i campioni ‘per eccellenza’;
(iv) un nome comune è usato sia per il nome proprio di un individuo – come nel tipo (i) – sia per il nome comune della specie o categoria a cui questo viene assegnato, per indicare attributi o comportamenti ritenuti esemplari, nel bene o nel male; stoico, per chi sopporta le avversità con imperturbata fermezza; vandalo, per chi compie atti di violenza sconsiderata, vandalismi, appunto. Per concludere con un’arguzia ottocentesca:
Una donna è furiosa? è una baccante, una menade. Dimostra coraggio virile e bellicoso? è un’amazzone. È brutta, strillona e bisbetica? è un’arpia. È giovane, bella e ben fatta? è una ninfa, una dea.
(Fontanier, FD 97)
L’antonomasia, come s’è visto, attinge a campi tropici svariati: oltre a essere metaforica, sineddochica e metonimica (i Verdi: il nome degli ecologisti è un bell’esempio di antonomasia metonimica), allusiva e mitologica, si presta bene all’ironia (di cui al [4]) talora attraverso la litote [8].
L’antonomasia comprende anche fenomeni dell’evoluzione linguistica: in francese renard (volpe) è l’antico nome proprio (Renard, tradotto in italiano con Rainardo) attribuito all’animale il cui nome comune era goupil, ora termine arcaico.
Gli usi antonomastici sono una spia dei codici culturali propri di ciascuna epoca. Spesso si tramandano alle età successive, altre volte passano di moda, o sopravvivono soltanto nell’uso dotto. Talvolta per ritrovarne le origini o addirittura per capirli bisogna ricorrere a ricostruzioni storico-filologiche. Qualunque sia la loro origine, motivazione ed età anagrafica (un Apollo, un Adone; un Eden, un Eldorado, il Paese di Cuccagna; Carneade: dalla frase che il Manzoni fa pronunciare a don Abbondio, “Carneade, chi era costui?”, che ha trasformato nell’“oscuro per eccellenza” un filosofo antico non grande ma non certo oscuro; una Caporetto, rimasta per gli italiani “la sconfitta” per definizione), le antonomasie in quanto luoghi comuni esibiscono il loro status di stereotipi nella maniera più chiara e più tipica. E sono anche una facile conferma dei meccanismi analogici che troviamo alla base del linguaggio figurato.
[7] L’ènfasi (gr. émphasis, da en “dentro” e pháinō “mostro”, perciò, “esibizione”; tale è il senso del lat. significatio, affiancato al grecismo emphasis), affine alla sineddoche “di spazio maggiore” (nella variante ‘dal più al meno generico’) e all’antonomasia, è un ‘dare a intendere’ più di quanto sia esplicitamente detto.
Ciò che gli antichi chiamarono enfasi è noto modernamente col nome di pregnanza di significato. Nell’enunciato:
il sangue non è acqua
ciò che si dichiara, se preso alla lettera, è del tutto ovvio; l’enfasi (e in questo risiede la sua natura di tropo) consiste nell’andare (e nel far andare chi ascolta o legge) oltre la superficie dell’enunciato, per isolare nell’idea di “acqua” gli attributi opposti a quelli che, per contrasto, verrebbero riconosciuti al “sangue” (inteso, metonimicamente, come “consanguineità”).
L’espressione
non fare il bambino
equivale a: “non comportarti da persona immatura, capricciosa ecc.”. Si nomina il genere (“bambino”) per indicare alcuni (presunti) caratteri specifici che il contesto linguistico e la situazione, o la consuetudine, trattandosi di una frase fatta, permetteranno di inferire.
Di ben diversa caratura è la pregnanza del bellissimo titolo Se questo è un uomo di Primo Levi, dove la concentrazione del significato rovescia la formula ‘dal più al meno’ (dal generico allo specifico) su cui sono costruiti gli stereotipi antonomastici del tipo: “questo è un (vero) uomo!” (i cui tratti si determinano secondo le circostanze, le ideologie e il tipo di discorso, e i tempi e i paesi: l’uomo che Diogene cercava con una lanterna in pieno giorno aveva caratteristiche certamente diverse da quelle che il Far West cinematografico ostenta nei suoi eroi).
Modernamente, si è detto, parliamo di pregnanza, perché enfasi, nell’uso comune, è sinonimo di insistenza, di accentuazione innaturale di toni e coloriture discorsive. Si può risalire al suo originario significato attraverso l’accezione che essa mantiene come termine tecnico della fonetica per indicare la particolare accentuazione di una parola, ottenuta “aumentando l’intensità articolatoria, la durata della sillaba accentata ed eventualmente facendo subire alla tonalità della sillaba stessa uno sbalzo in alto, o meno spesso in basso, e lasciando più o meno inalterato il resto dell’enunciato” (Canepari 1979:110). Tali espedienti fonico-prosodici mirano ad attirare e a concentrare l’attenzione dell’ascoltatore sull’elemento a cui è affidata un’informazione supplementare. Così, attraverso la voce e i gesti, cioè attraverso i segnali della pronuntiatio (cfr. qui 2.22) il dicitore (oratore o poeta) faceva intendere che un dato termine andava preso non nell’accezione più immediata, letterale, ma in una più profonda, derivabile dalla prima perché compresa in questa. Faceva scattare il meccanismo di riconoscimento del tropo: invitava l’ascoltatore ad ‘andare oltre’ il senso proprio della parola pronunciata ‘enfaticamente’, per scegliere solo alcuni dei tratti che ne definivano il significato. Come spiega Lausberg (1969:120), “questa realizzazione fatta di gesti e di voce si sposta così in primo piano, [...] la parola enfasi può venir usata esclusivamente come ‘aumento di espressione in generale’, e questo anche nel campo della elocutio (a prescindere cioè dalla pronuntiatio) tanto che praticamente coincide con la iperbole o con la metafora più audace”.
[8] La litote (gr. litótēs “semplicità”, antenantíōsis, da antí “contro” ed enantíos “opposto”; lat. litotes, exadversio) è la negazione del contrario (grande / piccolo: non piccolo = “(molto) grande”; affermare / negare: non negare = “affermare”, “ammettere”). Il procedimento è quello della perifrasi (una litote è una perifrasi); l’effetto è, non di rado (non di rado: litote per “molte volte, spesso”), ironico.
“Ironia di dissimulazione”, la definisce Lausberg. Una metafora ironica costituita da una perifrasi nella forma di una litote è il celebre attacco manzoniano:
Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
(I promessi sposi, I)
Il cumulo di valori figurali (perifrasi, ironia, dissimulazione, iperbole, e potremmo aggiungere anche l’enfasi) dà ragione a Fontanier, che vedeva nella litote non altro, in fondo, che una specie di metalessi (cfr. qui 2.15). È, come affermava il letterato settecentesco La Harpe, a cui si rifà Fontanier (FD 133), “l’arte di mostrar di attenuare, mediante l’espressione, un pensiero di cui si vuole conservare tutta la forza. Si dice meno di ciò che si pensa; ma si sa bene che non si sarà presi alla lettera; e che si farà intendere più di quanto si dica”.
Il parlare quotidiano abbonda di litoti:
Non è mica stupido
dove l’enfasi manifesterà sorpresa, se non addirittura ammirazione;
non è chi non veda...
non si può negare che...
non vi dispiaccia...
A volte la litote attenuativa è una perifrasi eufemistica (cfr. 2.16:[5]):
non è un genio (“è un imbecille, un mediocre ecc.”)
o un modo di dire che reca traccia di scongiuri:65
non mi lamento (“sono soddisfatto”)
non c’è male (“sto bene”)
Ma non tutte le volte che si nega si intende accentuare iperbolicamente (cfr. 2.16:[9]) il contrario, o fare dell’ironia dissimulata. È ancora Fontanier a notare con molta finezza: “è al tono e alle circostanze del discorso che si deve particolarmente quella forza e quell’energia di senso che fanno la litote: la forma grammaticale e il giro di frase, di per sé, non offrirebbero altro che un’espressione ordinaria, da prendersi alla lettera” (FD 134-135): non dunque un tropo, se si ammette che questo si distingua opponendosi a un’espressione letterale. La ‘forza’ di cui parla il retore ottocentesco, dovuta a fattori concomitanti, interni ed esterni al discorso, è l’eccedenza di senso, il plusvalore comunicativo, che caratterizza il livello retorico dell’enunciazione.
L’uso e la frequenza della litote diventano un segno di riconoscimento, quasi un marchio di fabbrica, per certi scrittori; tale fatto si può collegare alla natura dialettica della negazione, che è tale sul presupposto di un’asserzione implicita.
Perelman e Olbrechts-Tyteca trattano la litote insieme con l’iperbole (cfr. qui il [9]), osservando, tra l’altro, che il termine negato nella litote “è spesso [...] un’iperbole. In ‘Pitagora non è autore da disprezzarsi’ l’effetto di sorpresa è causato da questa iperbole, evocata per esser subito respinta” (TA 308). Non ci sarebbe dunque opposizione tra le due figure, come talvolta è stato detto, ma una serie complessa di legami, dato che la litote non è soltanto una figura di attenuazione, una “confessione a mezza voce”.66 È, come spiega Caffi 1990, una “figura bifronte”, una “soluzione aperta in una strategia argomentativa”: solo dal contesto l’ascoltatore / lettore potrà arguire se una litote attui un rafforzamento o una mitigazione.67
In un taxi, a proposito di un nuovo hotel di Las Vegas: “An orgy of excitement”. Ossia, soltanto l’iperbole e l’enfasi vengono percepite dal consumatore, e soltanto una metafora sessuale garantisce l’attenzione. Se l’annuncio pubblicitario dello stesso hotel fosse redatto in termini semplici, non sarebbe percepito. | |
(Flaiano) |
[9] L’ipèrbole (gr. hyperbolḗ: hypér “su, al di sopra” e bállō “getto”: perciò “sollevo”; lat. hyperbole e superlatio, calco traduttivo del termine greco) è l’eccesso, l’esagerazione nell’amplificare o nel ridurre la rappresentazione della realtà mediante espressioni che, pur dilatando o restringendo oltre il vero i connotati di ciò che si comunica, mantengono col vero una qualche lontana somiglianza. Esempi:
Mi piace da morire
Le grida salivano alle stelle
Scrivimi due righe / due parole di risposta
Non ha un briciolo di cervello
Fontanier (FD 123), nel definire l’iperbole, insiste sulla “buona fede” che essa presuppone in chi la usa: si presentano le cose “molto al di sopra o molto al di sotto di ciò che sono, con l’intenzione non d’ingannare, ma di condurre proprio alla verità e di imprimere ciò che si deve realmente credere, attraverso ciò che l’iperbole dice di incredibile”. Ciò che è incredibile non va dunque preso alla lettera, ma va tradotto (come di fatto avviene in una comunicazione riuscita) in termini di corrispondenza con quantità o entità reali: smisuratamente grande intensità del sentimento e altezza del tono di voce, nei primi due esempi; massima esiguità di dimensioni negli altri due.
Se l’espressione iperbolica viene intesa alla lettera, c’è materia per favole e barzellette: “O moglie mia, preparami due ceci”, e la moglie stolta della novellina popolare cuoce due soli ceci in una pentola di brodo. Il giorno dopo, in compenso, si affanna a contare cento, duecento, mille tagliatelle, alla richiesta, di nuovo iperbolica, del marito.
Normalmente l’iperbole viene capita per quello che è: a nessuno verrebbe in mente di buttarsi a nuoto per soccorrere uno che “annega in un bicchier d’acqua”; semmai gli si lancia un metaforico salvagente per aiutarlo a uscire da difficoltà che son tali solo per lui.
È stato ancora Fontanier ad avvertire che l’iperbole, per raggiungere il suo scopo, non deve oltrepassare i limiti della verosimiglianza, pur venendo meno alla verità.68 Causa ed effetto di verosimiglianza è la banalizzazione dei modi di dire:
sentir drizzarsi i capelli
essere accecato dall’ira
non vedere al di là del proprio naso
valere un soldo bucato
bere un goccio di vino
pioggia? macché, solo due gocce d’acqua
...
In ogni caso è il contesto a decidere l’interpretazione: nell’ultimo enunciato non ci sarà iperbole se dall’alto sono cadute due, e due soltanto, gocce d’acqua e se quella non era pioggia; se “arrivo in un minuto” vuol dire che impiegherò realmente sessanta secondi ad arrivare ecc.
Il meccanismo della dismisura retorica può essere messo alla prova, bloccato, irriso dallo scontro con la realtà effettuale o con una realtà immaginata (possibili mondi l’una e l’altra), che assorbano e superino l’iperbole. Si veda come vanno a finire nell’invenzione di Meneghello gli eroici furori dell’Ardito, selezionato un senso ben preciso nell’iperbole scavalca i monti e annullata la lettura metaforica di divora (vetusto luogo comune: “divorare una distanza, la strada ecc.”) nell’omonimia di piano: “pianura” e “pianoforte”:
Scavalca i monti – divora il piano
pugnal frài denti – le bonbe a mano.
[...] Questi erano gli Arditi, scavalcatori di monti colla spaccata dell’ostacolista, divoratori del piano. Il pianoforte mi appariva nero e lucido, illuminato da due abat-jour, fornito anch’esso di una dentatura abbagliante di tasti. L’Ardito in grigioverde col berrettino nero, prima lo scavalcava sullo slancio, poi si voltava e lo sgranocchiava rapidamente.
(Meneghello, LNM 4; corsivi nel testo)
Lausberg (1969:122) distingue fra “iperbole pura” e “iperbole combinata con altri tropi”. La prima sembrerebbe affidata alle “categorie dello spazio”, come si può vedere qui nel secondo degli esempi addotti, o nel detto proverbiale di Carlo V: “sui miei dominii il sole non tramonta mai”. Anche la misura del tempo si presta all’iperbole pura: “Aspettami un minuto”; “È un secolo che non ti vedo”.
E l’abusato attimino? È un diminutivo iperbolico, per rendere ancora più breve il già brevissimo attimo. È anche un caso di slittamento del significato, dalla misura del tempo all’indicazione di “piccola o minima quantità”. Attimo e attimino sono diventati sinonimi di un poco, un pochino, in usi come: “Sta’ un attimo attento (presta un attimino di attenzione)”, dove la misura può riguardare sia la durata sia la quantità dell’attenzione, per arrivare a espressioni come: “ho un attimino paura”, “è un attimo più furba del suo amico”, dove è in questione solo la quantità. Il consolidarsi abitudinario del diminutivo e, d’altra parte, del superlativo – forme tendenzialmente iperboliche – 69 sono potenti fattori di desemantizzazione (cioè di perdita o riduzione delle peculiarità di significato) delle parole.
Di fatto l’iperbole pura è “una categoria manualistica, più che una figura retorica d’uso” (Ravazzoli 1978:71), giacché le procedure dell’esagerazione coinvolgono, separate o congiunte, metafora (metonimia e sineddoche), paragone, ironia, allusione, avvalendosi di litoti e di perifrasi.70 E si aggiunga l’allegoria (2.18:[24]) iperbolica, di cui si può citare per esempio la polarità “Gulliver / Lilliput”.
La metafora e il paragone si rivelano particolarmente attivi come ingredienti della dismisura amplificante o attenuativa:
Sta ssopr’a un canapè, povera vecchia / Impresciuttita lì, peggio d’un osso; / E ha più carne sto gatto in d’un’orecchia / Che ttutta quella che lei porta addosso.
(Belli, Madama Letizzia, 5-8)
“Tutto scorre”, diceva un filosofo greco guardando il mondo dei suoi tempi; ma in nessun tempo e in nessun luogo ciò si vede e si sente come sulle odierne ampie interminabili strade americane, quando le grandi macchine dorate, argentate, azzurre, bianche, nere vanno simultaneamente inesorabili, a velocità misurata, possedendo mille paesaggi e nessuno, quasi ubbidissero alla voce di un Dio e inseguissero con tutte le loro forze un bene da lui promesso.
(Corti, VNE 35)
Nel secondo esempio il rapporto fra l’iperbole e le figure con cui si combina (metafora: possedendo... paesaggi, e paragone: quasi ubbidissero... e inseguissero...), è capovolto. Qui è l’iperbole che ha funzione ancillare nella rappresentazione del flusso di un moto incessante, affidata alla doppia serie enumerativa asindetica (cfr. 2.17:[16] e [23]) degli aggettivi (odierne ampie interminabili; e dorate, argentate ecc.) e alla bella antitesi (2.18:[8]: mille... e nessuno).
Perelman e Olbrechts-Tyteca considerano l’iperbole, al pari della litote, come figura destinata ad attuare un “superamento”. Fra le tecniche argomentative, quelle del superamento “insistono sulla possibilità di andare sempre più lontano in un senso determinato [...] con un continuo aumento di valore” (TA 303). Agli esempi ivi addotti si potrebbe aggiungere il motto proverbiale:
Al peggio non c’è mai fine.
L’iperbole si distingue dalle altre procedure argomentative del superamento [cfr. qui 2.6:[6]b(i)], in quanto è “modo di esprimersi a oltranza” e senza preparazione o giustificazioni preventive. L’esagerazione, l’eccesso, come sono stati intesi dai retori, non sono che l’aspetto esteriore della tendenza al superamento, come lo è l’attenuazione (apparente) per la litote.
Un’iperbole in forma di paradosso è l’adýnaton (“impossibile”);
Non lo dimenticherò, campassi mille anni.
Non mi muovo di qui, neanche morto.
Questa figura fu tenuta in conto di perifrasi per esprimere idee di assolutezza (ad es. “mai”, “sempre”):
Io ti amerò fin che l’oceano /
verrà piegato in due e steso ad asciugare
(versi di W.H. Auden usati come motto pubblicitario dei capi di abbigliamento “Romeo Gigli”)
o enigmi, o allegorie:
È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago...
È il momento di domandarci quale posto avessero nella classificazione di Fontanier le ultime sei figure del nostro catalogo escluse dalla classe dei tropi veri e propri o “figure di significazione” (cfr. fig. 4). In tale gruppo riesce a rientrare l’antonomasia, come tipo di sineddoche: la “sineddoche d’individuo” (che si aggiunge a quelle della parte, del tutto, della materia, del numero, del genere, della specie, dell’astrazione). L’iperbole, la metalepsi, la litote, l’ironia entrano nel sistema tropologico di Fontanier come “tropi in più parole, o impropriamente detti” (cfr. fig. 6). La perifrasi è collocata fra i “non-tropi”, nella classe delle “figure di stile” (cfr. fig. 8). L’enfasi non è nominata: come enfasi semantica o pregnanza di significato è assorbita in ciò che Fontanier intende per metalepsi; come elemento della pronuntiatio non rientrava, evidentemente, in una teoria delle figure.
I tropi impropri sono denominati “figure di espressione”, intendendo per espressione “ogni combinazione di termini e di giri sintattici che esprima una qualsiasi combinazione di idee”, mentre per i tropi che hanno il loro fulcro su una sola parola l’idea messa a fuoco è unica. Daremo uno schema di questa seconda classe, senza soffermarci sulle procedure, che sono designate con etichette (finzione, riflessione, opposizione) abbastanza trasparenti e intuitivamente giustificabili, benché approssimative. Sono scritte in corsivo le figure denominate originalmente da Fontanier.
Figura 7 - La II classe delle figure del discorso di Fontanier.
L’allegorismo (allégorisme), che Fontanier distingue dall’allegoria da cui differirebbe pur essendone “un’imitazione”, corrisponde a ciò che oggi si chiama ‘metafora continua’ (métaphore prolongée et continue lo definisce infatti Fontanier): “una serie di metafore che sfruttano, in numero più o meno elevato, elementi di un medesimo campo semico” (Henry 1975:157). Un breve campione:
L’esempio più significativo d’una battaglia con la lingua per catturare qualcosa che ancora sfugge all’espressione è Leonardo da Vinci.
(Calvino, LA 75)
Nelle considerazioni da farsi riguardo alla metonimia e alla sineddoche potrebbero confluire le fini osservazioni di Fontanier su quel tipo di personificazione che egli denomina subjectification, “trasformazione in soggetto”: una cosa qualsiasi, una qualità, un atteggiamento, un modo d’essere ecc. vengono fatti agire o descritti come agirebbe o sarebbe descritto il soggetto stesso del discorso. A differenza della personificazione propriamente detta, la ‘soggettivazione’ mostra sempre accanto all’entità, fisica o spirituale, che viene personificata, “un’altra persona come la sola e vera”. Gli esempi, tratti da Racine (“le mie mani omicide, pronte a vendicarmi...”, “Colui che la vostra bocca insegna a bestemmiare”), da Boileau (“alla mia penna dispiacerebbe risparmiarne qualcuno...”), da Voltaire (“il suo tranquillo furore marcia con gli occhi bassi...”) documentano la base sineddochica e metonimica di questa nuova figura. Che è certamente ‘a casa sua’ fra le sottigliezze classificatorie e valutative del retore ottocentesco, ma apparirebbe superflua in una qualsiasi descrizione dei dispositivi retorici mirante a rispondere a criteri di semplicità e di omogeneità esplicative. Analoghe osservazioni per il ‘mitologismo’: metonimie, sineddochi o metafore mitologiche espresse in più parole.
Sono varianti dell’antifrasi (2.16:[4]) l’asteismo (gr. asteïsmós “urbanità, finezza”, da ásty “città”; lat. urbanitas, urbana dictio), “arguzia delicata e ingegnosa, grazie alla quale si loda o si lusinga sotto l’apparenza del biasimo o del rimprovero” (FD 150), e la contrefision, neoformazione che vale, all’incirca, “controfiducia”: sorta di ironia amara o beffarda, attuata in forma esortativa. Si invita qualcuno (l’ascoltatore, il lettore o la persona di cui si parla) a tenere un determinato comportamento, si incoraggiano certe opinioni, lasciandone intendere le conseguenze paradossali, o contraddette dall’evidenza, per indurre a conclusioni contrarie a quelle prospettate, annullando così la fiducia chiesta speciosamente.
Stereotipi di asteismo germogliano da ogni parte nel parlare cerimonioso, nelle forme della politesse:
Ma Lei non doveva assolutamente disturbarsi... Bisogna proprio che La rimproveri.
L’asteismo (cfr. HWR, I, 1129-1134) può attuarsi anche come understatement, come autodenigrazione simulata (‘luogo’ dell’affettazione di modestia: cfr. 2.6).
Spiritosa invenzione, o tópos della scrittura brillante, l’asteismo occhieggia con garbo insuperato nella letteratura francese del Settecento.
Come esempio di contrefision proponiamo il seguente passo (la parentesi dell’ultimo periodo richiama anche i modi dell’asteismo):
Don Alessandro, non fotografate così spietatamente le magagne di casa; non interpretate così acutamente, ai fini d’un ammonimento sublime, i fatti che sogliono ricevere espressione nella retorica del giorno. Che Renzo sia un libertario un po’ in gamba, mettetegli almeno una cravatta di quelle che portano i terribili comunardi della vostra Parigi. Che Lucia non sia così modesta, così legata, così facile ai rossori, da attirarsi le beffe di un asso della tiratura romanzesca [...] Allora soltanto potrete sperare un posto in Parnaso; mentre così, Don Alessandro, (ma che avete mai combinato?) vi relegano nelle antologie del ginnasio inferiore, per uso dei giovinetti un po’ tardi e dei loro pigri sbadigli.
(Gadda, TeO 30)
Come indica lo schema di fig. 3, l’ornatus nella connessione di parole si attua nelle “figure” (gr. schḗmata, lat. figurae) e nella “composizione” del discorso (lat. compositio o structura; cfr. 2.19).
Le figure riguardano o l’espressione linguistica (figure di parola: gr. léxeōs schḗmata; lat. figurae elocutionis / figurae verborum) o le idee (figure di pensiero: cfr. 2.18). In linea di principio, le figure dovrebbero essere considerate come elementi della dispositio (cfr. 2.8) applicati all’elocutio (a cui appartengono a pieno titolo le figure di parola) e all’inventio (nel cui ambito rientrerebbero le figure di pensiero, benché tradizionalmente anche queste siano state trattate all’interno dell’elocutio).
Nello schema generale di fig. 3 le ramificazioni che si dipartono dalle figure di parola sono tre, contro le quattro delle figure di pensiero. Ognuno dei rami corrisponde, in entrambi i raggruppamenti, a una delle quattro categorie del mutamento, che designano altrettante classi di figure e corrispondono alle procedure di attuazione comuni alle sottoclassi in cui le figure stesse saranno catalogate (cfr. fig. 8 e fig. 10).
Se, anziché porre alla base dello schema generale dell’ornatus la bipartizione di quest’ultimo “in parole singole” e “nella connessione di parole”, si assegnasse preminenza tipologica all’azione delle quattro categorie del mutamento, potrebbero essere ascritti alle figure di parola (l’osservazione è di Lausberg) anche i sinonimi e i tropi, quali sostituzioni di un ‘termine proprio’ (si noti che i più antichi trattatisti latini avevano sì raggruppato i tropi, ma sempre nell’insieme più ampio delle exornationes verborum).
Nella fig. 8 si troverà un quadro preliminare alle indicazioni analitiche.
A) Figure di parola per aggiunzione
Le procedure dell’aggiunzione (o addizione) comprendono:
a1) la ripetizione, che produce successioni di membri o uguali o variati sia da manipolazioni della forma, sia da mutamenti nella funzione sintattica oppure nel senso delle parole replicate;
a2) l’accumulazione di membri fra loro differenti, coordinati oppure subordinati.
La coordinazione è procedura di collegamento non solo per i membri ‘accumulati’, ma anche per quelli ‘ripetuti’. Essa si presenta in due varianti strutturali: l’asìndeto e la sìndesi.
L’asìndeto è l’assenza di congiunzioni coordinanti, perciò è figura della soppressione. La sìndesi, che è il collegamento mediante congiunzioni coordinanti (copulative: e...; disgiuntive: o...; avversative: ma...; causali: poiché... ecc.) si attua sia nel polisìndeto, dove i connettivi sono più di uno, sia nel collegamento di due membri con una sola congiunzione (“armi e bagagli”; “come e perché”).
Collegamenti asindetici e (poli)sindetici possono coesistere in una stessa struttura coordinativa:
vita, morte e miracoli
Le donne, e ’ cavalier, li affanni e li agi
(Purg., XIV, 109)
Uno, nessuno e centomila
(Pirandello)
Nelle enumerazioni (cfr. 2.17:[16]) si può giocare sull’effetto di rallentamento ritmico e di ‘allungamento’ dell’ultimo membro: effetto oratorio gradevole (di casa nella lingua letteraria) in quanto corrisponde a una precisa esigenza del cosiddetto “ordine naturale” della dispositio: la collocazione dei membri di un discorso in progressione, dal più breve al più lungo (cfr. 2.8).
La configurazione del polisindeto è quella dell’anafora (cfr. più avanti [5]), che è figura tipica della ripetizione.
a1) La ripetizione. Gli attuali studi di linguistica testuale la considerano come una delle relazioni sintattiche e semantiche a cui è affidata la coesione del discorso. In analisi pragmatiche dell’interazione verbale si fanno tipologie delle ripetizioni per descrivere le mosse del gioco comunicativo. Gli effetti che si possono ottenere ripetendo parole, consapevolmente e con precise intenzioni, oppure inconsciamente, sono temi di ricerche linguistiche e psicologiche.
La coazione a ripetere è stata considerata come una costante del discorso poetico: la attuano rime, assonanze, cadenze ritmiche, allitterazioni, e ogni altra manifestazione del parallelismo su tutti i livelli dell’organizzazione del testo.
A volte l’iterazione di parole e strutture diventa, da “figura di parola” (fatto, o artificio, fonico, ritmico, lessicale, sintattico), riproduzione di un discorso, di parti di testo: allusione, citazione, imitazione e parodia. Assume i contorni di una traccia memoriale, nelle forme dell’autocitazione, voluta, ma più spesso inconscia.
Sotto tali aspetti è stata studiata la tendenza ripetitiva di Virgilio, evidente in forme retoriche molteplici: anafora, ritornelli, formule rituali della poesia bucolica, didascalica ed epica (cfr. le voci “ripetizione” di W.W. Briggs ed “Eneide, problematica ecdotica” di M. Geymonat nell’Enciclopedia Virgiliana).
La storia dello stile poetico delle lingue classiche e moderne è in parte storia dei principi di iterazione, del ruolo che essi hanno nella costruzione del testo (cfr. Facchini Tosi 1983). Negli studi linguistici e letterari odierni si torna a calcare, con ben altri mezzi, il terreno battuto dalle descrizioni classiche delle “figure della ripetizione” (cfr. Frédéric 1985).
Nei modelli retorici tradizionali la forma, la funzione e il significato delle espressioni ripetute erano oggetto di analisi in quanto contribuivano all’efficacia dell’argomentazione, alla carica emotiva e al pregio estetico del discorso. Ma il numero e le sottigliezze delle partizioni, l’incertezza definitoria, il sovrapporsi di sottoclassi e di figure hanno finito per rendere precarie le distinzioni. Le distinzioni, per intenderci, insensibili ai meccanismi linguistici e psicologici che fanno variare le forme e che spesso sono identici in più figure, cioè in fatti discorsivi riconducibili a una sola matrice, ma chiamati con nomi differenti. A tali fatti i tradizionali strumenti retorico-stilistici avevano apprestato misure, stampi e contenitori inadeguati per difetto o per eccesso.
La nomenclatura classica delle figure della ripetizione (che manifesta nel modo più clamoroso l’ossessione classificatoria, la rage de nommer, limite micidiale della tradizione retorica) è, storicamente, ancora più variata di quanto non appaia dai nostri elenchi, ove sono state omesse alcune denominazioni concorrenti che sarebbe stato superfluo registrare. Riesumarla serve più che altro a documentare e a mettere a portata di mano una serie compatta di etichette erudite, che hanno corso tuttora negli studi letterari.
Come meccanismo discorsivo fondamentale, la ripetizione (repetitio) si oppone alla variazione (variatio). Entrambe possono agire l’una sull’altra: la variatio può modificare le procedure della ripetizione (cfr., per esempio, la paronomasia e la sinonimia), e questa a sua volta intervenire nelle collocazioni in parallelo di elementi tra loro diversi; esempio tipico, l’antitesi, che i modelli classici collocano tra le figure di pensiero (cfr. 2.18:[8]) e il Gruppo µ fra i metalogismi: precisamente fra i metalogismi (fra i quali si trova appunto la ripetizione) ottenuti applicando le procedure dell’“aggiunzione ripetitiva” (cfr. fig. 2).
Dal punto di vista stilistico, la variatio è stata proposta, nella normativa italiana e francese, come “rimedio” per evitare le ripetizioni non retoricamente motivate; di questo non si curano affatto l’inglese e il tedesco, che non esitano a ripetere le stesse espressioni, anche a breve distanza in un testo, a scanso di ambiguità. L’inglese, anzi, mostra una predilezione spiccata per le strutture iterative. Secondo Wandruszka (1975:104) “l’onnipresenza della Bibbia e dello stile biblico in un paese protestante fu senza dubbio un fattore importante, certo non l’unico, per creare e rinforzare tale predisposizione”. Confrontando testi della letteratura di consumo e della saggistica inglese e americana con le rispettive traduzioni francesi, italiane, spagnole, Wandruszka fa notare come a costrutti ripetitivi negli originali corrispondano variazioni sinonimiche nelle traduzioni. E quando queste ultime si mantengono “troppo aderenti alla perpetua retorica e stilistica ripetitiva” delle lingue anglosassoni (“una retorica che in America ha radici molto profonde: nel sermone puritano e nel discorso pubblico della nascente democrazia”, inclini a ripetere le “parole più povere”, con “una voluta semplicità, una finta ingenuità”: ivi, 110), allora hanno un che di semplicistico, di “tradotto dall’americano”, appunto, che contrasta con la “sottile ed elegante varietà”, tradizionale appannaggio dello scrivere curato nelle lingue neolatine.
Nel modello lausberghiano la ripetizione appare come procedura dell’aggiunzione, dai punti di vista lessicale e sintattico (le ripetizioni foniche sono considerate come fenomeni della “corrispondenza” di forme e di suoni sotto la categoria dell’“ordine” e come fatti pertinenti alla compositio; gli altri tipi di iterazione appaiono come fenomeni secondari in diverse figure di parola e di pensiero). Le prime tre figure di parola (epanalessi o geminatio, anadiplosi o reduplicatio, climax o gradatio) hanno in comune il fatto che le repliche sono “a contatto”, cioè sono contigue l’una all’altra, salvo prevedibili intromissioni di elementi che non modificano la struttura di base delle singole figure.
Le quattro successive sono caratterizzate invece dalla “distanza” fra i membri ripetuti; che possono ‘incorniciare’ segmenti di testo inclusi fra le repliche (ed è ciò che avviene nell’epanadiplosi) oppure cadenzare con ricorrenze parallele le parallele aperture o chiusure di gruppi di parole o di enunciati successivi: ed è ciò che fanno rispettivamente l’anafora e l’epifora, mentre la simploche combina insieme l’una e l’altra.
Avvertenze
1) Con l’espressione segmento testuale, usata d’ora in poi nelle definizioni delle figure, si intenderà una successione ordinata e coerente di parole, delimitata sintatticamente o metricamente: sintatticamente come periodo, come frase semplice o complessa, come parte di frase (si preferirà perciò parlare di enunciato, lasciando indeterminata la struttura grammaticale di frase); metricamente come strofa, raggruppamento di versi, verso, membro di quest’ultimo, cioè colon (cfr. 2.19).
2) Si daranno per ogni figura le formule lausberghiane che ne descrivono la struttura: tanto più apprezzabili e utili al riconoscimento quanto meno rigorose e decisive sono le correnti definizioni manualistiche.
3) Si rimanda al capitolo 3 per parziali ridistribuzioni delle principali figure secondo i vari livelli dell’analisi linguistica.
[1] L’epanalèssi o geminatio “geminazione” (gr. epanálēpsis “ripetizione”, tradotta in latino con repetitio; altri nomi greci: pallilogía, epízeuxis,71 latini: iteratio, duplicatio) consiste nel raddoppiare (geminare) un’espressione, ripetendola o all’inizio, o al centro, o alla fine di un segmento testuale.72
All’inizio (configurazione /xx.../):
In verità, in verità vi dico... (Amen amen dico vobis...)
Ben son, ben son Beatrice
(Purg., XXX, 73)
Double, double toil and trouble
(Macbeth, atto IV, scena I)
O parla parla, buchëta morta, o parla parla, buchëta d’or!
(Nigra, La sposa morta, V, 7)
Attenzione! Attenzione!...
All’interno (configurazione /...xx.../):
La ratio, il logos, non hanno buona stampa, lo so, lo so, nel nostro mondo patetico, strimpellante, teatrale: e gratuitamente astratto, o distratto.73
(Gadda, TeO 60)
E che vuoi che sia, mio caro nottambulo, mio sedentario delle tenebre, se non questo, questo appunto – la resurrezione dei morti?
(Manganelli, RV explicit)
Alla fine (configurazione /...xx/):
... ma la figlia / del limo lontana, / la rana, / canta nell’ombra più fonda, / chi sa dove, chi sa dove!
(D’Annunzio, La pioggia nel pineto, 90-94)
Io pensavo che il mondo così concepito / [...] / fosse soltanto un io male sbozzolato / fossi io indigesto male fantasticante / [...] / e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato” / un po’ più in là, da lato, da lato
(Zanzotto, Al mondo, 10-16)
Tra il cantico sonoro / il tuo tintinno squilla, / voce argentina: “Adoro / adoro”. Dilla, dilla / la nota d’oro.
(Pascoli, Alba festiva, 10-14)
In quest’ultimo esempio le delimitazioni ritmiche non coincidono con quelle sintattiche. L’epanalessi adoro, adoro si trova alla fine di un segmento sintattico e al centro del segmento ritmico che gli si sovrappone e che contiene, adiacente alla prima, un’altra epanalessi: dilla, dilla. Quest’ultima è del tipo /...x.../ per quanto riguarda la struttura ritmica, e del tipo /xx.../ rispetto alla delimitazione sintattica.
Figura 8 - Quadro generale delle figure di parole: adattamento della sistemazione lausberghiana.
I membri iterati possono ammettere interposizioni:
(i) di incisi (vocativi, interiezioni, avverbi, frasi parentetiche ecc.):
Brucia, ragazzo, brucia
(titolo di un film di F. Di Leo)
Vola, colomba bianca, vola
(ritornello di una nota canzonetta)
... se giovanezza, ahi! giovanezza è spenta?
(Leopardi, Le ricordanze, 135)
(ii) di qualsiasi elemento grammaticale sintatticamente legato a uno dei due membri:
Umano, troppo umano (“Menschlich, zu menschlich”)
(Nietzsche)
Ma l’oro di San Marco, almeno, l’oro, dove lo mette?
(Morante, PCBA 80)74
Ci ha una fame, ma una fame, la creatura!
(Consolo, SIM 40)
Le scarne annotazioni che abbiamo fatto riguardo alla struttura di questo primo tipo di ripetizione nulla dicono dei suoi usi effettivi, degli intenti che li dominano e degli effetti prodotti e producibili. Qui basti rilevarne, senza neppure cercare di localizzarla, la diffusione illimitata in ogni genere di discorso, e notare che la geminatio è più frequente all’inizio degli enunciati (cfr. pure quanto si aggiungerà a conclusione del successivo punto [2]).
L’anadiplosi dimostra grandezza, siccome Erodoto: “Draghi erano nel monte Caucaso grandi, grandi e molti”, dove grandi raddoppiato due volte aggiunge gonfiamento alla prosa. | |
(P. Segni) |
[2] L’anadiplòsi o reduplicatio (gr. anadíplōsis, epanadíplōsis “reduplicazione”; epanastrophḗ “ritorno”) è la ripetizione dell’ultima parte di un segmento (sintattico o metrico) nella prima parte del segmento successivo (configurazione: ...x/x...):
Noi assistiamo, infermieri a volta a volta pazienti, impazienti, ai nostri grandi malati: malati di quella strana e talora paurosa malattia che è appunto la loro grandezza
(Gadda, TeO 146)
un campo gravitazionale uniforme produce gli stessi effetti delle forze inerziali, forze che possiamo calcolare in modo diretto.
(Sciama, Rel. gen., 55)
Una prima fase, “L’allegria”, era elementare ma insieme distruttiva, distruttiva dell’ordinato discorso convenzionale nell’atto stesso che enunciava umili nuclei di verità poetica senza residuo.
(Contini, AE 146)
Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo ch’è il più importante, il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo, impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi, giovani, che avete l’avvenire davanti a voi.
(Calamandrei, DSC - Disco Cetra)
Lausberg (1969:136-138) allinea, e commenta con finezza, una minuziosa casistica, distinguendo fra ripetizione appositiva e ripetizione “integrata sintatticamente” al secondo segmento (nei nostri esempi, il primo, il terzo e il quarto sarebbero da riferire al secondo tipo; il secondo al primo). La ripetizione appositiva, frequente nella forma di una relativa (detta appunto ‘appositiva’) è modulo diffuso nel discorso comune, parlato e scritto, ed è ritenuto fattore, non sempre gradito e opportuno, di enfasi. Può giovare alla chiarezza, aiutando a ritrovare il filo del discorso in enunciazioni protratte; e questo accade quando tra le due repliche si inseriscono una o più frasi subordinate, talora anche incisi o glosse:
Le precedenti considerazioni indicano una via per tracciare la caratteristica esterna della dinamo, via che non è per solito la più conveniente.
(Bottani/Sartori, E 254)
[la satira] non esclude [...] una forte parte d’ambivalenza, cioè la mescolanza d’attrazione e ripulsione che anima ogni vero satirico verso l’oggetto della sua satira. Ambivalenza che se contribuisce a dare alla satira uno spessore psicologico più ricco, non ne fa per questo uno strumento di conoscenza poetica più duttile.
(Calvino, UPS 157)
Questi ultimi due passi, che andrebbero collocati più avanti, con gli esempi (il terzultimo e il penultimo del presente paragrafo [2]) illustrativi della possibilità di interporre parti di testo ai due membri dell’anadiplosi, esibiscono la configurazione dell’anafora ([5]), quale forma generale e tipica della ripetizione come ‘ripresa’ di elementi già presenti nel testo. Possiamo parlare di anadiplosi sia per il primo caso, ove la completiva per tracciare... è indispensabile al primo membro, sia per il secondo caso, ove la glossa cioè... si interpone parenteticamente ai due segmenti testuali: non ne fa parte, tanto che la sua soppressione ricomporrebbe l’anadiplosi nella sua forma più semplice.
La reduplicatio può ottenere l’effetto argomentativo che Perelman assegna alle “figure dell’ordine”: imprimere, con l’insistenza, un’idea già formulata:
Egli [Gregorio Magno] incatenava la forza dell’immaginazione [...]: e in lui si concretizzava nel modo più semplice il potere dello spirito, il potere di uno spirito che, esponendo la propria vita, acquista potere sulla vita...
(Auerbach, LLP 97)
Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose restano le stesse, ma cambia lui.
(Scuola di Barbiana, LP 17)
Letterariamente, gli effetti sono molteplici (e, ovviamente, non esauribili). Come costituente e al tempo stesso emanazione dell’enfasi, questa specie dell’anadiplosi agisce da rinforzo tematico e ritmico. Ad es. in contesti di intensità concettuale o visionaria accentua la solennità, la suggestione evocativa ecc.; in prosa come in poesia scandisce gli intervalli e la durata delle unità ritmiche:
et vidimus gloriam eius, gloriam quasi unigeniti a patre, plenum gratiae et veritatis.
(Giov., I, 14)
a noi nessuno parlava; / eppure eravamo turbe, / turbe golose assetate / di bianchi pensieri.
(Merini, Le parole di Aronne 17-20)
l’angoscia di una perduta condizione di cosa, quella cosa che non conosceva né procedere né decadere [...] una trasformazione che comporta innumere guise di dolore, quelle guise che tu conosci a fondo...
(Manganelli, RV 41)
e su gli olivi, su i fratelli olivi / che fan di santità pallidi i clivi / e sorridenti.
(D’Annunzio, La sera fiesolana, 29-31)
La seconda replica (oltre ad ammettere variazioni mediante apposizioni o epiteti, come negli esempi precedenti) può essere un sinonimo. Questa, anzi, pare la soluzione preferita quando si intenda non solo alleggerire il dettato, ma arricchirlo di un supplemento di informazione, o intensificare o anche modificare parzialmente il senso accumulato nella prima occorrenza:
in campagna i rumori si fondono l’uno nell’altro e formano una corrente, un’onda che entra ed esce dalla finestra con un movimento pigro e ossessivo.
(Maraini, BBA VII)
Cerco un bandolo, una cima che mi ridia in mano il filo delle cose.
(ivi, VIII)
Il secondo tipo di anadiplosi (la “ripetizione integrata” al secondo segmento) produce talora una struttura a chiasmo (2.18:[11]); nell’esempio che segue, la corrispondenza speculare dei quattro elementi del chiasmo è messa in evidenza dal grassetto e dal corsivo dei caratteri di stampa (in corsivo, i membri dell’anadiplosi):
Questa voce sentiva / gemere in una capra solitaria. / In una capra dal viso semita / sentiva querelarsi ogni altro male, / ogni altra vita.
(Saba, La capra, 29-13)
Frequente la presenza del polittoto (che si ha quando la ripetizione cambia la funzione sintattica di partenza: cfr. più avanti al [9]). Esempi di variazione polittotica sono i tre seguenti, dove si noterà pure la concatenazione che verrà descritta come caratteristica della climax (cfr. il seguente n. [3]) e precisamente di quella variante a cui l’anadiplosi fornisce la base strutturale:
[nel Foscolo] profusione di aggettivi patronimici greci su tutti i cimiteri di memoria: la memoria di Assaraco tramandata fino ad estinguere i secoli da una proiezione di sacerdotesse arpeggianti...
(Gadda, TeO 195)
E in forma dialogica:
Volando, l’uomo realizza la massima aspirazione ancestrale, quella dell’Assunzione. – Assunzione di prima classe o turistica?
(Flaiano, OSP 355)
Come nell’epanalessi, anche nell’anadiplosi un qualche elemento può essere interposto ai due membri (ad es.: solitaria, nei versi di Saba citati più su):
Ma adesso sono le “mediatrici” che svolgono il ruolo più prezioso, un ruolo che non esito a definire determinante.
(Revelli, AF XIX)
Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnò come una biblioteca minore, segno di quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri.
(Eco, NR 502)
E si osservi la seguente serie di anadiplosi, che illustra i principali tipi sintattici finora individuati:
Sono, ad es. i concetti di legge e di colpa quelli che Kafka propone in una prospettiva inquietante, angosciosa. Una legge non espressa, imposta da un potere capriccioso, onnipresente e sfuggente; una colpa non prodotta da atti precisi, da violazioni a norme del resto inesistenti: colpa che pure le vittime della legge riconoscono, e riconoscono inespiabile...
(Segre, DM 182-183)
Geminatio e anadiplosi presentano ampie e incerte zone di intersezione nelle analisi di retori antichi e moderni. Tra queste, la descrizione di Lausberg, che qui si è seguita nelle linee generali, è l’unica che dia criteri di riconoscimento abbastanza stabili, perché basati sulla struttura grammaticale delle parti di testo prese in esame. Il nostro canovaccio a maglie allargate rispetto al modello lausberghiano ha lasciato cadere parecchie suddivisioni analitiche, pur conservandone l’impostazione ‘grammaticalistica’, coi suoi vantaggi e con le sue inevitabili limitazioni. Si è irrigidita, così, la visione di fatti le cui valenze retoriche e stilistiche sono clamorosamente più spiccate e più dense di quanto non appaia qui. Al punto da far considerare con rinnovato interesse una trattazione come quella del vecchio Fontanier, per cui “la ripetizione consiste nell’usare più volte gli stessi termini o una stessa costruzione, sia semplicemente per ornare il discorso, sia per esprimere con maggior forza ed energia la passione” (FD 329). In testa alle figure della ripetizione stanno le anafore (qui [5]) e le epifore (qui [6]) brevemente esemplificate; poi viene la reduplirazione propriamente detta (cioè l’epanalessi o geminatio), quando “si raddoppia nello stesso membro di frase qualche parola di interesse più marcato, o sulla quale la passione si incentra con più forza”. L’anadiplosi, che si ha quando si riprende “al principio di un membro di frase qualche parola del membro precedente” (FD 330), differisce dalla geminatio, che avviene entro un solo membro, perché si estende a due membri di frase, e perché “parte dalla riflessione (fa scaturire, con l’insistenza, qualche idea che non si è potuta inquadrare nella prima frase)”, mentre la geminatio avrebbe origini e motivazioni puramente emotive. Dopo aver trattato della concatenazione (cfr. qui [3]), Fontanier accenna a un tipo particolare di ripetizione, non censito, ordinariamente, dai retori. Di tale procedimento egli coglie con mano felice la caratteristica di presentare la cosa su cui verte come “senza limite e senza misura”. Uno degli esempi è tratto da Voltaire, da un passo satirico contro uno scrittore volenteroso e scarso di inventiva:
Il compilait, compilait, compilait: / On le voyait sans cesse écrire, écrire...
Sono le serie ripetitive delle cantilene (“da quel dì non fé che andare / andar sempre, andare andar”) e dei racconti popolari (cammina cammina...), delle narrazioni orali di qualsiasi genere, della conversazione quotidiana. La diffusione illimitata del fenomeno riesce, a differenza di quanto avviene per altri usi banalizzanti, a non distruggere la carica espressiva dell’insistenza. L’insistenza, come il silenzio, ha, evidentemente, una forte capacità figurale.
Una tipologia dell’insistenza, se fosse possibile, sarebbe legata a un censimento di situazioni comunicative e dei relativi generi discorsuali. Esemplifichiamo brevemente solo il tipo della ripetizione triplice come ingrediente di un’invettiva (sublime, in questo caso):
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio
(Par., XXVII, 22-24)
da accostare a Geremia (7, 4):
Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo
Ma si potrebbero citare ancora le imprecazioni, le invocazioni, gli scongiuri. Per quanto riguarda il numero delle repliche, la ripetizione predicativa ammette serie indefinite, in qualsiasi situazione e tipo di testo.
[3] Della climax (grecismo del latino e dell’italiano dal significato originario di “scala”) o gradatio (in latino, “gradino”) bisogna distinguere due schemi diversi, il primo più antico, il secondo più recente, che marcheremo, per comodità, rispettivamente con gli indici 1 e 2. La climax1 ha la struttura di un’anadiplosi continuata (...x/x...y/y...) e consiste nel ‘procedere per scalini’, fermandosi su ognuno, come diceva Quintiliano,75 prima di salire il gradino seguente. La ripresa della salita (in latino ascensus) e nello stesso tempo la marca della sosta sono rappresentate ogni volta, cioè a ogni enunciato o segmento, dalla ripetizione di un’espressione, l’ultima, che diventa così la prima dell’enunciato successivo:
Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: // luce intellettual, piena d’amore / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore.
(Par., XXX, 38-42)
se questo è delirio, bisognerà pur dire che il delirio è ciò che segue al destarsi, e il destarsi è ciò che segue al sonno, e il sonno è il luogo in cui la malattia ha la forma polimorfa dei sogni.
(Manganelli, RV 96)
luoghi spaziosi da star sotto all’ombra, e l’ombra ad ogni ora è tanta e tanto opaco il luogo per la foltezza de’ rami in alto, ch’io non ho visto mai a’ miei dì il più bel bosco naturale.
(Pietro della Valle, II, 640)
Dubitiamo che i poeti etichettati per sublimi riescono a riuscir tali ogni volta, nell’intento e nel prodotto: nel prodotto, vale a dire nel verso. Di versi ne buttan giù: buone invenzioni non gli difettano. Di buone intenzioni, dice, è lastricata la via dell’inferno.
(Gadda, TeO 64)
Una gradazione continua, con andata e ritorno e conseguente circolarità, è la struttura di molti pensieri confuciani. In tale procedere ‘per stazioni’ l’elemento strutturale costitutivo è il collegamento a catena attuato dal susseguirsi delle reduplicazioni. Altri nomi latini di questo tipo di climax sono infatti conexio (“connessione, collegamento”) e catena, da cui le denominazioni italiana (concatenazione), francese (concaténation) e spagnola (concatenación).
Di questa figura si sono volute scorgere analogie e corrispondenze con la realtà fisica e mentale, ovunque il principio della concatenazione si manifesti attraverso il permanere – immutato – di un qualche elemento in un nuovo processo di cui qualche altro elemento diventi il punto di partenza di un successivo fenomeno, stato, modo d’essere ecc., a sua volta disposto a perpetuare la sequenza evolutiva.
Il principio del collegamento per contatto di unità uguali (cioè per la stessa unità reduplicata) è pure alla base del doppio ruolo ricoperto da ciascun componente della catena di “chi caccia ed è a sua volta cacciato”: condizione tipica dell’ordine naturale,76 di cui sono allegorie (2.18:[24]) popolari le ossature di apologhi e racconti che mettono in scena la progressione del ‘chi è più potente’ e la circolarità, inevitabile e simbolica, del risultato: come la favola dello spaccapietre che, oppresso dal sole, vuole essere il sole; diventato sole è vinto dalla nuvola; mutato in nuvola è disperso dalla montagna; cambiato in montagna si sente percuotere da “uno che è certamente più forte della montagna, e dunque deve essere il più potente”; e volendo essere “il più potente” si ritrova spaccapietre. Oppure il gioco: “la serva spaventa il cane, il cane spaventa il gatto, il gatto spaventa il topo, il topo spaventa la serva”.
Sul piano argomentativo la gradazione concatenata mira a provocare il consenso garantendosi l’accordo punto per punto. Sul piano logico e dialettico, si ha la configurazione del sorite: catena di sillogismi, la conclusione di ognuno dei quali costituisce la premessa del successivo.
Studi di etnolinguistica, che analizzano i modi in cui è organizzata l’informazione in lingue diverse, esaminando tipiche forme ripetitive hanno notato come ciò che “a prima vista può sembrare semplicemente [...] una ridondanza del testo orale, si rivela invece una precisa strategia dell’informazione”; se ne trovano esempi caratteristici in lingue amazzoniche, ove “il filo del discorso narrativo sembra avanzare non in maniera lineare [...], bensì, per così dire, elicoidale: ogni proposizione conferma in parte l’informazione portata dalla frase che precede e porta un frammento di informazione nuova” (Cardona 1976:232).
Nell’accezione meno antica (indicata in fig. 8 come climax2 e classificata tra le figure dell’accumulazione, al [14]) climax o gradatio è il succedersi di parole che rappresentino un’amplificazione o un’attenuazione progressive delle idee comunicate. In ogni caso si tratta di un’intensificazione graduale, comunque si voglia configurarla: come “ascesa” o come “discesa” (anticlimax).
Esempi di climax ascendente:
Eh, troppo bella, barone, troppo perfetta... Anzi, direi, troppo ideale.
(Consolo, SIM 41)
Veloce? È un razzo, una scheggia, un fulmine.
Esempi di anticlimax, o gradazione discendente:
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada
(Góngora, Mientras por competir..., ultimo verso)
“in terra, fumo, polvere, ombra, niente”
(trad. it. di G. Mucchi)
insondabile miscela [...] di men che sillabe, men che lettere, men che fiati, silenzi puri, glottal stops.
(Manganelli, RV 142)
La climax2 è tipo e figura dell’“accumulazione coordinante” (cfr. più avanti, a2(i)). Quando il carattere iterativo è marcato, come negli ultimi tre esempi, dal ricorrere di uno stesso elemento (troppo...; en...; men che...), la gradazione rientra nello schema dell’anafora (cfr. [5]). Se la progressione semantica si svolge inglobando, in ciascuno dei membri che si succedono, una parte del senso dei precedenti, la gradatio diventa un fatto di sinonimia (cfr. [11]). La struttura anaforica oppure il carattere di variazione sinonimica (o l’una e l’altra cosa insieme) sono dunque le condizioni che consentono di considerare la climax2 e l’anticlimax come figure della ripetizione.
[4] L’epanadiplòsi o inclusione, o anche ciclo (gr. epanadíplōsis, prosapódosis, kýklos; lat. inclusio, redditio), è la ricorrenza di una o più parole all’inizio e alla fine di un segmento testuale (configurazione: /x...x/):
Tutta la strada è piena del loro silenzio: e il loro sonno è simile alla morte, ma a una morte, a sua volta, dolce come il sonno77
(Pasolini, OI 13-14)
Y 10: piace alla gente che piace
(slogan pubblicitario)
Un esempio di doppia inclusione nelle seguenti battute di dialogo (segnaliamo col corsivo e col grassetto le reciproche corrispondenze dei membri):
“Abbastanza triste tutto questo” / “Triste? Cosa c’è di triste? A me sembra stupido, non triste”
(Corti, VNE 119)
Se la funzione sintattica non è la stessa per le due repliche (il che accade di frequente), si ha un polittoto nella struttura dell’epanadiplosi:
Ma il teatro è ormai possibile solo come ambiguo riflesso del teatro.
(Flaiano, OSP 387)
La disattenzione è il modo più diffuso di leggere un libro, ma la maggior parte dei libri oggi non sono soltanto letti ma scritti con disattenzione.
(Flaiano, OSP 715)
il mondo è crudele nei riguardi di quella massa oscura a cui si dà il nome di poveri, di degradati; e la massa oscura tenta a sua volta di esserlo con il mondo.
(Corti, VNE 70)
Si noti, nell’ultimo esempio, anche il polittoto nella ripetizione: di quella massa oscura... e la massa oscura, anadiplosi con una relativa appositiva (a cui si dà...) interposta.
L’epanadiplosi è figura della “ripetizione a distanza”; le parti di enunciato che vengono interposte ai termini ricorrenti amalgamano le procedure di questo tipo di ripetizione a quelle della simploche (2.17:[7]).
Lo schema base dell’inclusione può essere variato. Nei due enunciati seguenti, la variazione (tipo /x...x.../) è rappresentata nel passo di Gadda; la struttura “regolare” è esemplificata dal segmento che abbiamo ricavato dal precedente, invertendo la posizione delle ultime due parole:
le infinite connotazioni d’un infinito catalogo
(Gadda, TeO 94)
le infinite connotazioni d’un catalogo infinito
Una combinazione di inclusione e di gradazione secondo la formula /x...y/y...x/ produce un chiasmo perfetto (cfr. 2.18:[11]):
la ragionata e premeditante certezza che la macchina, infaticabile schiava, raddoppierà l’opere nell’unità di tempo eseguibili: nell’unità del tempo fuggente, l’ora il giorno, raddoppierà il profitto che le si richiede, lavoro e denaro.
(Gadda, TeO 216)
[5] L’anàfora o iterazione (gr. anaphorá, epanaphorá “riferimento” / “ripetizione”; epibolḗ: epí “sopra” e bállō “metto”, perciò anche sinonimo di ‘forza espressiva’ e di ‘ornamento’; lat., oltre al grecismo anaphora: i calchi relatum, relatio “riferimento” e repetitio “ripetizione”) è la ripresa in forma di ripetizione di una o più parole all’inizio di enunciati, o di loro segmenti, successivi (configurazione: /x.../x...).78
Esempi:
Figlio, l’alma t’è ’scita, / figlio de la smarrita, // figlio de la sparita, / figlio attossecato
(Iacopone da Todi, Laude XCIII, 112-115)
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi
(Purg., XXX, 49-51)
“Beati quelli che non videro, e credettero.” Beati anche perché, dal momento stesso che hanno VERAMENTE creduto, hanno visto.
(Morante, PCBA 130)
Una voce senza tregua, senza ritmo, senza mutamento, senza inizio, senza conclusione, senza attenzione, senza destinatario, non è questa appunto la tua stessa voce?
(Manganelli, RV 90-91)
Erano le donne che avevano conservato le lettere, erano le donne le mie interlocutrici più preziose [...] Parlavano le donne de “L’ultimo fronte”, parlavano da protagoniste.
(Revelli, AF XVII)
Anche per l’anafora la ‘ripetizione’ non va intesa in senso stretto, come replica integrale, giacché sono possibili variazioni da polittoto ([9]), paronomasia ([8]), sinonimia ([11]). Epibolḗ era il nome dell’anafora sinonimica, rispondente al principio della variatio (cfr. qui 2.17: a1):
Mira / quanto è il convento de le bianche stole! / Vedi nostra città quant’ella gira
(Par., XXX, 128-130)
Anafora e climax come progressione semantica si trovano spesso conglobate:
quel che conta è disporre di un ‘materiale umano’ che subisca, che si pieghi, che accetti comunque di andare al massacro. Sarà poi la vita di linea, sarà poi la vita al fronte che farà scattare le molle della rabbia e dell’emulazione.
(Revelli, MV, I, CI)
dove è anaforica la ricorrenza del relativo che; in gradazione sono i predicati: subisca, si pieghi, accetti ecc. Una nuova anafora è la ripresa di: sarà poi la vita...
Anafora come sviluppo di un’anadiplosi [2]:
La nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille solitudini; un silenzio ingombrante, àtono, come le foglie ferme...
(Merini, AV 95)
O invece era il Genio, ma il Genio mandato da un mago, il Genio che scaturisce dalla lampada, non la tua anima stessa.
(Merini, AV 97)
L’anafora è tipica delle preghiere, delle invocazioni, degli scongiuri, oltre che di cantilene e filastrocche. Figura dell’insistenza, la forma anaforica sembra confermare quanto già osservato a proposito dell’epanalessi ([1]) sulla preferenza per la ripetizione all’inizio degli enunciati.
Un esempio di preghiera in forma di filastrocca anaforica: