L’umanità sulla scena: Plauto e Cecilio Stazio

di Laura Cherubini

Con Plauto va in scena a Roma una comicità vivida e brillante, capace di influenzare a lungo il teatro occidentale. Il mondo che egli rappresenta è carnevalesco, il suo teatro “di rottura”: la finzione scenica rovescia i rapporti sociali, il servo è fatto eroe dell’azione e raffinato orditore di beffe. La fama plautina – prima che arrivi l’ellenizzante, raffinato Terenzio – è tale da offuscare tutti gli altri commediografi latini: fra questi, tuttavia, resta traccia del grande Cecilio Stazio.

Plauto: un teatro di rottura

La letteratura latina ha il suo maggior commediografo in Tito Maccio Plauto, autore destinato a una lunga influenza sulla storia del teatro occidentale. Egli si concentra sul genere della palliata mettendo in scena, a Roma, i copioni attici della Commedia Nuova: non prima, però, di averli calibrati sulle attese del proprio pubblico e di aver lasciato su di loro l’impronta del suo personale tocco letterario.

Poco sappiamo della sua vita: sembrano sicure la nascita nella città allora umbra di Sàrsina prima del 250 a.C. e la morte nel 184 a.C. Dall’incerta cronologia delle sue commedie, forse rappresentate fin dagli anni della seconda guerra punica, si staccano due date indicate dalle didascalie premesse al testo (notizie essenziali quali autore, titolo e festa alla quale esso è destinato): il 200 a.C. per la rappresentazione di Stichus, e il 191 a.C. per quella di Pseudolus. Secondo una tradizione che risale a Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), inoltre, persi nel commercio i proventi della sua attività di attore Plauto si guadagna da vivere girando la macina in un mulino; ed è in tale contesto che inizia la sua carriera scrivendo Addictus (“Lo schiavo per debiti”) e Saturio (“Il panciapiena”). Non di rado, tuttavia, gli eruditi antichi leggono in chiave biografica dati tratti dall’opera dell’autore, finendo per velare di leggenda la verità storica relativa alla sua esistenza: a far pensare Plauto come schiavo, del resto, possono contribure i suoi realistici riferimenti ad aspetti servili quali fame, fatica e punizioni fisiche. Trasmessa con più chiarezza sembra invece una qualche esperienza dell’autore nel teatro farsesco, a giudicare dal nome Titus Maccius Plautus attribuitogli dal più antico codice plautino (palinsesto Ambrosiano, IV-V secolo): nel primo dei due cognomi, infatti, si riconosce la maschera dell’atellana detta Maccus, il matto; mentre il secondo indica la caratteristica dell’avere i “piedi piatti”, forse nel senso di “scalzi” in riferimento all’attore di farse che recita senza i calzari indossati dai personaggi tragici e comici. Sotto il nome di Plauto Varrone può contare ben 130 commedie, arrivando a stabilire come autentiche le 21 conosciute come – appunto – varroniane. Raccolte nel IV-V secolo in un unico codice di pergamena, esse ci sono arrivate integre ad eccezione di qualche lacuna e dell’ultima della lista, della quale rimangono un centinaio di versi: i titoli, noti, sono Amphitruo (“Anfitrione”), Asinaria (“La commedia degli asini”), Aulularia (“La commedia della pentola”), Bàcchides (“Le Bàcchidi”), Captivi (“I prigionieri”), Càsina (“La ragazza dal profumo di cannella”), Cistellaria (“La commedia della cesta”), Curculio (“Gorgogliòne”), Epidicus (“Epìdico”), Menaechmi (“I Menècmi”), Mercator (“Il mercante”), Miles gloriosus (“Il soldato sbruffone”), Mostellaria (“La commedia del fantasma”), Persa (“Il persiano”), Poenulus (“Il cartaginese”), Pseudolus (“Psèudolo”), Rudens (“La gòmena”), Stichus (“Stico”), Trinummus (“La commedia da tre soldi”), Truculentus (“Lo stizzoso”), Vidularia (“La commedia del baule”).

Come mostra Maurizio Bettini (Verso un’antropologia dell’intreccio. Le strutture semplici della trama nelle commedie di Plauto, 1982), questi testi inscenano il racconto di due temi transculturali di forte rilevanza – “disponibilità delle donne” e “disponibilità della ricchezza” –, reiterandolo in diverse varianti strutturate su uno stesso schema fondamentale: un giovane di buona famiglia ma senza soldi, in solidarietà con servi/parassiti e altri personaggi suoi aiutanti, vuole sottrarre la fanciulla/cortigiana che ama ad un lenone/soldato/padre antagonista che gli impedisce di possederla (A deve togliere a B il possesso di C) e vi riesce attraverso un inganno. Quasi sempre, esso è rivolto a reperire la somma necessaria a riscattare la fanciulla dal suo detentore; le singole trame si configurano dunque come i vari – comici – sviluppi della beffa, la cui riuscita porterà nel lieto fine all’unione dei due innamorati. L’inganno può apparire anche nella veste di un equivoco, quale quello creato dallo scambio fra personaggi doppi come gemelli o sosia; e lo scioglimento finale può alternare o sommare all’inganno/scambio un “riconoscimento” in seguito al quale, in genere, la ragazza che è erroneamente schiava recupera la libertà e l’unione tra i due innamorati diviene lecita. Ma la beffa stessa ha la funzione di ristabilire infine un giusto stato di cose, nella misura in cui è rivolta al lenone, il ruffiano che fa commercio di meretrici: una figura culturalmente negativa che la commedia, assecondando le attese del pubblico romano, vede puntualmente gabbata. Eroico architetto di inganni, campione di astuzia e libertà espressiva, emerge su tutti il servo scaltro e sfrontato: personaggio disincantato e disinteressato in virtù dell’infima condizione che gli è riservata, egli è tutto incentrato sull’azione e può dirigerla sulla scena con l’abilità di un capocomico, escogitando messinscene per ordire la beffa di turno e giocando a svelare la finzione teatrale quando più gli piace. La sovversione che lo vede libero di parlare, agire e beffare gli altri personaggi – non ultimi proprio i padroni – è certo resa possibile dall’ambientazione greca, che rappresenta atteggiamenti censurabili evitando di attribuirli direttamente ai Romani. Gli intrecci plautini, del resto, sono lontani dal trasgredire alcune regole elementari della cultura romana. Se la donna desiderata è sposata – evidenzia Bettini – e a far da antagonista all’amante desideroso è il marito, l’unione solitamente inscenata intaccherebbe il codice matrimoniale: ecco allora il dio Giove a far la parte dell’innamorato, rovesciando l’adulterio – da cui nasce Ercole, eroico figlio semidivino – in onore per lo sposo (Amphitruo). Allo stesso modo non è contemplato che un vecchio padre soffi al figlio l’amata: in questo caso, pena la rottura delle relazioni di parentela, l’inganno fallisce (Càsina; Mercator). Eppure, nella sua gamma di situazioni e personaggi la commedia plautina mette in scena un mondo davvero “alla rovescia”, nel quale finiscono per prevalere personaggi che nella vita reale occupano i gradini inferiori della scala sociale; è il clima dei Saturnalia, festa rifondata il 17 dicembre del 217 a.C. che permette ai Romani, una volta all’anno, di rovesciare completamente i rapporti sociali. Nella festività che celebra il ritorno dell’età aurea di Saturno, infatti, vige la libertas Decembris e la parte fissata per ognuno dal destino è temporaneamente messa in discussione: si mangia e si beve a piacimento, i beni materiali sono rimessi in circolazione fra tutti con lo scambio dei regali e la sorte col gioco dei dadi, gli schiavi amministrano la casa e siedono alla tavola dei padroni, liberi di dire loro ciò che normalmente non potrebbero, e tutti quanti sono accomunati dal pileus, berretto di feltro degli schiavi affrancati. Lo stesso segno carnevalesco è impresso agli intrecci delle commedie plautine: che portano alla ribalta cortigiane e parassiti, giovani squattrinati, mogli gelose e servi furbi, tutti intenti, ognuno a suo modo, a farla in barba a personaggi (mariti, padri e padroni, mezzane e lenoni) che di norma li terrebbero in scacco. L’occasione teatrale diviene così un momento di “rottura” dell’ordine stabilito: una rottura autorizzata che risponde alla necessità di fare festa che è tipica di ogni comunità, della quale, entro limiti prestabiliti, permette di sconvolgere ritualmente il codice culturale.

Sul piano formale Plauto rielabora i modelli greci in modo creativo: indici ne sono la selezione dei testi, la contaminazione fra commedie diverse, la trasformazione di nomi e di titoli o l’inserimento di elementi romani con citazioni di luoghi e fatti dell’attualità. L’originalità plautina opera anche sul piano metrico e lessicale: dall’uso di parti cantate di norma assenti nei copioni greci, alla libera invenzione di parole e maccheroniche lingue straniere. Il linguaggio comico di Plauto è vivido e forte, procede col gusto giocoso della metafora, dell’accumulazione e dell’iperbole, potente e triviale ma insieme raffinatissimo nel toccare gli aspetti più bassi e corporali dell’esperienza umana, fra eccessi alimentari e stragi di vivande, fra percosse e supplizi fisici, nell’ennesima carnevalesca inversione.

Cecilio Stazio

Gallo insubre forse di Milano, Cecilio Stazio è il maggiore commediografo romano dopo Plauto e prima di Terenzio. Pur messo in ombra dalla fama plautina, raggiunge un successo tale da meritargli vari riconoscimenti di eccellenza da parte degli eruditi antichi. Della sua opera restano 40 titoli e frammenti per circa 300 versi. Aulo Gellio conserva tre passi del Plocium (“La collana”) con i corrispondenti greci del Plókion di Menandro; nel primo un marito si sfoga della moglie Crobile, che con le sue tirate di gelosia è appena riuscita a fargli vendere una serva. L’interpretazione di Cecilio è qui del tutto originale: al metro recitato greco sostituisce quello cantato e musicato; al misurato umorismo menandreo un tono vivace; al monologo originario, in cui il marito si rammarica per la perdita della schiava, un pezzo in cui l’uomo si lamenta per la tirannia della moglie per poi immaginare i discorsi di Crobile che sparge chiacchiere sull’accaduto.

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