SIMP. Son sicuro che non bisognerebbe far mutazion nessuna, e che non solo la vista, ma quando io v’avessi drizzato la mira d’un archibuso, mai per qualsivoglia moto della nave non mi bisognerebbe muoverla un pelo per mantenervela aggiustata.

SALV. E questo avviene perché il moto che conferisce la nave all’antenna, lo conferisce anche a voi ed al vostro occhio, sì che non vi convien muoverlo punto per rimirar la cima dell’antenna; ed in conseguenza ella vi apparisce immobile.132 Ora trasferite questo discorso alla vertigine della Terra ed al sasso posto in cima della torre, nel quale voi non potete discernere il moto, perché quel movimento che bisogna per seguirlo, l’avete voi comunemente con lui dalla Terra, né vi convien muover l’occhio; quando poi gli sopraggiugne il moto all’ingiù, che è suo particolare, e non vostro, e che si mescola co ’l circolare, la parte del circolare che è comune della pietra e dell’occhio, continua d’esser impercettibile, e solo si fa sensibile il retto, perché per seguirla vi convien muover l’occhio abbassandolo. Vorrei, per tòr d’error questo filosofo, potergli dire che, una volta andando in barca, facesse Esperienza che mostra
come il moto
comune è impercettibile.
d’avervi un vaso assai profondo pieno d’acqua, ed avesse accomodato una palla di cera o d’altra materia che lentissimamente scendesse al fondo, sì che in un minuto d’ora appena calasse un braccio, e facendo andar la barca quanto più velocemente potesse, talché in un minuto d’ora facesse più di cento braccia, leggiermente immergesse nell’acqua la detta palla e la lasciasse liberamente scendere, e con diligenza osservasse il suo moto: egli primieramente la vedrebbe andare a dirittura verso quel punto del fondo del vaso dove tenderebbe quando la barca stesse ferma, ed all’occhio suo ed in relazione al vaso tal moto apparirebbe perpendicolarissimo e rettissimo; e pure non si può dir che non fusse composto del retto in giù e del circolare intorno all’elemento dell’acqua. E se queste cose accaggiono in moti non naturali, ed in materie che noi possiamo farne l’esperienze nel loro stato di quiete e poi nel contrario del moto, e pur, quanto all’apparenza, non si scorge diversità alcuna e par che ingannino il senso, che vogliamo noi distinguere circa alla Terra, la quale perpetuamente è stata nella medesima costituzione, quanto al moto o alla quiete? ed in qual tempo vogliamo in essa sperimentare se differenza alcuna si scorge tra questi accidenti del moto locale ne’ suoi diversi stati di moto e di quiete, se ella in un solo di questi due eternamente si mantiene?

SAGR. Questi discorsi m’hanno racconciato alquanto lo stomaco, il quale quei pesci e quelle lumache in parte mi avevano conturbato; ed il primo m’ha fatto sovvenire la correzione d’un errore, il quale ha tanto apparenza di vero, che non so se di mille uno non l’ammettesse per indubitato. E questo fu, che navigando in Soria, e trovandomi un telescopio assai buono, statomi donato dal nostro comune amico, che non molti giorni avanti l’aveva investigato, proposi a quei marinari che sarebbe stato di gran benefizio nella navigazione l’adoperarlo su la gaggia della nave per iscoprir vasselli da lontano e riconoscergli: fu approvato Considerazione sottile
circa ’l potersi
usare il telescopio
con la medesima
facilità tanto in
cima dell’albero della
nave quanto al
piede.
il benefizio, ma opposta la difficultà del poterlo usare mediante il continuo fluttuar della nave, e massime in su la cima dell’albero, dove l’agitazione è tanto maggiore, e che meglio sarebbe stato chi l’avesse potuto adoperare al piede, dove tal movimento è minore che in qualsivoglia altro luogo del vassello. Io (non voglio ascondere l’error mio) concorsi nel medesimo parere, e per allora non replicai altro, né saprei dirvi da che mosso, tornai tra me stesso a ruminar sopra questo fatto, e finalmente m’accorsi della mia semplicità (ma però scusabile) nell’ammetter per vero quello che è falsissimo: dico falso, che l’agitazion massima della gaggia, in comparazion della piccola del piede dell’albero, debba render più difficile l’uso del telescopio nell’incontrar l’oggetto.

SALV. Io sarei stato compagno de i marinari ed anche vostro, su ’l principio.

SIMP. Ed io parimente sarei stato, e sono ancora; né crederei co ’l pensarvi cent’anni intenderla altrimenti.

SAGR. Potrò dunque io questa volta farvi a tutti due (come si dice) il maestro addosso: e perché il proceder per interrogazioni mi par che dilucidi assai le cose, oltre al gusto che si ha dello scalzare il compagno, cavandogli di bocca quel che non sapeva di sapere, mi servirò di tale artifizio. E prima io suppongo che le navi, fuste o altri legni, che si cerca di scoprire e riconoscere, sieno lontani assai, cioè 4, 6, 10 o 20 miglia, perché per riconoscer i vicini non c’è bisogno d’occhiali; ed in conseguenza il telescopio può, in tanta distanza di 4 o 6 miglia, comodamente scoprire tutto ’l vassello, ed anco machina assai maggiore. Ora io domando, quali in ispezie e quanti in numero siano i movimenti che si fanno nella gaggia, dependenti dalla fluttuazion della nave.

Movimenti differenti
dependenti
dalla fluttuazione
della nave.

SALV. Figuriamoci che la nave vadia verso levante: prima, nel mar tranquillissimo, non ci sarebbe altro moto che questo progressivo; ma aggiunta l’agitazion dell’onde, ce ne sarà uno che, alzando ed abbassando vicendevolmente la poppa e la prua, fa che la gaggia inclina innanzi e indietro; altre onde, facendo andare il vassello alla banda, piegano l’albero a destra e a sinistra; Due mutazioni fatte
nel telescopio,
dependenti dall’agitazion
della nave.
altre posson girare alquanto la nave e farla defletter, diremo con l’artimone, dal dritto punto orientale or verso greco or verso sirocco; altre, sollevando per di sotto la carina, potrebber far che la nave, senza deflettere, solamente si alzasse ed abbassasse: ed in somma parmi che in spezie questi movimenti sien due, uno, cioè, che muta per angolo la direzion del telescopio, e l’altro che la muta, diremo, per linea, senza mutar angolo, cioè mantenendo sempre la canna dello strumento parallela a sé stessa.

SAGR. Ditemi appresso: se noi, avendo prima drizzato il telescopio là a quella torre di Burano, lontana di qua sei miglia, lo piegassimo per angolo a destra o a sinistra, o vero in su o in giù, solamente quanto è un nero d’ugna, che effetto ci farebbe circa l’incontrar essa torre?

SALV. Ce la farebbe immediate sparir dalla vista, perché una tal declinazione, benché piccolissima qui, può importar là le centinaia e le migliaia delle braccia.

SAGR. Ma se senza mutar l’angolo, conservando sempre la canna parallela a sé stessa, noi la trasferissimo 10 o 12 braccia più lontana, a destra o a sinistra, in alto o a basso, che effetto ci cagionerebbe ella quanto alla torre?

SALV. Assolutamente impercettibile; perché, sendo gli spazii qui e là contenuti tra raggi paralleli, le mutazioni fatte qui e là convien che sieno eguali; e perché lo spazio che scuopre là lo strumento è capace di molte di quelle torri, però non la perderemmo altrimenti di vista.

SAGR. Tornando ora alla nave, possiamo indubitabilmente affermare, che il muovere il telescopio a destra o a sinistra, in su o in giù, ed anco innanzi o indietro, 20 o 25 braccia, mantenendolo però sempre parallelo a sé stesso, non può sviare il raggio visivo dal punto osservato nell’oggetto più che le medesime 25 braccia; e perché nella lontananza di 8 o 10 miglia la scoperta dello strumento abbraccia spazio molto più largo che la fusta o altro legno veduto, pero tal piccola mutazione non me lo fa perder di vista. L’impedimento dunque e la causa dello smarrir l’oggetto non ci può venire se non dalla mutazion fatta per angolo, già che per l’agitazion della nave la trasportazion del telescopio in alto o a basso, a destra o a sinistra, non può importar gran numero di braccia. Ora supponete d’aver due telescopii fermati uno all’inferior parte dell’albero della nave, e l’altro alla cima non pur dell’albero, ma anco dell’antenna altissima, quando con essa si fa la penna, e che amendue sien drizzati al vassello discosto 10 miglia: ditemi se voi credete che, per qual si sia agitazion della nave e inclinazion dell’albero, maggior mutazione, quanto all’angolo, si faccia nella canna altissima che nella infima. Alzando un’onda la prua, farà ben dare indietro la punta dell’antenna 30 o 40 braccia più che il piede dell’albero, e verrà a ritirar indietro la canna superiore per tanto spazio, e la inferiore un palmo solamente; ma l’angolo tanto si altera nell’uno strumento quanto nell’altro: e parimente un’onda che venga per banda, trasporta a destra ed a sinistra cento volte più la canna alta che la bassa; ma gli angoli o non si mutano o si alterano egualmente: ma la mutazione a destra o a sinistra, innanzi o in dietro, in su o in giù, non reca impedimento sensibile nella veduta de gli oggetti lontani, ma sì bene grandissima l’alterazione dell’angolo: adunque bisogna necessariamente confessare che l’uso del telescopio nella sommità dell’albero non è più difficile che al piede, avvenga che le mutazioni angolari son eguali in amendue i luoghi.

SALV. Quanto bisogna andar circospetto prima che affermare o negare una proposizione! Io torno a dire, che nel sentir pronunziar resolutamente che per il movimento maggiore fatto nella sommità dell’albero che nel piede, ciascuno si persuaderà che grandemente sia più difficile l’uso del telescopio su alto che a basso. E così anco voglio scusar quei filosofi che si disperano e si gettan via contro a quelli che non gli voglion concedere che quella palla d’artiglieria, che e’ veggon chiaramente venire a basso per una linea retta e perpendicolare, assolutamente si muova in quel modo, ma voglion che ’l moto suo sia per un arco, ed anco molto e molto inclinato e trasversale. Ma lasciamogli in quest’angustia, e sentiamo l’altre opposizioni che l’autore che aviamo a mano fa contro al Copernico.

SIMP. Continua pur l’autore di mostrare come in dottrina del Copernico bisogna negare i sensi, e le sensazioni massime, qual sarebbe se noi, che sentiamo il ventilar d’una leggierissima aura, non abbiamo poi a sentire l’impeto d’un vento perpetuo che ci ferisce con una velocità Moto annuo della
Terra dovrebbe cagionar
vento perpetuo
e gagliardissimo.
che scorre più di 2529 miglia per ora; ché tanto è lo spazio che il centro della Terra co ’l moto annuo trapassa in un’ora per la circonferenza dell’orbe magno, come egli diligentemente calcola, e perché, come ei dice pur di parer del Copernico, cum Terra movetur circumpositus aër; motus tamen eius, velocior licet ac rapidior celerrimo quocumque vento, a nobis non sentiretur, sed summa tum tranquillitas reputaretur, nisi alius motus accederet. Quid est vero decipi sensum, nisi haec esset deceptio?133

SALV. È forza che questo filosofo creda che quella Terra che il Copernico fa andare in giro, insieme con l’aria ambiente, per la circonferenza dell’orbe magno, non sia questa dove noi abitiamo, ma un’altra separata, perché L’aria toccandoci
sempre con la medesima
parte, non
ci ferisce.
questa nostra conduce seco noi ancora, con la medesima velocità sua e dell’aria circostante: e qual ferita possiam noi sentire, mentre fuggiamo con egual corso a quello di chi ci vuol giostrare? Questo Signore s’è scordato che noi ancora siamo, non men che la Terra e l’aria, menati in volta, e che in conseguenza sempre siamo toccati dalla medesima parte d’aria, la quale però non ci ferisce.

SIMP. Anzi no: eccovi le parole che immediatamente seguono: Praeterea nos quoque rotamur ex circunductione Terrae etc.134

SALV. Ora non lo posso più né aiutare né scusare; scusatelo voi e aiutatelo, Sig. Simplicio.

SIMP. Per ora, così improvvisamente, non mi sovvien difesa di mia sodisfazione.

SALV. Ombè, ci penserete stanotte, e difenderetelo poi domani: intanto sentiamo l’altre opposizioni.

In via del Copernico
bisogna negar le
sensazioni.

SIMP. Séguita pur l’istessa instanza, mostrando che in via del Copernico bisogna negar le sensazioni proprie.135 Imperocché questo principio, per il quale noi andiamo intorno con la Terra, o è nostro intrinseco, o ci è esterno, cioè un rapimento di essa Terra: e se questo secondo è, non sentendo noi cotal rapimento, convien dire che ’l senso del tatto non senta il proprio obietto congiunto, né la sua impressione nel sensorio; ma se il principio è intrinseco, noi non sentiremo un moto locale derivante da noi medesimi, e non ci accorgeremo mai di una propensione perpetuamente annessa con esso noi.

SALV. Talché l’instanza di questo filosofo batte qua, che, sia quel principio, per il quale noi ci moviamo con Il moto nostro può
essere o interno o
esterno, senz’esser da
noi compreso o
sentito.
la Terra, o esterno o interno, dovremmo in ogni maniera sentirlo, e non lo sentendo, non è né l’uno né l’altro, e però noi non ci moviamo, nè in conseguenza la Terra. Ed io dico che può essere nell’un modo e nell’altro, senza che noi lo sentiamo. E del poter esser esterno, Moto della barca
insensibile a quei
che ci son dentro,
quanto al senso del
tatto.
l’esperienza della barca rimuove ogni difficultà soprabbondantemente: e dico soprabbondantemente, perché, potendo noi a tutte l’ore farla muovere ed anco farla star ferma, e con grand’accuratezza andare osservando se da qualche diversità, che dal senso del tatto possa esser compresa, noi possiamo imparare ad accorgerci se la si muova o no, vedendo che per ancora non si è acquistata tale scienza, a che maravigliarsi se l’istesso accidente ci resta incognito nella Terra, la quale ci può aver portati perpetuamente, senza potere mai sperimentar la sua quiete? Voi sete pur, Sig. Simplicio, per quel ch’io credo, andato mille volte nelle barche da Padova, e se Moto della barca
sensibile alla vista,
congiunta col
discorso.
voi volete confessar il vero, non avete mai sentita in voi la participazione di quel moto, se non quando la barca, arrenando o urtando in qualche ritegno, si è fermata, e che voi con gli altri passeggieri, colti all’improvviso, sete con pericolo traboccati. Bisognerebbe che il globo terrestre incontrasse qualche intoppo che l’arrestasse, che vi assicuro che allora vi accorgereste dell’impeto che in voi risiede, mentre da esso sareste scagliato verso le stelle. Ben è vero che con altro senso, ma accompagnato co ’l discorso, potete accorgervi del moto della Moto terrestre
comprendesi nelle
stelle.
barca, cioè con la vista, mentre riguardate gli alberi e le fabbriche poste nella campagna, le quali, essendo separate dalla barca, par che si muovano in contrario: ma se per una tale esperienza voleste restare appagato del moto terrestre, direi che riguardaste le stelle, che per ciò vi appariscono muoversi in contrario. Il maravigliarsi poi di non sentir cotal principio, posto che fusse nostro interno, è pensiero men ragionevole; perché se noi non sentiamo un simile che ci vien di fuori e che frequentemente si parte, per qual ragione dovremmo sentirlo quando immutabilmente risedesse di continuo in noi? Ora ècci altro in questo primo argomento?

SIMP. Ècci questa esclamazioncella: Ex hac itaque opinione necesse est diffidere nostris sensibus, ut penitus fallacibus vel stupidis in sensibilibus, etiam coniunctissimis, diiudicandis; quam ergo veritatem sperare possumus, a facultate adeo fallaci ortum trahentem?136

SALV. Oh io ne vorrei dedur precetti più utili e più sicuri, imparando ad esser più circuspetto e men confidente circa quello che a prima giunta ci vien rappresentato da i sensi, che ci possono facilmente ingannare; e non vorrei che questo autore si affannasse tanto in volerci far comprender co ’l senso,137 questo moto de i gravi descendenti esser semplice retto e non di altra sorte, né si risentisse ed esclamasse perché una cosa tanto chiara manifesta e patente venga messa in difficultà; perché in questo modo dà indizio di credere che a quelli che dicon, tal moto non esser altrimenti retto, anzi più tosto circolare, paia di veder sensatamente quel sasso andar in arco, già che egli invita più il lor senso che il lor discorso a chiarirsi di tal effetto: il che non è vero, Sig. Simplicio, perché, sì come io, che sono indifferente tra queste opinioni e solo a guisa di comico mi immaschero da Copernico in queste rappresentazioni nostre, non ho mai veduto, né mi è parso di veder, cader quel sasso altrimenti che a perpendicolo, così credo che a gli occhi di tutti gli altri si rappresenti l’istesso. Meglio è dunque che, deposta l’apparenza, nella quale tutti convenghiamo, facciamo forza co ’l discorso, o per confermar la realtà di quella, o per iscoprir la sua fallacia.

SAGR. Se io potessi una volta incontrarmi in questo filosofo, che pur mi pare che si elevi assai sopra molti altri seguaci dell’istesse dottrine, vorrei in segno di affetto ricordargli un accidente che assolutamente egli ha ben mille volte veduto, dal quale, con molta conformità di questo che trattiamo, si può comprendere quanto facilmente possa altri restar ingannato dalla semplice apparenza o vogliamo dire rappresentazione del senso. E l’accidente è il parere, a quelli che di notte camminano per una strada, d’esser seguitati dalla Luna con passo eguale al loro, mentre la veggono venir radendo le gronde de i tetti sopra le quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che farebbe una gatta che, realmente camminando sopra i tegoli, tenesse loro dietro: apparenza che, quando il discorso non s’interponesse, pur troppo manifestamente ingannerebbe la vista.

SIMP. Veramente non mancano l’esperienze le quali ci rendono sicuri delle fallacie de i semplici sensi: però, sospendendo per ora cotali sensazioni, sentiamo Argomenti contro
al moto della Terra
presi
ex rerum
natura.
gli argomenti che seguono, che son presi, come e’ dice, ex rerum natura.138 Il primo de’ quali è, che la Terra non può muoversi di sua natura di tre movimenti grandemente diversi, o vero bisognerebbe rifiutare molte dignità manifeste: la prima delle quali è, che ogni effetto depende da qualche causa; la seconda, che nessuna cosa produce sé medesima, dal che ne segue che non è possibile che il movente e quello che è mosso siano totalmente l’istessa cosa: e questo non solo nelle cose che son mosse da motore estrinseco è manifesto, ma si raccoglie anco da i principii proposti l’istesso accadere nel moto naturale dependente Tre dignità che si
suppongono manifeste.
da principio intrinseco; altrimenti, essendo che il movente, come movente, è causa, e ’l mosso, come mosso, è effetto, il medesimo totalmente sarebbe causa ed effetto; adunque un corpo non muove tutto sé, cioè che tutto muova e tutto sia mosso, ma bisogna nella cosa mossa distinguere in qualche modo il principio efficiente della mozione, e quello che di tal mozione si muove. La terza dignità è che, nelle cose suggette a i sensi, uno, in quanto uno, produce una cosa sola; cioè l’anima nell’animale produce ben diverse operazioni, ma con istrumenti diversi,139 cioè Un corpo semplice,
quale è la Terra,
non si può muovere
di tre moti diversi.
la vista, l’udito, l’odorato, la generazione, ma con istrumenti diversi: ed in somma si scorge, nelle cose sensibili le diverse operazioni derivar da diversità che sia nella causa. Ora, se si congiugneranno queste dignità, sarà cosa chiarissima che un corpo semplice, qual è la Terra, non si potrà di sua natura muover insieme di tre movimenti grandemente diversi. Imperocché, per le supposizioni fatte, tutta non muove sé La Terra non si
può muovere
d’alcuno de i moti
attribuitigli dal
Copernico.
tutta; bisogna dunque distinguere in lei tre principii di tre moti, altrimenti un principio medesimo produrrebbe più moti: ma contenendo in sé tre principii di moti naturali, oltre alla parte mossa, non sarà corpo semplice, ma composto di tre principii moventi e della parte mossa: se dunque la Terra è corpo semplice, non si moverà di tre moti. Anzi, pur non si moverà ella di alcuno di quelli che le attribuisce il Copernico, dovendosi muover d’un solo; essendo manifesto, per le ragioni di Aristotile, che ella si muove al suo centro, come mostrano le sue parti, che scendono ad angoli retti alla superficie sferica della Terra.

Risposte a gli
argomenti contro al
moto della Terra
presi
ex rerum
natura.

SALV. Molte cose sarebbon da dirsi e da considerarsi intorno alla testura di questo argomento; ma già che noi lo possiamo in brevi parole risolvere, non voglio per ora senza necessità diffondermi, e tanto più, quanto la risposta mi vien dal medesimo autore somministrata, mentre egli dice, nell’animale da un sol principio esser prodotte diverse operazioni: onde io per ora gli rispondo, con un simil modo da un sol principio derivare nella Terra diversi movimenti.

SIMP. A questa risposta non si quieterà punto l’autore dell’instanza, anzi vien pur ella totalmente atterrata da quello che ei soggiugne Quarta dignità contro
al moto della
Terra.
immediatamente per maggiore stabilimento dell’impugnazion fatta, sì come voi sentirete. Corrobora, dico, l’argomento con altra dignità, che è questa: che la natura non manca, né soprabbonda, nelle cose necessarie. Questo è manifesto a gli osservatori delle cose naturali e principalmente degli animali, ne’ quali, perché dovevano muoversi di molti movimenti, la natura ha fatte loro molte flessure, e quivi acconciamente ha legate le parti per il moto, come alle ginocchia, a i fianchi, per il camminar Flessure negli animali
necessarie per
la diversità de’
movimenti loro.
de gli animali e per coricarsi a lor piacimento; in oltre nell’uomo ha fabbricate molte flessioni e snodature al gomito ed alla mano, per poter esercitar molti moti. Da queste cose si cava l’argomento contro al triplicato movimento della Terra: o vero il corpo uno e continuo, senza essere snodato da flessura nessuna, può esercitar diversi movimenti, o vero non può senza aver le flessure; se può senza, adunque indarno ha la natura fabbricate le flessure negli animali, che è contro alla dignità; ma se non può senza, adunque la Terra, corpo uno e continuo e privo di flessure e di snodamenti, non può di sua natura muoversi di più moti. Or vedete quanto argutamente va a Altro argomento
contro al triplicato
moto della Terra.
incontrar la vostra risposta, che par quasi che l’avesse prevista.

SALV. Dite voi su ’l saldo, o pur parlate ironicamente?

SIMP. Io dico dal miglior senno ch’i’ m’abbia.

SALV. Bisogna dunque che voi vi sentiate d’aver tanto buono in mano, Le flessioni ne gli
animali non son
fatte per la diversità
de i movimenti.
da poter anco sostener la difesa di questo filosofo contro qualche altra replica che gli fusse fatta in contrario: però rispondetemi, vi prego, in sua grazia, già che non possiamo averlo presente. Voi primieramente ammettete per vero che la natura abbia fatti gli articoli, le flessure e snodature a gli animali, acciocché si possano muover di molti e diversi movimenti; ed io vi nego questa proposizione, e dico che le flessioni son fatte acciocché l’animale possa muovere una o più delle sue parti, restando Moti degli animali
son tutti d’una
sorte.
immobile il resto, e dico che quanto alle spezie e differenze de’ movimenti, quelli sono di una sola, cioè tutti circolari: e per questo voi vedete, tutti i capi de gli ossi mobili esser colmi o cavi; e di questi, altri sono sferici, che son quelli che hanno a muoversi per tutti i versi, come fa nella snodatura della spalla il braccio dell’alfiere nel maneggiar l’insegna, e dello strozziere nel richiamar co ’l logoro il falcone, e tal è la flessura del gomito, sopra la quale si gira la mano nel forar col succhiello; altri son circolari per un sol verso e quasi cilindrici, I capi de gli ossi
mobili sono tutti
rotondi.
che servono per le membra che si piegano in un sol modo, come le parti delle dita l’una sopra l’altra, etc. Ma senza più particolari incontri, un solo general discorso ne può far conoscer questa verità; e questo è, che di un corpo solido che si muova restando uno de’ suoi estremi senza mutar luogo, il moto non può esser se non circolare: e perché nel muover l’animale uno delle sue membra non lo separa dall’altro suo conterminale, Si mostra la necessità
dell’esser i capi
de gli ossi mobili
rotondi, ed i moti
dell’animale tutti
circolari.
adunque tal moto è circolare di necessità.

SIMP. Io non l’intendo per questo verso; anzi veggo io l’animale muoversi di cento moti non circolari e diversissimi tra loro, e correre e saltare e salire e scendere e notare e molt’altri.

Moti secondarii
dell’animale
dependenti da i primi.

SALV. Sta bene: ma cotesti son moti secondarii, dependenti da i primi, che sono de gli articoli e delle flessure. Al piegar delle gambe alle ginocchia e delle cosce a i fianchi, che son moti circolari delle parti, ne viene in conseguenza il salto o il corso, che son movimenti di tutto ’l corpo, e questi posson esser non circolari. Ora, perché del globo terrestre non si ha da muovere una parte sopra un’altra Per il moto della
Terra non si ricerca
flessure.
immobile, ma il movimento deve esser di tutto il corpo, non ci è bisogno di flessure.

SIMP. Questo (dirà la parte) potrebbe esser quando il moto fusse un solo; ma l’esser tre, e diversissimi tra di loro, non è possibile che s’accomodino in un corpo inarticolato.

SALV. Cotesta credo veramente che sarebbe la risposta del filosofo; contro alla quale io insurgo per un’altra banda, e vi domando se voi stimate che per via di articoli e flessure si potesse adattare il globo terrestre alla participazione di tre moti circolari diversi. Voi non rispondete? Già che voi tacete, risponderò io per il filosofo: il quale assolutamente direbbe di sì, perché altrimenti sarebbe stato superfluo e fuori del caso il metter in considerazione che la natura fa le flessioni acciocché il mobile possa muoversi di moti differenti, e che però, non avendo il globo terrestre flessure, non può aver i tre moti attribuitigli; perché, quando egli avesse stimato che né anco per via di flessure si potesse render atto a tali movimenti, arebbe liberamente pronunziato, il globo non poter muoversi di tre moti. Ora, stante questo, io prego voi, e per voi, se fusse possibile, il filosofo autor dell’argomento, ad essermi cortese d’insegnarmi in qual maniera bisognerebbe accomodar le flessure, acciocché i tre moti comodamente potessero esercitarsi; e vi concedo tempo per la risposta quattro e anco sei mesi. Intanto a me pare che un principio solo possa cagionar nel globo terrestre più moti, in quella guisa appunto, come dianzi risposi, che un sol principio, co ’l mezo di varii strumenti, produce moti multiplici e diversi nell’animale: e quanto all’articolazione, non ve n’è bisogno, dovendo esser i movimenti del tutto, e non di alcune parti; e perché hanno ad esser circolari, la semplice figura sferica è la più bella articolazione che domandar si possa.

SALV. Cotesta credo veramente che sarebbe la risposta del filosofo; contro alla quale io insurgo per un’altra banda, e vi domando se voi stimate che per via di articoli e flessure si potesse adattare il globo terrestre alla participazione di tre moti circolari diversi. Voi non rispondete? Già che voi tacete, risponderò Si desidera sapere
per mezo di quali
flessure il globo
terrestre potrebbe
moversi di 3 moti
diversi.
io per il filosofo: il quale assolutamente direbbe di sì, perché altrimenti sarebbe stato superfluo e fuori del caso il metter in considerazione che la natura fa le flessioni acciocché il mobile possa muoversi di moti differenti, e che però, non avendo il globo terrestre flessure, non può aver i tre moti attribuitigli; perché, quando egli avesse stimato che né anco per via di flessure si potesse render atto a tali movimenti, arebbe liberamente pronunziato, il globo non poter muoversi di tre moti. Ora, stante questo, io prego voi, e per voi, se fusse possibile, il filosofo autor dell’argomento, ad essermi cortese d’insegnarmi in qual maniera bisognerebbe accomodar le flessure, acciocché i tre moti comodamente potessero esercitarsi; e vi concedo tempo per Un solo principio
può cagionar più
moti nella Terra.
la risposta quattro e anco sei mesi. Intanto a me pare che un principio solo possa cagionar nel globo terrestre più moti, in quella guisa appunto, come dianzi risposi, che un sol principio, co ’l mezo di varii strumenti, produce moti multiplici e diversi nell’animale: e quanto all’articolazione, non ve n’è bisogno, dovendo esser i movimenti del tutto, e non di alcune parti; e perché hanno ad esser circolari, la semplice figura sferica è la più bella articolazione che domandar si possa.

SIMP. Al più che vi si dovesse concedere, sarebbe che ciò potesse accader d’un movimento solo; ma di tre diversi, al parer mio e dell’autore, non è possibile, come egli pur continuando, e corroborando l’instanza, segue scrivendo: Figuriamoci co ’l Copernico che la Terra si muova, per propria facultà e da principio intrinseco, da occidente in oriente nel Altra instanza contro
al triplicato moto
della Terra.
piano dell’eclittica, ed oltre a ciò che ella si rivolga, pur da principio intrinseco, intorno al suo proprio centro da oriente in occidente, e per il terzo moto ch’ella per propria inclinazione si pieghi da settentrione in austro ed all’incontro; essendo ella un corpo continuo e non collegato con flessioni e giunture, potrà mai la nostra stimativa e ’l nostro giudizio comprendere che un medesimo principio naturale e indistinto, cioè che una medesima propensione, si distragga insieme in diversi moti e quasi contrarii? Io non posso credere che alcuno sia per dir tal cosa, se non chi a dritto e a torto avesse preso a sostenere questa posizione.

SALV. Fermate un poco, e trovatemi questo luogo nel libro; mostrate. Fingamus modo cum Copernico, Terram aliqua sua vi et ab indito principio impelli ab occasu ad ortum in eclipticae plano, tum rursus revolvi ab indito etiam principio circa suimet centrum ab ortu in occasum, tertio deflecti rursus suopte nutu a septentrione in austrum et vicissim.140 Io dubitavo, Sig. Simplicio, che voi non aveste preso errore nel riferirci le parole dell’autore; ma veggo che egli stesso, e pur troppo gravemente, si inganna, e con mio dispiacere comprendo ch’e’ Error grave
dell’impugnator del
Copernico.
si è posto ad impugnar una posizione la quale e’ non ha ben capita: imperocché questi non sono i movimenti che ’l Copernico attribuisce alla Terra. E donde cava egli che ’l Copernico faccia il moto annuo per l’eclittica contrario al moto circa il proprio centro? bisogna che e’ non abbia letto il suo libro, che in cento luoghi, ed anco ne i primi capitoli, scrive tali movimenti esser amendue verso le medesime parti, cioè da occidente verso oriente. Ma senza sentirlo da altri, non dovev’egli per sé stesso comprendere, che attribuendosi alla Terra i movimenti che si levano l’uno al Sole e l’altro al primo mobile, bisognava che fussero necessariamente fatti pel medesimo verso?

SIMP. Guardate pur di non errar voi, ed il Copernico insieme.Arguta ed insieme
semplice instanza
contro al Copernico.
Il moto diurno del primo mobile non è egli da levante a ponente? ed il moto annuo del Sole per l’ecclittica non è, per l’opposito, da ponente a levante? come dunque volete che i medesimi, trasferiti nella Terra, di contrarii divengan concordi?

Si manifesta
l’errore dell’oppositore,
dichiarando come i
moti annuo e diurno,
essendo della
Terra, sono per il
medesimo verso, e
non contrarii.

SAGR. Certo che il Sig. Simplicio ci ha scoperta l’origine dell’error di questo filosofo: è forza che esso ancora abbia fatto l’istesso discorso.

SALV. Or che si può, caviamo d’errore almanco il Sig. Simplicio. Il quale, vedendo le stelle nel nascere alzarsi sopra l’orizonte orientale, non arà difficultà nell’intendere, che quando tal moto non fusse delle stelle, bisognerebbe necessariamente dire che l’orizonte con moto contrario si abbassasse, ed in conseguenza che la Terra si volgesse in sé stessa al contrario di quel che ci sembrano muoversi le stelle, cioè da occidente verso oriente, che è secondo l’ordine de’ segni del zodiaco. Quanto poi all’altro moto, essendo il Sole fisso nel centro del zodiaco e la Terra mobile per la circonferenza di quello, per far che il Sole ci apparisca muoversi per esso zodiaco secondo l’ordine de i segni, è necessario che la Terra cammini secondo il medesimo ordine, attesoché il Sole ci apparisce sempre occupar nel zodiaco il grado opposto al grado nel quale si trova la Terra: e così, scorrendo la Terra, v. g., l’Ariete, il Sole apparirà scorrer la Libra, e passando la Terra per il segno del Toro, il Sole scorrerà per quello dello Scorpione; la Terra per i Gemini, il Sole per il Sagittario: ma quest’è muoversi per il medesimo verso amendue, cioè secondo l’ordine de’ segni, come anco era la revoluzion della Terra circa il proprio centro.

SIMP. Ho inteso benissimo, né saprei qual cosa produr per isgravio d’un tanto errore.

Da un altro più
grave errore si mostra,
l’oppositore
aver fatto poco
studio nel Copernico.

SALV. Ma piano, Sig. Simplicio, ché ce n’è un altro maggior di questo: ed è, ch’e’ fa muover la Terra per il moto diurno intorno al proprio centro da oriente verso occidente, e non comprende che quando questo fusse, il movimento delle 24 ore dell’universo ci apparirebbe fatto da ponente verso levante, per l’opposito giusto di quel che noi veggiamo.

SIMP. Oh io, che appena ho veduti i primi elementi della sfera, son sicuro che non arei errato sì gravemente.

SALV. Giudicate ora quale studio si può stimare che abbia fatto questo oppositore ne i libri del Copernico, se e’ prende al rovescio questa principale e massima ipotesi, sopra la quale si fonda tutta la somma delle cose nelle quali il Copernico dissente dalla dottrina d’Aristotile e di Tolomeo. Si dubita che l’oppositore
non abbia
inteso il terzo moto
attribuito dal
Copernico alla Terra.
Quanto poi a questo terzo moto che l’autore, pur di mente del Copernico, assegna al globo terrestre, non so di quale e’ si voglia intendere: quello non è egli sicuramente che il Copernico gli attribuisce congiuntamente con gli altri due, annuo e diurno, che non ha che fare co ’l declinare verso austro e settentrione, ma solo serve per mantener l’asse della revoluzion diurna continuamente parallelo a sé stesso;141 talché bisogna dire, o che l’oppositore non abbia compreso questo, o l’abbia dissimulato. Ma benché questo solo grave mancamento bastasse a liberarne dall’obbligo di più occuparci nella considerazione delle sue opposizioni, tuttavia voglio ritenerle in stima, sì come veramente meritano di esser apprezzate assai più che mille altre di altri vani oppositori.142 Tornando dunque all’instanza, dico che i due movimenti annuo e diurno non sono altrimenti contrarii, anzi son per il medesimo verso, e però posson dependere da un medesimo principio; il terzo vien talmente in conseguenza dell’annuo, da per sé stesso e spontaneamente, che non vi bisogna chiamar principio interno né esterno (come a suo luogo dimostrerò) dal quale, come da causa, venga prodotto.

Risolvesi la medesima
instanza con
esempi di movimenti
simili di altri
corpi celesti.

SAGR. Voglio pur io ancora, scorto dal discorso naturale, dire a questo oppositore qualche cosa. Il qual vuol condennare il Copernico se io non gli so puntualmente risolvere tutti i dubbii e risponder a tutte le opposizioni che ei gli fa, quasi che in conseguenza della mia ignoranza segua necessariamente la falsità della sua dottrina: ma se questo termine di condennar gli scrittori gli par iuridico, non dovrà parergli fuor di ragione se io non approverò Aristotile e Tolomeo, quando egli non risolva meglio di me le difficultà medesime ch’io gli promuovo nella loro dottrina. E’ mi domanda quali siano i principii, per i quali il globo terrestre si muove del moto annuo nel zodiaco, e del diurno per l’equinoziale in sé stesso. Dicogli che e’ sono una cosa simile a quelli per i quali Saturno si muove per il zodiaco in 30 anni, ed in sé stesso in tempo molto più breve secondo l’equinoziale, come lo scoprirsi ed ascondersi de i suoi globi143 collaterali ci mostra; e una cosa simile a quella per la quale ei concederebbe senza scrupolo che il Sole scorresse l’eclittica in un anno, ed in sè stesso si rivolgesse parallelo all’equinoziale in manco d’un mese, come sensatamente mostrano le sue macchie; e una cosa simil a quella per la quale le stelle Medicee scorrono il zodiaco in 12 anni, e tra tanto si volgono in cerchi piccolissimi ed in tempi brevissimi intorno a Giove.

SIMP. Quest’autore vi negherà tutte queste cose, come inganni della vista, mediante i cristalli del telescopio.144

SAGR. Oh questo sarebbe un volerne troppo per sè, mentre e’ vuole che l’occhio semplice non si possa ingannare nel giudicar il moto retto de’ gravi descendenti, e vuol che e’ si inganni nel comprendere questi altri movimenti, mentre la sua virtù vien perfezionata ed accresciuta a trenta doppii. Diciamogli dunque che la Terra partecipa la pluralità di movimenti in un modo simile e forse il medesimo, co ’l quale la calamita ha il muoversi in giù, come grave, e due moti circolari, uno orizontale e l’altro verticale, sotto il meridiano. Ma che più? ditemi, Sig. Simplicio: tra chi credete voi che quest’autore mettesse maggior diversità, tra il moto retto e ’l circolare, o tra il moto e la quiete?

Più differente è il
moto dalla quiete,
che il moto retto
dal circolare.

SIMP. Tra il moto e la quiete sicuramente. E quest’è manifesto: perché il moto circolare non è contrario al retto per Aristotile, anzi e’ concede che si possano mescolare; il che è impossibile del moto e della quiete.

SAGR. Adunque proposizione meno improbabile è il porre in un corpo naturale due principii interni, uno a ’l moto retto e l’altro al circolare, che due, pur interni, uno al moto e l’altro alla quiete. Ora, della naturale inclinazione che risegga nelle parti della Terra, Più ragionevolmente
si possono attribuire
alla Terra
due principii
interni al moto retto ed
al circolare, che
due al moto ed alla
quiete.
di ritornar al suo tutto quando per violenza ne vengono separate, concordano insieme amendue le posizioni; e solo dissentono nell’operazion del tutto, ché questa vuole che per principio interno stia immobile, e quella gli attribuisce il moto circolare: ma per la vostra concessione e di questo filosofo, due principii, uno al moto e l’altro alla quiete, son incompatibili insieme, sì come incompatibili sono gli effetti; ma non già accade questo de i due movimenti retto e circolare, che nulla repugnanza hanno fra di loro.

SALV. Aggiugnete di più, che probabilissimamente può Moto delle parti della
Terra, ritornando
al suo tutto, può
esser circolare.
essere che il movimento che fa la parte della Terra separata, mentre si riconduce al suo tutto, sia esso ancora circolare, come di già si è dichiarato: talché per tutti i rispetti, in quanto appartiene al presente caso, la mobilità sembra più accettabile che la quiete. Ora seguite, Sig. Simplicio, quello che resta.

SIMP. Fortifica l’autore l’instanza con additarci Diversità di moti
conferisce a conoscer
le diversità di
nature.
un altro assurdo, cioè che gli stessi movimenti convengano a nature sommamente diverse: ma l’osservazione ci insegna, l’operazioni e i moti di nature diverse esser diversi; e la ragione lo conferma, perché altrimenti non avremmo ingresso per conoscere e distinguer le nature, quando elle non avessero i lor moti ed operazioni che ci scorgessero alla cognizione delle sustanze.

SAGR. Io ho dua o tre volte osservato ne i discorsi di quest’autore, che per prova che la cosa stia nel tale e nel tal modo, e’ si serve del dire che in Natura prima fece
le cose a modo suo,
e poi fabricò i discorsi
de gli uomini,
abili a intenderle.
quel tal modo si accomoda alla nostra intelligenza, o che altrimenti non avremmo adito alla cognizione di questo o di quell’altro particolare, o che il criterio della filosofia si guasterebbe, quasi che la natura prima facesse il cervello a gli uomini, e poi disponesse le cose conforme alla capacità de’ loro intelletti. Ma io stimerei più presto, la natura aver fatte prima le cose a suo modo, e poi fabbricati i discorsi umani abili a poter capire (ma però con fatica grande) alcuna cosa de’ suoi segreti.

SALV. Io son dell’istessa opinione. Ma dite, Sig. Simplicio: quali sono queste nature diverse, alle quali, contro all’osservazione ed alla ragione, il Copernico assegna moti ed operazioni medesime?

SIMP. Eccole: l’acqua e l’aria (che pur sono nature diverse dalla terra), e tutte le cose che Il Copernico assegna
con errore le
medesime operazioni
a nature diverse.
in tali elementi si trovano, aranno ciascheduna quei tre movimenti che il Copernico finge nel globo terrestre. E segue di dimostrar geometricamente come in via del Copernico una nugola che sia sospesa in aria, e che per lungo tempo ci soprastia al capo senza mutar luogo, bisogna necessariamente ch’ell’abbia tutti tre que’ movimenti che ha il globo terrestre: la dimostrazione è questa, e voi la potete legger da per voi, ch’io non la saprei riferir a mente.

SALV. Io non istarò altrimenti a leggerla, anzi stimo superfluo l’avercela posta, perch’io son sicuro che nessuno de gli aderenti del moto della Terra glie la negherà. Però, ammessagli la dimostrazione, parliamo dell’instanza: la qual non mi pare che abbia molta forza di concluder nulla contro alla posizione del Copernico, avvengaché niente si deroga a quei moti e a quelle operazioni per i quali si viene in cognizione delle nature etc. Rispondetemi in grazia, Sig. Simplicio: quelli accidenti ne’ quali alcune cose puntualissimamente convengono, ci posson eglin servire per farci conoscer le diverse nature di quelle tali cose?

Da gli accidenti
comuni non si possono
conoscere le
nature diverse.

SIMP. Signor no, anzi tutto l’opposito, perché dall’identità delle operazioni e degli accidenti non si può argumentare salvo che una identità di nature.

SALV. Talché le diverse nature dell’acqua, della terra, dell’aria, e dell’altre cose che sono per questi elementi, voi non l’arguite da quelle operazioni nelle quali tutti questi elementi e loro annessi convengono, ma da altre operazioni: sta così?

SIMP. Così è in effetto.

SALV. Talché quello che lasciasse ne gli elementi tutti quei moti operazioni ed altri accidenti per i quali si distinguono le lor nature, non ci priverebbe del poter venire in cognizione di esse, ancorché e’ rimovesse poi quella operazione nella quale unitamente convengono, e che perciò non serve nulla per la distinzione di tali nature.

SIMP. Credo che il discorso proceda benissimo.

SALV. Ma che la terra, l’acqua e l’aria siano da natura egualmente costituite immobili intorno al centro, non è opinione vostra, dell’autore, di Aristotile, di Tolomeo e di tutti i lor seguaci?

SIMP. È ricevuta come verità irrefragabile.

SALV. Adunque da questa comune natural condizione, di quietare intorno al centro, non si trae argomento delle diverse nature di questi elementi e Il convenir gli
elementi in un moto
comune non
importa più o meno
che il convenire in
una quiete comune.
cose elementari, ma convien apprender tal notizia da altre qualità non comuni; e però chi levasse a gli elementi solamente questa quiete comune e gli lasciasse loro tutte l’altre operazioni, non impedirebbe punto la strada che ne guida alla cognizione delle loro essenze: ma il Copernico non leva loro altro che questa comune quiete, e glie la tramuta in un comunissimo moto, lasciandogli la gravità, la leggierezza, i moti in su, in giù, più tardi, più veloci, la rarità, la densità, le qualità di caldo, freddo, secco, umido, ed in somma tutte l’altre cose: adunque un tal assurdo, qual s’immagina questo autore, non è altrimenti nella posizion Copernicana; né il convenire in una identità di moto importa più o meno che il convenire in una identità di quiete, circa ’l diversificare o non diversificar nature. Or dite se ci è altro argomento in contrario.

Corpi del medesimo
genere hanno
moti che convengono
in genere.

SIMP. Séguita una quarta instanza, presa pur da una naturale osservazione, che è che i corpi del medesimo genere hanno moti che convengono in genere, o vero convengono nella quiete: ma nella posizione del Copernico, corpi che convengono in genere, e tra di loro similissimi, arebbono in quanto al moto una somma sconvenienza, anzi una diametral repugnanza; imperocché stelle tanto tra di loro simili, nulladimeno nel moto sarebbero tanto dissimili, poiché sei pianeti andrebbono in volta perpetuamente, ma il Sole e tutte le Altro argomento
pur contro al
Copernico.
stelle fisse perpetuamente starebbero immote.

SALV. La forma dell’argomentare mi par concludente, ma credo bene che l’applicazione o la materia sia difettosa; e purché l’autore voglia persistere nel suo assunto, la conseguenza verrà senz’altro direttamente contro di lui. Il progresso dell’argomento è tale: Tra i corpi mondani, sei ce ne sono che perpetuamente si muovono, e sono i sei pianeti; de gli altri, cioè della Terra, del Sole e delle stelle fisse, si dubita chi di loro si muova e chi stia fermo, essendo necessario che se la Terra sta ferma, il Sole e le stelle fisse si muovano, e potendo anch’essere che il Sole e le fisse stessero immobili, quando la Terra Argumentasi, dall’esser
per natura
tenebrosa la Terra
e lucido il Sole e le
stelle fisse, quella
esser mobile e
questi immobili.
si muovesse; cercasi, in dubbio del fatto, a chi più convenientemente si possa attribuire il moto, ed a chi la quiete. Detta il natural discorso, che il moto debba stimarsi essere di chi più in genere ed in essenza conviene con quei corpi che indubitatamente si muovono, e la quiete di chi da i medesimi più dissente; ed essendo che un’eterna quiete e perpetuo moto sono accidenti diversissimi, è manifesto che la natura del corpo sempre mobile convien che sia diversissima dalla natura del sempre stabile; cerchiamo dunque, mentre stiamo ambigui del moto e della quiete, se per via di qualche altra rilevante condizione potessimo investigare chi più convenga con i corpi sicuramente mobili, o la Terra, o pure il Sole e le stelle fisse. Ma ecco la natura, favorevole al nostro bisogno e desiderio, ci somministra due condizioni insigni, e differenti non meno che ’l moto e la quiete, e sono la luce e le tenebre, cioè l’esser per natura splendidissimo, e l’esser oscuro e privo di ogni luce. Son dunque diversissimi d’essenza i corpi ornati d’un interno ed eterno splendore, da i corpi privi d’ogni luce: priva di luce è la Terra; splendidissimo per sé stesso è il Sole, e non meno le stelle fisse: i sei pianeti mobili mancano totalmente di luce, come la Terra; adunque l’essenza loro convien con la Terra, e dissente dal Sole e dalle stelle fisse: mobile dunque è la Terra, immobile il Sole e la sfera stellata.

SIMP. Ma l’autore non concederà che i sei pianeti sien tenebrosi, e su tal negativa si terrà saldo, o vero egli argomenterà la conformità grande di natura tra’ sei pianeti e il Sole e le stelle fisse, e la difformità tra questi e la. Terra, da altre condizioni che dalle tenebre e dalla luce; anzi, or ch’io m’accorgo, nell’instanza quinta, che segue, ci è posta la disparità somma tra la Terra e i corpi celesti: nella quale egli scrive, che gran confusione e intorbidamento sarebbe nel sistema dell’universo e tra le sue parti secondo l’ipotesi del Copernico;Altra differenza tra
la Terra e i corpi
celesti, presa dalla
purità e impurità.
imperocché tra corpi celesti immutabili ed incorruttibili, secondo Aristotile e Ticone ed altri, tra corpi, dico, di tanta nobiltà, per confessione di ognuno e dell’istesso Copernico, che afferma quelli esser ordinati e disposti in un’ottima costituzione e che da quelli rimuove ogni inconstanza di virtù, tra corpi, dico, tanto puri, cioè tra Venere e Marte, collocar la sentina di tutte le materie corruttibili, cioè la Terra, l’acqua, l’aria e tutti i misti! Ma quanto più prestante distribuzione e più alla natura conveniente, anzi a Dio stesso architetto, sequestrar i puri da gl’impuri, i mortali da gl’immortali, come insegnano l’altre scuole, che ci insegnano come queste materie impure e caduche son contenute nell’angusto concavo dell’orbe lunare, sopra ’l quale con serie non interrotta s’alzano poi le cose celesti!

Copernico mette
perturbazione
nell’universo
d’Aristotile.

SALV. È vero che ’l sistema Copernicano mette perturbazione nell’universo d’Aristotile; ma noi trattiamo dell’universo nostro, vero e reale. Quando poi la disparità d’essenza tra la Terra e i corpi celesti la vuol quest’autore inferire dall’incorruttibilità di quelli e corruttibilità di questa, in via d’Aristotile, dalla qual disparità e’ concluda il moto dover esser del Sole e delle fisse e l’immobilità della Terra, va vagando nel paralogismo, supponendo quel che è in quistione; perché Aristotile inferisce l’incorruttibilità de’ corpi celesti dal moto, del quale si disputa se Paralogismo
dell’autor
dell’Antiticone.
sia loro o della Terra. Della vanità poi di queste retoriche illazioni, se n’è parlato a bastanza. E qual cosa più insulsa che dire, la Terra e gli elementi esser relegati e separati dalle sfere celesti, e confinati dentro all’orbe lunare? ma non è l’orbe lunare una delle celesti sfere, e, secondo il consenso loro, compresa nel mezo di tutte l’altre? nuova maniera di separare i puri da gl’impuri e gli ammorbati da’ sani, dar a gl’infetti stanza nel cuore della città! io credeva che il lazeretto Stoltamente par
detto, la Terra esser
fuor del cielo.
se le dovesse scostare più che fusse possibile. Il Copernico ammira la disposizione delle parti dell’universo per aver Iddio costituita la gran lampada, che doveva rendere il sommo splendore a tutto il suo tempio, nel centro di esso, e non da una banda. Dell’esser poi il globo terrestre tra Venere e Marte, ne tratteremo in breve; e voi stesso, in grazia di quest’autore, farete prova di rimuovernelo. Ma, di grazia, non intrecciamo questi fioretti rettorici con la saldezza delle dimostrazioni, e lasciamogli a gli oratori o più tosto a i poeti, li quali hanno saputo con lor piacevolezze inalzar con laude cose vilissime ed anco tal volta perniziose; e se altro ci resta, spediamoci quanto prima.

SIMP. Ci è il sesto ed ultimo argomento: nel qual ei pone per cosa molto inverisimile che un corpo corruttibile e dissipabile si possa muovere d’un moto perpetuo e regolare; e questo conferma con l’esempio de Argomento preso
da gli animali, che
hanno bisogno di
riposo, benché il
moto loro sia naturale.
gli animali, li quali, movendosi di moto a loro naturale, pur si straccano, ed hanno bisogno di riposo per restaurare le forze; ma che ha da fare tal movimento con quel della Terra, immenso al paragon del loro? ma, più, farla muovere di tre moti discorrenti e distraenti in parti diverse? chi potrà mai asserir tali cose, salvo che quelli che si fussero giurati lor difensori? Né vale in questo caso quel che produce il Copernico, che per essere questo moto naturale alla Terra, e non violento, opera contrarii effetti da i moti violenti; e che si dissolvon bene, né posson lungamente sussister, le cose alle quali si fa impeto, ma le fatte dalla natura si conservano nell’ottima loro disposizione; non val, dico, questa risposta, che vien atterrata dalla nostra. Imperocché l’animale è pur corpo naturale, e non fabbricato dall’arte, ed il movimento suo è naturale, derivando dall’anima, cioè da principio intrinseco; e violento è quel moto il cui principio è fuori, ed al quale niente conferisce la cosa mossa: tuttavia, se l’animal continua lungo tempo il suo moto, si stracca, ed anco si muore, quando si vuole sforzare ostinatamente. Vedete dunque come in Argomento del
Keplero a favor del
Copernico.
natura si incontrano da tutte le bande vestigii contrarianti alla posizione del Copernico, né mai de’ favorabili. E per non aver a ripigliar più la parte di questo oppositore, sentite quel ch’ei produce contro al Keplero (co ’l quale ei disputa), in proposito di quello che esso Keplero istava contro a quelli a i quali pare inconveniente, anzi impossibil cosa, l’accrescer in immenso la sfera stellata, come ricerca la posizion del Copernico. Instà dunque il Keplero dicendo: L’autor dell’Antiticone
insta contro
al Keplero.
Difficilius est accidens praeter modulum subiecti intendere, quam subiectum sine accidente augere: Copernicus igitur verisimilius facit, qui auget orbem stellarum fixarum absque motu, quam Ptolaemeus, qui auget motum fixarum immensa velocitate.145 La qual instanza scioglie l’autore, maravigliandosi di quanto il Keplero s’inganni nel dire che nell’ipotesi di Tolomeo si cresca il moto fuor del modello del subietto, imperocché a Cresce la velocità
nel moto circolare
secondo che cresce
il diametro del cerchio.
lui pare che non si accresca se non conforme al modello, e che secondo il suo accrescimento si agumenti la velocità del moto: il che prova egli con figurarsi una macina che dia una revoluzione in 24 ore, il qual moto si chiamerà tardissimo; intendendosi poi il suo semidiametro prolungato sino alla distanza del Sole, la sua estremità agguaglierà la velocità del Sole; prolungatolo sino alla sfera stellata, agguaglierà la velocità delle fisse, benché nella circonferenza della macina sia tardissimo. Applicando ora questa considerazione della macina alla sfera stellata, intendiamo un punto nel suo semidiametro vicino al centro quant’è il semidiametro della macina; il medesimo moto, che nella sfera stellata è velocissimo, in quel punto sarà tardissimo: ma la grandezza del corpo è quella che di tardissimo lo fa divenir velocissimo, ancorché e’ continui d’esser il medesimo; e così la velocità cresce non fuor del modello del subietto, anzi cresce secondo quello e la sua grandezza, molto diversamente da quel che stima il Keplero.

SALV. Io non credo che quest’autore si sia formato concetto del Keplero così tenue e basso, che e’ possa persuadersi che e’ non abbia inteso che il termine altissimo d’una linea tirata dal centro sin all’orbe stellato si muove più velocemente che un punto della medesima linea vicino al centro a due braccia: e però è forza che e’ capisca e comprenda che il concetto e l’intenzione del Keplero è stata di dire, minore inconveniente esser l’accrescer un corpo immobile a somma Esplicazione del
vero senso del detto
del Keplero, e sua
difesa.
grandezza, che l’attribuire una somma velocità a un corpo pur vastissimo, avendo riguardo al modulo, cioè alla norma ed all’esempio, de gli altri corpi naturali, ne i quali si vede che crescendo la distanza dal centro, si diminuisce la velocità, cioè che i periodi delle lor circolazioni ricercano tempi più lunghi; ma nella quiete, che non è capace di farsi maggiore o minore, la grandezza o piccolezza del corpo non fa diversità veruna. Talché, se la risposta dell’autore debbe andar ad incontrar l’argomento del Keplero, è necessario che esso autore stimi che al La grandeza e
piccoleza del corpo
fanno diversità nel
moto, ma non
nella quiete.
principio movente l’istesso sia muover dentro al medesimo tempo un corpo piccolissimo ed uno immenso, essendo che l’augumento della velocità vien senz’altro in conseguenza dell’accrescimento della mole: ma quest’è poi contro alle regole architettoniche della natura, la quale osserva nel modello delle minori sfere, sì come veggiamo ne i pianeti e sensatissimamente nelle stelle Medicee, di far circolare gli orbi minori in tempi più brevi, onde il tempo della revoluzion di Saturno è più lungo di tutti i tempi dell’altre sfere minori, essendo di 30 anni: ora il passar da questa a una sfera grandemente maggiore, e farla muover in Ordine della
natura è il far circolare
gli orbi minori in
tempi più brevi, ed
i maggiori in tempi
più lunghi.
24 ore, può ben ragionevolmente dirsi uscir delle regole del modello. Sì che, se noi attentamente considereremo, la risposta dell’autore va non contro al concetto e senso dell’argomento, ma contro alla spiegatura e ’l modo del parlare; dove anco l’autore ha il torto né può negare di non aver ad arte dissimulato l’intelligenza delle parole, per gravar il Keplero d’una troppo crassa ignoranza: ma l’impostura è stata tanto grossolana, che non ha potuto con sì gran tara difalcar del concetto che ha della sua dottrina impresso il Keplero nelle menti de i litterati. Quanto poi all’instanza contro al perpetuo moto della Terra, presa dall’esser impossibil cosa che ella continuasse senza straccarsi, essendo che gli animali stessi, che pur si muovon naturalmente e da principio interno, si straccano ed hanno bisogno di riposo per relassar le membra…

Risposta finta del
Keplero, con certa
arguzia coperta.

SAGR. Mi par di sentire il Keplero rispondergli, che pur ci sono de gli animali che si rinfrancano dalla stanchezza co ’l voltolarsi per terra, e che però non si deve temer che il globo terrestre si stracchi; anzi ragionevolmente si può dire che e’ goda d’un perpetuo e tranquillissimo riposo, mantenendosi in un eterno rivoltolamento.

SALV. Voi, Sig. Sagredo, sete troppo arguto e satirico: ma lasciamo pur gli scherzi da una banda, mentre trattiamo di cose serie.

SAGR. Perdonatemi, Sig. Salviati: questo ch’io dico Gli animali non si
stancherebbono,
quando il lor moto
procedesse come
quello che viene
attribuito al globo
terrestre.
non è miga così fuor del caso quanto forse voi lo fate; perché un movimento che serva per riposo e per rimuover la stanchezza a un corpo defatigato dal viaggio, può molto più facilmente servire a non la lasciar venire, sì come più facili sono i rimedii preservativi che i curativi. E io tengo per fermo, che quando il moto de gli animali procedesse come questo che viene attribuito alla Terra, e’ non si stancherebbero altrimenti, avvenga che lo stancarsi il corpo dell’animale deriva, per mio credere, dall’impiegare una parte sola per muover sé stessa e tutto il resto del corpo: come, v. g., per camminare si impiegano le cosce e le gambe solamente, per portar loro stesse e tutto il rimanente; all’incontro vedrete il movimento del cuore esser come infatigabile, perché muove sé solo. Cagione dello
stancarsi gli animali.
In oltre, non so quanto sia vero che il movimento dell’animale sia naturale, e non più tosto violento; anzi credo che si possa dir con verità che l’anima muove naturalmente le membra dell’animale di moto preternaturale: perché, se il moto all’insù è preternaturale a i corpi gravi, l’alzar le gambe e le coscie, che son corpi gravi, per camminare, non si potrà far senza violenza, e però non senza fatica del movente; il salir su Moto dell’animale
più tosto è da
chiamarsi violento che
naturale.
per una scala porta il corpo grave, contro alla sua naturale inclinazione, all’in su, onde ne segue la stanchezza, mediante la natural repugnanza della gravità a cotal moto. Ma per muover un mobile di un movimento al quale e’ non ha repugnanza nissuna, qual lassezza o diminuzion di virtù e di forza si deve temer nel movente? e perché si deve scemar la forza dove non se n’esercita punto?

SIMP. Sono i moti contrarii, de i quali il globo Non si scema la
forza dove non se ne
esercita punto.
terrestre si figura nuoversi, quelli sopra i quali l’autore fonda la sua instanza.

SAGR. Già si è detto che non sono altrimenti contrarii, e che in questo l’autore si è grandemente ingannato, talché il vigore di tutta l’instanza si volge contro l’impugnator medesimo, mentre e’ voglia che il primo mobile rapisca tutte le sfere inferiori contro al moto il quale esse nell’istesso tempo L’instanza del
Chiaramonte si ritorce
contro a lui stesso.
e continuamente esercitano. Al primo mobile, dunque, tocca a stancarsi, che, oltre al muovere sé stesso, deve condur tant’altre sfere, le quali, di più, con movimento contrario gli contrastano. Talché quell’ultima conclusione che l’autor inferiva, con dir che discorrendo per gli effetti di natura s’incontrano sempre cose favorabili per l’opinion d’Aristotile e Tolomeo, e non mai alcuna che non contrarii al Copernico, ha bisogno d’una gran considerazione; e meglio è dire, che sendo una di queste due posizioni vera, e l’altra necessariamente falsa, è impossibile che per la falsa s’incontri mai ragione, esperienza o retto discorso che le sia favorevole, sì come alla vera nessuna di queste Per le proposizioni
vere si incontrano
argomenti concludenti,
ma non per
le false.
cose può esser repugnante. Gran diversità dunque convien che si trovi tra i discorsi e gli argomenti che si producono dall’una e dall’altra parte in pro e contro a queste due opinioni, la forza de i quali lascerò che giudichiate voi stesso, Sig. Simplicio.146

SALV. Voi, Sig. Sagredo, traportato dalla velocità del vostro ingegno, mi tagliaste dianzi il ragionamento, mentre io volevo dire alcuna cosa in risposta di quest’ultimo argomento dell’autore; e benché voi gli abbiate più che a sufficienza risposto, voglio ad ogni modo aggiugner non so che, che allora avevo in mente. Egli pone per cosa molto inverisimile che un corpo dissipabile e corruttibile, qual è la Terra, possa perpetuamente muoversi d’un movimento regolare, massime vedendo noi gli animali finalmente stancarsi ed aver necessità di riposo; e gli accresce l’inverisimlile il dover essere tal moto di velocità incomparabile e immensa, rispetto a quella de gli animali. Ora io non so intendere perché la velocità della Terra l’abbia di presente a perturbare, mentre quella della sfera stellata, tanto e tanto maggiore, non gli arreca disturbo più considerabile che se gli arrechi la velocità d’una macine, la quale in Più è da temersi la
stancheza nella sfera
stellata che nel
globo terrestre.
24 ore dia una sola revoluzione. Se per esser la velocità della conversion della Terra su ’l modello di quella della macine non si tira in conseguenza cose di maggior efficacia di quella, cessi l’autore di temer lo stancarsi della Terra, perché né anco qualsivoglia ben fiacco e pigro animale, dico né anco un camaleonte, si straccherebbe col muoversi non più di cinque o sei braccia in 24 ore; ma se e’ vuol considerar la velocità non più su ’l modello della macine, ma assolutamente, ed in quanto in 24 ore il mobile ha da passare uno spazio grandissimo, molto più si dovrebbe mostrar renitente a concederla alla sfera stellata, la quale con velocità incomparabilmente maggiore di quella della Terra deve condur seco migliaia di corpi, ciaschedun grandemente maggiore del globo terrestre.

Resterebbe ora che noi vedessimo le prove per le quali l’autore conclude, le stelle nuove del 72 e del 604 essere state sublunari, e non celesti, come comunemente si persuasero gli astronomi di quei tempi, impresa veramente grande; ma ho pensato, per essermi tale scrittura nuova, e lunga per i tanti calcoli, che sarà più espediente che io tra stasera e domattina ne vegga quel più ch’io potrò, e domani poi, tornando a i soliti ragionamenti, vi referisca quello che avrò ritratto: e se ci avanzerà tempo, verremo a discorrere del movimento annuo attribuito alla Terra. Intanto, se voi avete da dire alcuna cosa, ed in particolare il Sig. Simplicio, intorno alle cose attenenti al moto diurno, assai lungamente da me esaminato, ci avanza ancora un poco di tempo da poter discorrere.

SIMP. A me non resta altro che dire, se non che i discorsi auti in questo giorno mi son ben parsi ripieni di pensieri molto acuti e ingegnosi, prodotti per la parte del Copernico in confermazion del moto della Terra, ma non mi sento già persuaso a crederlo; perché finalmente le cose dette non concludon altro se non che le ragioni per la stabilità della Terra non son necessarie, ma non però si è prodotta dimostrazione alcuna per la parte contraria, la quale necessariamente convinca e concluda la mobilità.

SALV. Io non ho mai preso, Sig. Simplicio, a rimuovervi dalla vostra opinione, né meno ardirei di definitivamente sentenziar sopra sì gran litigio; ma solamente è stata, e sarà anco nelle disputazioni seguenti, mia intenzione di farvi manifesto, che quelli che hanno creduto che questo moto velocissimo delle 24 ore sia della Terra sola, e non dell’universo trattane la sola Terra, non si erano persuasi che in cotal guisa potesse e dovesse essere, come si dice, alla cieca, ma che benissimo avevano vedute sentite ed esaminate le ragioni della contraria opinione, ed anco non leggiermente rispostole. Con questa medesima intenzione, quando così sia di gusto vostro e del Sig. Sagredo, potremo passare alla considerazione dell’altro movimento, prima da Aristarco Samio e poi da Niccolò Copernico attribuito al medesimo globo terrestre, il quale è, come credo che voi già abbiate sentito, fatto sotto il zodiaco, dentro allo spazio d’un anno, intorno al Sole, immobilmente collocato nel centro di esso zodiaco.

SIMP. La quistione è tanto grande e tanto nobile, che molto curiosamente sentirò discorrerne, presupponendo d’aver a sentir tutto quello che in tal materia si possa dire. Andrò poi meco medesimo facendo con mio comodo reflession maggiore sopra le cose sentite e da sentirsi; e quando altro io non guadagni, non sarà poco il poterne con più fondamento discorrere.

SAGR. Adunque, per non stancar più il Sig. Salviati, faremo punto a i ragionamenti d’oggi, e domani ripiglieremo, conforme al solito, i discorsi, con isperanza d’aver a sentir gran novità.

SIMP. Io lascio il libro delle stelle nuove, ma riporto questo delle conclusioni, per riveder quello che vi è scritto contro al moto annuo, che deve esser la materia de’ ragionamenti di domani.


1 Si può notare che mentre è Sagredo a fare sempre le professioni le più esplicite di copernicanesimo, Salviati, il portavoce di Galileo, è sempre, molto più prudente da un punto di vista formale.

2 Nel libro quinto degli Elementi, Euclide sistematizza la teoria delle proporzioni, che viene attribuita a Eudosso di Cnido. Il libro in questione inizia con diciotto definizioni. La 6 dice che: «Grandezze che hanno lo stesso rapporto si chiamino proporzionali». E la 8 afferma: «Una proporzione deve avere almeno tre termini». Orbene, possono aversi vari modi distinti di proporzionalità; i due che ci interessano qui sono quelli descritti nelle ultime definizioni. La definizione 17 dice: «Date più grandezze ed altre di ugual numero, [disposte le une e le altre in un determinato ordine], se delle prime grandezze vengono prese a due a due quelle consecutive ed esse sono nello stesso rapporto delle corrispondenti consecutive fra le seconde grandezze, si ha rapporto ex aequo quando delle prime grandezze la prima stia all’ultima come delle seconde grandezze la prima sta all’ultima; o altrimenti: è il prendere in considerazione gli estremi con omissione dei medi».
In altre parole, se abbiamo

a/a’=b/b’=c/c’=…=m/m’ risulterà che a/m=a’/m’.

La definizione 18 dice: «Date tre grandezze ed altre grandezze in ugual numero, si ha una proporzione perturbata quando avviene che, delle prime grandezze, la prima sta alla seconda come delle seconde grandezze la seconda sta alla terza, mentre, delle prime grandezze, la seconda sta alla terza come delle seconde la prima sta alla seconda». In altre parole, se i gruppi di tre grandezze sono a,b,c e d,e,f, risulta che a/b=e/f e b/c=d/e (Euclide, 1970, pp. 305-306).
Ciò detto, è chiaro che quando Simplicio parla di metodo «triviale ordinato» e «perturbato», sta riferendosi ai rapporti descritti rispettivamente nelle definizioni 17 e 18. Non è però meno evidente che le combinazioni di proposizioni decontestualizzate dei testi di Aristotele, per dirla tutta, non hanno nulla a che vedere con ciò che dice Euclide. La «logica» degli aristotelici nulla ha a che fare con i metodi del matematico. In altre parole, Galileo sta ridicolizzando il modo di ragionare fondato sulle parole più che sui concetti del peripatetico, la cui conoscenza di Euclide gli serve soltanto per pronunciare parole sciocche a sproposito.

3 Si tratta certamente di Aristotele, De generatione animalium, V, 1, 780b 17-21: «La stessa persona infatti messasi la mano davanti agli occhi o guardando attraverso un tubo non distinguerà le differenze dei colori né meglio né peggio di prima, mentre vedrà più lontano; e vi sono coloro che dalle caverne o dai pozzi talvolta vedono anche le stelle» (Aristotele, Riproduzione degli animali, trad. it. di D. Lanza, in Aristotele, Opere, vol. V, Universale Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 312.

4 È il calabrese Gioacchino da Fiore, vissuto nel secolo XII e che fu monaco cistercense. Dante lo cita nel Paradiso, XII, 140-141: «Il calavrese abate Giovacchino, / di spirito profetico dotato».

5 Galileo formulò oroscopi, ma questo commento, che abbiamo visto nella Giornata prima (Opere, VII, pp. 118-119), e altri presenti nella sua corrispondenza (Opere, XI, pp. 108 e 115) sono un chiaro riflesso della sua opinione circa l’importanza e affidabilità dell’astrologia. In ogni caso, il successivo intervento di Sagredo ci parla chiaramente del contesto in cui la colloca. Se teniamo presente che Galileo nacque verso la metà del secolo XVI, in pieno dominio delle scienze occulte che, quando fu dato alle stampe il Dialogo, avevano da poco perduto la loro posizione di privilegio, risulta palese l’enorme distanza dell’atteggiamento critico di Galileo nei confronti di quei saperi. È chiaro che, con Galileo, ci troviamo in un’altra sfera concettuale, alla luce della quale tutto l’occultismo appare ridicolo e senza alcun fondamento empirico o teorico.

6 La Luna è una dea romana i cui miti sono semplicemente l’adozione di quelli della dea greca Selene, personificazione dell’astro notturno. Sebbene amante di Zeus, in uno dei suoi slanci si innamorò di Endimione con il quale si unì sul monte Latmos in Caria, restandone talmente soddisfatta che ottenne da Zeus ciò che Endimione desiderava. Questi voleva restare eternamente giovane e in stato di sonno ininterrotto, ma con gli occhi aperti per vedere la sua amata ogni notte. Il grande cacciatore Atteone provocò la collera di Artemide per essersi vantato miglior cacciatore di lei e averla sorpresa al bagno; la dea lo trasformò in un cervo e lo fece sbranare sul monte Citerone dai suoi stessi cani; questi, che non l’avevano riconosciuto, si misero poi a cercarlo per tutto il bosco. Un’altra versione della favola dice che volle sposarsi con Selene, amante di Zeus, la quale questa volta si adirò e chiese a sua figlia Artemide di castigarlo. D’altra parte, Zeus era un amante tutt’altro che facile da controllare. Acrisio aveva rinchiuso sua figlia Danae in una torre di bronzo, però Zeus si trasformò in pioggia d’oro che cadde su Danae e la fecondò; Danae mise al mondo Perseo. Quanto a Plutone, è il nome latino del greco Hades, dio del mondo sotterraneo e re dei morti. Plutone si innamorò di Persefone e la rapì con il consenso di Zeus che in seguito se ne pentì e pretese che la lasciasse libera. Ma, siccome Plutone era un dio, giunsero a un compromesso, per cui Persefone avrebbe trascorso con lui una stagione ogni anno. Per quanto riguarda Mercurio «l’interprete», non si tratta del dio romano equivalente al greco Hermes; qui Galileo si serve dell’equivalente latino di Hermes, ma per riferirsi a Ermete (Mercurio) Trismegisto identificabile con il dio egizio Thot. Fino all’inizio del secolo XVII, Ermete fu considerato autore del famosissimo Corpus Hermeticum, insieme di testi fondamentali per la magia, l’astrologia e le scienze occulte in generale. Quanto al «ramo d’oro», nel libro VI dell’Eneide Virgilio racconta che Enea, prima di scendere nel mondo dei morti, su consiglio della Sibilla colse un ramo dorato da un albero che alcuni interpreti, e tra essi Frazer, identificano con il vischio o loranto. Gli antichi affermavano che il ramo di un certo albero del tempio di Nemi, santuario di Diana Nemorensis, era appunto il ramo dorato di Enea. Come è ovvio, tutte queste favole erano interpretate in chiave magica dagli alchimisti, per i quali ogni corpo celeste simboleggiava un metallo o le manifestazioni tipiche della sua funzione.

7 Secondo Sosio, si tratta di Fortunio Liceti, e l’opera cui si fa allusione è il suo De hortu animae humanae.

8 Alessandro di Afrodisia, famoso commentatore e interprete di Aristotele, vissuto tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C. Fu autore di un famoso Commento sul «De anima» di Aristotele, che ebbe vasta eco sia nel Medioevo che nel Rinascimento. A proposito del nous o parte razionale dell’anima umana, Alessandro distingueva tre intelletti: intelletto fisico o ilico, intelletto in abito o acquisito e intelletto agente, esterno all’uomo, e che era da lui identificato con l’intelletto che pensa eternamente se stesso, cioè Dio, visto quindi come una forma separata che sussiste indipendentemente dalla materia, cioè dal corpo dell’uomo. La parte individuale sarebbe invece mortale.

9 Dopo le sue dodici fatiche, Ercole riuscì a mettersi nei guai con il re Eurito, uccidendo suo figlio Ifito, impazzendo una seconda volta, commettendo soprusi con l’Oracolo di Delfi e scontrandosi con Apollo, che naturalmente si adirò e ottenne l’intervento di Zeus. Per scontare le sue malefatte, Ercole dovette vendere se stesso come schiavo per tre anni. Fu comprato da Onfale, regina di Lidia e la favola vuole che l’eroe trascorresse i suoi giorni vestito da donna, filando e cardando lana con le fantesche di Onfale, anche se pare che non si dedicasse unicamente a questa attività. Comunque, la regina di Lidia ne restò assai soddisfatta.

10 Il termine è qui ovviamente usato nell’accezione greca, in altre parole coincide con il raccoglitore o collezionista di testi.

11 «Al Broio», vale a dire «brolo» o «broletto», termini che designano sia la piazza comunale in cui si riuniva l’assemblea del popolo, sia il palazzo municipale.

12 Può darsi che Galileo si riferisca qui al luogo in cui Aristotele, dopo aver commentato la teoria dei pitagorici sull’anti-Terra e alcuni spostamenti rispetto al movimento terrestre, aggiunge: «Altri invece dicono che essa [la Terra] è posta al centro, e si muove rivolgendosi intorno al “polo teso attraverso il Tutto”, com’è scritto nel Timeo» (De caelo, II, 13, 293b 30-31; trad. it. Aristotele, 1962, pp. 167, 169). Ma, come si vede, nel passo Aristotele non menziona alcuno specifico autore antico. Il testo platonico a cui egli accenna potrebbe essere Timeo, 40b.

13 Si tratta, ovviamente, del movimento annuo di cui Galileo si occuperà nella Giornata terza.

14 Galileo pare aver dimenticato la proposta da lui avanzata in alcune pagine precedenti. Siccome Sagredo, avendo chiaro il problema, esponeva la teoria, Salviati, che era indeciso, avrebbe avanzato obiezioni. Qui, inavvertitamente, dopo aver proclamato la superiorità dell’ingegno di Copernico su quello di Tolomeo, si inverte la situazione. Infatti, un dialogo socratico senza che il Socrate del caso faccia sentire la propria voce sonante, è impensabile.

15 Si allude alla famosa cupola di Brunelleschi a Santa Maria del Fiore.

16 Dobbiamo dedurne che «la prima tesi» è di Aristotele e Tolomeo, e l’ultima quella di Copernico.

17 Cioè, «esattamente».

18 Galileo si serve del termine «stella» in senso quasi equivalente a corpo celeste. Si tratta, comunque, come è ovvio, delle quattro lune o satelliti maggiori di Giove (Io, Europa, Ganimede e Callisto), scoperti da Galileo stesso con una appassionante serie di osservazioni nel gennaio 1610, da lui descritte nel Sidereus nuncius. Per far sì che i contestatori della sua scoperta mostrassero una certa prudenza nelle loro affermazioni, attribuì ai satelliti il nome di «medicei».

19 Nel mondo greco c’era un accordo pressoché universale sul fatto che, al di qua della sfera delle stelle fisse, in ordine discendente verso la Terra, si susseguissero Saturno, Giove e Marte, mentre il «pianeta» più vicino alla Terra immobile era la Luna. I tempi nei quali le sfere corrispondenti completavano una rivoluzione sembravano un valido criterio della loro disposti. Saturno, la cui sfera era la più lenta – il suo comportamento era il più simile a quello delle stelle fisse – era il più lontano, prossimo appunto alla sfera delle fisse; la Luna, la cui sfera era la più rapida, era la più vicina, eccetera. Ma Mercurio, Venere e il Sole avevano un periodo medio di un anno, e ne derivarono molte discussioni sulla posizione relativa dei tre corpi celesti, essendo impossibile servirsi dello stesso criterio per decidere chiaramente del loro ordine. Neppure le eclissi dei pianeti e del Sole rappresentavano un metodo sicuro, perché nel caso di Venere e Mercurio si presentavano molti problemi. Inizialmente, infatti, alcuni situarono il Sole immediatamente dopo la Luna o tra Mercurio e Venere; e sebbene i più adottassero la seguente disposizione a partire dalla Terra in posizione centrale: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e stelle fisse, non per questo il problema poteva considerarsi risolto. Infatti Tolomeo nell’Almagesto, IX, 1, riconosce che quest’ordine pecca di una certa imprecisione, sebbene gli sembri il più plausibile. Nelle Ipotesi sui pianeti dice che sulla questione «non si può pronunciare un giudizio certo», anche se più avanti decide a favore dell’ordinamento menzionato; a partire dal II secolo a.C., l’autorità di Tolomeo contribuì alla quasi unanime accettazione dell’ordine stesso. Ma nel famoso capitolo X, «Dall’ordine degli orbi celesti» del libro I del De revolutionibus, Copernico si ostinò ad affermare la problematicità della questione, sostenendo apertamente la tesi di coloro i quali avevano suggerito che Venere e Mercurio potevano rivolgersi intorno al Sole, oltre a illustrare i vantaggi e l’armonia dell’eliocentrismo. Va a tale proposito osservato che Galileo si sforza di passare sotto silenzio il problema. Tuttavia, l’affermazione da lui fatta in proposito, e cioè che i periodi dei pianeti compresi tra la Luna e Marte – vale a dire Mercurio, Venere e il Sole – sono «conseguentemente maggiori», nel contesto geocentrico è falsa. Come ho già detto, i tre pianeti hanno un periodo medio di un anno; è dunque palese che l’intenzione di Galileo è di segnalare il punto debole della presunta sfera delle stelle fisse. Al di là delle sfere planetarie, volta per volta più distanti e, di conseguenza, con periodi ogni volta più lunghi – quello di Saturno è di trent’anni – stava la sfera delle stelle fisse, lontanissima e tuttavia rotante a velocità quasi tre volte maggiore di quella della Luna – il più veloce e vicino dei pianeti – col suo periodo di sole ventiquattr’ore. In questo senso, l’affermazione di Galileo sui periodi di Mercurio, Venere e Sole, può sembrare una concessione alla tesi opposta: supponiamo che corrisponda anche al vostro criterio, quello secondo cui quanto maggiore è la grandezza della sfera, tanto maggiore è il periodo, ma la sfera delle stelle demolisce e smentisce il vostro ordine. Il problema consiste però pur sempre nello stabilire se effettivamente gli aristotelici o i geocentristi in generale sostenessero quest’ordine e questo criterio, come vuole dare a intendere Galileo, cosa che è però assai dubbia. Abbiamo infatti visto qual era l’atteggiamento di Tolomeo anche nelle Ipotesi sui pianeti, la più cosmologica delle sue opere. Fu infatti Copernico, dopo aver alluso all’ordine dei pianeti nel suo sistema eliocentrico, a sottolineare l’importanza di quel dato di fatto: «Troviamo così in questo ordinamento un’ammirevole simmetria del mondo e un sicuro nesso armonico fra il movimento e la grandezza degli orbi, quale altrimenti non è possibile trovare» (De revolutionibus, I, 10, in Copernico, 1975, p. 101). Nel sistema copernicano, l’ordinamento dei pianeti dal Sole centrale alle stelle fisse e la successione dei loro periodi sono i seguenti: è: Mercurio, trenta giorni; Venere, nove mesi; la Terra, con la Luna che si muove intorno a essa, un anno; Marte, due anni; Giove, dodici anni; Saturno, trent’anni; e infine la sfera delle stelle fisse che sta immobile. Pare dunque evidente che sia proprio Galileo, in nome del suo stesso copernicanesimo, quello che maggiormente apprezzava tale «armonia» delle sfere, applicando loro, fino a sopravvalutarla, questa idea di ordine per poter muovere critiche ai geocentristi.

20 Galileo accenna qui alla soluzione che veniva data del problema della precessione degli equinozi (si veda la nota seguente) mediante l’aggiunta di una nona sfera. Nel sistema tradizionale ci si serviva di sette sfere – o nidi di sfere – per spiegare il movimento dei sette pianeti conosciuti, e di un’ottava sfera per le stelle fisse, quella cioè che ruotava col periodo di ventiquattr’ore trascinando nel suo movimento tutte le altre. Per giustificare la precessione degli equinozi, si era introdotta una nona sfera; questa, la più esterna, veniva fatta ruotare in ventiquattr’ore sull’asse del polo celeste, trascinando tutte le altre, le interne, nel suo moto diurno. All’ottava, cioè quella delle stelle fisse, era attribuito il compito di riprodurre il lento spostamento del polo celeste per spiegare la precessione degli equinozi. La si faceva ruotare intorno all’asse dell’eclittica in modo che il polo celeste percorresse un piccolo cerchio di 23,5° di raggio ogni 26.000 anni, al termine dei quali l’equinozio si sarebbe ritrovato sullo stesso punto della sfera delle stelle fisse da cui era partito 26.000 anni prima. All’interno di questa ottava sfera, erano contenute quelle dei sette pianeti che compivano i loro rispettivi movimenti. In ogni caso, come ho già detto, ciò che Galileo vuole fare apparire liquidato dalla simmetria che introduce è che, accettato il criterio di corrispondenza tra la dimensione maggiore e il periodo maggiore di una sfera, e una volta giunti, attraverso sfere ogni volta maggiori e pertanto anche di periodo maggiore, fino a una di dimensioni tali da completare una rivoluzione in ben 26.000 anni, si introduceva poi una sfera ancora maggiore che tuttavia ruotava con un periodo di sole ventiquattr’ore, ed era quindi assai più rapida persino di quella della Luna.

21 Gli equinozi o punti equinoziali sono i due punti in cui si intersecano l’equatore e l’eclittica. Il punto Ariete, o punto vernale, o equinozio di primavera, è la posizione che occupa il centro del Sole quando nel suo percorso lungo l’eclittica attraversa l’equatore da sud a nord. In questo momento la sua declinazione è pari a 0, e a partire da esso, diventa positiva. Il punto Libra o equinozio d’autunno è il punto nel quale il Sole attraversa l’equatore in senso contrario. In entrambi i casi, il numero di ore di luce e di oscurità della giornata è lo stesso. Ciò che qui importa è che l’equinozio è un punto dell’equatore celeste, sicché il corpo che lo attraversa percorre un circolo massimo.

22 L’equinozio di primavera si chiama anche punto Ariete perché duemila anni fa in quel momento il Sole si trovava all’interno della costellazione omonima. Ma, sebbene si continui a usare questa denominazione, il punto Ariete attualmente si trova nei Pesci. Il punto equinoziale infatti si sposta sull’eclittica di circa 50” di arco ogni anno in senso retrogrado (il senso in cui si muovono le lancette di un orologio), il che significa che completa una circonferenza e torna allo stesso punto dopo 26.000 anni. Tale fenomeno è noto come precessione degli equinozi; esso implica, da un lato, un’anticipazione del momento dell’equinozio, decisiva ai fini dell’elaborazione del calendario. In altre parole, il punto equinoziale si muove in senso contrario al moto apparente del Sole e gli va incontro raggiungendolo prima di aver percorso 360°. Così, l’anno tropico, ovvero intervallo di tempo trascorso tra i successivi passaggi del Sole per il punto Ariete, è più breve – di una ventina di minuti – dell’anno sidereo, l’intervallo di tempo tra due passaggi consecutivi del Sole per una determinata stella. D’altro canto, dal momento che il punto vernale è il punto di intersezione dell’eclittica e dell’equatore, ciò significa che, spostandosi, tale punto trascina con sé il piano dell’equatore, ciò che a sua volta equivale a dire che l’asse dell’equatore, cioè i poli celesti, non restano fissi ma descrivono un cono attorno all’asse dell’eclittica e la loro proiezione sulla sfera celeste percorrerà pertanto un piccolo cerchio di circa 23,5° di raggio che del pari sarà percorso, ovviamente, in 26.000 anni. In effetti, questo fenomeno fa sì che le stelle possano spostarsi a latitudini maggiori e pertanto che si muovano lungo cerchi più lenti. Ipparco fu il primo a descrivere il fenomeno e, dopo di lui, tutti i grandi astronomi ne fornirono una qualche spiegazione. Abbiamo già accennato alla soluzione araba, consistente nell’aggiungere una nona sfera. Nella teoria eliocentrica di Copernico, la spiegazione è però diversa e, come si vede, secondo Galileo più semplice. Oltre al movimento annuo (della sfera) della Terra intorno al Sole, e oltre alla rotazione della Terra su se stessa, Copernico ritenne necessario introdurre un terzo moto per mantenere l’asse della Terra parallelo a se stesso. Attribuì perciò un movimento conico all’asse della Terra, la cui proiezione sulla sfera celeste percorreva un cerchio – di 23,5° di raggio approssimativamente – intorno all’asse dell’eclittica, contrario al moto annuo, vale a dire da est a ovest, in poco meno di un anno. Questa piccola differenza tra il periodo di rivoluzione annua del centro della Terra e il tempo impiegato dall’asse terrestre per completare un cerchio, è quella che spiega la precessione degli equinozi. A causa del credito da lui attribuito alle osservazioni antiche, Copernico pensava erroneamente che la precessione degli equinozi fosse, non uniforme, bensì irregolare, con uno scarto periodico di 1717 anni e una rivoluzione completa degli equinozi in 25.816 anni. Per la stessa ragione, credeva che l’obliquità dell’eclittica variasse, oscillando tra 23° 52’ e 23° 58’ ogni 3434 anni; e per spiegare queste irregolarità, aveva attribuito all’asse terrestre due movimenti o «librazioni» perpendicolari tra loro, la cui combinazione tracciava «certe linee somiglianti a un piccolo ricciolo». Fu Newton, nei Principia, a identificare la causa della precessione degli equinozi, derivandola dalla sua teoria della gravitazione: la precessione sarebbe frutto dell’attrazione che il Sole e la Luna esercitano sopra la protuberanza equatoriale della Terra. Newton calcolò (Principia, III, prop. XXXIX) che la precessione annuale degli equinozi dovuta alla forza del Sole fosse di poco più di nove secondi. E avendo dimostrato che l’attrazione esercitata dalla Luna sul rigonfiamento equatoriale terrestre è 44.815 volte maggiore di quella del Sole, ecco che la precessione annuale degli equinozi dovuta alla Luna è un po’ maggiore di quaranta secondi, e così grazie a entrambe queste componenti abbiamo i cinquanta secondi di precessione osservati (si veda Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, II, pp. 720-722).

23 Aristotele difficilmente avrebbe potuto accettare questa caratterizzazione della Terra. Stando almeno ai commentatori considerati ortodossi, quanto più un corpo si avvicina al suo luogo naturale, tanto più vicino è a raggiungere la propria forma e, pertanto, pesa e rimarrà in quiete o resisterà a essere mosso (si veda per esempio De caelo, II, 14, 295b 20-25). È questa l’interpretazione difesa per esempio da Alessandro di Afrodisia e Simplicio. D’altro canto, già con Ipparco si delinea una corrente critica, la quale afferma che i corpi sono tanto più pesanti quanto più lontani sono dal loro luogo naturale. Ne dobbiamo dedurre che nel loro luogo naturale non pesano, e in tal caso sarebbe lecito pensare che effettivamente un corpo potrebbe essere indifferente al movimento o alla quiete. È ovvio però che questa non è un’idea aristotelica (vedi in proposito Shmuel Sambursky, The Physical World of Late Antiquity, Routledge & Kegan Paul, London, 1962). In ogni caso, al tempo di Galileo la questione fu ampiamente trattata dai gesuiti del Collegio Romano come Valla o Vitelleschi, i quali aderirono alla tesi che gli elementi – in concreto, l’aria, l’acqua e la terra – nei loro luoghi naturali non pesano, aggiungendo inoltre che l’intera tradizione peripatetica su questo punto si era discostata da Aristotele (si veda Wallace, 1984, pp. 178-183). Nel De motu, II, pp. 285-289, Galileo presenta argomentazioni dello stesso tenore, anch’egli criticando la tesi aristotelica, e indubbiamente sono questi precedenti a indurlo a sentirsi autorizzato a supporre, contrariamente alla concezione aristotelica, che la Terra non pesi.

24 È la versione latina e occamista di ciò che Galileo ha detto già in pagine precedenti (si veda il primo titolo in margine di Opere, VII, 143): «La natura non opera con molte cose quello che può operare con poche». È un’applicazione concreta del principio generale che «la natura non fa nulla invano», che abbiamo visto usato nella Giornata prima, e del quale già ci siamo occupati.

25 Vale a dire i pianeti non partecipano esattamente della rotazione diurna di ventiquattro ore con cui si muovono le stelle fisse, bensì ritardano rispetto a esse, e l’accumularsi di questo ritardo dà come risultato il loro movimento orbitale.

26 La frase tra virgolette non è una citazione testuale bensì una parafrasi da Aristotele, De caelo, II, 14, 296a 24-297a 7.

27 «Se tirasse di punto in bianco», dice il testo. Come spiega lo stesso Galileo nel suo Trattato di fortificazione (Opere, II, p. 93), il «tiro di punto bianco» era lo sparo radente, «il tiro paralello al piano, detto tiro a livello», «quasi che ad libellam», vale a dire con inclinazione zero.

28 L’argomento basato sulla caduta dei gravi si trova già in Tolomeo, Almagesto, I, 7. Copernico lo riprende e lo critica nel De revolutionibus, I, 7. L’argomento dei tiri in direzione dei vari punti cardinali è una generalizzazione e un’attualizzazione degli argomenti di Tycho Brahe nel suo Astronomicarum epistolarum liber, in Dreyer, a cura di, Hafniae, 1919, pp. 218 ss.

29 Si tratta di Christian Wursteisen (1544-1588), teologo e matematico autore di vari commenti a importanti opere di astronomia, in uno dei quali, quello a Peuerbach intitolato Quaestiones novae in theoricas novas planetarum G. Peuerbachii (1568), faceva grandi lodi a Copernico. Non risulta però che abbia difeso il copernicanesimo né che abbia tenuto conferenze in Italia. Invece Christopher Wursteisen, probabilmente figlio del precedente, fu professore alla facoltà di diritto di Padova a partire dal 1595 e pare che abbia tenuto nella stessa Padova alcune conferenze sulla teoria copernicana. Drake avanza l’ipotesi che forse Galileo si riferisca a quest’ultimo (Drake, 1988, pp. 71-72). Comunque, non è facile stabilire fino a che punto il racconto su Cristiano Vurstisio del testo possa considerarsi autobiografico.

* L’Errata corrige che è in fine dell’edizione originale, emendando un errore accorso in questo passo, indica che si debba togliere l’e davanti a «non si potendo»; ma nell’esemplare posseduto dalla Biblioteca del Seminario di Padova, nel quale la correzione è eseguita di mano di Galileo, la e non è cancellata.

30 Galileo torna qui a servirsi della metafora da lui già utilizzata nel 1623 contro Orazio Grassi. Nella sua critica a Galileo questi, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, si era già servito, nel titolo della sua opera, dell’immagine della bilancia: Libra Astronomica et philosophica. Come è noto, Galileo lo contestò con Il Saggiatore, spiegando che, dal momento che Sarsi «nel ponderare egli le proposizioni del Sig. Guiducci, si sia servito d’una stadera un poco troppo grossa, io ho voluto servirmi d’una bilancia da saggiatori, che sono così esatte che tirano a meno d’un sessantesimo di grano: e con questa usando ogni diligenza possibile, non tralasciando proposizione alcuna prodotta da quello, farò di tutte i lor saggi» (Opere, VI, p. 220). È dunque evidente che qui Galileo si propone di considerare la tesi dell’immobilità della Terra con la stessa precisione usata dal saggiatore di metalli per provarne la purezza con la sua delicatissima bilancia. Ma, avendo posto la questione in termini di vero o falso – un punto di vista arrischiato a tal punto da risultare quantomai sorprendente – è più prudente che a dirlo sia Sagredo e che Salviati si mostri più cauto.

31 È opportuno sottolineare la grande rilevanza di questa domanda dal punto di vista storiografico, soprattutto dalla prospettiva kuhniana del cambiamento e incommensurabilità dei paradigmi. Se ci atteniamo alla domanda che viene posta nell’ultimo dialogo tra Sagredo e Simplicio, nei termini della verità che brilla e si impone per se stessa e della inconcepibile stupidità del non vederla, come pure al riferimento platonico all’identificazione tra bellezza e verità che continuamente fa Sagredo, è chiaro che Galileo non è uno spettatore-autore che possa essere neutrale come lo storico distaccato. È però evidente anche che Galileo aveva chiara consapevolezza della radicalità del cambiamento che intendeva introdurre, delle difficoltà di vario tipo che esso comportava e le quali, in ultima istanza, richiedevano un cambiamento radicale. In ogni caso, è ovvio che qui vengono a porsi inevitabilmente importanti problemi come il rapporto della retorica con l’argomentazione scientifica: si può prescindere dalla retorica? E perché? (Finocchiaro, 1980, tratta estesamente questo problema.) E, sebbene la risposta alla domanda di Sagredo non sia tanto chiaramente affermativa quanto questi dà a vedere, ci si pone il problema di stabilire fino a che punto il paladino di un nuovo paradigma determinato possa «dominare» e maneggiare il precedente paradigma del suo oppositore nel quale ha creduto e secondo il quale ha lavorato per un certo tempo. In altre parole, fino a che punto in quel dialogo tra sordi che è la incommensurabilità, è sufficiente che esista solo un sordo. Nella nostra Introduzione abbiamo addotto ragioni per pensare che, almeno in alcuni punti, Galileo sembri oscillare, senza darsene per inteso, tra la vecchia e la nuova fisica. Si veda l’Introduzione, pp. 104-06.

32 Galileo ricorre ancora una volta a quest’uso peculiare delle virgolette senza citare testualmente ma parafrasando, riassumendo o sintetizzando l’essenziale di ciò che gli interessa. In questo caso, sembra ovvio che alluda a De caelo, II, 14, 296a 30-31.

33 Nell’edizione originale si legge «nel cap. 6». Ma nell’esemplare di Galileo precedentemente menzionato, il «6» è corretto con un «14», ancorché non sia certo che sia di mano di Galileo. Il testo appartiene effettivamente al De caelo, II, cap. 14, 296b 1-6. Simplicio ha riprodotto questo testo quasi letteralmente qualche pagina prima (Opere, VII, 150): «Secondariamente, tutti gli altri mobili di moto circolare par che restino indietro e si muovano di più di un moto, trattone però il primo mobile: per lo che sarebbe necessario che la Terra ancora si movesse di due moti; e quando ciò fosse, bisognerebbe di necessità che si facessero mutazioni nelle stelle fisse: il che non si vede, anzi senza variazione alcuna le medesime stelle nascono sempre da i medesimi luoghi, e ne i medesimi tramontano».

34 In realtà, sarebbe opportuno stabilire fino a che punto questa formulazione corrisponda alla lettera del testo di Aristotele, ma in ogni caso tutto lo sviluppo dell’argomento è un po’ tirato per i capelli. È opportuno ricordare che la cosmologia aristotelica integra l’omocentrismo di Eudosso, e dove si parla di movimento può intendersi sfera. In altre parole, il movimento della sfera più esterna spiegava il moto diurno del pianeta. All’interno di tale sfera, il movimento di un’altra, o la combinazione dei moti di altre sfere, spiegava il moto proprio del pianeta sullo sfondo delle stelle fisse. Pertanto nel meccanismo aristotelico i due moti erano indipendenti. Nella tesi fatta propria da Galileo, invece, non risulta chiaramente come potessero essere indipendenti questi due moti della Terra. E, nella prospettiva aristotelica, questo sembra essere un problema centrale che Galileo non vede o elude, e ne consegue che la replica galileiana a questo punto non sembra essere molto calibrata.

35 «Una cosa ignota con un’altra ugualmente ignota».

36 Tanto l’argomentazione sulle differenze tra il caso della nave e quello della Terra, quanto le osservazioni sul movimento dell’aria dimostrano che Galileo continua a servirsi della teoria delle sfere elementari del mondo sublunare. L’elemento aria non è «terrestre» e pertanto non partecipa per natura al moto della Terra, come fa invece una pietra ancorché si trovi in aria. Ne deriva che, mentre per un «moderno» l’aria si muove con la Terra perché, a causa della gravità, al pari di qualsiasi altro corpo, è attratta dalla Terra, Galileo deve cercare un meccanismo di trascinamento dell’aria prossima alla superficie terrestre e perviene all’irregolarità della superficie terrestre, vale a dire alle montagne, che trascinano l’aria. Nella Giornata quarta, come vedremo, Galileo svilupperà proprio questo punto, che risulta centrale non solo nella sua concezione cosmologica, ma anche nella sua fisica. In realtà, la conservazione del moto nel caso della nave e in quello della Terra non sono dello stesso tipo e, di conseguenza, non sembra sufficiente parlare della «inerzia circolare» galileiana. Si può vedere, in proposito, la nostra Introduzione, pp. 105 ss.

37 È inutile dire che questo è un testo che è stato al centro della polemica tra i teorici del «platonismo galileiano», come Koyré, e i difensori di un Galileo empirista e sperimentalista come Drake o Shapere. D’altro canto, non sembra il testo di un padre o nonno del metodo sperimentale, ma si deve anche notare che, a quanto dice Galileo nella Lettera a Francesco Ingoli in risposta alla «Disputatio de situ et quiete terrae» del 1624, molto tempo prima della pubblicazione del Dialogo aveva sostenuto: «io ne ho fatto l’esperienza [di lasciar cadere un sasso dalla cima dell’albero di una nave], avanti la quale il natural discorso mi aveva molto fermamente persuaso che l’effetto doveva succedere come appunto succede: né mi fu difficil cosa il conoscer l’inganno loro» (Opere, VI, p. 545). Non cessa di essere interessante l’insistenza di Galileo sulla propria sicurezza, sulla sue fede teorica, prima dell’esperimento che, tuttavia, forse non permette di respingere senz’altro l’apriorismo del passo del Dialogo quale un mero espediente retorico. In ogni caso, la semplice affermazione che l’esperimento dimostra che Salviati ha ragione non sarebbe apparso molto persuasivo a chi non si rendesse conto del perché fosse così. Galileo desidera «rifar i cervelli degli uomini», ossia insegnare a coloro che erano radicati nella teoria tradizionale a osservare e vedere secondo uno schema concettuale diverso, rendendo evidente l’insufficienza del loro empirismo ingenuo e della loro teoria tanto vicina al senso comune. Per questo, è più utile l’analisi concettuale che compie qui Galileo, che non la semplice constatazione del dato di fatto.

38 Galileo cita un passo dell’Eneide, IV, 175, dove, parlando della Fama, Virgilio dice che è il male più rapido e che la sua diffusione «si rafforza man mano che avanza». «Mobilitate viget, virisque adqirit eundo»; nella traduzione di Annibale Caro, vv. 265-267 (molte edizioni): «È questa Fama un mal, di cui null’altro / è più veloce; e com’più va più cresce, / e maggior forza acquista».

39 Aristotele accenna alla difficoltà di spiegare la continuità del movimento dei proietti in Fisica, VII, 8, 226b 27 ss., passo nel quale compie un confuso tentativo di spiegare perché i proietti continuino il loro moto una volta che il proiciente abbia cessato di essere in contatto con essi, e non cadano obbedendo alla loro tendenza naturale verso il basso. La difficoltà consiste nel fatto che essi sembrano violare i due principi fondamentali della teoria aristotelica del movimento: 1) «tutto ciò che è mosso è mosso da altro», un «altro» che dev’essere in contatto con il proietto, dal momento che secondo Aristotele non esiste l’azione a distanza; e 2) quando cessa la causa, cessa l’effetto. È un testo difficile in quanto Aristotele, dopo aver esaminato varie possibilità, giunge alla conclusione – e questo sembra evidente – che solo il mezzo può essere responsabile della continuità del moto del proietto, agendo come l’«altro», un contatto che continua a spingerlo rendendone possibile il movimento. È una spiegazione irta di difficoltà, come sapeva lo stesso Aristotele, e infatti in seguito vennero proposte spiegazioni alternative, che ebbero vasto sviluppo a partire dal XIV secolo. (Si veda la nostra nota 23 alla Giornata prima.) Certo è che, al tempo di Galileo, in pratica tutti sostenevano l’una o l’altra di questo alternative e quasi nessuno difendeva l’iniziale tesi aristotelica del mezzo. Perché dunque Galileo introduce qui un tema che sembra privo di validità? La mia ipotesi è che, unitamente ad altre ragioni, lo stesso Galileo è alle prese con difficoltà circa il ruolo del mezzo, vale a dire l’aria.

40 La citazione latina significa: «Ciò che non esiste non opera».

41 A tale proposito, si veda la nostra nota 23 alla Giornata prima e la 23 alla Giornata seconda.

42 Le «ruzzole» di cui parla Galileo sono dischi di legno del diametro di una quindicina di centimetri e dello spessore di due, con bordi scanalati nei quali si avvolge una cordicella; tirando questa, il disco – in realtà una trottola – ruota e quando tocca il suolo, si muove velocemente. A volte si fa tutt’oggi a gara a chi lo spinge più lontano. Il funzionamento non è molto diverso dal moderno yo-yo.

43 Galileo si riferisce al trattato pseudoaristotelico Questioni meccaniche, 8, 851b 15-852a 14.

44 Il gioco della palla a corda o, come si preferisce chiamarlo oggi, pallacorda, era forse affine al tennis, trattandosi di rimandare la palla con una sorta di racchetta in campo avverso. Il campo era notevolmente più vasto, con una linea centrale divisoria ma privo di rete. Il numero dei giocatori doveva essere lo stesso dalle due parti, senza però essere fisso.

45 L’Accademico, come già si è detto, è lo stesso Galileo, e il trattato a cui si riferisce Salviati è il De motu naturaliter accelerato, che costituisce l’ultima parte della Giornata terza dei Discorsi (Opere, VIII, pp. 197-267). Come abbiamo detto nell’Introduzione, oggi c’è un accordo generale sulla tesi che Galileo avrebbe elaborato la maggior parte dei teoremi della sua teoria del movimento destinati ad apparire in tale Giornata terza, tra il 1604 e il 1609. Le sue scoperte telescopiche, compiute all’inizio del 1610, che diedero inizio alla sua attività in difesa del copernicanesimo, segnano un’interruzione nella sua indagine sui problemi del movimento. Dopo la sua condanna, Galileo avrebbe ripreso questi materiali, riordinandoli per la pubblicazione nei Discorsi già nel 1638.

46 Archimede (287-212 a.C.), uno dei grandi matematici greci, divenne inizialmente famoso per la sua abilità nell’applicare la matematica a problemi meccanici e quotidiani di varia natura. Fu il matematico che probabilmente Galileo ammirava più di ogni altro, e infatti gli riserva sempre epiteti elogiativi. Archimede si mostrò particolarmente originale in un’epoca di compilatori; tra le sue opere figura un trattato De spiralibus; nell’introduzione, e poi nelle definizioni, Archimede formula il seguente enunciato: «Se una linea retta, rimanendo [fermo] un estremo, viene fatta notare nel piano con velocità costante fino a farla tornare di nuovo nella posizione dalla quale è partita, e insieme con la retta rotante viene mosso un punto sulla retta con velocità costante cominciando dall’estremo fisso il punto descrive nel piano una spirale» (Archimede, Spirali, in Id., Opere, a cura di Attilio Frajese, UTET, Torino 1974, p. 320. Come risulta più avanti, Galileo cita quasi testualmente il passo.

47 Come fa notare Koyré (1955, p. 329) nella sua particolareggiata analisi di questo problema, tutti coloro che lo affrontarono, fino allo stesso Newton, condivisero con Galileo un errore che impediva una soluzione soddisfacente del problema, vale a dire la credenza che i corpi in caduta debbano in ogni caso giungere al centro della Terra. Robert Hooke fu il primo a mostrare che, in una Terra che ruota sul proprio asse, i corpi in caduta non raggiungerebbero il suo centro. Quanto a Galileo, al pari dei suoi critici Mersenne e Fermat, concepisce la traiettoria come la risultante della composizione del moto rettilineo verso il centro della Terra e di un moto circolare uniforme, non del moto rettilineo e del moto tangenziale uniforme, confondendo il moto circolare uniforme di un corpo con quello del suo raggio vettore (Ibid., pp. 374-375).

48 Sembra evidente che Galileo conoscesse queste tre «meraviglie» e furono proprio queste a indurlo a formulare la sua teoria della traiettoria semicircolare, e non viceversa. Sembrano pensarla così sia Riccioli sia Mersenne, là dove afferma che Galileo fu indotto in errore per avere «pensato più alle belle corrispondenze e conseguenze che ne trasse» che non a considerare in modo approfondito l’argomento (cit. da Koyré, 1955, p. 341).

49 Cominciamo col dire che questa teoria è falsa, come del resto fu fatto notare poco dopo la pubblicazione del Dialogo da Mersenne, che segnalò numerosi errori nell’argomentazione di Galileo. Mersenne rileva che, stando al disegno e alla descrizione di Galileo, il corpo in caduta percorrerebbe il semicerchio CIA in sei ore, dal momento che deve farlo nello stesso tempo in cui C percorre un quarto del suo moto diurno. Ma, se ragioniamo in base alla legge galileiana della caduta dei corpi, calcola Mersenne, una palla di cannone tarderebbe di venticinque o ventisei minuti, durante i quali la Terra percorrerebbe 6,5°: dal che si deduce che la traiettoria sarebbe ben diversa da una semicirconferenza. Stando alla soluzione proposta da Galileo, prosegue Mersenne, il corpo in caduta non obbedirebbe alla legge della caduta dei corpi scoperta dallo stesso Galileo. Lo spazio percorso non sarebbe proporzionale al quadrato dei tempi, ma risponderebbe a una legge secondo la quale lo spazio percorso è proporzionale al senoverso dell’angolo di rotazione – il senoverso di un angolo α è uguale a (1-cos α) [Il termine senoverso, nel significato trigonometrico, dal latino sinus e versus, da vertere, rovesciare, oggi non è più in uso; è pari al complemento all’unità della funzione coseno: senv α = 1 cos α. Ndt] – che è proporzionale al tempo. Nel 1637, Fermat criticò questo passo del Dialogo facendo notare che la traiettoria doveva essere una spirale di secondo grado, e Pierre Carcavy lo comunicò a Galileo. Questi accettò la critica ma eluse il problema: «E sebene nel Dialogo vien detto, poter esser che mescolato il retto del cadente con l’equabile circolare del moto diurno si componesse una semicirconferenza che andasse a terminar nel centro della terra, ciò fu detto per scherzo, come assai manifestamente apparisce, mentre vien chiamato un capriccio et una bizzarria, cioè iocularis quaedam audacia. Desidero per tanto in questa parte esser dispensato, e massime tirandosi dietro questa, dirò, poetica finzione quelle 3 inaspettate conseguenze» (Lettera a Carcavy del 5 giugno 1637, Opere, XVII, p. 89). A quest’epoca, Galileo aveva già stabilito il carattere parabolico della traiettoria dei proietti. Quando, l’anno successivo, pubblica i Discorsi e fa nuovamente allusione al problema, non riappare l’affermazione della traiettoria semicircolare, ma neppure vi appare un qualche riferimento ironico, e neppure una ritrattazione esplicita della tesi. Galileo, oltre a dimostrare che la traiettoria descritta da un proiettile sparato orizzontalmente è una parabola e che i due componenti del suo movimento sono indipendenti, si limita ad aggiungere che «andando questi [i proiettili delle artiglierie] a terminar nella superficie del globo terrestre, ben potranno solo insensibilmente alterar quella lingua parabolica, la quale si concede che sommamente si trasformerebbe nell’andare a terminar nel centro» (Opere, VIII, p. 275). E di più non dice. Non è facile stabilire la portata di questa autocritica. Comunque, è difficile supporre che Galileo presentasse la sua teoria della caduta semicircolare come un semplice scherzo. È chiaro in ogni caso, come risulta dalle critiche mossegli, che i suoi contemporanei non intesero la cosa in questo modo. Per questo problema e i riferimenti relativi, si può vedere la particolareggiata analisi fatta da Koyré nello studio citato (1955, pp. 329 ss.).

50 Già Tartaglia era giunto alla conclusione che l’inclinazione di 45° era quella che rendeva possibile i tiri di maggior gittata. Galileo lo dimostra nei Discorsi (Opere, VIII, p. 296).

51 Si tenga presente che lo strumento che qui si maneggia è una balestra. Quando Galileo parla di «arco», non si riferisce quindi tanto allo strumento quanto alla molla della balestra, che aveva la forma di un arco o, ciò che è lo stesso, alla tensione della molla stessa. Pertanto, per una corretta comprensione del passo, dove si parla di arco si deve intendere o la «molla» o, per lo più, semplicemente la «tensione» alla quale questa è sottoposta, che equivale alla «gagliardia» di Galileo.

52 Si veda quanto è detto qui nella nota 7 al Prologo «al discreto lettore».

53 Quest’idea si trova in un trattato, di un gesuita, Clemente Clementi, come del resto indica il titolo del trattato stesso: Encyclopaedia amplissimo Scipioni card. Burghesio dedicata, explicata et defensa centum philosophicis assertionibus a Clemente de Clementibus in Collegio Societatis Iesu, Mascardi, Roma, 1624, p. 57.

54 Ci sono qui vari punti meritevoli di attenzione. In primo luogo, va sottolineato che non si ha a che fare con la composizione di due moti rettilinei (che nel caso dei proietti dà come risultato una parabola) e neppure con la composizione di due moti «violenti», risultante da un «impeto». Solo il moto verticale dovuto allo sparo è violento. Il moto della palla verso levante dipende dalla Terra ma non si tratta senz’altro di un moto di estrusione, la cui esistenza è negata più avanti da Galileo, bensì di un moto «circolare» e «naturale». Ed entrambe le cose sono inseparabili. È circolare perché non è altro che il moto della Terra (pianeta) ed è naturale perché non è altro che il moto della terra (elemento). Come dice Galileo in Opere, VII, p. 203: «perché il tener dietro alla Terra è l’antichissimo e perpetuo moto participato indelebilmente ed inseparabilmente da essa palla, come da cosa terrestre e che per sua natura lo possiede e lo possederà in perpetuo». Si veda anche l’inizio dell’argomentazione più sopra, Opere, VII, p. 200. Ovviamente, si tratta di un movimento verso est, esattamente lo stesso di quello di qualsiasi palla che si trovi a terra accanto all’artigliere, e Galileo dice che è indipendente dal moto verticale, che dipende unicamente dalla polvere del cannone. Ma se le cose stanno così, quale moto compongono? Che ruolo svolge la lunghezza del cannone? E perché Galileo attribuisce importanza cruciale al percorso della palla dentro il cannone, mentre questa se ne distacca?
Galileo ci dice semplicemente che il moto è composto o trasversale, ma non specifica con esattezza il tipo di traiettoria che la palla percorrerà. A mio giudizio, il disegno di Galileo è fonte di confusione. In primo luogo, perché in esso si ha la composizione dei due movimenti rettilinei, mentre non è così. Il cannone, al pari dell’artigliere che lo spara, si sposta lungo una circonferenza. Inoltre la palla, che non fa altro che conservare il moto della Terra, al pari del cannone dell’artigliere, ha anch’essa un moto circolare, ed è difficile stabilire che cosa pensi Galileo della traiettoria risultante da tale moto circolare e dal moto verticale dovuto allo sparo del cannone, soprattutto se rammentiamo le sue affermazioni circa la traiettoria della pietra che cada da una torre. Comunque, ciò che è chiaro è che dovrebbe trattarsi di qualche tipo di curva, e quindi il disegno falsifica anche quest’aspetto del problema. Evidentemente, all’inizio dovrebbe essere molto simile a una retta, ma la piccola differenza grafica non è senza importanza concettuale.
C’è però un’altra alterazione ancora più importante, che, se non è frutto del disegno, si ripercuote su di esso. Sagredo concede graziosamente all’aristotelico che la traiettoria che seguirà la palla uscendo dal cannone si manterrà «sempre sopra la dirittura del pezzo», anche se ovviamente bisognerebbe dire che seguirà la verticale o il raggio terrestre corrispondente, come in Aristotele deve dirsi che i gravi cadono verso il centro dell’universo più che verso il centro della Terra. Sagredo però ha tutto l’interesse a esprimersi in questi termini perché a partire da qui traccia la linea trasversale tra la culatta e la bocca del cannone nelle posizioni I e II. Ciò induce a considerare il fenomeno come se questo provocasse l’inclinazione della palla, e infatti ci si sente autorizzati a questa interpretazione perché essa sembra essere quella formulata da Salviati nel suo commento. Proseguendo, Sagredo lo nega e lo spiega chiaramente, o meglio lo spiega senza fare intervenire minimamente la lunghezza del cannone. L’inclinazione della traiettoria non ha nulla a che fare con la lunghezza del cannone. Anzi, stando alle premesse di Galileo, si può concepire un esperimento con un cannone di tali dimensioni che la palla non riesca a uscirne, e ciò non cambierebbe né altererebbe la traiettoria del proiettile che resterà identica alla situazione dianzi descritta. Ed esattamente lo stesso si verificherebbe se la palla partisse direttamente da terra con la stessa spinta, però senza nessun cannone da percorrere. Tuttavia, a rigor di termini, Simplicio istituisce un paragone tra le velocità verticale e di traslazione del cannone, e Sagredo è disposto a privilegiare ancora una volta il movimento-velocità dentro il pezzo. Più ancora, formula una considerazione che non può non sorprenderci: dà infatti per scontata la costanza della velocità verticale della palla e prende in considerazione varie situazioni a partire dalla maggiore o minore velocità della Terra. Senza dubbio, noi ragioneremmo in modo contrario. Su questo punto richiama l’attenzione anche ciò che dice Sagredo (Opere, VII, p. 203): come se l’inclinazione della traiettoria dipendesse unicamente ed esclusivamente dal moto della Terra che porta con sé il cannone. Ciò induce Clavelin ad affermare che, nella spiegazione di Galileo, «lo spostamento subito dal cannone tra le posizioni I e II viene così a sostituirsi puramente e semplicemente al principio di composizione» (Clavelin, 1968, p. 271; corsivo nell’originale). A mio giudizio quest’affermazione non è corretta – anche se alcuni elementi dell’analisi possono non essere chiari, si ha trasversalità solo se c’è composizione, e Sagredo qui e Salviati più avanti insistono più volte su questo punto – però aiuta a mostrare ancora più chiaramente l’opacità e difficoltà di questa spiegazione di Galileo. Vien fatto di pensare che forse Galileo introduce o ha bisogno di introdurre il cannone e di disegnarlo per mostrare graficamente l’identità tra la verticale in un punto dello spazio, in un punto della superficie della Terra, e la trasversalità o inclinazione nel tempo, cercando di evitare così il dualismo che, ciò nonostante, fa rilevare a Salviati.
Possiamo pensare che Galileo attribuisca uno status speciale alla conservazione del moto diurno dei corpi composti dall’elemento terra, e che le limitazioni indicate, se tali sono, abbiano a che fare con questo dato di fatto? Possiamo supporre che Galileo creda che la palla conserverà la verticale senza rimanere indietro, nonostante la sua progressiva elevazione che dovrebbe farla ritardare, dato questo particolare rapporto tra la parte e il tutto? Non è escluso che, come mi fa notare Carlos Solís, io stia dimenticando l’aspetto retorico dell’argomentazione di Galileo, il quale potrebbe avere l’intenzione di semplificare coscientemente e volontariamente, il problema per rendere l’argomentazione meno complessa senza allontanarsi dalla questione centrale – il moto della Terra –, introducendo volta per volta il minimo di novità. Non è escluso, pertanto, che quelle che qui definisco possibili limitazioni siano semplici conseguenze della strategia galileiana. Non vedo però prove lampanti né in un senso né nell’altro e, rebus sic stantibus, preferisco correre il rischio di segnalare lacune inesistenti piuttosto che riempirle, qualora esistano, con idee che a noi sembrano ovvie. La nota 105, più avanti, non manca di interesse ai fini del presente problema e può riproporre la questione alla quale qui accenno.
Appare inquietante e strano che proprio su questo punto sia Sagredo colui che introduce e spiega la teoria mentre Salviati, l’alter ego di Galileo, commette errori concettuali, risulta oggetto di critica e mantiene inizialmente le distanze. Si potrebbe pensare che Galileo si comporti così perché non sia del tutto soddisfatto della sua analisi e tenti di attenuare la responsabilità dei possibili errori mettendo la teoria in bocca a Sagredo. Salviati più avanti fa proprio l’argomento di Sagredo, ma curiosamente solo per fare confusione tra gli uccelli – sempre gli uccelli! – e i cacciatori, e per venire nuovamente ripreso da Sagredo. Credo comunque che questi punti siano meritevoli di un’analisi più attenta.

55 Galileo rimanda qui al De revolutionibus, lib. I, cap. 12, a conclusione del quale si trova la tavola cui fa riferimento (Copernico, 1543, cc. 15b-19a; Copernico, 1979, pp. 287-291). In tale capitolo, Copernico segue assai da vicino l’Almagesto, I, 10 di Tolomeo. Entrambi si muovono infatti sulla scia di Euclide però, come spiega Copernico, tanto l’uno quanto l’altro sviluppano specificamente la parte che riguarda i rapporti tra gli archi, gli angoli e le corde, di cui bisogna continuamente riferirsi in astronomia. I greci non calcolavano con gli angoli o con gli archi, bensì con le corde che li sottendevano. Successivamente si passò a rappresentare un arco non con la corda che lo sottende, bensì con la metà della corda – che in seguito si sarebbe chiamata «seno» – la quale sottende un arco doppio. E infatti Copernico dice: «Penso tuttavia che basti se nella tavola diamo soltanto la semicorde sottese dell’arco doppio» (Copernico, 1979, p. 231). D’altra parte, sia Tolomeo sia Copernico rimandano alla divisione del cerchio in 360 gradi ma, mentre Tolomeo ricorre alla convenzione consistente nel dividere il diametro in 120 unità, e altri in seguito in 1.200.000 unità, Copernico ritiene sufficiente supporre il diametro di 200.000 unità. Muovendo da qui, determina in una serie di teoremi la misura dei lati di vari poligoni inscritti nel cerchio, così come il valore di altre corde.

56 Se ci fermassimo a questo intervento di Salviati, si potrebbe pensare che Galileo non sembri ritenere necessario alcun meccanismo di trascinamento dell’aria, come faceva pagine indietro (si veda la nota 36 a questa giornata) – e come ho detto ritornerò sull’argomento nella quarta giornata – bensì che ritenga l’aria, per così dire, «terrestre», e, di conseguenza dotata naturalmente del moto diurno. Ma, a mio parere, le cose non stanno così, come si può constatare se si legge l’intera argomentazione. In primo luogo, risulta significativo che Galileo, nel dialogo che Salviati intreccia poi con Simplicio (un inciso interrotto da Sagredo con la richiesta «Ma digrazia torniamo a’ nostri uccelli»), ritenga pertinente parlare del «vento» e dell’«aria» che spinga e porti con sé varie cose. È ovvio infatti, secondo l’argomentazione dello stesso Galileo, che gli uccelli non seguono il movimento terrestre perché l’aria li spinge e pertanto la questione non ha attinenza con l’argomento. A mio giudizio, è chiaro che a Galileo risultava difficile distinguere «vento» e «aria» nel senso di «atmosfera», e che in ogni caso la questione del moto diurno dell’aria gli poneva più problemi che non gli oggetti «terrestri». Il fatto che considerasse quello degli uccelli il caso più difficilmente risolvibile di questo argomento, a mio parere si deve non tanto all’«esser animati» degli uccelli, bensì al loro rapporto con l’aria, alla natura aerea del loro mezzo. Si veda più avanti la nota 58 e l’Introduzione, pp. 92 ss.

57 Accolgo qui la correzione di Sosio che, rifacendosi all’originale del 1632, riporta «parete» e non «parte», come invece ha trascritto Favaro. È interessante l’accenno alla «parete» che spinge l’aria, come vedremo nella nota seguente.

58 Come dicevamo, questo argomento mostra che Galileo, pur dicendo a un certo punto esplicitamente che il movimento è comune a tutti gli oggetti «compresa l’aria», concede a questa una certa eccezionalità, facendo nuovamente ricorso a un elemento che spinge meccanicamente l’aria. Galileo stesso ci dice che se il movimento dell’aria, nel caso della cabina, è comune a quello degli altri oggetti, è perché la cabina è sottocoperta, chiusa. In altre parole, accade che a spingere l’aria sia la parete di poppa della cabina stessa. L’aria non si comporta come ogni altro oggetto. La comunanza del movimento dei vari oggetti con quello della nave dipende dal fatto che questa l’ha comunicato una volta per tutte. L’aria deve essere invece spinta in ogni momento, altrimenti si sottrae, resta indietro: ne è prova ciò che accade con gli elementi esterni. In altre parole, sulla coperta tutti gli oggetti terrestri continuano a comportarsi allo stesso modo, ma l’aria deve essere ovviamente vicina alla nave per poter essere spinta dalle irregolarità di questa. Si potrebbe dire che l’aria che circonda la Terra nel caso specifico e l’atmosfera terrestre non siano esattamente analoghe. Può darsi che sia così, ma si tratta comunque di una «carenza» dell’argomento di Galileo, non di un’eccezione: una volta ancora, Galileo avrebbe confuso aria o vento e atmosfera, ricorrendo a un esempio fuori luogo. Più avanti, nella Giornata quarta, ci dirà che sono le montagne, vale a dire l’equivalente delle anfrattuosità della nave, a spingere l’aria facendola muovere con la Terra. Da quanto leggiamo, sembra evidente che gli uccelli che volassero molto in alto potrebbero restare indietro, in quanto non sarebbero in grado di lottare contro l’aria, che non parteciperebbe del moto diurno. Per quanto riguarda l’aria, si veda Introduzione, pp. 85 ss.

59 Cioè, l’equatore terrestre.

60 «Il nostro conoscere sia in qualche modo ricordare». Galileo insiste ancora su questa reiterata affermazione.

61 Favaro ricorda a questo punto che, nell’esemplare dell’edizione originale in possesso di Galileo, oggi conservato nella Biblioteca del Seminario di Padova, «l’arco» risulta corretto a penna con «dell’arco». Questa correzione, però, non è di pugno di Galileo. Comunque, il significato del testo è chiaro e si riferisce alla tangente alla linea circolare del moto, nel punto in cui si separa il proietto.

62 Questo punto e queste esperienze sono gli elementi fondamentali su cui si fondano coloro che sostengono che Galileo concepì il movimento inerziale rettilineo. Può vedersi in merito l’Introduzione, pp. 105 ss., specialmente pp. 109-10, dove il lettore troverà gli opportuni riferimenti.

63 Oggi diremmo che un solo esempio del contrario è sufficiente a confutare una teoria.

64 Abbiamo già visto (Introduzione, p. 53) che, dal De motu (Opere, I, pp. 254-260; 289-293; 346-366) in poi, Galileo aveva rifiutato la differenza tra corpi pesanti o gravi e corpi leggeri, affermando che tutti i corpi sono gravi. A partire dal suo punto di vista archimedeo, Galileo affermava che se un corpo si muove verso l’alto non è perché sia leggero, bensì perché si muove in un mezzo relativamente più pesante, cioè che ha un grado di pesantezza o densità maggiore di tale corpo.

* La lettera H, la quale nell’edizione originale manca nella figura, è stata aggiunta a penna di mano di Galileo nell’esemplare, già più volte citato, di detta edizione, che è oggi posseduto dalla Biblioteca del Seminario di Padova.

65 È una tesi tipicamente aristotelica che potrebbe stare perfettamente in bocca a Simplicio. Aristotele affermava infatti che la velocità di caduta di un grave è proporzionale al suo peso, e si veda per esempio Fisica, IV, 8, 215a 25-28 e 216a 12-16; De caelo, I, 273b 30-274a 3. Galileo la rifiuta nel De motu del 1590 (Opere, I, pp. 263-265) con un argomento logico che riprende da Benedetti. In seguito, come è noto, avrebbe dimostrato che il peso non ha nulla a che fare con questo problema, come ci dice un po’ più avanti Salviati.

66 Tutti i commentatori richiamano l’attenzione sull’erroneità della dimostrazione galileiana, senza però essere d’accordo tra loro. Anzi, le loro premesse possono risultare affatto opposte. Koyré afferma che se Galileo non ammette che la forza di gravità possa essere vinta dalla forza centrifuga, è perché non mette l’una e l’altra sullo stesso piano. La prima è costante e naturale, la centrifuga aggiunta e violenta. Non esistono corpi che non pesino, ragion per cui la loro traiettoria di fuga non sarà mai rettilinea. Pertanto, il movimento rettilineo inerziale non esiste né può esistere (Koyré, 1966, pp. 268-276 ss.); altri autori però non accettano né questa possibilità né il punto di vista di Koyré. L’inesistenza in natura del moto inerziale non equivale alla negazione del principio di inerzia rettilinea, insiste Sosio con Drake, i quali segnalano altri errori. Come sottolineano Drake, Chalmers e Nicholas, l’errore di Galileo consiste nel fatto che, senza giustificazione, interpreta in due modi diversi gli assi del suo diagramma. Da un lato, le distanze lungo AB rappresentano tempi trascorsi mentre le distanze verticali rappresentano velocità di caduta. D’altro canto, e in contraddizione con ciò, le distanze lungo AB rappresentano distanze lungo la linea di proiezione e le verticali tra AB e l’arco AP rappresentano la distanza dell’oggetto proiettato sulla superficie terrestre. La figura di Galileo è quindi, in realtà, due diagrammi e non uno solo (Drake, in Galilei, 1967, p. 478; Chalmers e Nicholas, 1983, specialmente p. 321). Io credo che si possa essere più incisivi di Koyré. È chiaro infatti che il carattere rettilineo del moto centrifugo è connesso, per Galileo, al carattere aggiunto dell’impeto ricevuto, come risulta chiaro in Opere, VII, p. 218. D’altro canto, è palese che la Terra, con la sua rotazione, non trasmette impeto alcuno e tantomeno aggiunto. I corpi terrestri possiedono in se stessi, in modo indelebile ed eternamente, il moto diurno per natura, vale a dire un moto circolare. E lo possiamo vedere nella confutazione degli argomenti della torre e della nave e in quelli basati sugli spari di cannone, soprattutto i verticali. È quanto viene ripetuto più volte in tutto il Dialogo. Come dunque prendere sul serio la tesi che questo moto naturale, eterno e circolare dei corpi terresti provochi, in questi stessi corpi, un moto violento, aggiunto e rettilineo? Non c’è traiettoria di fuga, né rettilinea né di altra categoria. Orbene, dato che gli aristotelici – e tutti i non copernicani – non credono nella natura del moto circolare dei corpi terresti, è opportuna una dimostrazione geometrica che, a partire dalle proprie premesse, mostri l’erroneità dell’argomento tradizionale dell’autodistruzione del globo terrestre a opera della forza centrifuga. Sarebbe questo, se non mi sbaglio, il senso vero di questa problematica argomentazione di Galileo, ed è qui che acquistano rilevanza gli errori della dimostrazione geometrica.

67 Galileo si richiama qui ai testi aristotelici indicati nella nota 65. Nei Discorsi (Opere, VIII, pp. 106-107) Galileo sarebbe tornato sulla questione dimostrando e illustrando l’errore di Aristotele a partire dalla stessa tesi che aveva esposto nel De motu, di cui nella nota precedente (cioè, Opere, I, pp. 262 ss.).

68 «La sfera è tangente al piano in un punto».

69 Secondo Drake, l’aristotelico autore della presunta prova che di seguito è esposta, sarebbe Francesco Buonamici, che era stato maestro di Galileo a Pisa.

70 Archimede, Sulla sfera e il cilindro, Assunzione (postulato) 1. Si veda Archimede, 1974, p. 76.

71 «L’ignoto per mezzo di ciò che è ancora più ignoto».

72 È ovvio che Galileo intende le due rette AC, CB. Nella sua edizione del Dialogo, Sosio trascrive appunto «AC, CB» senza alcuna nota.

73 Al tempo di Galileo, il tema dei rapporti tra matematica e fisica era un punto centrale delle diatribe tra gli aristotelici e i platonici, e la rivendicazione da parte di Galileo della necessità della matematica per lo studio della fisica che, come si vede, egli stesso attribuisce a Platone, induce autori come Koyré a provvedersi di solidi fondamenti storici per parlare del «platonismo» di Galileo. Sembra in ogni caso evidente che in questo punto la tesi di Galileo si riferisca direttamente alla polemica sulla classificazione e gerarchia delle scienze di cui abbiamo parlato nell’Introduzione (pp. 37 ss.). Il fatto di pronunciarsi su questioni di fisica – come la posizione della Terra – partendo da argomenti ripresi dalla matematica era uno degli aspetti più rivoluzionari dell’opera di Copernico. Qui, Galileo mostra chiaramente di essere sulla stessa linea, da lui radicalizzata costruendo una fisica terrestre matematica, partendo da un punto di vista tale da fargli già considerare ridicola la posizione tradizionale.

74 «La sfera di bronzo non tocca in un punto».

75 Nell’edizione originale si legge «causali», ma Galileo, nel già menzionato esemplare di sua proprietà, corresse in «casuali».

76 Come altre volte, risulta difficile dare una definizione precisa di questo concetto che nell’opera di Galileo subisce una lunga evoluzione. Sintetizzando molto una storia che ha analizzato dettagliatamente Galluzzi (Galluzzi, 1979), è possibile distinguere varie tappe che a volte si sovrappongono e la cui cronologia non è in ogni caso facilmente determinabile con esattezza. Il termine «momento» appare per la prima volta nelle Mecaniche, dove è definito «la propensione di andare al basso, cagionata non tanto dalla gravità del mobile, quanto dalla disposizione che abbino tra di loro diversi corpi gravi; mediante il qual momento si vedrà molte volte un corpo men grave contrapesare un altro di maggior gravità: come nella stadera si vede un picciolo contrapeso alzare un altro peso grandissimo, non per eccesso di gravità, ma sì bene per la lontananza dal punto donde viene sostenuta la stadera; la quale, congiunta con la gravità del minor peso, gli accresce momento ed impeto di andare al basso, col quale può eccedere il momento dell’altro maggior grave. E dunque il momento quell’impeto di andare al basso, composto di gravità, posizione e di altro, dal che possa essere tal propensione cagionata» (Opere, II, p. 159). Si può comunque affermare che la prima tappa consisterebbe nell’elaborazione di un concetto di «momento meccanico», nel contesto degli studi di meccanica e idrostatica da Le mecaniche al Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua… In quest’ultimo lavoro Galileo fornisce un’esplicita definizione del termine, che è più generale. Non si tratta infatti unicamente del momentum gravitatis, e il termine si applica non solo alla caduta dei gravi, ma anche ad altri ambiti come il movimento violento, l’urto o percussione e la resistenza: «Momento, appresso i meccanici, significa quella virtù, quella forza, quella efficacia, con la quale il motor muove e ’l mobile resiste; la qual virtù depende non solo dalla semplice gravità, ma dalla velocità del moto, dalle diverse inclinazione degli spazii sopra i quali si fa moto, perché più fa impeto un grave descendente in uno spazio molto declive che in un meno. Ed in somma, qualunque si sia la cagione di tal virtù, ella tuttavia ritien nome di momento» (Opere, IV, p. 158). Questa generalizzazione del concetto di «momento meccanico» – al quale, come è ovvio, allude il presente testo – tocca il culmine nella Giornata seconda dei Discorsi, dove, al termine di una lunga evoluzione, si è trasformato in un termine neutro usato in vari contesti in modi diversi. Nel caso della bilancia, il momento di un corpo pesante varia con la distanza dal fulcro. Nel caso della caduta lungo un piano inclinato varia con l’inclinazione del piano; nel caso del movimento naturale e della percussione, varia con la velocità. Ma questa evoluzione è in intima relazione con lo sviluppo delle idee di Galileo sul moto locale. In un primo momento, Galileo crede di poter fondare la sua scienza del moto naturalmente accelerato a partire dal modello statico sviluppato nelle opere citate. Sviluppa così il concetto di momentum velocitatis a partire dal momento di gravità. In questo contesto, il momento di velocità che viene introdotto in luogo di «grado di velocità» si riferisce alla velocità massima (o velocità finale) corrispondente a un determinato momento della gravità raggiunto dal corpo in caduta libera a una certa distanza dalla posizione di quiete. Però Galileo, probabilmente nel periodo intercorso tra il Dialogo e i Discorsi, è andato assumendo consapevolezza della sua incapacità di fornire una giustificazione dell’accelerazione valida per tutti i corpi muovendo dalla gravità come causa di moto, e, da questo momento in poi, il concetto di momento di velocità va sviluppandosi in maniera autonoma, senza riferimento alla gravità e ai suoi «momenti». Sviluppo, questo, che compare nella Giornata terza dei Discorsi dove, sia detto di passaggio, viene equiparato al gradus velocitatis e, a volte, all’impeto di velocità. E qui, si vede concretamente che i momenti di velocità sono raggiunti con il tempo della caduta e non con la distanza. In ogni caso, però, senza rapporto alcuno con la gravità, dal momento che la velocità è «innata». Con l’introduzione dell’analisi infinitesimale, il termine assume diverse sfumature. Come dice Galluzzi, «Ogni momentum velocitatis opera in un istante di tempo e può essere considerato una quantità di distanza (costante o crescente) che si somma alle precedenti. L’analogia tra i momenta velocitatis e gli spazi percorsi con tali momenta in tempi eguali è fortissima. Il momentum velocitatis è, in un certo senso, la “cerniera” tra il tempo e lo spazio» (Galluzzi, 1979, p. 371; corsivo nell’originale). Galluzzi richiama l’attenzione anche su un altro passo nel quale Galileo, invertendo il punto di vista iniziale, vorrebbe utilizzare «l’analisi infinitesimale, che ha reso conto del rapporto tra la crescita dei momenta velocitatis e lo scorrere del tempo […] anche per spiegare l’incremento del momento di gravità che si verifica nella caduta libera» (Ibid., pp. 403 e 407).

77 Galileo che, a partire dalla sua impostazione archimedea del De motu, aveva già respinto la distinzione aristotelica tra grave e leggero, definisce questo e altri termini affini nelle Mecaniche e specialmente nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua. Il «peso specifico» è da lui definito come segue: «chiamo egualmente gravi in ispecie quelle materie, delle quali eguali moli pesano ugualmente». Il peso assoluto è invece da lui definito così: «Ma egualmente gravi di gravità assoluta chiamerò io due solidi li quali pesino egualmente, benché fossero diseguali» (Opere, IV, p. 67).

78 Vari autori segnalano diverse imprecisioni, ma neppure qui riescono a mettersi d’accordo sulla valutazione globale dell’argomento. C’è comunque un aspetto che sembra chiaro. Prima di introdurre l’analogia della bilancia, Galileo studiava il caso di ruote di diametri diversi con la stessa velocità angolare. Ora, però, presenta il caso di due ruote di diverso diametro e con la stessa velocità lineare. Tuttavia, e per strano che possa sembrare, Galileo non sembra rendersi conto della differenza; sembra cioè non rilevare che se la velocità lineare dei due corpi è la stessa, la velocità angolare di C è molto minore e pertanto l’effetto centrifugo nell’uno e nell’altro caso non sono paragonabili. Se così non fosse, se cioè la velocità angolare fosse la stessa, quando B si trovasse in G, C si troverebbe molto più al di là di H, con la conseguenza che il corpo C si allontanerebbe dalla sua circonferenza molto più che B dalla sua (Clavelin, 1968, pp. 251-253). Come fanno notare Chalmers e Nicholas, lo si può vedere nel diagramma dello stesso Galileo, in base al quale è lecito concludere che «posto che DE è maggiore di OI, se le due ruote ruotano con la stessa velocità angolare, la più grande subirà maggiori effetti dissipativi» (Chalmers e Nicholas, 1983, p. 327). Se teniamo presente il carattere naturale che Galileo attribuisce al moto circolare, che del resto è quello che mantiene l’ordine cosmologico, non risulta strano che Galileo trovi difficile accettare l’impostazione stessa del problema, cioè che tale moto possa causare perturbazioni (si veda anche la nostra nota 66). Quanto al trattamento corretto del moto circolare e della forza centrifuga – proporzionale al raggio, alla massa del corpo e al quadrato della velocità angolare – e centripeta, si dovette attendere fino a Christian Huygens, che enunciò il teorema nel Horologium oscillatorum… del 1673 e pubblicò le dimostrazioni nel De motu et vi centrifuga, del 1703, quando Newton aveva già sviluppato la sua indagine.

79 Chalmers e Nicholas fanno notare che queste affermazioni di Sagredo non si conciliano con l’argomentazione di Galileo e che sarebbe stato ovvio se questi avesse confrontato velocità angolari come in principio sembrava che stesse per fare. I due autori suggeriscono che Galileo fosse disingenuous, cioè insincero, nella sua impostazione dei problemi.

80 È il libro Diquisitiones mathematicae… di Johannes Locher. Si veda la nostra nota 83 alla Giornata prima.

81 Si tratta di Scipione Chiaramonti, autore dell’Anti-Tycho. Si veda la nostra nota 48 alla Giornata prima e l’Introduzione, pp. 68 ss.

82 Si veda la nostra nota 48 alla Giornata prima.

83 In questa espressione è implicita l’idea tradizionale delle sfere od orbi celesti, nelle quali erano infissi i pianeti, in questo caso la Luna. Galileo non crede più in tali sfere, ma a volte si serve ancora di questi termini che del resto erano d’uso comune.

84 Secondo Drake il miglio tedesco equivaleva a 1/5400 dell’equatore.

85 Come abbiamo già accennato, dallo studio dei manoscritti galileiani è apparso evidente che, tra il 1602 e il 1609, Galileo aveva praticamente scoperto tutti i teoremi sul moto locale che appaiono esposti deduttivamente nei Discorsi del 1638. Gli scritti dell’Accademico, cioè di Galileo, a cui qui si fa allusione, corrispondono a un suo testo intitolato Liber secundus in quo agitur de motu accelerato (Opere, II, pp. 261-266) che egli avrebbe in seguito accolto quasi tale e quale nei Discorsi (Opere, VIII, pp. 197 ss.). Il Liber secundus… è contemporaneo alla famosa lettera a Paolo Sarpi del 16 ottobre del 1604, nella quale Galileo formula per la prima volta la celebre legge della caduta dei gravi, pur deducendola da un principio erroneo secondo il quale l’accelerazione è proporzionale alla distanza di caduta. In seguito, avrebbe formulato il principio corretto che stabilisce la proporzione tra l’accelerazione e il tempo. Si veda Opere, VIII, pp. 203 e 204. Già Koyré ha fatto notare che, quando Galileo respinge il proprio errore, la sua argomentazione risulta fallace (Koyré, 1966, p. 106).

86 Ossia, a partire dal numero 1.

87 Si veda Aristotele, Fisica, IV, 8, 216a 12-16. E, in termini ancora più concisi: «Se un dato peso si muove per un dato spazio in un dato tempo, un peso eguale al primo più qualcosa lo farà in un tempo minore, e la proporzione che c’è tra i pesi si ripeterà, nel rapporto inverso, per i tempi; ad esempio, se metà dal peso si muove in questo dato tempo, un peso doppio del primo si muoverà nella metà di quel tempo» (De caelo, I, 6, 273b 30-274a 3; trad. it., Aristotele, 1962, pp. 39, 41). La mitologia positivistica, fondandosi su un testo del primo biografo di Galileo, il suo discepolo Viviani (Opere, XIX, p. 606), diede alimento alla diceria che Galileo avesse provato la falsità di questa tesi con un presunto esperimento pubblico, compiuto in gioventù dalla torre di Pisa, dimostrando che due palle della stessa materia e peso diverso giungono a terra contemporaneamente. Oggi però non c’è dubbio che, nel 1589, all’epoca del De motu, Galileo non compì né ideò alcun esperimento del genere. Inoltre egli dice esplicitamente che «chiunque compia l’esperienza, scoprirà che non si verificano» le tesi che ha formulato, tra le quali quella che ci interessa qui della caduta simultanea (Opere, I, p. 273). La sua confutazione di Aristotele e la prova che i due corpi cadono con la stessa velocità fu di tipo logico, con un argomento impiegato già da Giovanni Battista Benedetti nel 1585, secondo il quale se, di due corpi omogenei, il più pesante cadesse più rapidamente, si avrebbe il paradosso che, uniti, cadrebbero più lentamente perché il piccolo rallenterà il maggiore, affermazione ridicola, dice Galileo (Opere, I, pp. 263-265). Egli riprenderà in seguito questo argomento nelle sue postille del 1633 al libro Esercitationi filosofiche di Antonio Rocco filosofo peripatetico (Opere, VII, p. 791) e nei Discorsi nel 1638 (Opere, VIII, p. 107). Ciò, naturalmente, non significa che Galileo non compisse altri esperimenti, oltretutto abbastanza precisi, di cui oggi nessuno dubita; significa soltanto che la storia della scienza non è sempre in stile hollywoodiano.

88 Nell’opera di Galileo ci si imbatte in tre testi che fanno riferimento alla rapidità di accelerazione dei corpi in caduta, e tutti e tre si trovano nel Dialogo, sebbene uno di essi risulti aggiunto in un secondo tempo da Galileo nel suo esemplare. Il primo, A), si trova in Opere, VII, p. 46, e dice che una palla di cannone, «in manco di dieci battute di polso passerà più di dugento braccia di altezza». Il secondo, B), è quello del presente passo, secondo il quale il corpo scende «di cento braccia in cinque minuti secondi d’ora». Il terzo, C), aggiunto da Galileo nel suo già menzionato esemplare (Opere, VII, p. 54), afferma che una palla di piombo «in quattro battute di polso aver passato più di 100 braccia di spazio». Se ammettiamo che un braccio equivalga a circa 56 centimetri e supponiamo 72 pulsazioni al minuto, il valore di A) equivale a circa 300 cm/sec2 e quello di B) a 425-450 cm/sec2. Se interpretiamo il «più di» di A) con una certa generosità, possiamo ritenere equivalenti A) e B); nel migliore dei casi, però, sono valori inferiori di un buon 50% alle misure moderne (980 cm/sec2). Invece C), supponendo 72 pulsazioni per minuto, equivale a 960 cm/sec2, valore assai vicino a quello esatto. Già poco dopo la pubblicazione del Dialogo, Baliani e Mersenne, che erano sperimentatori scrupolosi, si mostrarono sorpresi di fronte ai valori pubblicati e chiedevano come Galileo vi fosse giunto (lettera di Baliani del 23 aprile 1632, Opere, XIV, p. 343; Mersenne, Harmonie universelle, 1636, t. I, pp. 86-87, cit. in Koyré, 1977, pp. 302-303). Ma l’unica volta che Galileo rispose, a distanza di anni, fece notare a Baliani che, «per manifestare la estrema gofferia di quello che scriveva et assegnava il tempo della caduta della palla d’artiglieria dell’orbe lunare, poco importa che i cinque minuti [secondi] delle 100 braccia siano o non siano giusti» (lettera del 1° agosto 1639, Opere, XVIII, p. 177). Possiamo quindi dare per scontato che A) e B) sono valori puramente ipotetici e che, per principio, Galileo non mostrava grande interesse per il valore numerico preciso dell’accelerazione. Tuttavia, resta l’interrogativo di come avesse ottenuto il valore praticamente esatto di C). In merito, ignoriamo quasi tutto, compresa la data nella quale Galileo scrisse l’aggiunta nel suo esemplare del Dialogo, quella che contiene il valore corretto. I vari storici sembrano d’accordo tra loro, non però per le stesse ragioni, nel senso che è assai improbabile che Galileo abbia ottenuto quella cifra sulla scorta di un esperimento di misurazione scrupoloso e preciso. Può darsi che abbia inserito il valore corretto deducendolo dalla legge della caduta, o ricavandolo dagli esperimenti di qualche collega. Si veda a proposito Koyré, 1977; Drake, 1970; Naylor, 1974; Lindberg, 1965; Shea, 1983.

89 Come si vede, Galileo suppone che l’accelerazione sarebbe costante, mentre per ottenere il tempo esatto bisogna tener conto del fatto che l’accelerazione varia inversamente al quadrato della distanza, come è stabilito dalla legge newtoniana.

90 Vale a dire la regola del 3.

91 Nella tabella di Galileo abbiamo, nella parte superiore, i tre numeri con le lettere corrispondenti, e il quadrato del secondo.
Subito dopo, a destra della verticale abbiamo il risultato della prima parte dell’operazione menzionata:

588.000.000 × 25 = 14.700.000.000

I numeri a sinistra delle verticali sono quelli ottenuti ricavando la radice quadrata di 147.000.000, risultato ottenuto dividendo per 100 il risultato precedente.

art

L’ultimo insieme di numeri, separati da una linea verticale nella parte inferiore destra, sono la riduzione dei 12.124 secondi a minuti, 12.124 : 60 = = 202; e a ore, 202 : 60 = 3. Nel testo, come si è visto, viene dato il valore più esatto: 3 ore, 22 minuti, 4 secondi.

92 È una conseguenza immediata del teorema mertoniano della velocità media che Salviati ha appena enunciato dopo averlo fatto già in precedenza (si veda la nostra nota 20 alla Giornata prima). Galileo lo introduce nei suoi Discorsi come Teorema primo, Proposizione I: «Il tempo in cui uno spazio dato è percorso da un mobile con moto uniformemente accelerato a partire dalla quiete, è eguale al tempo in cui quel medesimo spazio sarebbe percorso dal medesimo mobile mosso di moto equabile, il cui grado di velocità fosse subduplo [la metà] del grado di velocità ultimo e massimo [raggiunto dal mobile] nel precedente moto uniformemente accelerato», Giornata terza, Opere, VIII, p. 208, trad. it. Galilei, 1958, p. 192). Ma poco più sotto, Galileo lo dimostra ricorrendo all’analisi e rappresentazione infinitesimale.

93 Questo esperimento mentale si trova già in Alberto di Sassonia e Nicola di Oresme. Quest’ultimo lo paragona esplicitamente al caso del pendolo. In seguito, divenne un argomento classico di discussione di varie questioni, per cui è difficile stabilire se Galileo trasse ispirazione da un determinato autore, e da chi. In ogni caso, egli non lo introduce qui con lo stesso scopo di Oresme, che voleva determinare l’impetus derivato dall’accelerazione, separandolo dalla gravità del corpo. Si veda Clagett, 1972, pp. 607-612, e Duhem, 1958, VIII, pp. 298 ss.

94 A quanto pare, non vi riuscì del tutto. Drake afferma a questo punto che, per essere congruente con la spiegazione del testo, la successione dei numeri a margine dovrebbe cominciare da 0, includere solo un 10 e concludersi con un altro 0. Così facendo, dice, il numero di intervalli sarebbe 20, come dev’essere, e la somma dei numeri sarebbe 100. E accusa Galileo di aver confuso i numeri di intervalli con i numeri che rappresentano la velocità alla fine di ogni intervallo.
A mio giudizio, la critica è pertinente solo nel senso che le cifre di Galileo non danno come somma 100, come dovrebbero, bensì 110. Ciò nonstante, credo che la successione numerica della tabella esemplifichi perfettamente ciò che Galileo vuole dire qui (non dimentichiamo che si tratta di una comparazione con il caso del pendolo). Secondo me è chiaro che non si deve intendere che entrambi i dieci debbano sommarsi; tutt’e due si riferiscono allo stesso punto, sia nello spazio sia nella gradazione della velocità, come pure nel tempo. Ed è un punto privilegiato; nello stesso senso in cui lo è il punto più basso del percorso del pendolo. Orbene; hanno lo stesso referente, ma significati diversi: il primo indica la conclusione di un processo, quello di accelerazione, mentre il secondo indica l’inizio di un altro processo, quello della decelerazione. Credo pertanto che non debbano sommarsi; in tal caso, risulta chiaro che la numerazione dà un’idea chiara del processo, quale lo concepisce Galileo. Il primo numero 1 rappresenta effettivamente il punto conclusivo di un processo di accelerazione che culmina con il grado di velocità 1, mentre l’ultimo «1» rappresenta l’inizio dell’ultima parte dell’altro processo, vale a dire il punto in cui il grado di velocità 1 che resta al corpo comincia a decrescere verso 0. Soltanto il «10» rappresenta la conclusione di un processo di accelerazione e l’inizio di un altro processo di decelerazione. È questo che Galileo vuole sottolineare ripetendo la cifra. Nella terminologia di Drake, esso significherebbe la conclusione dell’intervallo decimo e l’inizio dell’undicesimo, e pertanto la sua somma darebbe 20, e i gradi di velocità darebbero anch’essi 100. Ma il problema del numero di «intervalli», se la mia affermazione è esatta, è del tutto secondario e, in Galileo, non è posto come tale. Per il resto, nella contestazione di Sagredo le cifre si combinano come ritiene sia «corretto» Drake, sicché pare che dobbiamo scartare l’idea che si tratti di una «confusione» di Galileo.

95 Possiamo vedere qui un primo momento di quella tecnica di rappresentazione e analisi infinitesimale di cui Galileo si servirà trattando il moto accelerato nei Discorsi (Opere, VIII, pp. 240 ss., specialmente pp. 242-243), dove utilizza nuovamente questa dimostrazione. Però, come segnala Galluzzi (Galluzzi, 1979, pp. 343 ss.) mentre qui, nel Dialogo, Galileo si mostra più prudente quanto al modo di esprimersi, nell’affermare l’equivalenza tra le «infinite linee» e la «superficie del triangolo» e, più avanti, «la superficie del parallelogramma», con locuzioni come «rappresenta» e «viene a essere», nello Scholium al Problema IX dei Discorsi (Opere, VIII, pp. 242-245), già dice chiaramente che tali parallele, per il fatto di essere infinite, allo stesso modo con cui sono infiniti i punti di AC e gli istanti di un tempo qualsiasi, «daranno origine alla superficie stessa del triangolo», per poi soggiungere che i gradi di velocità formeranno un aggregato simile al parallelogramma ADBC. A questo punto, si presentano gravi difficoltà e paradossi relativi alla composizione del continuo e al confronto di infiniti. L’infinito AB è senza dubbio maggiore dell’infinito AC. Come possono corrispondersi biunivocamente i punti delle linee perpendicolari e inclinate unendosi nelle rette parallele alla base? Infatti, Cavalieri, autore della fondamentale Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota…, Typis Clementis Ferronii, Bonomiae, 1635, che nel corso del 1634 discusse queste tematiche nella sua corrispondenza con Galileo prima che questi desse per conclusa la redazione dei Discorsi, già aveva richiamato la sua attenzione sull’illegittimità di passare dall’affermazione della «equivalenza» tra l’infinità di paralleli e la superficie, all’affermazione che le parallele «generano» o «costituiscono» la superficie. Un errore che sicuramente fu commesso anche da Keplero nella gestazione della sua seconda legge: «Sapendo che i punti dell’eccentrico sono infiniti, e le loro distanze infinite, mi venne l’idea che tutte queste distanze fossero contenute nel piano dell’eccentrico. Ricordai infatti che un tempo anche Archimede, cercando la proporzione della circonferenza al diametro, aveva diviso il cerchio in infiniti triangoli» (Keplero, Astronomia Nova, III, cap. 40, in Gesammelte Werke, vol. III, p. 264). Nel caso di Keplero, però, è quasi una regola che gli errori siano fecondi e compensati da altri. Né manca di interesse che Keplero si appoggi su quello che per Galileo era il «divino Archimede».

96 Galileo aveva già enunciato l’isocronismo del pendolo in una lettera a Guidobaldo del Monte del 29 novembre 1602 (Opere, X, pp. 97-100). Il suo primo biografo Viviani, con quello che è senza dubbio un eccesso apologetico, data questa scoperta al 1583, quando Galileo non aveva neppure vent’anni ed era semplicemente uno studente acuto che stava penetrando nei misteri della geometria. Naturalmente è una falsità, ma se la guida del Duomo di Pisa è cortese, ti racconta una storiella davanti a una lampada che, con la sua oscillazione, avrebbe ispirato Galileo.

97 Ossia è un pendolo dalla corda, sempre più breve.

98 «Il moto annuo della Terra obbliga i copernicani ad affermare la rotazione diurna di questa; altrimenti, lo stesso emisfero della Terra sarebbe sempre volto verso il Sole e l’opposto sempre in ombra». Abbiamo già detto che, molte volte Galileo non è letterale nelle sue citazioni, perché a importargli è il significato generale. Inoltre, nei testi che cita più avanti, egli parafrasa o riassume, come informa Drake, altre cose, per evitare di dover riprodurre i diagrammi del libro che commenta.

99 «Ma che questa rotazione della Terra sia impossibile lo dimostriamo così».

100 Cioè quello che passa grosso modo per Venezia.

101 «Ciò premesso, è necessario che se la Terra si muove circolarmente, tutte le cose vengano a essa dall’aria, eccetera. Se poi immaginiamo che queste palle siano uguali per peso, grandezza, gravità, e poste nel concavo della sfera lunare, le si lasci cadere liberamente, e se facciamo che il movimento verso il basso abbia la stessa velocità del moto circolare (cosa che, in realtà non corrisponde al vero, dal momento che la palla A, eccetera), impiegheranno almeno sei giorni per cadere (per concedere quanto più possiamo agli avversari): tempo nel quale percorreranno sei giri attorno alla Terra, eccetera».

102 Come fa notare Favaro, Galileo corresse due volte queste cifre. Nell’originale, invece di 12 e 36 si legge 72 e 200, senza che nell’errata corrige lo sbaglio risulti corretto. Nell’esemplare di Galileo, già menzionato, questi scrisse di suo pugno, nell’errata corrige, 36 e 100. Ma in una lettera a Benedetto Castelli del 17 maggio 1632, a proposito di quelle righe, Galileo dice che rileggendole si è imbattuto in un errore di stampa che era stato sorvolato: «li numeri 72 e 100 [sic] devono correggersi in 12 e 36». In ogni caso, pare che il ragionamento debba essere il seguente: l’autore ci ha detto che la palla impiega sei giorni per cadere dalla sfera della Luna, in altre parole impiega dodici giorni per percorrerne il diametro. D’altra parte, però, sappiamo che la Luna compie ogni giorno una rivoluzione intorno alla Terra. Dunque, dato il rapporto tra il diametro e la lunghezza della circonferenza, avrebbe dovuto percorrere il diametro in meno della terza parte di un giorno. Sicché l’errore è di 36 a 1.

103 Il testo si rifà a un verso di Orazio (Ars Poetica, v. 359): «indignor quandoque bonus dormitat Homerus», cioè «mi indigno anche quando si fa una dormita il buon Omero». Il verso divenne un modo di dire per alludere al fatto che anche i migliori commettono qualche errore, e che in ambito umano la perfezione implica piccoli difetti. È ciò che infatti dice il verso seguente: «verum operi longo fas est obrepere somnum» «ma in un lungo lavoro ci si può appisolare». Va aggiunto che qui Simplicio, com’è ovvio, si mostra nuovamente aristotelico. In Grecia era esistita una tradizione, della quale i sofisti furono rappresentanti eminenti, di forte critica nei confronti di Omero, nella cui opera denunciavano errori di ogni genere, laddove la tradizione aristotelica negava tali errori e, in ogni caso, li attribuiva alla limitatezza della natura umana. Si veda in merito il commento a questi versi di Augusto Rostagni nella sua edizione di Orazio, Arte Poetica, Loescher editore, Torino, 1964, p. 103. Devo queste informazioni a Esther Artigas.

104 È evidente che qui Galileo si serve di un argomento che crede pertinente, mentre non sembra gli sia passato neppure per la mente il caso del cannone che spari in verticale. È chiaro tuttavia che è questo il rovescio di tale situazione. Se teniamo conto di quanto si dice qui, è ovvio che la palla sparata in verticale, conservando la velocità lineare della superficie terrestre, a mano a mano che sale dovrebbe rimanere indietro rispetto alla verticale (si veda Opere, VII, p. 200, e la nostra nota 54). L’argomentazione di Galileo sembra contraddire efficacemente l’aristotelico; essa è quindi retoricamente efficace. Ma è a favore di Galileo? Ci ritroviamo ancora una volta di fronte alla domanda: dove termina la retorica e comincia la limitazione, posto che ci sia? Galileo precisa qui che adotta le premesse dell’autore, ma abbiamo il diritto di chiederci quali sarebbero le sue se utilizzasse il suo stesso esperimento mentale, ed ecco che allora si presenta una curiosa situazione. Immaginiamo che il cannone, sparando in verticale, mandi la palla fino alla Luna. Se seguiamo la tesi che Galileo ha esposto con l’esempio del cannone, la palla resterà in ogni istante sopra la verticale del cannone. Ma se su questo punto accettiamo la tesi fatta propria qui da Galileo, quando la palla discende anticiperà la verticale, e cadrà a est dell’artigliere. Ciò sembra però contraddire l’analisi precedente, e continua a essere un’alternativa non trascurabile la possibilità che Galileo veda il caso della conservazione del moto diurno dei corpi terrestri come un caso speciale e diverso da quella della conservazione del moto dei proietti. In altre parole, è possibile che importi quale sia la causa della conservazione, e che, non avendo chiara quale sia la causa stessa, Galileo non abbia neppure molto chiari gli effetti.

105 Drake e Sosio avanzano l’idea che sia possibile vedere in questo passo una dimostrazione del fatto che Galileo identificava la causa del moto di caduta alla causa del moto circolare dei pianeti, o perlomeno sospettava che fosse la stessa. A mio giudizio, questo è un fraintendimento del testo. Non solo, ma se seguiamo l’argomentazione ciò che salta agli occhi è che Galileo, in numerose occasioni, ci ha detto che, indipendentemente dalla loro posizione, le parti dell’elemento terrestre, come nel caso specifico la palla, partecipano del moto diurno per il fatto di essere terrestri. Se però si pone una palla terrestre nella sfera della Luna, Galileo non sembra tanto certo che la sua tesi sia abbastanza soddisfacente. Si direbbe che, da un lato, la distanza dall’elemento comune, vale a dire la Terra, e dall’altro la vicinanza a un altro corpo celeste, in questo caso la Luna, possano mettere in discussione il presupposto. Effettivamente, un corpo «terrestre» nelle vicinanze della Luna può considerarsi, quanto al suo movimento, un altro pianeta. In effetti il suo moto di rotazione si confonde, nei momenti iniziali della sua caduta, con un moto orbitale, ed è questo, a mio giudizio, ciò che permette a Galileo di stabilire l’analogia tra il moto di caduta e il moto orbitale planetario. E qui non è sottesa nessuna idea moderna, anticipatrice. La differenza tra Galileo e l’aristotelico è che il primo sa di ignorare e l’aristotelico invece no, e questo gli dà modo di fare dell’ironia. La cosa apparentemente facile (la causa della caduta dei gravi) è in realtà di tale difficoltà che si può sfidare chiunque a dare una risposta e impegnandosi in cambio a fare qualsiasi cosa (per esempio, spiegare la cosa più difficile, la causa del moto planetario) senza nessun timore che l’avversario imbrocchi la verità. Se così è, a Galileo non passa neppure per la mente di stabilire la causa del movimento planetario.

106 È chiaro che il concetto di «gravità» al quale qui si allude non ha nulla a che vedere con quello newtoniano. Nell’accezione aristotelica, essa è semplicemente una proprietà dei corpi pesanti, cioè gravi. Per Galileo, dire che la causa della caduta di un corpo è la sua gravità, equivale a dire che la ragione per la quale una cosa è sottile è la sua sottigliezza. Ovviamente, non abbiamo fatto neppure un passo avanti. È una modalità di critica nella quale già ci si imbatte nel Saggiatore (Opere, VI, pp. 350-351). In Galileo la gravità è, come ci ha detto nella Giornata prima, una tendenza o inclinazione naturale delle parti omogenee a riunirsi con il loro tutto. Ma quale che sia questa tendenza, abbia o meno rapporto con il magnetismo di Gilbert, è comunque ben lungi dall’essere chiara. Anzi, nella sua confusione si apparenta a tal punto alle qualità occulte dell’ontologia rinascimentale, che Galileo preferisce non darsi a speculazioni in merito. È una nozione che ha il vantaggio di non coinvolgere gli elementi centrali della cosmologia aristotelica, ma la natura della gravità continua a essere tutt’altro che chiara. Tra parentesi, neppure Newton fu mai soddisfatto della propria concezione. Comunque sia, in Galileo il concetto di «gravità» non presenta, come è ovvio, quel carattere di universalità che avrà invece in Newton. Inoltre, Galileo non pervenne mai a sviluppare un concetto di «forza» generale, tale per cui la caduta dei gravi si converta semplicemente in un ulteriore caso di moto accelerato (si veda in merito Richard S. Westfall, «The Problem of Force in Galileo’s Physics», in C. Golino, a cura di, Galileo Reappraised, Univ. of California Press, 1966, pp. 67-95).
Abbiamo già accennato in precedenza alla «virtù impressa», per cui vedasi la nota 23 alla Giornata prima. Quanto al termine «natura», non occorre sottolineare che, in Aristotele, è un «principio di moto». Quanto alla causa del moto dei pianeti, pare che Aristotele abbia inizialmente proposto la teoria di un Dio primo principio in seguito diventato primo motore immobile, che metterebbe in movimento le sfere dei corpi celesti. Ma sia lo sviluppo della fisica sia la crescente complessità dell’astronomia lo indussero a complicare la teoria, moltiplicando i motori e attribuendone uno a ogni sfera, eccetera. Di contro alla trascendenza reiteratamente affermata del primo motore, in Fisica, VII e VIII, Aristotele avanza una visione meccanica in virtù della quale il primo motore si trova alla periferia del mondo, continuo con esso, e lo muove per contatto. In Metafisica, XII, invece, viene accentuata la trascendenza di tale primo motore che non muove meccanicamente, ma «come oggetto di desiderio». Orbene, non sembra che Aristotele sia riuscito a integrare coerentemente i vari problemi sorti da tale sviluppo, né che abbia toccato il nocciolo dei rapporti tra fisica e metafisica, e neppure gli aspetti più concreti dell’astronomia (si veda in merito W. Jaeger, Aristoteles, 1983, pp. 336-356 e 392-419; e P. Aubenque, 1974, pp. 342-354). Comunque, ciò che qui ci interessa mettere in risalto è che in Metafisica, XII, 8, 1073a 26-1073b 1, Aristotele dice che ciascuno dei movimenti propri di ogni pianeta «deve essere causato da una sostanza immobile in se stessa ed eterna… e senza magnitudine». Sono quelle che, nel Medioevo, divennero «intelligenze» e che, nel cristianesimo, furono identificati con angeli «assistenti». Si veda S. Tommaso, Summa theologica, I, 108 e Dante Alighieri, Convivio, II, 6. Abbandonata la cosmologia aristotelica, non si poteva ormai più concepire il primo motore come responsabile ultimo del moto planetario, e come sappiamo Copernico considera causa del moto delle sfere celesti la forma sferica. Era ancora la «forma» nell’accezione aristotelica ad attuare il moto. E a essa senza dubbio allude il termine «informante» del testo. Il problema del moto dei pianeti, ciò nonostante, divenne particolarmente arduo quando, dopo Tycho Brahe, si negò l’esistenza delle sfere nelle quali si riteneva fossero infissi, anche perché un moto di rotazione in situ, che era quello che presentavano le sfere, era stato sempre considerato più naturale e pertanto meno problematico di quello della rivoluzione intorno a un centro. I tentativi di soluzione di Keplero, si trattasse delle anime motrici o dell’animaforza emanante dal Sole (Keplero, Mysterium cosmographicum, editio altera, 1621, in Gesammelte Werke, vol. VIII, p. 122), senza dubbio non parvero né soddisfacenti né accettabili a Galileo, posto che fosse giunto a conoscerli. In ogni caso, risulta evidente che egli non vedeva alcuna strada precisa verso una soluzione del problema. E, a mio giudizio, questo intervento di Salviati conferma gli argomenti della nostra nota precedente.

107 Questo argomento può considerarsi una replica a quello di Oresme che, come ho ricordato nella precedente nota 93, si serve appunto di questo esempio per distinguere tra il movimento naturale e l’impetus.

108 «Se dall’esterno, è per caso Dio che lo provoca con un continuo miracolo, oppure un angelo? l’aria? E molti a essa lo assegnano. Ma, per contro…»

109 Si veda Copernico, De revolutionibus, libro I, cap. VIII. Infatti Galileo segue molto fedelmente il testo di Copernico quanto all’aria vicina alla Terra. Si veda l’Introduzione, pp. 87-89.

110 Si noti l’aspetto saliente e, insieme, ambiguo dell’affermazione. In primo luogo, Galileo non intende responsabilizzarsi direttamente e pone l’affermazione in bocca a Copernico. In secondo luogo, a questo punto possiamo capire le reticenze di Galileo in tutta l’argomentazione della palla che cada dalla Luna. La sua stessa tesi lo portava ad ammettere che, per la sua natura terrestre, la palla dovesse condividere la rotazione diurna. Più ancora, nei paragrafi seguenti Galileo tornerà a insistere su questo punto. D’altra parte, sottolinea, ancora una volta, che è stato l’autore del libro commentato ad affermare tale rotazione della palla quando era vicina alla Luna. A questo punto, sembra confermato che Galileo non si sente a suo agio con l’esperimento mentale perché non sa quali siano le condizioni iniziali. Ignora se i corpi «terrestri» fuori dal loro ambito naturale continuerebbero a presentare le stesse proprietà dinamiche, né dove cessi quest’ambito naturale. Se la palla vicina alla concavità lunare non condivide più la stessa rotazione del suo tutto, continuerà ad avvertire la tendenza a riunirsi al suo tutto, vale a dire subirà la gravità? E perché? La distanza può forse causare cambiamenti ontologici? Semplicemente, Galileo non lo sa e, per sopperire, nelle righe seguenti assume un atteggiamento un tantino impertinente affermando che tutte le obiezioni in contrario crollano. In ogni caso, e tra altre difficoltà, Galileo ha ancora problemi con l’aria. Si veda l’Introduzione, pp. 92 ss.

111 «Sorgono conseguenze difficilissime, anzi inestricabili»… «Quel principio interno è o accidente oppure sostanza: se è la prima cosa, che cosa può essere? Poiché finora non pare sia nota alcuna qualità che faccia muovere circolarmente».

112 «Ma ammesso che esistesse, come potrebbe trovarsi in cose tanto contrarie? Tanto nel fuoco come nell’acqua? Nell’aria come nella terra? Nelle creature viventi come in cose inanimate?»

113 «Se fosse la seconda cosa (cioè, se tu dicessi che tale principio è una sostanza) essa è o materia o forma, o un composto. Però, nuovamente, sono incompatibili, nature così diverse fra loro come gli uccelli, le lumache, le pietre, le frecce, la neve, i vapori, le grandini, i pesci, eccetera, dal momento che tutte, nonostante la loro differenza quanto a specie e a genere, si muoverebbero circolarmente per la loro propria natura, sebbene questa sia diversissima, eccetera».

114 «Se per volontà di Dio la Terra fosse in quiete, le altre cose ruoterebbero o no? Se no, è falso che girino per natura; se invece ruotassero, si riproporrebbero i problemi precedenti. E sarebbe abbastanza sorprendente che, anche volendolo, il gabbiano non potesse avventarsi sul pesce, la allodola posarsi sul nido, o il corvo posarsi sulla lumaca o la pietra».

115 «Inoltre, come può essere che queste cose tanto diverse si muovano solo da occidente a oriente parallelamente all’equatore? E che sempre si muovano senza mai fermarsi?»

116 «Perché tanto più velocemente quanto più alte e tanto più lentamente quanto più basse?»

117 «Perché le cose più vicine all’equatore percorrono un cerchio maggiore e quelle più lontane un cerchio minore?»

118 «Perché una medesima palla all’equatore si muoverebbe intorno al centro della Terra percorrendo un cerchio massimo e con incredibile velocità, e al polo girerebbe intorno al proprio asse, senza circolazione alcuna e con suprema lentezza?»

119 «Perché la stessa cosa v.g. una palla di piombo se ha ruotato attorno alla Terra una volta descrivendo un cerchio massimo, non ruota in tutte le parti secondo questo cerchio massimo, bensì, tolta dall’equatore, lo fa in cerchi minori?»

120 «Se il moto circolare è naturale ai corpi gravi e ai leggeri, com’è quello in linea retta? Se infatti è naturale, come può essere naturale il moto circolare, essendo di specie diversa dal retto? Se è violento, come mai un razzo, salendo verso l’alto, muove la testa scintillante verso l’alto rispetto alla Terra, invece di farlo in circolo?»

121 «Perché il centro di una sfera che cada all’equatore descrive una spirale sul piano di questo, cadendo sotto altri paralleli descrive una spirale a cono, e al Polo discende lungo l’asse, percorrendo una linea circolare descritta intorno una superficie cilindrica?»

122 «Se tutta la Terra insieme con l’acqua, venisse annientata non cadrebbero dalle nuvole né grandine né pioggia, ma si muoverebbero naturalmente in cerchio; né il fuoco né alcunché di igneo ascenderebbe perché, secondo un’affermazione per essi non improbabile, al di sopra non c’è fuoco».

123 «Alle cui [conclusioni] tuttavia si oppongono l’esperienza e la ragione».

124 Si noti che, eliminata l’ironia e la comicità di questa cosmogonia, Galileo si attiene allo stesso criterio per l’ordinamento del mondo che aveva esposto con grande serietà nel De motu (si veda l’Introduzione, pp. 56-59 e 78-79.) E poco importa se lì il mondo significava il cosmo geometrico tradizionale mentre qui si tratta dell’universo copernicano indefinito. Dubito pertanto della supposta modernità che Sosio vede implicita nelle idee esposte in queste pagine.

125 «Una pietra situata al centro, o sale verso un qualche punto della Terra, o non lo fa. Nel secondo caso, sarà falso che le parti, per il mero fatto di essere separate dal tutto, si muovano verso questo. Nel primo caso, la ragione e l’esperienza tutte si oppongono, e i gravi non rimarrebbero fermi nel loro centro di gravità. Allo stesso modo, se una pietra sospesa e lasciata libera cadesse verso il centro, si separerebbe dal tutto, contrariamente a Copernico. Se restasse sospesa, entrerebbe in contraddizione con l’esperienza tutta, perché vediamo crollare interi archi».

126 Che fosse un punto indivisibile ad attrarre i gravi era proprio ciò che affermava Aristotele: «Il moto locale dei corpi naturali elementari – vale a dire fuoco, terra, eccetera – mostra non soltanto che il luogo è un qualcosa, ma anche che esercita una certa influenza… “All’insù” non indica una qualsiasi direzione casuale, bensì il luogo verso cui salgono il fuoco e ciò che è leggero. Allo stesso modo, “verso il basso” non indica una direzione qualsiasi, bensì il luogo verso cui si muovono le cose che pesano e quelle che sono fatte di terra. Ne consegue che tali luoghi non solo differiscono quanto a posizione, ma anche perché hanno poteri diversi» (Fisica, IV, 1, 208b 8-22). Galileo sta semplicemente opponendo ad Aristotele la propria teoria della gravità di origine platonica. Si veda la nota 38 alla Giornata prima e la p. 86 dell’Introduzione.

127 Galileo si serve qui della terminologia di Copernico, il quale conservava ancora le sfere materiali nelle quali erano infissi i pianeti, solo che nel suo caso essi si muovevano intorno al Sole e non alla Terra come nei sistemi aristotelico e tolemaico. Orbis magnus era il nome che Copernico aveva dato (De revolutionibus, I, 10) alla sfera nella quale era infissa la Terra, facendole compiere una rivoluzione in un anno. Noi parleremmo dell’«orbita terrestre». In Opere, VII, p. 406, Galileo lo definisce «cerchio massimo descritto nel piano dell’eclittica, fissa e immutabile».

128 «Non si accorge di fare il cerchio annuo minore del dovuto, o l’orbe terrestre molto maggiore del giusto».

129 Nell’esemplare già menzionato dell’edizione originale in possesso di Galileo, questi indica con una riga un margine gli interventi precedenti di Salviati e Simplicio e quello presente di Salviati fino a questo punto, e scrive di suo pugno la seguente postilla: «Qui è attribuito l’errore all’autor del libretto, ma veramente l’errore non vi è».

130 È, come abbiamo detto, Scipione Chiaramonti. Si veda l’Introduzione, pp. 68 ss.

131 «In primo luogo, se si accetta l’opinione di Copernico, sembra che il criterio della filosofia naturale, anche se non del tutto demolito, sia perlomeno gravemente compromesso».

132 Nel già menzionato esemplare di Galileo, questi scrive in margine: «E tanto è che il raggio della vista vadia dall’occhio all’antenna, quanto se una corda fusse legata tra due termini della nave: ora, cento corde sono a diversi termini fermate, e negli stessi posti si conservano, muovasi la nave o stia ferma».

133 «Con la Terra si muove l’aria circostante. Tuttavia il suo movimento, benché sia più veloce e rapido del vento più veloce, non sarebbe percepito da noi, ma anzi verrebbe considerato come una somma calma se non si aggiungesse un altro movimento. Quando mai si potrebbe dire che i sensi ci ingannano, se non in un caso come questo?»

134 «Inoltre anche noi ruotiamo a causa della circonvoluzione della Terra, eccetera».

135 Questa espressione indubbiamente ci riporta ai «sensibili propri». Aristotele (De anima, II, 6, 418a 6 ss.), nella sua teoria della sensazione e percezione aveva distinto le sensazioni tra quelli che i latini in seguito avrebbero chiamato «sensibili comuni» (vale a dire le componenti comuni a tutti i sensi, che sono il movimento, la quiete, il numero e l’unità, la figura, il volume e forse il tempo) e i «sensibili propri», vale a dire peculiari a ciascun senso. A questi ultimi si riallaccia l’espressione «sensazioni proprie» di Simplicio. In questo caso, risulterebbe che il tatto non percepirebbe che siamo trascinati o trasportati. La tradizione aristotelica affermava che le sensazioni comuni non sono attributi essenziali dei corpi, come invece le sensazioni proprie, ma appartengono alla quantità in quanto quantità, ragion per cui i sensi ne sono facilmente ingannati. Galileo non solo sottopone a brillante critica questa tesi, ma ribalta anche radicalmente il senso della distinzione, con le conseguenze ontologiche e metodologiche ben note e di somma importanza. La distinzione galileiana tra qualità primarie e secondarie, in cui ci imbattiamo in tutta la filosofia moderna, coincide con quella tradizionale ma ne ribalta radicalmente e definitivamente il senso ontologico e metodologico. Quelli che nella visione aristotelica erano attributi essenziali della natura, ora sono secondari e soggettivi, mentre quelli che Aristotele considerava accidentali, estranei alla natura fisica, adesso diventano le sue qualità primarie, quelle che realmente caratterizzano e costituiscono la natura. La realtà naturale è quindi costituita da ciò che è misurabile, matematizzabile, e per questo la fisica esige la matematica per il suo studio. Per la critica alla distinzione aristotelica, si veda Opere, III, pp. 390 ss.; per la distinzione galileiana, Opere, VI, pp. 347 ss. Si può vedere anche A. Beltrán, 1983, pp. 128 ss.

136 «Secondo questa opinione, è dunque necessario diffidare dei nostri sensi, come totalmente fallibili e ottusi nel giudicare le cose sensibili, anche le più vicine. Quale verità possiamo dunque sperare che derivi da una facoltà tanto ingannevole?»

137 «Comprender co ’l senso», dice Galileo. Più avanti, soprattutto nella Giornata terza, vedremo che Galileo usa «comprender» anche nel senso di «afferrare» (come in qualche passo precedente, Opere, VII, p. 273) che include anche il cogliere tramite i sensi. Pur intendendo qui il termine in questo senso, il problema epistemologico non scompare, ed è chiaro che questo intero paragrafo è un testo cruciale che illustra chiaramente uno dei punti fondamentali della differenza tra l’empirismo ingenuo della prospettiva aristotelica e l’atteggiamento galileiano, nel quale il rapporto tra teoria ed esperienza è assai più complesso ed elaborato. Testi come questo hanno permesso a Koyré di decidere che la scienza moderna è venuta in essere, contrariamente a quanto affermava l’aristotelismo, «nonostante», «in contraddizione con» l’esperienza. Per un commento più ampio, mi permetto di rinviare ad A. Beltrán, 1983, pp. 111 ss. Tuttavia vedremo che, nell’ambito dell’astronomia, Galileo non mantiene lo stesso atteggiamento di cui dà prova nel campo della fisica, illustrato da questo passo.

138 «Dalla natura delle cose».

139 Sebbene così appaia nell’originale del 1632 e nel testo di Favaro, senza indicazione alcuna, sembra chiaro che la ripetizione è semplicemente un errore. Sosio lo menziona ed elimina la ripetizione.

140 Il testo è tradotto nell’intervento immediatamente precedente di Simplicio, là dove dice «immaginiamo con Copernico…». La ripetizione, come si vede, ha una funzione retorica.

141 Oltre ai moti di rotazione e rivoluzione, Copernico aveva ritenuto necessario attribuire alla Terra un terzo movimento – in realtà due – perché l’asse di rotazione terrestre restasse parallelo a se stesso, per spiegare così la variazione stagionale e la precessione degli equinozi (Copernico, 1979, libro III, cap. 3, pp. 375-378). In una nota alla seconda edizione del Mysterium cosmogruphicum (libro III, cap. 1, nota 8) già Keplero rifiutava la tesi copernicana dicendo che: «quello che era qui considerato il terzo [moto] è in realtà una immobilità dell’asse della Terra in una posizione parallela, mentre la Terra si muove intorno al Sole» (Keplero, Gesammelte Werke, vol. VIII, p. 41). Due anni dopo, Galileo nel Saggiatore espone un argomento simile, dicendo che «falsamente veniva da esso Copernico attribuito un terzo moto alla Terra, il quale non è altramente un muoversi, ma un non si muovere ed una quiete» (Opere, VI, p. 326). Come vedremo, nella Giornata terza (Opere, VII, pp. 424-425) Galileo ritorna sullo stesso argomento.

142 Non so se il lettore condivida l’opinione di Galileo. Abbiamo già visto nell’Introduzione (v. p. 70) che i suoi amici non erano molto d’accordo nel ritenere che gli argomenti di Chiaramonti meritassero tanta attenzione.

143 Il 25 luglio 1610 Galileo compì le prime osservazioni di una «stravagantissima meraviglia», e cioè «che la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di 3, le quali quasi si toccano, né mai tra di loro si muovono o mutano; et sono poste in fila secondo la lunghezza del zodiaco, essendo quella di mezzo circa 3 volte maggiore delle altre 2 laterali». Per evitare problemi di priorità, annunciò la sua scoperta a Keplero con il seguente anagramma Smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras, la cui soluzione, che Keplero non trovò, è: Altissimum planetam tergeminum observavi, vale a dire: «Osservai che il pianeta più alto era triplice». Nel corso del tempo, Galileo andò correggendo leggermente le sue opinioni iniziali. Così, il 13 novembre 1610 ripeteva che erano tre stelle «tra di loro totalmente immobili» e aggiungeva che «non sono giustamente secondo la drittura del zodiaco, ma la occidentale si eleva alquanto verso borea; forse sono parallele all’equinotiale». Il 3 settembre 1616, però, scrive che «li due compagni del quale [Saturno] non sono più due piccoli globi perfettamente rotondi, come erano già, ma sono di presente corpi molto maggiori, et di figura non più rotonda, ma [con] due mezze ecclissi [ellissi] con due triangoletti oscurissimi nel mezzo di dette figure, et contigui al globo di mezzo di Saturno, il quale si vede, come sempre si è veduto, perfettamente rotondo». Tuttavia, già il 1° dicembre 1612, ancorché sconcertato per i successivi cambiamenti di aspetto del pianeta, Galileo faceva congetture circa la futura illuminazione di Saturno da parte del Sole visto dalla Terra e non esitava ad affermare che il caso di questo pianeta, come quello di Venere, concordava in «maniera ammirabile con il grande sistema copernicano, alla cui universale affermazione vediamo condurci venti propizi con scorte così sicure che non si debbano più temere tenebre od ostacoli». Se si osservano le figure tracciate successivamente da Galileo, si potrebbe pensare che si stesse avvicinando alle nostre osservazioni degli anelli di Saturno, ma in realtà non giunse mai a vederli. Il primo che riconobbe gli anelli come tali fu Huygens nel 1655, De Saturni Observatio Nova (1656), grazie alla costruzione di un telescopio molto migliore di quello usato da Galileo.

144 Fu questa effettivamente la linea di difesa adottata in un primo momento da alcuni oppositori di Galileo e difensori della scienza tradizionale, i quali approfittavano della confusione e ignoranza che ancora regnava nella teoria ottica. Galileo, che in questo campo non aveva ancora superato gli schemi tradizionali (e non conosceva i fondamenti della nuova ottica di Keplero), non accetta mai la discussione sul terreno teorico, ricorrendo alla pratica e alle osservazioni compiute con i suoi telescopi che, in questa fase iniziale, erano senza dubbio migliori di quelli dei suoi contestatori, quando si degnavano di servirsene. Una breve sintesi delle critiche iniziali alle scoperte telescopiche di Galileo è reperibile in A. Beltrán, 1983, pp. 67-82.

145 «È più difficile accrescere l’accidente al di là della misura del soggetto, che non accrescere il soggetto senza l’accidente. Pertanto, Copernico si comporta con maggior verosimiglianza, nell’ampliare l’orbe delle stelle fisse togliendogli il moto, di quanto faccia Tolomeo, che accresce il moto dell’orbe delle stelle fisse con immensa velocità». Drake fa notare che il passo è un’attenuazione della critica più pungente di Keplero esposta nel De stella nova in pede Serpentarii, Praga, 606, p. 86.

146 Si notino la gravità e importanza di questa affermazione. Il fatto che essa si presenti ammantata di rigore logico non riesce a nascondere la sua audacia se teniamo conto delle limitazioni alle quali Galileo era costretto dall’ordine papale. È opportuno ricordare che, alla fine del XVI secolo, il matematico noto come Ursus aveva proposto un sistema identico a quello di Tycho Brahe, con la differenza che attribuiva alla Terra centrale un moto di rotazione diurna. Poco importa qui se si ispirò Copernico o plagiò Tycho, o le due cose insieme. Sarebbe invece opportuno stabilire che cosa si intende per moto della Terra (se unico o più di uno) e chiarire se in questo contesto si debba intendere per posizione copernicana e tolemaica soltanto la rispettiva presa di posizione circa il moto diurno. Ma, anche ammettendo che questo punto di vista fosse impeccabile, soprattutto se è come Galileo lo dà per assodato, il suo sarebbe un atteggiamento estremamente temerario. Con questo punto di vista, infatti, Galileo contravviene in modo chiarissimo all’ordine di trattare della teoria copernicana solo in modo ipotetico. Certo Galileo non sta affermando che sia verità, però afferma che non è in alcun caso o una mera ipotesi nel senso di un mero strumento più o meno utile per salvare i fenomeni, ma senza nessuna pretesa di corrispondere ai fatti, senza nessuna pretesa di descrive il mondo qual è, in altre parole senza nessun rapporto con la verità o falsità. Questo è il significato di ipotesi al quale Galileo doveva attenersi secondo i censori. Pare evidente che qui Galileo cade nella soverchia arditezza di voler «limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare», come dice esplicitamente l’argomento che il papa lo obbliga a includere nel finale del Dialogo (Opere, VII, p. 488). Ma il punto di vista di Galileo, non soltanto contraddice espressamente l’argomento papale, cosa non certo da poco, ma si pone anche in contraddizione con la filosofia della scienza adottata in queste questioni dalla Chiesa. Sono vere o false solo le teorie che si occupano del mondo, ma nella filosofia fenomenistica adottata dalla Chiesa le teorie astronomiche non sono tali, bensì meri espedienti per il calcolo più o meno utili per formulare predizioni ed elaborare un calendario il più esatto possibile. Tuttavia qui Galileo non mette le teorie geocentriche ed eliocentriche in rapporto con la loro utilità – peggio ancora, sottomette solo due di esse, quella accettata dalla Chiesa e l’altra condannata – all’alternativa tra verità o falsità, sicché la neutralità pretesa dal papa risulta impossibile. Nella prospettiva filosofica della Chiesa, la neutralità non dipendeva dall’astronomo, bensì dalla natura delle cose; non era un’astensione o una sospensione del giudizio, bensì un imperativo epistemologico oggettivo. Non era l’astronomo che benevolmente non si pronunciava circa la verità o falsità delle teorie, ma erano le teorie che non erano né vere né false e facevano sì che l’affermazione dell’astronomo non avesse senso. Quella che era stata imposta a Galileo era una filosofia della scienza, non già l’epoché scettica. Non pare tuttavia che i censori, almeno in un primo momento, avessero letto con molta attenzione queste affermazioni, e poco importa qui se, come si è detto nell’Introduzione, la Chiesa facesse professione di fenomenismo proprio quando affermava dogmaticamente la verità del geocentrismo e del geostatismo.