VII. Le origini dell’animismo infantile. Necessità morale e determinismo fisico

Tre discussioni preliminari sono indispensabili per trattare delle origini dell’animismo infantile. Occorre anzitutto precisare sotto quale forma si presentino le manifestazioni spontanee dell’animismo nel fanciullo. Bisognerà dunque raggruppare in un primo paragrafo i pochi dati di osservazione pura che abbiamo potuto raccogliere (in opposizione ai dati forniti dall’interrogatorio); poi analizzare la sola credenza insieme sistematica e spontanea che i nostri precedenti interrogatori hanno messo in luce (la credenza infantile secondo la quale il sole e la luna li seguono); in terzo luogo esaminare quale specie di necessità (necessità morale o determinismo fisico) il fanciullo attribuisca ai movimenti regolari, alle leggi della natura. Lo studio dell’obbedienza del sole e della luna servirà di introduzione a questa ricerca piú generale, indispensabile per l’analisi delle origini dell’animismo. Potremo allora concludere con un saggio sulle origini dell’animismo infantile.

  1.L’animismo spontaneo nel fanciullo

Gli studi di psicologia e pedagogia offrono numerosi tratti spontanei di animismo che si sarebbero trovati nel fanciullo. Non li citeremo tutti, perché sarebbe noioso, e soprattutto perché non tutti gli esempi hanno egual valore. L’animismo nel giuoco (personalizzazione delle bambole) costituisce, in particolare, un problema a sé, di cui per ora non parleremo.

Cominciamo con alcuni ricordi di adulti. I ricordi dei sordomuti sono particolarmente importanti in quanto mostrano quali tonalità affettive possa prendere l’animismo in fanciulli che non hanno ricevuto traccia di educazione religiosa.

James68 cita il caso di un sordomuto diventato professore (T. d’Estrella) e che ha raccontato i suoi ricordi (in terza persona): «Nulla eccitava la sua curiosità quanto la luna. Egli ne aveva paura; tuttavia gli piaceva osservarla. Osservò dunque il volto sfumato che presenta la luna piena. Poi suppose che fosse un essere vivente. Tentò allora di provare se lo era veramente o no, e intraprese questa indagine seguendo tre vie diverse. Per prima cosa scrollò il capo a destra e a sinistra, tenendo gli occhi fissi alla luna. E gli parve che questa seguisse i movimenti della sua testa, salendo e scendendo, avanzando e indietreggiando. Pensò quindi che anche le luci fossero vive, poiché rifece su di esse esperienze simili. In secondo luogo, quando camminava all’aperto, guardava se la luna lo seguiva. Il disco sembrava seguirlo dovunque…»69

Un altro sordomuto, pure studiato da James,70 diceva del sole e della luna: «Avevo per questi astri una specie di venerazione, a causa del loro potere di illuminare e riscaldare la terra». Piú tardi: «Mia madre mi parlò di un Essere lassù in alto, mostrandomi col dito il cielo, e con uno sguardo solenne. Desiderando sapere di piú, la bombardai di domande per sapere s’era il sole o la luna o le stelle».71

Nei ricordi di fanciulli normali l’animismo, com’è comprensibile, ha tutt’altra tonalità affettiva. È frequente trovare, ad esempio, ricordi del genere di questi:

Una di noi ricorda di essersi imposta, da fanciulla, i seguenti obblighi. Quando per caso urtava contro un ciottolo semiaffondato nella terra, lo rimetteva a posto, perché pensava che non tollerasse di essere stato spostato. O ancora, quando portava a casa un fiore o una pietra, prendeva sempre numerosi fiori o pietre, affinché nessuno di loro si annoiasse e conservasse la sua compagnia abituale.

Un’altra si costringeva di tanto in tanto a spostare i sassi del sentiero, affinché non avessero sempre davanti agli occhi lo stesso paesaggio. Quest’ultimo ricordo concorda interamente con quello di Miss Ingelow, ricordato da Sully.72

Ma tralasciamo gli esempi, per passare ai discorsi e alle domande direttamente osservati. È risaputo che le domande dei fanciulli denotano molto spesso un’attitudine animistica e che, in generale, lo spettacolo del moto spinge il fanciullo a porre le domande relative. Stanley Hall, in particolare, ha confermato l’osservazione di Sully che, per il fanciullo che interroga, la vita è assimilata al moto.73 Egli ha anche notato che i fanciulli, anche quelli in possesso dell’idea di Dio, attribuiscono alle cose un’intensa forza di organizzazione.74 Hall ha rilevato, per esempio, queste domande relative al vento:

Fanciullo di 6 anni: «Che cos’è che fa soffiare il vento? C’è qualcuno che lo spinge? Pensavo che dovesse fermarsi quando batte contro una casa o contro un albero». E infine: «Lo sa che fa girare i nostri fogli [di carta]?»75

Quest’ultima domanda si ritrova, nei fanciulli della stessa età, a proposito di altri oggetti in moto:

DEL a 6 anni e ½ vede una pallina rotolare nella direzione della signorina V., su un terreno in pendio: «Che cos’è che la fa camminare? – Cammina perché la terra non è piana: è in pendenza e perciò rotola. – Sa [la pallina] che lei è laggiú76

Alla stessa età abbiamo notato discussioni di questo genere:

LEV (6 anni), guarda ciò che fa HEI (6 anni): «Due lune. – No, due soli. – I soli non sono come li hai fatti tu con una bocca. Sono cosí. – I soli sono rotondi. – Sono rotondi, ma non hanno né occhi né bocca. – Ma si, vedono. – Ma no, è soltanto Dio che vede».77

Rasmussen78 ha notato nella figlia R., all’età di 4 anni, la credenza che la luna ci segua, credenza che abbiamo già notato piú volte e che studieremo sistematicamente nel prossimo paragrafo:

R. a 4 anni, scorgendo la luna: «È la luna, è rotonda… Cammina quando noi camminiamo». Poi, quando una nube nascose la luna: «Ecco che l’hanno uccisa». Dissero a R. che la luna non si muove e che è solo una impressione. Ma R. dopo tre giorni: «Di tanto in tanto la luna scompare: forse e andata a vedere la pioggia nelle nubi. O che abbia freddo»

Le domande dei fanciulli di 5-6-7 anni vertono molto spesso sulla morte e, a questo proposito, testimoniano di un tentativo di definizione della vita. Abbiamo ricordato nel capitolo VI (§ 2) la domanda di Del (Sono morte, queste foglie? – Sí. – Ma se si muovono col vento!), che mostra molto bene l’assimilazione della vita al moto.

Quanto ai fanciulli piú piccini, il loro animismo è molto piú implicito e non formulabile. Essi non si chiedono né se le cose sanno ciò che fanno, né che cosa è vivo e cosa è morto, poiché l’animismo non è stato ancora messo in dubbio in nessun punto particolare. Si limitano a parlare delle cose in linguaggio umano, a prestar loro volontà, attività cosciente, desiderio. Ma il grosso problema, in ogni caso, è sapere fino a che punto queste espressioni si accompagnino a credenze o siano semplicemente verbali. Ora, su questo punto, non è possibile interrogare i fanciulli, e il solo modo di sincerarsene è l’osservazione vigile del comportamento del fanciullo oltre che delle sue parole. Ecco, ad esempio, una bimba che trova la bambola con gli occhi caduti nell’interno della testa: disperazione, pianti; le promettono che la bambola sarà portata dal fabbricante per essere aggiustata. Per tre giorni la bimba domanda coi piú chiari segni di inquietudine se la bambola stava male, se soffrirà mentre l’aggiusteranno.

Ma, nella maggior parte dei casi, il comportamento offre dati molto meno chiari. Il procedimento migliore quando un’espressione verbale sembra animistica, consiste allora nel vedere, confrontando diversi discorsi dello stesso fanciullo, quale sia l’impiego esatto che il fanciullo fa di quell’espressione. Ecco un esempio del metodo, applicato all’uso delle interrogazioni «chi» e «che cosa». In realtà, è un fenomeno interessante, nei fanciulli di 2-3 anni, l’uso del «chi» per indicare le cose, quasi fossero persone: «chi è quel treno?» Animismo, o semplice economia verbale?

NEL (2;9) conosce il termine «che cosa», come provano le seguenti domande: «che cos’è, quello?» [un secchio per le immondizie]; «che cosa sono quelle là, delle scatole?» [scatole di cartone]; «che cosa fai lí?» «che cos’è questo?» [una carriola dimenticata in un angolo e rovesciata]. Le stesse domande per i cocci di un piatto, per una pietra, per un sorbo, per un prato, per una fontana asciutta, per un tronco d’albero, per il muschio, per dei gelsi, per un disegno. Come si vede, le cose indicate mediante il «che cos’è» sono unicamente oggetti immobili. Nel applica il «chi»: 1) Alle persone: «chi suona la musica?» «chi ha prestato [quella matita]?» 2) Agli animali: vacche, cani ecc., la domanda «chi grida?» è stata notata a proposito di galline, merli, stornelli, corvi, civette ecc., che Nel non aveva sotto gli occhi o che non vedeva. Davanti a una cavalletta, disse: «Cavalletta? chi è?» [che cosa è una cavalletta?] 3) Ai treni: «chi è?» [rumore di treno]; «chi è qulutomobile fa la nannae treno?» [Nel senza dubbio vuol dire «è un treno», ma il «chi» non è meno esplicito]. 4) Alle barche: «chi è?» [una grande barca che Nel vede sul lago e non ha la forma dei battelli che è solita vedere]. 5) Ai rumori meccanici: «chi è che grida?» [un’automobile]; «chi è che spara?» [un fucile]; «chi fa pum?» [id.]. E vero che in questo ultimo caso Nel vuol forse chiedere chi è stato a sparare o chi è l’autista ecc., ma è poco probabile che questa spiegazione valga per tutti i casi di questo genere. 6) All’acqua: «chi ha sporcato? È stata la pioggia [a sporcare] il camino?» 7) Ai ciottoli rotondi e lisci: «chi è? [un sasso sul quale Nel ha sputato] chi è questo, ci ho sputato sopra!»

Sembra dunque che Nel attribuisca il «chi» a tutti gli oggetti in moto e sia cosí portata ad animarli. Abbiamo del resto constatato dei «chi» applicati ai fiumi (al Rodano, al lago) fin verso i 7 anni. Certo, l’uso del «chi», da solo non dimostra nulla. Ma, ed è questo che ci rimane da osservare, gli stessi corpi in moto dànno luogo, nel fanciullo di tenera età, a innumerevoli espressioni animistiche, il cui accumularsi sembra indicare un orientamento dello spirito e non solo un modo di dire metaforico:

CLI (3;9): «L’automobile fa la nanna [in un’autorimessa]. Non esce a causa della pioggia».

BAD (3 anni): «Le campane si sono svegliate o no?»

NEL (2;9) vedendo un castagno tutto scavato: «Non ha pianto, il tronco [quando gli hanno fatto quel servizio]?» E parlando di una pietra: «Non toccare il mio giardino, il mio giardino piangerebbe». Nel lancia un sasso nella direzione di un prato in salita. Il sasso torna indietro: «Vedi, la pietra? Ha paura dell’erba».

Nel si è graffiata contro un muro. Guarda la mano: «Chi è stato a graffiare la mano?… Mi fa male. È stato il muro a battermi».

DAR (1;8 fino a 2;5) avvicina alla finestra la sua piccola automobile e dice: «Auto vedere neve». Una sera, un quadro rappresentante delle persone che lui conosce cade a terra. Dar si mette a sedere sul letto e piangendo grida: «Mamme [signore] per terra, male!» Dar guarda delle nubi grige. Gli dicono che sta per piovere: «Oh, ecco il vento. Birbante di un vento, far pan pan al vento [frustare il vento]. – Credi che gli faresti male, al vento? – Si». Dopo qualche giorno: «Birbante di un vento. No, non cattivo. Cattiva la pioggia. Buono il vento. – Perché la pioggia è cattiva? – Perché mamma spinge carretto e carretto tutto bagnato». Dar non può dormire. Dietro sua richiesta, lasciamo la luce accesa: «E buona la luce». Un mattino d’inverno, mentre il sole entra nella sua camera: «Oh, che bello. Il sole viene a scaldare il calorifero!»

In questi ultimi esempi si può notare la tendenza del fanciullo, già osservata da Sully, a considerare gli oggetti della natura come ragazzacci buoni o cattivi a seconda della loro attività.

Ognuno di questi casi è, evidentemente, discutibile. Ma la costanza dello stile prova perlomeno quanto poco i fanciulli si preoc cupino di differenziare le cose dagli esseri viventi. Ogni cosa in movimento è descritta in termini di coscienza. Ogni avvenimento è descritto in termini di azione intenzionale. «Il muro che mi ha battuto» è indicativo della tendenza infantile a concepire ogni resistenza come voluta. Riconosciamo che l’analisi diretta di queste espressioni è difficile; ma, e questo ci sembra l’argomento piú solido, queste espressioni devono pur emanare da un animismo latente, poiché solo verso i 5-6 anni i fanciulli cominciano a far domande sulla vita e sulla coscienza delle cose, mentre prima queste questioni non turbavano affatto il pensiero infantile, come se la loro soluzione venisse naturale senza che il problema si ponesse.

In conclusione, troviamo due periodi nell’animismo spontaneo dei fanciulli. Il primo, che giunge fino verso i 4-5 anni, è caratterizzato da un animismo integrale e implicito: qualunque cosa può essere momentaneamente sede di un’intenzione o di una attività cosciente, secondo le resistenze o gli urti che colpiscono lo spirito del fanciullo (un sasso che rifiuta di lasciarsi lanciare su un pendio, un muro che fa male ecc.). Ma questo animismo non pone alcun problema al fanciullo. Esso si risolve da solo. Invece, dai 4 ai 6 anni, le domande in merito si pongono indicando che questo animismo implicito è, in parte, in via di sparizione, e di conseguenza, in parte in via di sistematizzazione intellettuale. A questo punto è possibile interrogare il fanciullo, e cominciano gli stadi la cui successione abbiamo studiato negli ultimi due capitoli.

  2.Il sole e la luna ci seguono

L’animismo di cui sono testimonianza le domande e i discorsi dei fanciulli di 5-7 anni nasce essenzialmente in occasione di fenomeni casuali, che il fanciullo non comprende proprio perché fortuiti. Ma, per il fatto stesso che questi fenomeni sono i soli che colpiscono l’attenzione del fanciullo, l’animismo spontaneo può sembrare poco esteso. Non è cosí. Nel corso del seguente paragrafo vedremo che il fanciullo si rappresenta il mondo come una società di esseri ubbidienti a leggi morali e sociali. Non v’è ragione, quindi, perché le domande animistiche debbano essere numerose: infatti, come già abbiamo visto,79 è l’eccezione che colpisce e costituisce un problema.

Se tale è la situazione, si devono trovare nel fanciullo delle credenze animistiche tacite, ma non per ciò meno sistematiche. È quel che cercheremo di dimostrare ora, analizzando una credenza il cui studio farà da anello di congiunzione fra l’analisi dell’animismo spontaneo e l’analisi del tipo di necessità che il fanciullo attribuisce alle leggi naturali. Si tratta della credenza secondo la quale il fanciullo si considera come costantemente seguito dal sole e dalla luna. Per quanto possiamo giudicare dai numerosissimi fanciulli che abbiamo esaminato a Ginevra, Parigi e altrove, questa credenza sembra essere generale, e perciò molto spontanea. Del resto, nel paragrafo precedente abbiamo ricordato come la bimba di Rasmussen (4 anni) e il sordomuto di James l’abbiano entrambi presentata. Abbiamo già visto, allo stesso modo, numerose manifestazioni spontanee di quest’idea nel corso dei nostri interrogatori sull’animismo. I fanciulli di cui riporteremo ora le risposte non sono stati interrogati da noi sull’animismo. Sono nuovi soggetti, interrogati appositamente sugli astri, o sulla causa del moto ecc.

La tecnica da seguire per non suggestionare il fanciullo è estremamente semplice. Si chiede al fanciullo: «Quando cammini, che cosa fa il sole?» Se il fanciullo crede che il sole lo segua, risponderà subito: «Ci segue». Se non ha questa credenza, la domanda è troppo vaga perché debba suggerirgli qualcosa, e il fanciullo risponderà: «Ci illumina, ci riscalda» ecc. Si può anche domandare: «Il sole si muove?»; il che basta spesso a far parlare spontaneamente il fanciullo.

Abbiamo riscontrato tre stadi. Durante il primo, il fanciullo crede che il sole e la luna lo seguano, come farebbe un uccello sui tetti. Questo stadio va in media fino agli 8 anni, ma può avere anche dei rappresentanti fino a 12 anni. Durante un secondo stadio, il fanciullo ammette contemporaneamente che il sole ci segua e non ci segua. Abbiamo qui una contraddizione che il fanciullo subisce e cerca di eliminare come può: il sole è immobile, ma i suoi raggi ci seguono; oppure il sole resta fermo al suo posto, ma ruotando in modo da guardarci sempre ecc. L’età media dei fanciulli appartenenti a questo stadio si aggira intorno agli 8-10 anni. Infine, dopo i 10-11 anni in media, il fanciullo sa che il sole e la luna «sembrano» soltanto seguirci, ma che si tratta di un’illusione dovuta alla lontananza degli astri. Dal punto di vista dell’animismo, che solo ci interessa per ora, i due primi stadi sono animistici, il terzo segna, in genere, la sparizione dell’animismo relativo agli astri. Durante il primo stadio, il fanciullo attribuisce coscienza e volontà al sole e alla luna francamente e senza reticenze.

Ecco alcuni esempi del primo stadio.

JAC (6 anni): «Il sole si muove? [queste parole segnano l’inizio dell’interrogatorio: prima non abbiamo chiesto a Jac se non il nome e l’età] – Si, quando si cammina, ci segue. Quando giriamo, esso pure gira. Non segue mai Lei? – Perché si muove? – Perché, quando si cammina, esso cammina. – Perché cammina? – Per ascoltare ciò che diciamo. – È vivo, il sole? Oh, certo, altrimenti non potrebbe seguirci né brillare». Dopo un momento: «La luna si muove? – Sempre quando si cammina, e molto piú del sole, perché quando corriamo corre, mentre il sole, quando corriamo, cammina. La luna, infatti, è piú forte del sole, va piú veloce. Il sole non riesce mai ad acchiapparla. [Infatti l’illusione è molto piú netta con la luna che con il sole.] – E quando non camminiamo? – La luna si ferma. Ma quando mi fermo io, un altro corre. – Se tu corri e un tuo compagno corre nel senso opposto, che cosa succede? – Va con l’altro». Alla fine dell’interrogatorio, che in seguito si è svolto sulla causa del moto in generale, domandiamo: «Come si muove, oggi, il sole? – Non si muove perché noi non ci muoviamo. Ah, si, deve muoversi, perché si sente un carro».

BOV (6;5): «Quando cammini, che cosa fa il sole? – Viene con me. – E se poi torni a casa? – Va con un altro. – Nel senso in cui andava prima? – Oh, anche in un altro senso. – Può andare in tutti i sensi? – Si. – Può andare dove vuole? – Si. – E quando due vanno in senso contrario? – Ci sono molti soli. – Li hai visti tutti, questi soli? – Si, piú ce n’è, piú cammino e piú ne vedo». Un momento dopo: «La luna si muove? – Si. Quando, di sera, voglio andare in riva al lago, e sono fuori, la luna viene con me. Se voglio prendere il battello, la luna viene con me, come il sole, che viene anche, quando non è tramontato».

CAM (6 anni) dice del sole: «Viene con noi perché ci guarda. – Perché ci guarda? – Guarda se si è buoni». La luna viene, di notte, «perché ci sono delle persone che vogliono lavorare. – Perché la luna si muove? – È ora di andare a lavorare. E lei viene. – Perché si muove? – Perché va a lavorare con la gente. – Lo credi? – . – Lavora, lei? – Guarda se si lavora bene».

HUB (6½): «Che cosa fa il sole quando cammini? – Si muove. – Come? – Viene con me. – Perché? – Per illuminare, perché ci si veda. – Come fa il sole a venire con te? – Perché lo guardo. – Che cosa lo fa camminare, quando viene con te? – Il vento. – Il vento sa dove vai? – Si». «Quando cammino, dove va il sole? – Cammina con Lei. – [Mostriamo a Hub due signori che camminano in senso opposto.] Vedi? se tu vai là e io resto qui, che cosa farà il sole? – Il sole andrà con Lei. – Perché? – Con me…»

JAC (6½): «Che cosa fa la luna quando si cammina? – Cammina insieme con noi. – Perché? – Perché è il vento che la fa camminare. – Il vento sa dove andiamo? – Si. – E la luna? – Si. – Viene con noi spontaneamente o è obbligato a farlo? – Viene con noi per illuminarci». «Dove sei andato a passeggio? – Sulla Plaine [la Plaine de Plainpalais, una passeggiata pubblica], e la luna veniva con me, – Ti vede? – . – Sa quando vai a passeggio alla Plaine? – . – Le interessa? – Sí, l’interessa. – Sa il tuo nome? – No. – E il mio? – No. – Sa che esistono le case? – Si. – Sa che io ho gli occhiali? – No».

SAR (7 anni): «Che cosa fa il sole quando tu vai a passeggio? – Si muove. Quando io non mi muovo, non si muove neanche lui. E anche la luna. – E se tu torni indietro? – Ritorna anche lui».

KENN (7 anni): «Hai già visto la luna? – Si. – Che cosa succede? – Ci segue. – Ci segue sul serio? – Si. – Ma non cammina! – No. – Allora non ci segue? – Ci segue. – Perché ci segue? – Per indicarci la strada. – Conosce la strada? – Si. – Quale strada? – … – Conosce le strade di Ginevra? – . – Quella del Salève? – No. – Quelle di Francia? – No. – E con le persone di Francia che cosa fa, la luna? – Le segue. – C’è anche là la luna? – Si. – La stessa di questa? – No, un’altra».

Abbiamo visto il caso di GIAMB a 7 anni, a proposito della magía (cap. IV, § 2). L’abbiamo potuto riesaminare a 8 anni e mezzo: credeva sempre di essere seguito dagli astri, «Quando cammini, che cosa fa il sole? – Ci segue. – E la luna? – Anche, come il sole. – Se qualcuno viene in senso contrario al tuo, chi seguirà? – Segue l’uno e poi, quando ritorna, segue l’altro».

BLOND (8 anni): «La luna cammina con noi, ci segue. – Ci segue veramente, oppure sembra soltanto che ci segua? – Ci segue per davvero».

SART (12½): «La luna può fare ciò che vuole? – Si, quando camminiamo, ci segue. – Ti segue, o non si muove? – Mi segue. Si ferma se io mi fermo. – Se io pure cammino, chi seguirà? – Me. – Chi? – Lei. – Credi che segua tutti? – . – Può essere dovunque nello stesso tempo? – …»

È chiaro quanto spontanee siano queste risposte. La controsuggestione non ha alcun potere. Il problema di sapere se gli astri ci seguano realmente o soltanto in apparenza non è capito. La domanda dei due signori che passeggiano in senso opposto svia il fanciullo, ma non gli fa cambiar parere. Le risposte seguenti, del secondo e terzo stadio, mostrano, per contrasto, fino a che punto le risposte precedenti denotino una credenza radicata e sistematica.

Ecco alcuni esempi del secondo stadio: gli astri ci seguono pur restando fermi.

SART (11;5): «La luna si muove? – Sí. – Quando camminiamo, che cosa succede? – La vediamo tutto il tempo camminare. – Ci segue o no? – Ci segue perché è grossa. – Cammina o no? – Si. – Quando la luna ci segue, si muove o no? – … Non so». Sart, logicamente, non capisce: da una parte, ha l’impressione che la luna ci segua, e, dall’altra, l’impressione che essa non si muova. Sart non giunge a far la sintesi.

LUG (12;3) non si accontenta, come Sart, di due credenze contradittorie simultanee, ma cerca di conciliarle: «Che cosa fa la luna, quando camminiamo? – Ci segue. – Perché? – I suoi raggi ci seguono. – Si muove? – Si muove, ci segue. – Dimmi dunque… [esempio dei due signori che camminano in senso inverso]. – Sta ferma. Non può seguire tutti e due. – È già accaduto che non ti segua? – Talvolta, quando si corre. – Perché? – Perché si va troppo forte. – Perché ci segue? – Per vedere dove si va. – Ci vede? – Si. – Quando ci sono molte persone in città, che cosa fa? – Segue un altro. – Chi? – Molti. – Come? – Coi suoi raggi. – Li segue per davvero? – Si direbbe che siamo noi e si direbbe che è la luna. – Si muove? – Si muove. – Come fa? – Sta ferma e i suoi raggi ci seguono [!]».

BRUL (8 anni): «Che cosa fa il sole, quando camminiamo? – Ci segue. – Perché? – Per illuminarci. – Ci vede? – Si. – Allora cammina? – No, non si direbbe. – Allora, che cosa ci segue? – Ci segue, ma rimane al suo posto [!]. – Come succede, questo? – Quando si cammina, se ci si volta, è ancora sulla nostra testa. – Come? – Quando le persone vogliono guardarlo, lo vedono al disopra della testa». E ci spiega che «rimane al suo posto», ma invia «i suoi raggi».

È abbastanza chiaro in che cosa consistano queste credenze. Il fanciullo continua a credere che il sole ci segua. Ma ha scoperto (come vedremo farà Mart, grazie a un’esperienza) o appreso che il sole non si muove. Non riesce a comprendere come questi due fatti possano essere simultaneamente possibili. Per conseguenza, come Sart, ammette le due tesi contradittorie senza conciliazione: del resto, Sart ha dovuto imparare che gli astri sono «grandi», ma non ha capito la portata del fatto, come mostrano le conseguenze che ne trae; oppure, come Lug e Brul, il fanciullo cerca da sé una soluzione e ammette che l’astro è immobile ma che i suoi raggi ci seguono !

Ecco ora due casi intermedi fra secondo e terzo stadio:

MART (9;5): «Che cosa fa, la luna, quando cammini? – Ci segue, poi resta tranquilla. Siamo noi che camminiamo, e la luna ci si avvicina. – Come ci segue? – Resta ferma e siamo noi ad avvicinarci ad essa. – Come l’hai scoperto? – Quando si avanzava verso le case non la si vedeva piú, si vedeva solo il muro. – Allora, che cosa ti sei detto? – Che non si era mossa. – Perché credevi che ti seguisse? – Mi sono sbagliato, quando non c’erano case la si vedeva sempre davanti a noi. – È dunque lei che si muove? – Nessuno la fa camminare! Resta sempre ferma».

FALQ (8 anni) dice lui pure, della luna: «Ci segue. – Perché? – Perché è alta e tutti la vedono. – Se tu cammini e io pure, ma in senso inverso, chi segue? – Segue Lei perché le è piú vicina. – Perché? – Perché Lei è davanti. – Perché è piú vicina? – Resta sempre allo stesso posto».

Mart e Falq appartengono ancora al secondo stadio in quanto credono che, camminando, ci avviciniamo alla luna, e perciò l’illusione ha una certa fondatezza. Ma appartengono già al terzo stadio in quanto non ammettono piú che la luna si sposti a piacere (i suoi raggi non ci seguono piú).

Ecco ora alcuni esempi del terzo stadio. L’illusione è questa volta completamente capita.

PEC (7;3): «Di sera, quando vai a passeggio, la luna si muove? – È lontana, poi si direbbe che cammini, ma non è vero».

KUF (10; 9): «Quando si cammina, si direbbe che la luna ci segua, perché è grande. – Ma ci segue davvero? – No. Prima credevo che davvero ci seguisse e ci corresse dietro».

DUC (7½): «Che cosa fa, il sole, quando cammini? – Brilla. – Ti segue? – No, ma lo si vede dappertutto. – Perché? – Perché è molto grande».

Questa l’evoluzione della credenza per quanto riguarda il moto Intenzionale degli astri. La perfetta continuità di queste risposte e la ricchezza dei racconti dei piú piccoli mostrano con sufficiente chiarezza che si tratta di una credenza spontanea, nata dall’osservazione diretta e formulata dal fanciullo ben prima che noi lo interrogassimo. La generalità di questa credenza spontanea è interessante sotto tre punti di vista.

Anzitutto, i fatti che abbiamo ora enumerato mostrano l’esistenza di un animismo infantile e di un animismo non teorico (destinato a spiegare i fenomeni), ma effettivo. Gli astri si interessano a noi:

FRAN (9 anni), parlando del sole: «Certe volte ci guarda, ci guarda come siamo belli, a volte. – Ti credi bello, tu? – Si, di domenica, quando sono vestito da uomo».

GA (8½) «proposito della luna:» Ci guarda e poi ci sorveglia. Quando cammino, essa cammina; quando mi fermo, si ferma. Fanno i pappagalli. – Perché? – Vuol fare come gli altri. – Perché? – Perché è curiosa».

PUR (8;8): il sole cammina «per sentire ciò che si dice».

JAC (6 anni): il sole «guarda se si è buoni»; la luna «guarda se essi [le persone] lavorano bene»…

Inoltre, queste credenze sono di grande interesse dal punto di vista della magía e dell’animismo. Si ricordi, infatti, che alcuni fanciulli (cap. IV, § 2) credono di essere essi stessi causa del moto degli astri: «Sono io (che li faccio camminare) quando cammino», dice Nain a 4 anni; «Siamo noi», dice Giamb a 7 anni. I fanciulli che abbiamo ora visto hanno invece l’impressione che esseri spontanei li seguano, esseri che potrebbero anche andare altrove, se ne avessero voglia. Secondo che l’accento causale è messo sull’io o sul mobile, abbiamo dunque magía o animismo. Come concepire questo rapporto? È evidente che in un simile caso esiste una completa dipendenza reciproca fra magía e animismo. Il punto di partenza è un sentimento di partecipazione dovuta all’egocentrismo, cioè alla confusione dell’io e del mondo: il fanciullo, vedendo gli astri costantemente al di sopra o a fianco a sé, pensa subito, grazie alle preconnessioni affettive che l’egocentrismo infantile produce, che fra il moto degli astri e il suo ci sia partecipazione dinamica o comunanza di intenti. Nella misura in cui non riflette su questa comunanza di intenti e non si chiede se gli astri siano capaci di resistere all’obbligo di seguirci, abbiamo attitudine magica: il fanciullo ha l’impressione di essere lui stesso a far camminare gli astri. Nella misura, invece, in cui si meraviglia dell’obbedienza degli astri e attribuisce loro il potere di resistere, con ciò stesso li anima e attribuisce loro volontà e desiderio di seguirlo. In poche parole, tra animismo e magía non v’è che una differenza di egocentrismo. L’egocentrismo assoluto trascina la magía; il senso dell’esistenza propria degli altri esseri affievolisce invece le partecipazioni primitive e accentua di altrettanto l’intenzionalità particolare di quegli esseri.

Infine, le credenze che abbiamo analizzato in questo paragrafo hanno una grande importanza per la comprensione della dinamica infantile, per cui le ritroveremo a proposito della spiegazione dei movimenti naturali. In verità, i fanciulli di 7-8 anni ammettono, in genere, che gli astri si muovano grazie all’aria, al vento, alle nubi ecc. Sembra esservi, qui, una spiegazione meccanica. Ma, nello stesso tempo, gli astri ci seguono: dunque alle forze meccaniche si aggiunge un fattore magico-animistico, che dà il vero significato a questa meccanica infantile: dire che gli astri ci seguono grazie al vento ecc., vuol dire che il vento, le nubi ecc. sono complici, si occupano anch’essi di noi, e tutto gravita intorno all’uomo.

Eccoci dunque allo studio del tipo di necessità che il fanciullo attribuisce alle leggi naturali. Esaminiamo ancora questo punto, e potremo allora affrontare direttamente il problema delle origini dell’animismo infantile.

  3.Determinismo fisico e necessità morale

Come si è visto nel capitolo V, i servigi che un fanciullo può chiedere a una concezione animistica della natura sono due: spiegare il caso, e spiegare la regolarità delle cose. Ora, spiegare il caso significa sopprimerlo, tentare di ricondurre tutto a certe regole. Ma quali sono queste regole? Come Sully ha dimostrato, e come abbiamo avuto occasione di verificare noi stessi,80 sono regole morali o sociali, piú che leggi fisiche. È il decus est. Tale il nòcciolo dell’animismo infantile: gli esseri naturali sono coscienti quando hanno una funzione da compiere nell’economia delle cose.

Questa caratteristica ci spiega insieme la funzione e i limiti dell’animismo infantile. piú volte abbiamo constatato che il fanciullo non è cosí antropomorfo come lo si vorrebbe far credere. Egli non attribuisce alle cose se non la coscienza strettamente necessaria per il compimento delle loro rispettive funzioni. Cosi, il fanciullo di 7 anni rifiuterà di ammettere che il sole ci veda in una camera e sappia il nostro nome, ma ammetterà che il sole possa segnare il nostro cammino poiché deve accompagnarci «per riscaldarci» ecc. L’acqua dei fiumi non vede le rive, è inaccessibile al dolore o al piacere, ma sa di scorrere e sa quando occorre prender lo slancio per superare un ostacolo. Il fiume, infatti, avanza «per darci l’acqua», ecc.

Ecco una conversazione significativa a questo proposito:

VERN (6 anni) è un fanciullo che non abbiamo mai interrogato sull’animismo e che vediamo per la prima volta. Gli chiediamo perché un battello resti a galla, mentre una pietruzza, che è piú leggera, va immediatamente a fondo. Vern riflette e risponde: «Il battello è piú intelligente del sasso. – Che cosa vuol dire essere intelligenti? – Non fa ciò che non si deve fare». Appare chiara la confusione fra morale e fisico. «E la tavola è intelligente? – E tagliata [è legno segato], non può parlare, non può dir nulla. – E il sole è intelligente? – Si, perché vuol far caldo. – E le case? – No, perché sono di pietra. Le pietre sono tutte chiuse [non parlano né vedono, sono materiali]. – Le nubi sono intelligenti? – No, perché vogliono battere il sole [fanno il contrario del sole]. – La luna è intelligente? – Sí, perché illumina durante la notte. Illumina le strade, e anche, credo, i cacciatori nelle foreste. – L’acqua dei ruscelli è intelligente? – È anche un po’ gentile».

Si vede l’interesse di queste frasi. Ad analizzare questa classificazione, si è portati irresistibilmente a pensare a ciò che Aristotele chiamava «natura» e a ciò che chiamava «violenza». Secondo Vern, il calore del sole è «naturale» in quanto il sole è diretto da una forza interna verso un fine utile alla vita, mentre l’attività delle nubi è «violenta» in quanto ostacola il sole. Inoltre, se fosse lecito forzare un cosí impertinente raffronto, si dovrebbe osservare che, per Vern, l’attività naturale è «intelligente», cioè costretta non dalla «necessità» fisica (la «necessità» essendo di ostacolo all’attività della natura), ma da un obbligo morale: non fare «ciò che non si deve fare».

Il primo interrogatorio presentatoci solleva dunque il problema che fatalmente si pone a proposito dell’animismo infantile: che cosa è, per il fanciullo, la «natura»? Un insieme di leggi fisiche? Una società ben regolata? Un compromesso fra questi due stati? È questo che dobbiamo esaminare. Dati i fatti accumulati negli ultimi capitoli, noi avanziamo l’ipotesi che il fanciullo attribuisca alle cose una coscienza destinata a spiegare anzitutto la loro gerarchia e la loro obbedienza. Il fanciullo attribuisce alle cose, piú che una psicologia, una morale.

Come verificare quest’ipotesi? Tutto lo studio della dinamica e della fisica infantile, studio che tenteremo altrove, ci condurrà ad adottarla. Nell’attesa, tutto ciò che possiamo chiedere ai fanciulli è se le cose fanno ciò che vogliono, e, se no, perché.

Questo procedimento ci ha condotti a risultati molto precisi. I fanciulli, fin verso i 7-8 anni, rifiutano di ammettere che le cose possano fare ciò che vogliono, non perché non abbiano volontà, ma perché la loro volontà è costretta da una legge morale il cui principio è di far tutto per il bene degli uomini. Le rare eccezioni che abbiamo riscontrato confermano questa interpretazione: quando un fanciullo della stessa età considera un dato corpo come sottratto a obblighi morali, considera anche tale corpo libero di fare ciò che vuole, e libero in quanto nessuno lo comanda. Esiste dunque nelle cose una volontà; ma, nella gran maggioranza dei casi, questa volontà è costretta dal dovere.

Verso i 7-8 anni, invece, appare la prima nozione di un determinismo fisico: alcuni movimenti, come il cammino delle nubi o dei fiumi, sono sempre piú spiegati come dovuti non piú a un obbligo morale o ad una costrizione legale, ma ad una costrizione del tutto fisica. Ma questa nuova nozione è lenta a sistematizzarsi, non viene applicata che ad alcuni fenomeni, e solo verso gli 11-12 anni potrà definitivamente sostituire, nella fisica infantile, l’idea di regola morale. Tra i 7-8 anni e gli 11-12, vedremo anche diverse combinazioni della necessità morale e del determinismo fisico, senza che sia possibile suddividere questo periodo in stadi propriamente detti. Notiamo infine che, prima dei 7-8 anni, esiste già naturalmente un elemento di costrizione fisica nella rappresentazione del mondo del fanciullo; ma questa costrizione è ancora ben diversa dal determinismo che appare dopo i 7-8 anni: è, per cosí dire, una costrizione corporale che accompagna necessariamente, agli occhi del fanciullo, la necessità morale.

Citiamo alla rinfusa alcuni esempi, distinguendo per ciascuno la parte della necessità morale e la parte del determinismo fisico.

REYB (8;7): «Le nubi fanno ciò che vogliono? – No… – Se vogliono, possono andare piú in fretta? – No. – Possono fermarsi, se vogliono? – No. – Perché? – Perché camminano sempre. – Perché? – Per annunciare la pioggia. – Il sole può fare quel che vuole? – Si. – Può, se vuole, fermarsi? – No, perché se si fermasse non illuminerebbe piú. – La luna può fare ciò che vuole? – No. – Può, se vuole, fermarsi? – Si. – Perché? – Perché se vuole può non camminare. – Può tramontare, volendo? – No, perché rischiara la notte». Se confrontiamo questo discorso con quelli seguenti di Reyb, riscontriamo che la regolarità del moto delle nubi e degli astri si spiega secondo la loro funzione, mentre la regolarità dei fiumi si spiega secondo il determinismo: «I fiumi fanno ciò che vogliono? – No. – Perché? – Perché scorrono sempre. – Perché? – Perché non possono fermarsi. – Perché? – Perché scorrono tutto il tempo. – Perché? – Perché il vento li spinge. Esso fa venire le onde e loro scorrono».

ZIM (8;1) pensa che la luna faccia quel che vuole. Solo che questo potere ha dei limiti: «Può, se vuole, non sorgere, di sera? – No. – Perché? – Perché non è lei che comanda [!]» Quanto al sole, fa ciò che vuole; ma anche qui abbiamo lo stesso fatto: «Sa di essere dietro la montagna? – Si. – L’ha voluto lui, o è stato obbligato? – L’ha voluto lui. – Perché? – Perché faccia bel tempo».

RAT (8;10): «Le nubi, se vogliono, possono camminare piú in fretta? – Si. – Perché? – Perché camminano da sole. – Possono andarsene, se vogliono? – Si. – Oggi [giorno di pioggia], potrebbero farlo? – Si. – Perché non lo fanno? – Perché non lo fanno. – Perché? – Perché piove. – L’hanno voluto loro? – No. – Chi l’ha voluto? – Il buon Dio. – Il sole può, se vuole, non illuminare piú? – Si. – Potrebbe venire nel bel mezzo della notte, se volesse? – Non vuole. È notte. Tramonta. – Ma potrebbe, se volesse? – Si. – L’ha già fatto? – No. – Perché? – Perché preferisce tramontare. – Lo credi proprio? – Si. – Perché non sorge a metà notte? – Perché non può. – Perché? – Se non viene, non illumina. Se viene, allora illumina. – Allora, perché non viene a illuminare la notte? – La luna illumina già un poco. – Ma non può venire anche lui? – Non vuol venire. – Potrebbe venire? – Si. – Perché non lo fa? – Perché le persone crederebbero che è giorno. – Perché non lo fa? – Perché non vuol farlo». La luna obbedisce ad analoghe ragioni: «Potrebbe, la luna, fermarsi nel corso della notte, se volesse? – No, perché è li per rischiarare un poco».

ROSS (9;9): «Il sole fa ciò che vuole? – Si. – Se vuole, può andare piú in fretta? – Si. – Può fermarsi? – No. – Perché? – Perché deve brillare un po’ a lungo. – Perché? – Per riscaldarci».

IMH (6 anni): «Le nubi fanno ciò che vogliono? – No, perché non ci indicano nulla all’infuori della strada [non fanno che mostrarci il cammino]». Troviamo qui, attribuita alle nubi, la necessità di seguirci che altri fanciulli attribuiscono solo agli astri. Questa risposta è tanto piú significativa in quanto Imh sa dare al determinismo la parte che gli è propria per quanto concerne, ad esemplo, i ruscelli: «L’acqua dei ruscelli può fare ciò che vuole? – No, può andare piú in fretta, ma quando è in pendenza».

JUILL (7½): «Il sole può fare ciò che vuole? – Si. – Può scomparire durante il giorno? – No. – Perché? – Perché fa già chiaro. – E allora? – Non può. – Può andarsene a mezzogiorno? – No. – Perché? – Perché è già giorno. – Chi fa il giorno? – Il buon Dio. – Potrebbe fare il giorno senza sole? – Si. – Il sole dev’esserci, quando è giorno? – Sí, altrimenti piove».

SCHI (6 anni): «Il sole potrebbe scomparire, a mezzogiorno, se volesse? – No. – Perché? – Perché deve illuminare tutto il giorno».

KENT (9; 3): Il sole non fa ciò che vuole, «perché deve andare a fare il giorno dove va sempre». La legge della sua traiettoria è dunque di ordine morale. Lo stesso dicasi per le nubi e per il vento: «Egli deve andare sempre nello stesso posto». Le stelle: «Devono andare ogni notte dov’erano le altre notti». I ruscelli: «Devono sempre andare dov’è il cammino davanti a loro».

Ecco ora due eccezioni, a cominciare da un fanciullo che attribuisce a tutti i corpi la libertà, perché sono «soli», cioè senza che nessuno comandi loro o li sorvegli da vicino:

HAD (6 anni): «Il sole può fare ciò che vuole? – Si, perché è solo con la luna. – E le nubi? – Sí, perché sono sole con le altre nubi…» Il senso di queste parole è reso abbastanza bene dalla seguente reazione: «Puoi fare ciò che vuoi? – Si, perché la mia mamma talvolta me lo permette».

È dunque chiaro che l’eccezione non è che apparente. Altre volte, il fanciullo attribuisce a tutte le cose libertà, ma nello stesso tempo «buona volontà»; il che costituisce un’altra eccezione apparente in rapporto a ciò che precede:

MONT (7 anni): «Il sole può fare quel che vuole? – Si. – Può non illuminare? – Si. – Perché non lo fa? – Perché vuol fare bel tempo». «I ruscelli fanno quel che vogliono? – . – Possono andare piú in fretta, se vogliono? – Si. – Il Rodano può cessare di scorrere? – Si. – Perché non lo fa? – Perché vuole che ci sia dell’acqua…»

Notiamo infine che la volontà è il piú resistente dei poteri animistici attribuiti dal fanciullo alle cose. Troviamo infatti fanciulli di 10-12 anni che non accordano piú alla natura né coscienza né vita, ma ancora volontà e sforzo:

KUF (10;1): «I ruscelli sono vivi? – No, – Sanno di camminare? – No. – Possono desiderarlo? – No. – Possono andare piú in fretta? – Si». Quanto al sole: «Potrebbe, il sole, desiderar di andare piú in fretta, qualche volta? – Si. – Sente di desiderar di andare piú in fretta? – No». Ora, per Kuf, il sole può effettivamente andare piú in fretta o piú adagio, a suo piacere.

È ovvia l’importanza di questi fatti per l’evoluzione della nozione di «forza». Da notare la continuità tra forza e animismo attraverso il concetto di una «volontà senza coscienza», su cui torneremo.

Concludiamo, per il momento, che il fanciullo è portato a spiegare le regolarità della natura con norme morali, piú che con leggi naturali. I corpi sono dotati di volontà; potrebbero usarne come vogliono, e nulla è loro impossibile. Ma, da una parte, essi si occupano di noi, e la loro volontà è innanzitutto «buona volontà», una volontà cioè diretta al bene degli uomini; d’altra parte, esistono delle regole, si che i corpi naturali non son padroni: «Non è lei che comanda», dice Zim parlando della luna. È vero che, dopo i 7-8 anni, alcuni movimenti, come quelli dei ruscelli o delle nubi, si spiegano sempre piú grazie al determinismo fisico. Ma, fin verso gli 11-12 anni, molti corpi, soprattutto gli astri e il vento, restano sottomessi alle leggi morali primitive.

Sarebbe interessante distinguere, per ogni età, la parte della necessità morale e del determinismo. Ma il metodo utile a questo fine non è quello da noi usato: è un metodo meno verbale e meno artificiale, che consiste nel far spiegare al fanciullo il «come» di ciascun movimento e di ciascun fenomeno naturale. Tenteremo di farlo piú oltre. Consideriamo ciò che precede come una semplice introduzione alla dinamica del fanciullo, introduzione destinata prima di tutto a fissare il senso dell’animismo infantile e a mostrare il contatto tra questo animismo e i piú vasti problemi che si pongono a proposito della rappresentazione del moto.

  4.Conclusioni

La portata degli interrogatori sull’animismo infantile e la natura dell’«animismo diffuso»

Non si sarà mai troppo prudenti nell’interpretazione dei risultati ottenati coi diversi metodi descritti nei capitoli V e VI. Questi procedimenti hanno, infatti, un vizio comune: sono verbali. I bimbi ci hanno dato delle risposte in merito non a oggetti concreti che maneggiavamo per comprenderne il meccanismo, ma in merito ad esseri dei quali ci accontentavamo di parlare. Ciò che abbiamo ottenuto non è dunque un animismo in stato, per cosí dire, di funzionamento, ma la definizione della parola «vivere», «sapere», «sentire». È indubbio che queste definizioni ci hanno dato degli elementi costanti e, se limitiamo la nostra ambizione a studiare l’intelligenza verbale, possiamo fidarci dei procedimenti seguiti. Ma che cosa concludere da questi risultati, se considerati dal punto di vista dell’intelligenza di percezione?

Per precisare questo punto, conserviamo delle risposte ottenute l’elemento, per cosí dire, negativo e non il contenuto positivo di ogni affermazione. Da questo punto di vista, due conclusioni sono da ritenere.

La prima è che il pensiero del fanciullo parte da un’indifferenziazione tra corpi viventi e corpi inerti: un criterio di distinzione manca. Per noi, o piuttosto per il senso comune dell’adulto, due specie di criteri permettono questa distinzione. Innanzitutto il fatto che i corpi viventi nascono, crescono, muoiono. Ora, cosa interessante, i fanciulli che abbiamo osservato non hanno mai invocato questo criterio. Talvolta, è vero, un fanciullo ha detto che le piante «crescono», ma questo era per lui un modo di concepire il fatto che sono animate da un movimento proprio: il moto della crescita era messo sullo stesso piano del moto delle nuvole o degli astri. Vedremo anche in seguito, studiando l’artificialismo infantile, che per il fanciullo quasi tutti i corpi nascono e crescono: gli astri «nascono» e «crescono»; le montagne, i sassi, il ferro «crescono», ecc. I fatti dimostrano a sufficienza che il modo di nascere e crescere dei corpi non può servire al fanciullo di criterio per distinguere il vivente dall’inerte. Sotto questo punto di vista, abbiamo perfetta continuità fra tutti gli esseri della natura.

D’altra parte, il senso comune adulto si serve anche, per differenziare la vita dalla materia inorganica, del principio d’inerzia, che, dopo lo sviluppo dell’industria, è entrato sempre piú nelle nostre abitudini intellettuali. Un corpo fisico dispone solo del moto che ha ricevuto; un essere vivente (per il senso comune) crea del moto. Ma è evidente che questa distinzione è recentissima. Non ci si può dunque stupire che i nostri fanciulli del terzo stadio (precisamente quelli che definiscono la vita grazie al movimento proprio) siano ancora incapaci di distinguere fra movimento spontaneo apparente degli astri, del vento ecc. e movimento degli animali.

In breve, per quanto prudenti e alieni dal prendere alla lettera le risposte dei fanciulli si possa essere, è incontestabile che il pensiero infantile parte dall’idea di una vita universale come da una idea madre. Sotto questo punto di vista, l’animismo non è dunque affatto il prodotto di una costruzione ponderata del pensiero del fanciullo. È un dato primitivo, e solo per differenziazioni successive la materia inerte è distinta dalla vita. Attività e passività, movimento proprio e movimento acquisito sono, a questo proposito, coppie di nozioni che il pensiero isola a poco a poco da un continuo originale, nel quale tutto sembra vivere.

Seconda conclusione. Se vita e inerzia sono originariamente indifferenziate, lo stesso accade a fortiori delle azioni coscienti e dei movimenti incoscienti, o, piuttosto, delle azioni intenzionali e dei movimenti meccanici. Ci si potrà chiedere se le affermazioni dei nostri fanciulli sulla coscienza delle cose siano affermazioni riflettute, ma ciò che non si può rifiutar di ammettere è che la distinzione fra azioni intenzionali e movimenti meccanici non soltanto non è innata, ma presuppone un atteggiamento già molto evoluto dello spirito. Nessuna esperienza positiva può infatti costringere uno spirito ad ammettere che le cose non sono né per noi né contro di noi, e che il caso e l’inerzia regnano nella natura. Per giungere a questa concezione obiettiva della realtà, occorre che lo spirito si liberi dal suo soggettivismo, esca dal suo innato egocentrismo. Crediamo di aver dimostrato che tale operazione non riesce per nulla agevole al fanciullo.

In breve: in quanto portato ad attribuir coscienza alle cose, l’animismo infantile non è il risultato di una costruzione ponderata, ma risulta da un dato primitivo che consiste nell’indifferenziazione totale fra azione cosciente e movimento materiale. L’animismo infantile presuppone un’attitudine originale di credenza in un continuo di coscienza. O meglio, il fanciullo attribuisce alle cose non propriamente il sapere e il sentire, ma una specie di volontà e di discernimento elementari, il minimo necessario al compimento delle funzioni che la natura esercita. Questa volontà e questo discernimento non significano che il fanciullo consideri le cose come persone (il fanciullo si sente meno personale di noi), ma solo che confonde intenzionalità e attività. Un aneddoto ebraico vuole che due ignoranti discutessero del problema dell’ebollizione dell’acqua. Uno affermava che l’acqua bolle a 100 °C: «Ma, – obiettò l’altro, – come può sapere che arriva a 100 °C?» Questo aneddoto dà il suo significato vero all’animismo infantile: quando i corpi hanno un’attività regolata e utile all’uomo, sono evidentemente dotati di vita psichica !

Ricondotto a queste giuste proporzioni, l’animismo infantile diventa funzione di una folla di particolarità essenziali del pensiero del fanciullo, ciò che lo rende, agli occhi dello psicologo, piú accettabile che se si rivestisse delle apparenze di una sistematizzazione teorica e disinteressata. Tre grandi gruppi di fenomeni parlano a favore dell’universale intenzionalità attribuita dai fanciulli ai corpi.

Anzitutto, il finalismo infantile, di cui è nota la grande estensione. Abbiamo ricordato, a proposito del primo stadio della nozione di vita (cap. VI), le definizioni «mediante l’uso» che caratterizzano la mentalità dei 5-8 anni. Quanto al moto fisico, si è già visto che le regolarità della natura sono spiegate mediante il finalismo. Il seguito dei nostri studi mostrerà che lo stesso finalismo penetra tutta la fisica: il galleggiamento dei corpi, il moto dell’aria in una pompa, il moto del fuoco e del vapore in un motore ecc. Un tale orientamento mostra abbastanza chiaramente quanto l’universo infantile sia permeato, nelle grandi linee come nei minuti particolari, di intenzionalità.

Un secondo gruppo di fenomeni orientati nello stesso senso è fornito dall’evoluzione dei «perché» fra i 3 e i 7 anni. Come abbiamo visto,81 questi «perché» non sono né propriamente di ordine causale, né propriamente di ordine finale. Sono fra i due ordini: cioè la vera causa che il fanciullo cerca di porre a base dei fenomeni è un’ intenzione, che sarà insieme causa efficiente e ragion d’essere dell’effetto da spiegare. In altri termini, l’intenzione è creatrice: la causalità fisica e la ragione logico-morale sono ancora confuse in una specie di motivazione psicologica universale.

Cosí si spiega – ed ecco il terzo gruppo di fenomeni – come il fanciullo confonda, in origine, necessità fisica e necessità morale. I fatti che abbiamo segnalato nel precedente paragrafo, e che ritroveremo continuamente sotto forma molto piú spontanea, sono a questo proposito, se non una prova di animismo sistematico ed esplicito, perlomeno un indizio molto preciso a favore dell’universale intenzionalità attribuita dal fanciullo alla natura.82

Certo, si può sostenere che i tre gruppi di fatti da noi utilizzati non provano che le intenzioni immaginate dal fanciullo a contatto delle cose siano da lui situate nelle cose stesse. Queste intenzioni potrebbero essere anche quelle del o dei creatori, come quei tali «signori» che hanno fatto ogni cosa. Nel prossimo capitolo vedremo appunto che esiste un artificialismo infantile altrettanto sistematico quanto l’animismo, e secondo il quale la natura è stata «fabbricata» dagli uomini. Ma il problema è di sapere se il fanciullo comincia con l’immaginare una fabbricazione delle cose ad opera dell’uomo, e solo in seguito ricerca le intenzioni che possono essere sotto ogni cosa, o se invece è portato anzitutto a cercare in ogni cosa un’intenzione, e solo in seguito cerca di classificare queste intenzioni in intenzioni dei creatori (artificialismo) e in intenzioni delle cose (animismo). Ora, è noto che i «perché», la cui apparizione coincide col bisogno di cercare in ogni cosa un’intenzione, cominciano verso i 2-3 anni, epoca nella quale l’artificialismo non è evidentemente ancora sistematico. È dunque probabile che il cammino seguito dallo spirito del fanciullo consista nel cercare, dapprima, le intenzioni e, solo in seguito, nel classificare i soggetti ai quali queste intenzioni devono riferirsi. In tal modo, i tre gruppi di fatti che abbiamo invocato a favore dell’animismo o, come potremmo chiamarlo, dell’intenzionalismo infantile parlano a favore tanto dell’animismo che dell’artificialismo.

Vedremo inoltre che tra artificialismo e animismo non esistono, all’origine, i conflitti che si potrebbero supporre: il fatto che il fanciullo immagini un corpo, ad esempio il sole, come opera dell’uomo non significa che questo corpo non possa esser concepito come vivente, e vivente al modo di un fanciullo nato dai suoi genitori.

In conclusione, possiamo caratterizzare come segue la struttura dell’animismo infantile o, perlomeno, dell’animismo diffuso, in opposizione alle credenze piú sistematiche relative agli astri ecc.

La natura presenta un continuo di vita, tale che tutti i corpi hanno piú o meno attività e discernimento. Questo continuo è una rete di movimenti intenzionali, piú o meno solidali gli uni cogli altri, e gravitanti intorno all’umanità in vista del suo bene. A poco a poco, il fanciullo isola in questo continuo alcuni centri di forza, per cosí dire, animati di un’attività piú spontanea che non il resto. Ma la scelta di questi centri resta a lungo incerta. Per esempio, il fanciullo attribuirà attività autonoma prima alla sua persona, che è capace di far camminare il sole e le nubi, poi al sole e alle stesse nubi, che possono muoversi da sole, poi al vento, che fa muovere gli astri e le nubi. Cosi, il centro di forza di grado in grado si sposta, e ciò spiega il carattere fluttuante e poco sistematico delle risposte raccolte. Ma la scelta dei centri può essere fluttuante senza che anche le ragioni che presiedono alla scelta lo siano. È proprio questo che abbiamo riscontrato: attività in generale, moto in generale, movimento proprio opposto a moto ricevuto, ecco i tre temi che ricorrono sempre nello spirito dei fanciulli che abbiamo esaminati, e che introducono una progressiva differenziazione nel continuo primitivo di vita e d’intenzionalità.

Le origini dell’animismo infantile

Théodule Ribot ha detto a suo tempo:83 «Per una tendenza istintiva, ben conosciuta seppur inspiegabile, l’uomo attribuisce delle intenzioni, una volontà, una causalità analoga alla sua, a ciò che intorno a lui agisce o reagisce: i suoi simili, gli esseri viventi e quelli che per il loro moto simulano la vita (le nubi, i fiumi, ecc.)». Questo fenomeno si osserva «nei fanciulli, nei popoli selvaggi, negli animali (come il cane che morde la pietra che lo colpisce), e persino nell’uomo riflessivo quando, ridivenendo per un istante un essere istintivo, si arrabbia con una tavola che lo urta». Freud ha spie gato l’animismo con una «proiezione», di cui scrive:84 «La proiezione di percezioni interiori all’esterno è un meccanismo primitivo cui sottostanno, per esempio, anche le nostre percezioni dei sensi; il quale meccanismo ha dunque normalmente una parte importantissima nella raffigurazione del nostro mondo esterno». Ma questa «tendenza inspiegabile» di cui parla Ribot e questo «meccanismo primitivo» che Freud ammette, sono poi inspiegabili? O non è forse il problema che è insolubile perché mal posto, e mal posto in quanto solo alcuni postulati impliciti concernenti i limiti fra io e mondo esterno renderebbero necessaria una «proiezione» dei contenuti interni?

In realtà, per una certa psicologia, la coscienza dell’io sarebbe dovuta anzitutto alla sensazione diretta di qualcosa d’interno: per Maine de Biran, è il senso dello sforzo; per Ribot, il complesso delle sensazioni cinestetiche ecc. La coscienza dell’io si svilupperebbe dunque indipendentemente dalla conoscenza del mondo esterno, e per spiegare come mai il pensiero presti alle cose una vita, delle intenzioni, una forza, si è costretti a parlare di «proiezione». Posto in questi termini, il problema diventa certo insolubile. Perché si proietterebbe, invece di veder le cose come sono? E, se si è vittime di un’analogia ingannatrice fra le cose e l’io, perché tale analogia è duratura, al punto che né l’esperienza né il tempo possono convincere del contrario uno spirito cosí orientato?

Ricollochiamoci invece nelle ipotesi alle quali siamo stati portati dallo studio dei rapporti fra io e mondo esterno. Al punto di partenza della vita del pensiero, troviamo una coscienza protoplasmica che non distingue in nulla io e cose. Nella formazione di questa coscienza, si combinano due specie di fattori. Anzitutto, i fattori biologici o individuali, che regolano i rapporti fra l’organismo e il suo ambiente. È evidentemente impossibile stabilire l’importanza dell’organismo e quella dell’ambiente in una reazione biologica qualsiasi. L’adattamento intelligente e l’adattamento motorio da cui essa deriva non fanno eccezione a questa legge. Il reale è un complesso di scambi, di correnti complementari, gli uni determinati dall’assimilazione delle cose all’organismo, le altre dall’adattamento dell’organismo ai dati dell’ambiente. La parte solida di Matière et mémoire è quella in cui Bergson mostra come la percezione sia situata tanto nel suo oggetto quanto nel cervello, poiché una perfetta continuità unisce le reazioni del cervello ai movimenti dell’oggetto. Al punto di partenza, non esiste dunque né io né mondo esterno, ma un continuum. Quanto ai fattori sociali, essi contribuiscono allo stesso risultato: fin dalle prime attività, il bimbo cresce in un’atmosfera sociale, nel senso che i suoi genitori, e specialmente sua madre, intervengono in tutti i suoi atti (nutrizione, allattamento, presa degli oggetti, linguaggio) e in tutti i suoi affetti. Quindi, anche da questo punto di vista, ogni azione è inserita in un contesto: la coscienza dell’io non accompagna in modo innato i primi atteggiamenti, ma si delinea soltanto a poco a poco, e in funzione delle resistenze della condotta altrui. I fattori sociali e i fattori biologici concorrono dunque a creare, all’origine della vita del pensiero, un’indifferenziazione fra mondo e io, donde i sentimenti di partecipazione e la mentalità magica che ne deriva.

Se tale è il punto di partenza della coscienza infantile, si può meglio comprendere l’origine dell’animismo. Quattro gruppi di cause convergono infatti nella genesi dell’animismo. Due sono di ordine individuale, le altre di ordine sociale.

I fattori di ordine individuale sono i seguenti. Da una parte, l’indissociazione dei contenuti della coscienza primitiva, per cui le nozioni di azione e d’intenzione, ecc. sono necessariamente legate prima che la dissociazione progressiva delle nozioni abbia condotto il fanciullo a distinguere azioni intenzionali e azioni non intenzionali, e il mondo è concepito dalla coscienza primitiva come un continuo, insieme psichico e fisico. D’altra parte, l’introiezione, grazie alla quale il fanciullo attribuisce alle cose sentimenti reciproci di quelli che egli stesso prova di fronte a loro.

Prima di passare all’analisi di questi due fattori, ricordiamo una distinzione fra i due tipi di attitudini animistiche che abbiamo trovati nei nostri fanciulli. Chiameremo animismo diffuso la tendenza generale dei fanciulli a confondere il vivente con l’inerte, attitudine che abbiamo descritta nel paragrafo precedente. Chiameremo animismo sistematico l’insieme delle credenze animistiche esplicite che il fanciullo dimostra di possedere, la piú precisa delle quali è quella per cui egli crede che gli astri lo seguano (§2). Vedremo che, a grandi linee, il fattore dell’indissociazione spiega piuttosto l’animismo diffuso che l’animismo sistematico. Ma va da sé che numerose interferenze complicano questo troppo semplice schema.

Detto questo, cerchiamo di precisare la funzione del fattore dell’indissociazione. Lo studio del realismo infantile (capp. I-IV) ci ha dimostrato che alcuni elementi – uno soggettivo, l’altro oggettivo – sono per il pensiero del fanciullo indissociabili, quantunque indipendenti per il nostro. Tali, fino a molto tardi, i nomi e le cose nominate, il pensiero e le cose alle quali pensiamo ecc. Lo stesso accade per quanto concerne il moto e la vita: ogni moto esterno è concepito come necessariamente intenzionale. Tali anche l’attività in generale e la coscienza: ogni attività è concepita come necessariamente cosciente. Tali infine, almeno in origine, l’essere e il sapere: ogni corpo sa che cos’è, dov’è, quali tributi possiede ecc. In breve, l’esistenza del realismo infantile mostra abbastanza chiaramente che lo spirito procede dall’indissociazione alla dissociazione, e che lo sviluppo mentale non consiste affatto in associazioni successive. L’animismo diffuso è dunque un dato primitivo della coscienza del fanciullo.

È pur vero che fra il realismo propriamente detto (realismo nominale ecc.) e l’indissociazione di cui è fatto l’animismo c’è la seguente differenza. Il realismo costituisce un’ indissociazione primaria, per cosí dire, che consiste semplicemente nel localizzare nelle cose caratteri appartenenti in realtà allo spirito, ma che lo spirito non sa ancora che gli appartengono (come ad esempio i nomi). L’indissociazione che caratterizza l’animismo è invece una indissociazione secondaria, che consiste nell’attribuire alle cose caratteri analoghi a quelli che lo spirito attribuisce a se stesso: coscienza, volontà, ecc. Ma è forse, questa, una «proiezione»? Niente affatto. Ciò che l’indissociazione secondaria aggiunge all’indissociazione primaria è semplicemente ciò che caratterizza la costruzione della nozione di oggetto: le qualità sono raggruppate in fasci individuali, invece di essere attribuite a tutta la realtà. Ora, per costruire gli oggetti, lo spirito realistico si serve appunto – ed è in questo che vi è indissociazione – di nozioni e categorie che uniscono un termine oggettivo e un termine soggettivo, concepiti come necessariamente legati: invece di concepire il sole come un oggetto brillante, caldo e dotato di moto, lo spirito realistico lo concepisce come un oggetto che brilla coscientemente, ci riscalda intenzionalmente, si muove per vita propria.

Infatti, la sostanza delle risposte che abbiamo raccolto a proposito della coscienza attribuita alle cose, e del concetto di «vita», risiede nel postulato implicito che ogni attività sia cosciente e ogni moto spontaneo. Quando Schi dice che le nubi sanno di camminare «perché sono esse a produrre il vento», quando Ross dice che il vento è cosciente «perché è lui che soffia» ecc., abbiamo un’implicita identificazione di «fare» e di «saper che si fa». C’è animismo per mancanza di dissociazione.

Ma perché l’indissociazione delle nozioni è cosí tenace? Basta esaminare come la dissociazione si effettua per capire che si tratta di un’operazione che non è né semplice né spontanea. Nessuna esperienza diretta può condurre il fanciullo a scoprire che un moto non è intenzionale o che un’attività non è cosciente. Premessa di questa dissociazione non è né l’arricchimento del sapere né lo sviluppo della capacità di controllo o di sperimentazione, ma un cambiamento radicale nelle abitudini dello spirito. Solo un’evoluzione qualitativa della mentalità infantile può condurla a rinunciare all’animismo.

A che cosa può esser dovuta questa trasformazione nell’orientamento di spirito del fanciullo? La dissociazione non può risultare che dalla presa di coscienza progressiva che il fanciullo ottiene del suo io e del suo pensiero. Per quanto concerne il realismo dei nomi, ecc., abbiamo già cercato di stabilire che è la scoperta del carattere simbolico, e perciò umano, dei nomi che conduce il fanciullo a isolare il segno dal significato, poi a distinguere l’interno dall’esterno, infine a differenziare lo psichico dal fisico. La progressiva riduzione dell’animismo segue una via analoga. Quando il fanciullo ha netta coscienza della sua personalità, ne rifiuta una simile alle cose. Quando scopre la propria attività soggettiva e la difficoltà di esaurirne il contenuto, rifiuta alle cose la coscienza di sé. Ben lungi dall’essere la scoperta dell’esistenza del pensiero a provocare l’apparizione dell’animismo, come pretese Tylor a proposito dei primitivi, è l’ignoranza della psiche che permette al fanciullo di animare le cose, ed è la scoperta del soggetto pensante che lo costringe a rinunciare a tale animismo. In poche parole, la dissociazione delle nozioni risulta dai progressi della coscienza di sé.

I fatti che possiamo invocare a suffragio di quest’interpretazione non sono soltanto quelli che abbiamo raccolto a proposito del realismo infantile. Troviamo ancora, verso gli 11-12 anni, un fenomeno tardivo che ci permette di immaginare che cosa debba accadere nei primi anni: la difficoltà a concepire che si possa avere la minima illusione su se stessi. Meno uno spirito è portato all’introspezione; piú esso è vittima dell’illusione di conoscersi perfetta mente. Ecco i fatti:

Tra le frasi assurde che Ballard ha proposto a titolo di prove,85 ve n’è una cosí articolata: «Non sono orgoglioso, perché non penso di essere la metà intelligente di quanto sono in realtà». Abbiamo sottoposto questa frase a fanciulli piuttosto svegli dagli 11 al 13 anni. La risposta è sempre la stessa, se i fanciulli comprendono l’enunciato: l’assurdo è che ci si creda meno intelligenti di quel che si è. Se siete intelligente, risponde il fanciullo, sapete di esserlo; se credete di essere intelligente solo la metà di quel che siete, vuol dire che siete intelligente solo la metà ecc. Si sa ciò che si è, si conosce necessariamente se stessi ecc. In breve, la sostanza di queste risposte è ch’è impossibile avere illusioni su se stessi.

Non è che un indizio, ma è significativo. Si sa che tutti noi ci facciamo delle illusioni su noi stessi e che la conoscenza del proprio io è la piú difficile fra tutte. Lo spirito incolto, come il fanciullo, non ne sa nulla. Egli crede di conoscersi, e lo crede proprio nella misura in cui si ignora. Se si è a questo punto a 11-12 anni, è facile immaginare che cosa sarà la coscienza di sé nei primi anni: il fanciullo deve credersi cosciente di tutto ciò che gli accade, e, inversamente, dev’essere estraneo alla nozione di un’attività incosciente o involontaria quale che sia. Solo attraverso una serie di esperienze di ordine sociale e inter-individuale, consistenti nello scoprire che non tutto ciò che gli altri fanno è intelligente o intenzionale e che l’io può essere vittima di strane illusioni sul proprio conto, lo spirito arriva a concepire le idee contro natura di moti incoscienti o di stati che ignorano se stessi. Naturalmente non pretendiamo che la sparizione dell’animismo sia legata alla nozione di un incosciente psicologico. Pensiamo soltanto che la dissociazione delle nozioni primitive semipsichiche e semifisiche, o in altri termini, la spersonalizzazione del reale, sia legata ai progressi della coscienza dell’io. Fin quando il fanciullo ignora l’introspezione, crede di conoscersi interamente e ritiene che ogni essere sia cosciente di sé. Inversamente, nella misura in cui si scopre, stabilisce tutta una gradazione nella scala delle attività, dall’azione voluta e ponderata all’azione involontaria e incosciente.

In breve, l’animismo, o perlomeno l’animismo diffuso, risulta dall’indissociazione delle nozioni primitive, e solo i progressi della conoscenza di sé (conoscenza che risulta dalla vita sociale e dal confronto con gli altri) possono spingere queste nozioni a dissociarsi. Ma spiegando cosí l’animismo, può sembrare che si sostituisca la nozione di «proiezione», che almeno offre una parvenza di spiegazione, con la semplice constatazione dei fatti. Se isoliamo la psicologia dalla biologia e poniamo un mondo completamente indipendente dallo spirito che vi si adatta, le cose stanno indubbiamente in questi termini. Ma, se si cerca la radice biologica delle operazioni mentali, e si parte dai rapporti fra l’organismo e il suo ambiente per situare il pensiero nel suo vero contesto, ci si accorge che la nozione oscura di «proiezione», la nozione cioè di trasposizione sul mondo esterno dei contenuti interni della coscienza, deriva da un uso illegittimo e ontologico delle nozioni di «interno» ed «esterno». La realtà biologica è l’assimilazione dell’ambiente da parte dell’organismo e la trasformazione dell’organismo in funzione dell’ambiente: è la continuità degli scambi. Inutile dire che questi scambi presuppongono un polo esterno e un polo interno, ma ognuno di questi termini è con l’altro in rapporto di equilibrio costante e di mutua dipendenza. Questo il reale su cui l’intelligenza a poco a poco ritaglia un io e un mondo esterno. Dire che al punto di partenza l’io si confonde col mondo, significa dunque sostituire una «proiezione» inesplicabile dell’io nelle cose all’assimilazione del mondo esterno da parte dell’io, assimilazione che è senza dubbio in continuità con l’assimilazione biologica. Il seguito del nostro studio, e in particolare la ricerca delle origini dell’idea di forza,86 procurerà di sviluppare il contenuto di questa nozione, per cui è inutile insistervi.

Ma l’indissociazione delle nozioni basta solo a spiegare l’animismo diffuso. Alcune credenze sistematiche come quella che le nubi o gli astri ci seguano, si occupino di noi ecc., sembrano indicare l’intervento di altri fattori. Qui occorre fare appello all’ introiezione, cioè alla tendenza a situare negli astri o nelle cose il reciproco dei sentimenti che si provano di fronte ad essi.

Lo schema dell’introiezione è chiaro: tutto ciò che resiste o che obbedisce all’io è concepito come avente un’attività identica a quella dell’io che comanda o che cerca di vincere la resistenza. Cosi, la coscienza dello sforzo presuppone l’attribuzione della forza all’oggetto che resiste, la coscienza del desiderio presuppone l’attribuzione di un’intenzionalità all’ostacolo, la coscienza del dolore presuppone l’attribuzione della cattiveria all’oggetto fonte di dolore ecc.

Ora, la causa dell’introiezione è evidentemente l’egocentrismo, cioè la tendenza a credere che tutto ruoti intorno all’io. Uscire dall’egocentrismo, cioè pervenire a una visione impersonale delle cose, significa rinunciare all’introiezione. Ecco alcuni fatti che dimostrano questo meccanismo, «Chi l’ha sfregata [la mano]?», domanda Nel, che ha 2 anni e 9 mesi. «Mi fa male. È stato il muro a battermi». O, ancora, questo ricordo d’infanzia di Michelet, all’inizio di Ma jeunesse:

«Rischiai di aver tagliata la testa da una finestra a ghigliottina. Ero arrampicato su una sedia e guardavo in cortile. Mia nonna ebbe appena il tempo di strapparmi dalla finestra che il vetro cadde con gran rumore. Restammo tutti e due un attimo immobili. Tutta la mia attenzione era per quella finestra che avevo visto camminare da sola come una persona, e anche molto piú in fretta. Ero persuaso che avesse voluto farmi del male, e a lungo non mi ci avvicinai piú se non con un senso di timore e di collera».

Abbiamo qui il caso piú semplice: i corpi che provocano un dolore o una paura sono sentiti come intenzionati, perché l’io è rimasto egocentrico, e perciò incapace di giudizio disinteressato o impersonale. Questi casi sono innumerevoli, ed è inutile cercar di enumerarli.

Un caso particolare che merita di esser ricordato è invece quello del fanciullo che attribuisce alle cose un moto, e un moto antropocentrico, senza accorgersi che è un’illusione. È il caso degli astri o delle nubi che sembrano seguirci. Qui, non solo il fanciullo prende per reale il moto apparente perché non distingue ancora il punto di vista proprio dal punto di vista obiettivo, ma s’immagina di essere seguito intenzionalmente, e per introiezione presta ogni specie di sentimenti umani al sole e alla luna.

Sono da avvicinare a questo caso le due osservazioni seguenti:

Uno di noi ricorda di aver fatto questa strana esperienza: voltarsi di colpo per vedere se le cose alle quali voltava le spalle fossero ancora al loro posto o fossero scomparse.

Quest’esperienza è affine al fatto che segue. Bohn riferisce questa conversazione con un ragazzo (5;1):87 «Papà, tutto questo è proprio qui? – Tutto che cosa? – Tutte le cose. È proprio vero che vedo tutte queste cose? – Puoi vederle e sentirle. Sono sempre qui. – No, non sono sempre lí. Quando giro intorno ad esse, non sono li. – Quando ti volti, sono sempre allo stesso posto. – Sono tutte vive. Vanno e vengono sempre. Quando vado loro vicino, vengono vicino a me. – Ma non sono sempre allo stesso posto? – No, le sogno, e vanno e vengono nel mio sogno». Dopo di che il fanciullo cammina lentamente per la stanza, toccando gli oggetti e dicendo: «Guardali che vengono e vanno».

Questi due fatti presentano un grande interesse. Nei due casi il fanciullo si chiede se i cambiamenti che osserva nell’ambiente visivo sono dovuti agli spostamenti da lui operati, e quindi alla sua attività, o alle cose. Nella misura in cui propende per la seconda soluzione, è animista. Nella misura in cui adotta la prima, quando cioè ha coscienza del proprio ruolo nella trasformazione continua della prospettiva delle cose, non è piú animista. Questi due fatti si sono prodotti in un momento in cui l’io, per metà cosciente di sé, ha dovuto provare un senso di perplessità nel chiedersi la parte delle cose e la parte dell’attività propria nella struttura del mondo. Il secondo fanciullo ha ancora, del resto, un’attitudine quasi-magica di partecipazione con gli esseri: essi «vanno nel mio sogno».

In questi ultimi casi, e nei numerosi dello stesso genere, l’animismo deriva dunque dall’egocentrismo. L’io è abbastanza cosciente dei propri limiti per sapere che gli astri o le cose non dipendono direttamente dal desiderio o dalla volontà propria (ed ecco perché non esiste quasi piú magía in questi fatti), ma non lo è abbastanza per comprendere che i moti apparenti delle cose sono dovuti a un’illusione di prospettiva.

In breve, l’introiezione risulta dalla tendenza egocentrica a credere che tutto graviti intorno a noi e nell’attribuire alle cose il potere di obbedirci o, all’occasione, resisterci.

Potrà sembrare che, a questo punto, si sia caduti nella soluzione di Ribot e Freud, consistente nel considerare l’animismo come dovuto a una semplice proiezione. Ma, e su questo punto conviene insistere, l’introiezione non è possibile senza l’indissociazione di cui si è parlato piú sopra. È, se si vuole, un’indissociazione terziaria (in antitesi con l’indissociazione secondaria di cui già dicemmo), che consiste non solo nell’attribuire alle cose ciò che ci è proprio (la vita, la coscienza, che il fanciullo concepisce come inseparabili dall’attività o dal movimento in genere), ma anche e soprattutto nell’attribuire alle cose il reciproco dei caratteri nostri: la malvagità se abbiamo paura, l’obbedienza se comandiamo, la resistenza volontaria se non riusciamo a farci ubbidire ecc. L’introiezione è infatti impossibile in uno spirito non realistico: la pietra che urta il fanciullo può essere ritenuta malvagia solo se ogni attività è ritenuta intenzionale, ecc.

La mutua dipendenza dell’introiezione e dell’indissociazione è confermata nel modo piú preciso da queste circostanze. L’indissociazione primaria delle nozioni proviene, come abbiamo visto, dal realismo infantile, cioè dall’assenza di coscienza dell’io o dall’incapacità a discernere l’attività dal soggetto pensante. L’introiezione, d’altra parte, è legata all’egocentrismo da cui proviene e che di rimando incoraggia. Ma il realismo è dovuto proprio all’egocentrismo: è il fatto di non discernere, nella rappresentazione delle cose, la funzione della prospettiva propria che rende lo spirito realistico e incapace di dissociare il soggettivo dall’oggettivo.

È dunque in una specie di circolo che la coscienza primitiva si trova racchiusa: per dissociare le nozioni confuse che mescolano l’oggettivo al soggettivo, il pensiero dovrebbe prender coscienza di sé e distinguersi dalle cose, ma per distinguersi dalle cose non dovrebbe introdurre in esse caratteri illusori dovuti alla prospettiva egocentrica. Il caso inverso succede quando, grazie allo scambio e alla discussione fra individui, l’io prende coscienza di sé e si libera del suo egocentrismo, rinunciando cosí a introdurre nelle cose dei sentimenti e abilitandosi, col dissociare le nozioni confuse primitive, a liberarsi dall’animismo anche sotto la sua forma diffusa.

Passiamo ora ai fattori d’ordine sociale che favoriscono la persistenza dell’animismo infantile. Anche qui, distingueremo due gruppi complementari: da una parte i sentimenti di partecipazione che il fanciullo deve provare di fronte al suo ambiente sociale, dall’altra la necessità morale cui il fanciullo è sottomesso dall’educazione.

Il primo di questi fattori è capitale. Come abbiamo già visto a proposito della magía, il fanciullo, ogni attività del quale è legata fin dalla nascita a un’attività complementare dei suoi genitori, deve vivere nei suoi primi anni sotto l’impressione di essere continuamente circondato da pensieri e azioni propizie. Ogni sua intenzione deve sembrargli conosciuta e condivisa dai suoi. Deve, a ogni istante, credersi visto, compreso, prevenuto. Piú tardi, in occasione dei primi scambi di pensiero coi fratelli o con gli amici, il fanciullo conserva questa tendenza a credersi sempre capito a mezze parole; fatto nel quale, come abbiamo visto, è la radice del linguaggio egocentrico del fanciullo.88: il fanciullo crede il suo pensiero comune a tutti, perché non ha ancora tentato di uscire dal suo punto di vista personale

Se cosí è, questo senso di comunione deve tingere di sé tutta la sua visione del mondo. La natura deve apparirgli popolata di esseri favorevoli o inquietanti. Gli animali, come si è spesso notato, dànno luogo a rapporti dello stesso tipo, e il fanciullo ha certo l’impressione che a volte lo capiscano, o ch’egli si faccia capire da essi.

Cosí NEL (2;9), della quale al § 1 abbiamo riferito i discorsi, è spesso in conversazione con gli animali: «Addio, mucca», dice a una mucca, dopo di averla invitata, «Vieni, vieni, vieni, mucca. Vieni, mucca». A un saltamartino: «Vedrai, signorina Récri [ = saltamartino]… – [il saltamartino scappa] – Che cosa cerchi, saltamartino?»

PIE (6 anni) davanti a un acquario: «Ah, come [una salamandra] si lascia mettere in soggezione da quel gigante [un pesce]. Salamandra, bisogna mangiarli, i pesci!»

Si potrà credere che si tratti di fabulazione. Ma si ricordi (cap. II, § 2) che anche fanciulli di 8 anni non esitano a credere che gli animali sappiano il loro nome: «Un pesce sa di chiamarsi pesce? – Ma certo!» (Mart, 8;10).

Sono noti i casi citati da Freud sotto il nome di «ritorno del totemismo nell’infanzia».89 Qualunque sia l’interpretazione che si voglia dare a questi fatti, essi ci insegnano due cose: 1) il fanciullo mescola certi animali alla sua vita morale; 2) e perciò stesso, attribuisce agli animali alcuni sentimenti sperimentati coi genitori, crede cioè, se si sente in colpa, che l’animale sia al corrente delle sue mancanze ecc. Naturalmente, negli esempi citati da Freud ci si può domandare quale sia la parte sostenuta dagli educatori nella genesi delle credenze infantili: si trovano sempre delle persone cosí sciocche da minacciare ai propri figli, se faranno i cattivi, la collera dei cani o dei cavalli. Ma la tendenza spontanea del fanciullo, sotto il dominio della paura o del rimorso, a credere che tutto l’universo sia testimone della sua colpa è cosí generale, che i fatti citati da Freud, Wulf, Ferenczi ecc. contengono molto verosimilmente una parte di credenza spontanea.

Che tali sentimenti di partecipazione possano, infine, esser trasferiti sulle cose stesse, e che questo fatto costituisca uno dei fattori dell’animismo infantile, sembra estremamente probabile. Crediamo di trovare almeno una traccia di questa tendenza a sentirsi osservati, e perfino sorvegliati, in alcune risposte infantili (§ 2) relative al sole e alla luna. La luna «ci sorveglia», dice Ga (8½); il sole cammina «per ascoltare quel che si dice» (Jac, 6 anni); la luna è «curiosa» (Pur, 8;8); il sole «ci guarda» (Fran, 9 anni) ecc. D’altra parte, è noto lo spavento dei fanciulli che vedono dal loro letto la luna. La luna ci manda i sogni, dice Ban a 4 anni e mezzo. Ma, soprattutto, si è visto (cap. IV, § 2) il caso, citato da James, del sordomuto che associava la luna alla sua vita morale, la credeva complice dei castighi che riceveva, e finalmente la identificò con la propria madre, morta da qualche tempo.

Se tale è l’orientamento di spirito dei fanciulli, bisogna distinguere, a titolo di fattore privilegiato d’animismo, il senso di obbligo morale che il fanciullo acquista nel corso dell’educazione. Come Bovet ha dimostrato in un suo notevole studio,90 il sentimento dell’obbligazione risulta dal rispetto della consegna, e questo stesso rispetto deriva dal rispetto che il fanciullo prova per colui che l’ha data. Come già è apparso dallo studio delle domande di un bambino,91 le domande riferentisi alle regole possono essere abbondanti nei fanciulli di 6 anni. Anche nel fanciullo di 2-5 anni troviamo continuamente delle domande di questo genere: «Perché bisogna far questo? Bisogna far cosí? È cosí che si fa?» ecc. Questa preoccupazione, di molto anteriore al bisogno di spiegare il come dei fenomeni, penetra tutta la mentalità del fanciullo. Questa è dunque portata a confondere necessità fisica e necessità morale: la regolarità della natura è di origine morale, e la forza fisica è concepita sotto la specie di una costrizione che i capi esercitano sui sudditi ubbidienti o che i grandi esercitano sui piccoli. Che qui vi sia un fattore speciale di animismo, è ciò che il § 3 di questo capitolo ha sufficientemente dimostrato: il fanciullo non crede ubbidienti le cose perché le crede vive, ma le crede vive perché le crede ubbidienti.

In breve, i fattori di ordine individuale e i fattori di ordine sociale (i secondi sono del resto un prolungamento dei primi, ma è inutile insistere su questo punto) convergono nella formazione e nello sviluppo dell’animismo infantile. Per essere completi, dovremmo menzionare un altro fattore che, senza essere da solo la causa dell’animismo, è in ogni caso di grande importanza nella sistematizzazione dell’animismo: il linguaggio ambiente.

Questo per due ragioni. Secondo un’osservazione di Bally, l’espressività di una lingua è sempre regressiva, cioè, per trovare un’immagine, si ricorre a forme di pensiero cadute in disuso. Cosi si dirà: «il sole cercava di vincere la resistenza delle nebbie», che è un modo di parlare animistico e dinamico, e significa trascurare la distanza che separa il sole dalle nubi e finger di credere che lottino corpo a corpo. Non bisogna dunque meravigliarsi se il fanciullo prende alla lettera le personificazioni del linguaggio («il sole si corica»), le espressioni finalistiche «il fiume scorre per andar nel lago»), antropomorfiche o artificialistiche («il calore fa bollire l’acqua», «il vapore cerca di scappare»), e le espressioni quasi-magiche «le nubi annunciano la pioggia»). C’è nella lingua adulta quanto basta per alimentare l’animismo infantile, tanto piú che il fanciullo in genere prende alla lettera ogni metafora: un braccio rotto è per lui un braccio caduto a terra, andare al diavolo è per un bimbo di 9 anni da noi osservato la prova che il diavolo non è lontano.

Ma è evidente che, in tutti questi casi, il linguaggio non è causa dell’animismo infantile in generale, ma semplicemente causa del fatto che questo animismo segua una via già tracciata piuttosto che un’altra. Esiste semplicemente, come dice Stern,92 «convergenza» fra le tendenze regressive del linguaggio e l’orientamento dello spirito del fanciullo. La lingua è infantile: non è il fanciullo che è formato dalla lingua.

Solo, c’è qualcosa di piú. Come ha notato Jerusalem,93 la stessa lingua, indipendentemente dalle sue immagini eccezionali, «drammatizza» i giudizi piú semplici: il fatto di separare il soggetto dal verbo e dal predicato porta lo spirito a sostanzializzare il soggetto, ad attribuirgli un’attività propria e qualità distinte, come se il soggetto fosse altra cosa della somma delle sue azioni e della somma delle sue qualità. Quando Ross, a 9 anni e 9 mesi, dice, ad esempio, che forse il vento non sa ciò che fa «perché non è una persona», ma che deve saper di soffiare «perché è lui che soffia» mette il dito nel modo piú interessante sul problema che ci occupa. Dire del vento «è lui che soffia» significa, in realtà, fare del vento un essere attivo, sostanziale e permanente, cioè essere tre volte vittima del linguaggio. Il linguaggio, dicendo «il vento soffia», o semplicemente parlando del vento come di un essere, commette infatti la triplice assurdità di credere che il vento sia indipendente dall’atto di soffiare, che potrebbe esserci un vento che non soffia, e che il vento sussista indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori. Ora, è per noi talmente naturale parlare cosí, che tutto questo non ci sembra scorretto. Quando diciamo: «il pesce freddo vuol essere mangiato con la maionese», sappiamo benissimo che il pesce non vuol proprio nulla; ma, quando diciamo che «il vento soffia», crediamo realmente che «soffi». Si può dunque capire il ragionamento di Ross: Ross è sostanzialista senza saperlo, come il senso comune e lo stesso linguaggio.

Tali fatti parlano a favore della dottrina di Max Müller, per la quale l’animismo dei primitivi, come del resto ogni religione, sarebbe una «malattia del linguaggio». Ma, ancora una volta, c’è solo convergenza tra linguaggio e mentalità primitiva e infantile. Il pensiero crea la lingua, poi la supera; ma la lingua si ripercuote sul pensiero e cerca di imprigionarlo.

Si vede, in conclusione, quanto complessa sia la genesi dell’animismo. Ma si sarà notato che, a parte il fattore verbale, i fattori che condizionano la genesi dell’animismo infantile sono, press’a poco, quegli stessi che condizionano la formazione dei sentimenti di partecipazione e di causalità magica. Il fatto è che animismo e partecipazione sono fenomeni complementari, o meglio le fasi interdipendenti dello stesso processo di solidificazione del reale. In questo processo si possono distinguere tre tempi. Durante il primo, l’io è interamente confuso con le cose: c’è partecipazione fra tutto e tutto, e azione magica del desiderio sulla realtà. Durante il secondo, l’io si differenzia dalle cose, ma le cose restano coperte di aderenze soggettive. L’io si sente perciò in partecipazione parziale con le cose, e si crede capace di agire su di esse a distanza perché considera come legati alle cose i diversi strumenti coi quali le pensa (le parole, le immagini, i gesti ecc.). D’altra parte, le cose sono necessariamente animate, perché, non essendo l’io ancora separato dalle cose, le nozioni fisiche e le nozioni psichiche non sono ancora dissociate. In questo secondo tempo, la magía e l’animismo sono dunque complementari. È il momento in cui il fanciullo, credendosi seguito dal sole o dalla luna, può anche interpretare il fatto in termini di magía («sono io che li faccio avanzare») o in termini di animismo («sono loro che mi seguono»). Infine, in un terzo tempo, l’io è troppo separato dalle cose perché gli strumenti del pensiero siano ancora concepiti come aderenti alle cose. Le parole non sono piú nelle cose, le immagini e il pensiero sono localizzati nella testa. I gesti non sono piú efficaci. Non v’è piú magía. Ma, come abbiamo visto (cap. II, § 4), la distinzione fra segno e significato appare prima di quella fra interno ed esterno, e soprattutto prima di quella tra fisico e psichico. In altre parole, la distinzione dell’io e delle cose può essere abbastanza avanzata senza che per questo la dissociazione delle nozioni oggettive dalle nozioni soggettive sia spinta al punto di far scomparire l’animismo. Durante questo terzo tempo, l’animismo dunque sussiste ancora, mentre la magía tende a scomparire. La stessa tendenza hanno i sentimenti di partecipazione, o perlomeno, essi prendono la forma interamente animistica di una semplice comunione fra spiriti: cosí, per tutto il tempo che il fanciullo continuerà a credere che il sole vive, pur avendo abbandonato l’idea che il sole ci segua, gli sembrerà forse ancora che il sole si interessi di noi e voglia il nostro bene, ma allora non si tratterà che di rapporti intelligibili da persona a persona. Non si tratta piú di partecipazione propriamente detta, nel senso che non vi saranno piú partecipazioni sostanziali possibili. Che l’animismo sopravviva alla magía e inglobi, razionalizzandole, le partecipazioni primitive, è quello che i fatti dimostreranno nello studio dell’artificialismo. Per ora, concludiamo semplicemente con la parentela e reciprocità fra magía e animismo negli stadi primitivi.